LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


  HOME PAGE

Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito

   
   

Iscriviti
Cancellati


Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXVIII

Già desideroso d'esplorare l'interno e i dintorni della divina foresta, folta e verdeggiante, la quale temperava ai miei occhi i raggi del sole sorto da poco,

senza più attendere, lasciai il margine del ripiano, iniziando a camminare lento lento per la distesa erbosa su quel terreno che olezzava da ogni parte.

Un'aria dolce, non soggetta in se stessa ad alcun mutamento, mi colpiva in fronte giungendomi non più forte di un vento soave:

per cui le fronde, tremolando, senza resistenza si piegavano tutte quante verso occidente, la parte dove il santo monte getta l'ombra di primo mattino (al sorgere del sole);

senza tuttavia essere scostate dalla loro posizione normale tanto, che gli uccelletti (per il fatto di essere disturbati) dovessero tralasciare di cantare e volare su per i rami;

ma, cantando, facevano festosa accoglienza alle prime ore del giorno in mezzo alle foglie, che accompagnavano il loro canto,

proprio come si forma di ramo in ramo il mormorio dentro la pineta sul litorale di Classe, quando Eolo fa uscire fuori il vento di scirocco.

Chiassi era il nome (poi sostituito con Classe, dal latino Classis) con il quale nel Medioevo si indicava l'antico porto di Ravenna e la sua famosa pineta.
Eolo, nella mitologia pagana, era il re dei venti, che egli teneva chiusi in una grotta, liberando (discioglie) ora l'uno ora l'altro.
La divina foresta e il sentimento di Dante libero di percorrerla in tutte le direzioni sono stati definiti in termini generali e sintetici nelle due prime terzine. In quelle che seguono e che si concludono con una similitudine mirante ad avvicinare alla realtà sperimentabile in terra la natura purificata del paradiso terrestre, il Poeta segue con commossa partecipazione il particolareggiarsi in diversi aspetti dello spettacolo precedentemente considerato nel suo insieme e nel suo carattere miracoloso. Di qui la struttura complessa del periodo che occupa i versi dal 7 al 21.
Ma questa struttura complessa esprime l'ordine, la calma; non si avverte in essa alcuno sforzo. Ogni terzina, dopo la prima, che è occupata dalla proposizione reggente l'intero periodo, è introdotta dai termini che ne mettono in rilievo la subordinazione nei confronti della prima ed il grado di subordinazione o la coordinazione rispetto alle altre: per cui... non però... ma... tal qual, Altrove il gioco sintattico propone nella Commedia la tensione, uno spirito agonistico, una volontà di possedere l'oggetto nei suoi termini meno appariscenti e più veri. Qui la verità si offre a Dante in uno stato di grazia: non richiede da lui se non una felice adesione: l'ordine non si pone qui come una meta faticosa per l'intelletto, ma risulta già esplicito nella natura. La natura umana, restaurata nella sua integrità, trova la sua immagine nella quiete di una foresta, simbolo di vita rigogliosa, che un vento costante colma di musica e di letizia. II beneficio di questo vento è espresso dall'affaccendarsi alacre e dal canto, degli augelletti. La foresta, già definita viva al verso 2 (nota in proposito il Di Pino che, laddove nell'Inferno e nei primi ventisette canti del Purgatorio I'aggettivo "vivo" denota "un comune rapporto di realtà o parvenze fisiche", a partire dal canto XXVIII esso "si adegua al senso metafisico e spirituale" che avrà nel Paradiso), acquista concretezza di vita da questa festosa presenza e dal riferimento alla pineta di Chiassi.


I miei lenti passi mi avevano portato già nel folto dell'antica selva tanto, che ormai non potevo più vedere il punto dove io ero entrato;

ed ecco mi impedì di procedere oltre un fiumicello, che (scorrendo) verso sinistra con le sue piccole onde piegava l'erba nata sulle sue rive.

Tutte le acque più limpide che sono sulla terra, a paragone dell'acqua di quel fiumicello, perfettamente trasparente, sembrerebbero contenere qualche impurità,

quantunque essa scorra scura scura sotto l'ombra perenne (degli alberi), che mai lascia penetrare un raggio di sole o di luna,

Fermai il passo e spinsi gli occhi al di là del fiumicello, per osservare la grande varietà di rami fioriti;

II termine mai è il plurale di "maio", che significa maggio. Il Buti ricorda che con questo nome venivano chiamati quei rami fioriti di alberi, che alla mattina della festa di calendimaggio si era soliti porre, secondo una tradizione toscana, e fiorentina in particolare, sulle finestre e davanti alle porte delle case.

e là, così come appare improvvisamente qualcosa che a causa della meraviglia che suscita distoglie da ogni altro pensiero, mi apparve

una donna tutta sola, che se ne andava cantando e scegliendo tra i fiori di cui era dipinta tutta la via che ella percorreva.

Di fronte a questa figura femminile. che guiderà Dante nel paradiso terrestre, e il cui nome - Matelda - verrà rivelato solo nel canto XXXIII, verso 119, la critica ha offerto le interpretazioni più diverse, sia nel tentativo di identificarla storicamente, sia nella ricerca del suo significato allegorico.
Gli antichi commentatori erano concordi nel riconoscere in Matelda la famosa contessa Matilde di Canossa, nata nel 1046 e morta nel 1115, che fu una delle figure più importanti nel burrascoso periodo della lotta per le investiture fra Papato e Impero. Poiché Matilde di Canossa fu strenua sostenitrice delle rivendicazioni papali, é difficile pensare che Dante abbia voluto affidare un compito così importante nel paradiso terrestre a una decisa avversaria dell'Impero. Si pensò allora alla monaca tedesca Matilde, di Hackenborn, contemporanea di Dante e assai conosciuta come autrice del Liber specialis gratiae, nel quale venivano narrate le sue mistiche visioni.
Un altro gruppo di studiosi volle identificarla con qualcuna delle donne che appaiono nella Vita Nova, oppure nelle Rime, o anche nel Convivio. Nessuna di queste interpretazioni risulta, sicura, anche se il Nardi ritiene non sia da escludere quella offerta dagli antichi commentatori, perché al tempo di Dante Matilde di Canossa era conosciuta e ammirata per le sue qualità di sovrana, mentre era quasi del tutto ignorata la parte da lei sostenuta nella lotta per le investiture: perciò ella nel paradiso terrestre sarebbe simbolo della "perfetta signoria del volere in un mondo libero delle passioni" (Nardi). La difficoltà di una identificazione storica è data soprattutto dal fatto che Matelda è usa (canto XXXIII, 128) compiere il suo ufficio particolare nel paradiso terrestre e che quindi è presumibile che ella vi si trovi dal momento della formazione del purgatorio. Del tutto arbitrari poi appaiono i tentativi volti a cercare il significato del nome: secondo alcuni esso sarebbe formato da due radici greche ed equivarrebbe ad "amore di sapienza", secondo altri risulterebbe dalle parole ebraiche "math el da", che, lette da destra a sinistra secondo l'uso ebraico, significherebbero "la Dio veggente" Quanto al valore allegorico di questa figura occorre anzitutto rilevare i suoi compiti; diventa la guida di Dante nel paradiso terrestre, gli spiega le caratteristiche del luogo, lo assiste durante il mistico corteo, sostituisce Virgilio dopo la sua scomparsa, esegue agli ordini di Beatrice, compiendo il rito liturgico della purificazione di Dante.
Matelda, é evidente, ricopre quest'ultimo incarico per tutte le anime dirette al paradiso. Questa figura potrebbe simboleggiare la vita attiva che ha raggiunto la sua perfezione, rappresentando nella realtà quello che Lia era nel sogno (canto XXVII, 97 sgg.), oppure la natura umana nella sua felicità, quale essa era prima del peccato originale e quale si può ricostituire attraverso l'azione delle virtù morali e intellettuali. Per il Pietrobono invece sarebbe la sapienza dell'Antico Testamento; per il Poletto indicherebbe l'armonia tra vita attiva e vita contemplativa raggiunta in terra attraverso l'armonia tra ragione e fede; per il Mattalia rappresenterebbe la ragione tenuta a freno dalla teologia e volta "alla spiegazione scientifico-razionale delle Sacre Scritture, e all'interpretazione allegorica... delle « favole » dei poeti e degli scrittori pagani (cfr. versi 139-144)".


« Deh, bella donna, che ti riscaldi ai raggi dell'amore divino, a quanto appare dal volto che suole essere testimone del cuore,

ti sia gradito procedere innanzi » le dissi « verso questo fiume, tanto che io possa capire che cosa canti.

Tu mi fai ricordare il luogo dove si trovava Proserpina e quanto era bella nel momento in cui sua madre perse lei, ed ella perse il mondo della primavera. »

Proserpina, figlia di Giove e di Cerere, fu rapita da Plutone, dio degli Inferi, e divenne regina dell'Averno (cfr. Ovidio . Metamorfosi V, 385 sgg.). L'apparizione di Matelda ricorda a Dante l'incanto del luogo dove fu rapita Proserpina - il bosco presso Enna in Sicilia, nel quale, secondo Ovidio, regnava l'eterna primavera - e la giovinezza e la bellezza della fanciulla, che furono sempre celebrate dai poeti che cantarono questa leggenda.

Come si volge una donna che danza, con i piedi che quasi non si staccano dal suolo e uniti tra di loro, e impercettibilmente mette un piede avanti all'altro,

ella si volse verso di me sopra i fiorellini vermigli e gialli non diversamente da una fanciulla che (per pudore) abbassi i casti occhi;

e fece in modo che fossero appagate le mie preghiere, avvicinandosi tanto, che il dolce suono del suo canto mi arrivava con il significato delle parole che ella cantava.

Appena giunse là dove le erbe venivano già bagnate dalle onde del bel fiume, mi fece la grazia di alzare il suo sguardo verso di me:

non credo che splendesse tanta luce negli occhi di Venere, trafitta dal figlio Cupido contro le abitudini di quest'ultimo.

Venere, la dea della bellezza e dell'amore, fu ferita dalla punta di una freccia che usciva dalla faretra del figlio Cupido, il dio dell'amore, che suscitava questo sentimento nell'animo degli uomini colpendoli con le sue armi. Il ferimento, avvenuto mentre Venere teneva in braccio il figlio, fu del tutto involontario, e quindi contro le abitudini del dio, che sceglieva le sue vittime deliberatamente. La dea si innamorò così del giovane Adone (cfr. Ovidio Metamorfosi X, 525 sgg.).

Ritta sull'altra sponda la donna sorrideva, mentre con le sue mani intrecciava i fiori di vario colore, che la sommità del monte produce senza bisogno di semi.

Il fiume ci separava solo di tre passi; ma lo stretto dei Dardanelli là dove passò Serse, la cui sconfitta è ancora un ammonimento per ogni orgoglio umano,

non fu maggiormente odiato da Leandro a causa delle sue burrasche (che gli rendevano ìmpossibile il passaggio a nuoto) tra Sesto e Abido, di quanto non fosse odiato da me quel fiumicello perché non si aprì in quel momento per lasciarmi passare.

Serse, re di Persia, nel 480 a. C. attraversò con un potente esercito lo stretto dell'Ellesponto, che separa l'Asia Minore dall'Europa e sul quale aveva fatto gettare un grande ponte, per portare guerra alla Grecia, ma, sconfitto duramente, dovette riattraversarlo in fuga: divenne così esempio di superbia punita ed ammonimento per ogni orgoglio umano.
La fonte della leggenda ricordata nei versi 73-74 è ancora una volta Ovidio (Eroidi XVIII, 139 sgg.). Leandro, un giovane di Abido, sulla costa asiatica, attraversava ogni notte a nuoto lo stretto dell'Ellesponto per raggiungere sull'altra riva la località di Sesto, dove abitava Ero, la fanciulla da lui amata, ma spesso il mare tempestoso gli impediva di compiere, questa impresa.


La donna cominciò: « Voi siete nuovi del luogo, e forse perché io mi mostro sorridente in questo posto scelto da Dio come sede, della specie umana (se fosse rimasta innocente),

vi meravigliate e rimanete in dubbio; ma gioverà ad illuminarvi il salmo "Mi hai rallegrato" (è il quinto versetto del Salmo XCII, che esalta la gioia della contemplazione delle bellezze create da Dio), il quale può sgombrare ogni nebbia dalla vostra mente.

E tu che sei davanti agli altri due e mi hai pregata, dimmi se desideri sapere altro da me; perché sono venuta (verso di te) pronta a rispondere ad ogni tua domanda finché basti a soddisfarti ».

La donna soletta che appare a Dante nel paradiso terrestre accenna senz'altro ad un contenuto simbolico, ma, al di qua del simbolo, ha una sua compiuta individuazione poetica. E' soltanto tenendo conto del modo in cui il Poeta ha atteggiato questa figura, che possiamo cercarne il sovrassenso. Essa non porta in sé le tracce di una individuazione nel mondo della storia, degli affanni, del dolore che fu il retaggio di Adamo. Per questo motivo tutti i tentativi fatti per identificarla con personaggi storici o della vita di Dante, appaiono inutili ai fini della comprensione dell'episodio che l'ha per sua protagonista.
Matelda è una figura fiabesca: essa esprime in termini umani quell'assenza di problemi e travagli, quella gioia di abitare un mondo in cui si riflette incontaminata la traccia di Dio, che sono state comunicate allo stupore grato del pellegrino dalla vista della foresta.
La rappresentazione di questa figura - è stato notato - è fortemente stilizzata: il suo modo di atteggiarsi risponde, infatti, ad una concezione della donna quale si era venuta formando attraverso una lunga tradizione, dai trovatori provenzali ai poeti del dolse stil novo. Ma gli elementi della lirica amorosa medievale sono a loro volta inquadrati in una cornice classica, in uno schema, quello della felice età dell'oro, di evidente derivazione ovidiana. Per questo confluire nella figura di Matelda di motivi della poesia pagana e di quella medievale, non appare lecito interpretarla unicamente in base ai canoni del dolce stil novo. Notiamo inoltre come Matelda abbia una consistenza figurativa che è del tutto assente dalle evanescenti figure femminili dei componimenti stilnovistici. Dante indugia a lungo nel descriverne l'aspetto esteriore, non si limita ad una caratterizzazione sommaria, ad un accenno alla presenza in lei di qualità inesprimibili, perché trascendenti l'umana capacità di accoglierle come reali, non analizza minuziosamente i propri stati d'animo. Non ci viene riproposta, in questo episodio, la spiritualità raccolta ma evasiva della Vita Nova. Il riflesso soggettivo di tanta bellezza è manifestato attraverso un riferimento alla mitologia, il quale a sua volta rimanda ad un fatto storico (versi 71-74). In contrasto con l'intimismo che caratterizzò i componimenti di Dante giovane e dei suoi amici seguaci del Guinizelli, il sentimento del pellegrino è così riportato entro una trama di eventi oggettivi, e risulta pertanto fortemente spersonalizzato, reso paradigmatico di una esperienza che è potenzialmente di tutti. Ciò che rende così felice la riuscita artistica di questa pagina è la convergenza di stato d'animo e significato simbolico nei modi in cui è presentata Matelda, per cui quest'ultimo scaturisce naturalmente, senza sforzo alcuno, dal senso letterale. Matelda, come vide il Graf e come conferma, nel corso di un'attenta analisi, il Singleton, è sostanzialmente la natura umana non corrotta dal peccato originale: in essa la virtù non è il risultato di un conflitto, non presuppone il dolore, ma sì atteggia felicemente nelle forme della bellezza, della gioventù perpetua, della grazia spontanea. Gli atti che Matelda compie (il cogliere fiori, il camminare a passo di danza) esprimono un rapimento interiore - il raccoglimento di chi prega - nelle forme della gioia. Ottime osservazioni sono state fatte sulla figura di Matelda dal Di Pino. Il critico rileva, ad esempio, che il « ridere » di Matelda "non ha confronti d'ordine stilistico con gli atteggiamenti di riso dei precedenti canti del poema. « Ridere » non è dei luoghi infernali, e troviamo naturale che il relativo linguaggio non trovi posto nella prima cantica". D'altro lato, nei canti precedenti del Purgatorio il riso ha "una temperanza di toni", una gradualità nel suo manifestarsi, quale "solo si addice alla condizione umana". Al contrario, nel Paradiso il « ridere » "è sempre termine assoluto è mistico", onde "« ridere » e « riso » costituiscono, in senso assoluto, la spia stilistica della terza cantica e non hanno, né possono avere, la loro radice al di là della soglia dell'Eden, nei canti, cioè, anteriori al XXVIII".


Io dissi: « L'acqua di questo fiume e il vento che fa stormire la foresta contrastano dentro di me con la convinzione che mi ero da poco formato riguardo a una cosa che avevo udito e che è contraria a questa che ora vedo ».

Perciò ella: « Io ti spiegherò come ciò che desta la tua meraviglia derivi da una sua particolare causa, e dissiperò la nebbia (dell'ignoranza) che offende la tua mente.

Dio, il sommo Bene, che solo di se stesso prova compiuto piacere, creò l'uomo buono e atto a operare il bene, e gli diede questo luogo (il paradiso terrestre) come anticipazione della beatitudine eterna.

A causa della sua colpa l'uomo dimorò poco (solo sette ore: cfr. Paradiso XXVI, 139-142) nel paradiso terrestre; a causa della sua colpa tramutò l'innocente diletto e la dolce gioia in pianto e in affanno.

Perché le perturbazioni che al di sotto di questo monte sono prodotte dai vapori dell'acqua e della terra, che tendono a salire quanto più possono seguendo il calore del sole,

non potessero recare all'uomo alcuna molestia, questo monte s'innalzò verso il cielo così tanto (come vedi), ed è libero da tali perturbazioni dal punto dove si trova la porta d'accesso.

Stazio (canto XXI, 43-57) aveva affermato che il monte del purgatorio, al di sopra dei tre gradini che conducono alla porta d'ingresso, non è soggetto ad alcuna alterazione atmosferica, escludendo quindi, fra le altre, la presenza di acqua e di vento, laddove Dante, entrato nella divina foresta dell'Eden, avverte lo stormire delle fronte (versi 10 sgg.) e incontra un rio (versi 25 sgg.).
L'ampia spiegazione di Matelda affronta il problema dell'ubicazione del paradiso terrestre, problema continuamente presente nel pensiero patristico e in quello medievale: esso, secondo le due principali conclusioni, aveva la sua sede nella sfera del fuoco, vicino a quella della luna, oppure nella sfera dell'aria che è esterna alla terra.
Tenendo presente che Aristotile aveva distinto quest'ultima sfera in tre regioni (l'inferiore, temperata e quindi adatta alla vita umana, la media, fredda e oscura, da dove prendono origine le meteore, la superiore, limpida e serena, posta al di sopra di ogni alterazione atmosferica), Alberto Magno e San Tommaso situano l'Eden nella prima regione, Alessandro di Hales e San Bonaventura, con i quali si accorda Dante, nella terza. La tradizione esegetica biblica, inoltre, aveva comunemente accettato l'esistenza del paradiso terrestre in un luogo elevato e pressoché inaccessibile. Facile risultava a Dante, alla cui mentalità teorica ripugnava "l'idea di un paradiso terrestre creato da Dio e poi rimasto vuoto e inutilizzato" (Mattalla), collocare il paradiso terrestre sulla vetta del monte del purgatorio, - la cui formazione è posteriore a quella dell'inferno (cfr. Inferno XXXIV, 121 sgg.) - facendo dell'Eden una tappa del ritorno della creatura a Dio.

Ora; poiché tutta quanta l'atmosfera gira circolarmente assieme alla prima sfera celeste, se il moto circolare non è interrotto da un ostacolo in qualche parte,

sulla sommità di questo monte che spazia liberissima nell'aria pura, questo movimento (dell'aria) percuote, e fa stormire la selva perché è fitta (e oppone resistenza);

Era opinione comune nel Medioevo che l'aria si muovesse da oriente a occidente insieme con tutti i cieli fino al più alto, che è il Primo Mobile (la prima volta). Questo moto continuo e sempre nella stessa direzione è ad un certo momento interrotto dalla vetta del purgatorio, e l'aria, urtando contro gli alberi, fa stormire le fronde.

e le piante così mosse dal vento hanno tanto potere, che impregnano l'atmosfera della loro virtù fecondatrice, che poi l'aria, girando (attorno alla terra), diffonde intorno;

e la terra dell'altro emisfero, secondo che è adatta per la propria natura e per il clima, concepisce e fa nascere da diversi semi le diverse piante.

Dopo questa spiegazione, non dovrebbe poi nascere stupore di là nel vostro mondo, quando qualche pianta germoglia sulla terra senza seme visibile.

E devi sapere che questa santa regione dove ti trovi, è piena di ogni specie di semi vegetali, e produce anche qualche frutto che non si coglie di là sulla terra.

L'acqua che vedi non scaturisce da una polla che sia alimentata dal vapore acqueo convertito in pioggia dal freddo, come (sulla terra) un fiume il quale accresce e diminuisce la sua portata (a seconda delle piogge);

ma nasce da una fonte costante e inesauribile, che dal volere di Dio attinge tant'acqua, quanta ne versa nei due fiumi aperti in due direzioni opposte.

Nel fiume che è da questa parte l'acqua scorre con un potere che toglie il ricordo del peccato in chi la beve; nel fiume che è dall'altra parte l'acqua restituisce il ricordo del bene compiuto.

Da questo lato il fiume si chiama Letè; così dall'altro si chiama Eunoè, e l'acqua non opera il suo effetto se prima non è bevuta in entrambi i ruscelli.

Il paradiso terrestre, secondo la Bibbia (Genesi II, 10-14), era attraversato da un fiume che si divideva in quattro rami (Fison, Gihon, Tigri, Eufrate); Dante riduce i corsi d'acqua a due, prendendo a prestito il nome del primo dalla mitologia pagana, e in particolare dalla descrizione dell'Averno virgiliano (Eneide VI, 705 sgg.), e formando il nome dal secondo, Eu-noè, con la prima sillaba di Eu-frate. L'acqua del Letè elimina il ricordo dei mali della vita, quella dell'Eunoè (termine greco che significa "memoria del bene") ravviva la memoria del bene compiuto.

il sapore di quest'acqua è superiore a qualsiasi altro sapore. E sebbene la tua sete di sapere possa essere sufficientemente appagata senza bisogno che ti riveli di più,

(tuttavia) spontaneamente ti darò ancora un'ultima informazione; né credo che le mie parole ti siano meno gradite, se a tuo favore si estendono al di là della mia promessa.

Coloro che in antico cantarono in poesia l'età dell'oro e la sua condizione felice, forse poetando (in Parnaso: è la montagna della Focide, sede di Apollo e delle muse) intravidero come in sogno questo luogo.

Nel paradiso terrestre furono innocenti i progenitori del genere umano; qui fu primavera perpetua e vi furono frutti d'ognì specie; l'acqua di questi fiumi è il nettare di cui parlò ognuno di quei poeti ».

Il corollario aggiunto da Matelda, riguardo al valore del mito dell'età dell'oro, stabilisce un rapporto fra l'intuizione poetica del mondo pagano e il pensiero cristiano, considerando già presagita dagli scrittori latini (in particolare Ovidio e Virgilio) la realtà del paradiso terrestre, come momento di purezza e di felicità.

Allora con tutta la persona io mi volsi indietro verso i miei due poeti, e vidi che avevano accolto l'ultima parte del discorso sorridendo;

poi rivolsi nuovamente il mio sguardo alla bella donna.



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it