LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXI

La sete naturale di sapere che mai si sazia se non con quell'acqua della verità, della quale l'umile donna samaritana chiese a Gesù la grazia (di potersi dissetare),

mi tormentava, e intanto la fretta mi stimolava a salire dietro alla mia guida per la via ingombra di anime, e sentivo compassione della loro pena, pur riconoscendola giusta.

L'episodio della Samaritana si legge nel vangelo di Giovanni (IV, 5-15): Gesù, trovandosi nella città di Sichar vicino al pozzo di Giacobbe, chiese da bere a una donna di Samaria, che aveva attinto l'acqua: meravigliandosi la donna che un giudeo si rivolgesse a una samaritana, Cristo le rispose con le famose parole: "chi... berrà l'acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno; ma l'acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua, zampillante fino alla vita eterna". La samaritana allora ehiese a Gesù: "Signore, dammi di quest'acqua, affinché non abbia più sete". Secondo gli esegeti, l'acqua dell'episodio evangelico e la grazia divina; per Dante, più precisamente, è la verità rivelata da Cristo. L'accenno alla sete della femminetta sammaritana, mentre suggella, riepilogandone - quasi eco conclusiva - la limitata portata, le dense discussioni teoriche dei canti centrali del Purgatorio, e schiude al tempo stesso una dimensione fino a questo punto dalla ragione soltanto allusa (quella cioè della Rivelazione), "sottolinea la sacra solennità dell'avvenimento ritratto nel canto XX: e anche qui la sostanza poetica non è nelle apparenze esteriori del fatto ma nella profonda e lunga risonanza che lascia nella coscienza di Dante" (Momigliano).
Osserva in proposito il Gabrieli: "Una sola parola, anzi un solo diminutivo, la femminetta, ha messo il Poeta di suo nell'allusione al celebre episodio di Giovanni dove si parla di una mulier [donna]; e quel diminutivo basta a farci risorger dinanzi il racconto evangelico con evidenza ancor più immediata di note figurazioni pittoriche, per cui ci sembra di vedere, accanto all'umile donna di Samaria di cui è fatta menzione, anche il divino interlocutore qui neppur nominato, ma la cui presenza e parola domina tutta la scena".


Ed ecco improvvisamente, così come ci racconta San Luca di Cristo, il quale apparve ai due discepoli che erano sulla via di Emmaus, dopo che era già risorto e uscito dal sepolcro scavato nella roccia,

Nel vangelo di Luca (XXIV, 13-35) si racconta come Cristo, poco tempo dopo la sua risurrezione, mentre due suoi discepoli erano sulla strada di Emmaus e discutevano, "si avvicinò e si unì ad essi" senza essere da loro riconosciuto.

ci apparve uno spirito, e veniva dietro a noi, attenti a non calpestare con i piedi le anime che giacevano a terra; e non ci accorgemmo di lui, finché non parlò per primo,

dicendoci: « Fratelli miei, Dio vi conceda la pace ». Noi ci voltammo di scatto, e Virgilio gli restituì un cenno di saluto che era intonato alla stessa cortesia.

Le due immagini - quella profana (la nascita del sole e della luna nell'isola di Delo) e quella sacra (la natività del redentore per l'esultanza degli umili) - sono concepite come complementari l'una rispetto all'altra e al tempo stesso in un rapporto di subordinazione della prima alla seconda (nel rapporto cioè che fonda il mero prodigio naturale, di per sé destituito di significato, pur nella grandiosità delle proporzioni che lo rendono manifesto, in un ambito di valori intimamente connessi al nostro destino, al nostro bisogno di riscattarci dal male, dal dolore). E, mentre introducono solennemente all'evento miracoloso della liberazione di un'anima dalle catene della penitenza alla fine del cantò XX, conducono, come in un crescendo sinfonico, alla evocazione del Cristo risorto e miracolosamente apparso, sulla base della testimonianza di Luca (il ne del verso 7 è come un atto di fede, asserisce, al di fuori di ogni dubbio, l'universalità del messaggio evangelico: Luca ha scritto per tutti noi), a due discepoli i quali, non diversamente da Dante e Virgilio, erano in via.

Poi prese a dire: « Il tribunale infallibile di Dio (la verace corte), che relega me nell'eterno esilio del limbo, ti ponga nella beatitudine del paradiso ».

Particolarmente solenne e misurata è questa risposta di Virgilio: essa tuttavia, nella contrapposizione evidente dei due complementi oggetti, il ti del verso 17 e il me del verso 18, si colora di una mestizia che non riesce ormai più a tenersi celata, adombrando il tragico destino del poeta latino che, come risulterà nel canto successivo, ha schiuso a quest'anima la via della fede e della beatitudine eterna, senza riuscire a riscattare se stesso dalle tenebre del paganesimo. Giusta appare l'osservazione del Momigliano, per il quale questo "saluto di Virgilio ha un'intonazione insolita, non per una ragione logica - poiché Virgiiio non sa ancora nulla dell'anima con cui parla - ma per una ragione dì armonia poetica: la solennità generale della scena trae istintivamente Dante à colorire di un'insolita gravità quel saluto". Ma forse più centrati e puntuali, in rapporto a quella che emerge come la psicologia del maestro di Dante in questo canto, risultano i seguenti rilievi del Gallardo: "Pacate, malinconiche, rassegnate come non erano mai state prima d'ora se non in qualche accenno rìvolto a Dante, queste parole di Virgilio indirizzate ad un'anima già avviata alla salvezza eterna, pongono in luce particolare il sentimento del personaggio Virgilio e la sua umana grandezza, la sua generosità, la sua alta malinconia di escluso dalla beatitudine celeste. E nell'aver immaginato il personaggio di Stazio, nell'aver fatto proprio di Stazio, ammiratore di Virgilio al quale riconoscerà di dover tutto, poeta inferiore a Virgilio che lo ha guidato sulla via dell'arte e su quella della salvezza, colui che in un certo senso a Virgilio deve succedere, Dante mostra veramente non solo devozione, omaggio, riconoscimento, ma affetto e amore quale forse nessun umanista ebbe mai verso il poeta latino. Virgilio appare come uomo, per quanto riguarda le sue proprie virtù, veramente il più grande".

« Come! » ci rispose, e intanto camminavamo in fretta: « se voi siete anime che Dio non crede degne di salire in paradiso, chi vi ha guidate così in alto su questa scala (del purgatorio)?»

Sempre del Gallardo è la seguente penetrante osservazione sul carattere di Stazio, quale ci appare fin dalle prime parole da lui pronunciate: "Stazio è un'anima libera destinata al cielo; ma il suo modo di parlare è ancora molto umano: anzi è questo in lui il momento più veramente e liberamente umano. sciolto come egli è dal peccato, ma non ancora «beato». È quindi Stazio a stupirsi". Il Gallardo coglie molto bene quella che è la nota costante che accompagnerà tutte le manifestazioni di quest'anima ormai sulla soglia della felicità eterna: una riconquistata ingenuità e semplicità nel sentire, una predisposizione felice all'entusiasmo non meno che alla meraviglia, unite ad un oblio apparentemente crudele - nei riguardi di Virgilio - di ciò che possa per altri rappresentare ancora la colpa, un destino infelice (come quello dell'autore dell'Eneide, il quale non per atti dei quali la responsabilità possa essergli imputata si trova privato per sempre della felicità celeste), il dolore, onde si è potuto parlare di un "egoistico compiacimento" (Galletti) che si sprigionerebbe dal parlare di quest'anima. A questultima interpretazione si può obiettare che ormai Stazio si trova nella condizione cui Beatrice accenna come alla propria nel canto II dell'Inferno (versi 91-93) : lo son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d'esto incendio non m'assale. In altre parole Stazio, sul limitare di uno stato di perfetta innocenza, non può se non da lontano, ormai nella condizione di chi si ridesta da un sogno, avere una percezione reale di ciò che siano il male e il dolore. Vedremo che il suo stato d'animo nei confronti di Virgilio sarà di entusiastica adesione; anzi, nel suo impeto di gratitudine che proromperà incontrollato per l'autore dell'Eneide impeto che in lui coinciderà, nella riacquistata innocenza, con la gioia per la sua liberazione dal peccato - Stazio ci apparirà come abbacinato da troppa luce, rinato ingenuo e schietto, senza supposizioni circa le ombre che la colpa diffonde sulla terra.

E il mio maestro: « Se tu osservi bene i segni che costui in parte ancora porta e che l'angelo suole tracciare sulla fronte dei penitenti, potrai vedere chiaramente che dovrà essere beato.

Ma poiché la parca Lachesi, colei che fila giorno e notte (lo stame della vita umana), non aveva ancora finito di filare traendo giù per lui il filo che Cloto pone e avvolge (sulla rocca) per ciascuno,

L'affermazione che Dante è ancora vivo è svolta nei termini del noto mito delle Parche, delle quali la più giovane, Cloto, pone e avvolge sulla rocca, alla nascita di ogni uomo, il filo che simboleggia la vita, filo che poi la seconda Parca, Lachesi, lavora fino al momento in cui la terza, Atropòs, dà il taglio che segna il momento della morte.

la sua anima, che è sorella tua e mia, salendo fin quassù, non poteva venire senza guida, perché (essendo ancora unita al corpo) non vede chiaramente il vero come noi.

Ai temi della nascita (limitata al suo manifestarsi naturale nell'accenno al parto di Latona - canto XX, versi 130132 - interpretata nel suo significato umanissimo, in quanto promessa di sicuro riscatto, nel quadro che raffigura Dante e Virgilio immobili e sospesi non diversamente dai pastori che per primi udirono, cantato dagli angeli, il Gloria - canto XX, versi 139-141) e della risurrezione radiosa del Cristo (donde la repentinità del suo mostrarsi: apparve, perché ogni determinazione ulteriormente circostanziata avrebbe tolto levità a questa apparizione improvvisa), succede il tema della morte inevitabile, della Parca implacata che vigila sui destini di ciascuno di noi. Questo tema, tuttavia, investe soltanto una parte del nostro essere, il corpo, spazialmente localizzabile e vincolato alle necessità ferree delle leggi naturali. Questo è probabilmente il motivo per il quale il Poeta ricorre qui al repertorio mitologico, come nella evocazione del miracolo - veduto in termini che non oltrepassano il dato naturale, anche se ce lo presentano ingigantito e come vertiginosamente proiettato in una dimensione per noi assurda. inconcepibile - della nascita di Apollo e Diana. Gli antichi concepirono il miracolo come un sovvertimento delle leggi della natura non fondato in una sfera spirituale, vincolato quindi ancora al quadro fisico in cui immaginarono che esso facesse irruzione; le loro divinità del resto non erano che personificazioni degli aspetti minacciosi o imprevedibili che la natura - non ancora dominata da un sicuro metodo scientifico - assumeva ai loro occhi.

Per questo venni tratto fuori dal limbo, il primo e più ampio cerchio dell'inferno, per indicargli il cammino, e glielo indicherò anche più avanti, fin dove lo potrà guidare il mio insegnamento.

Ma se lo sai, dimmi perché poco fa il monte sussultò con tali scosse, e perché tutte le anime insieme parvero cantare a gran voce dalla cima del monte alla sua base bagnata dal mare ».

Facendo questa domanda, Virgilio indovinò così bene il mio desiderio (sì mi dié... per la cruna del mio disio: come se avesse infilato con precisione il filo nella cruna di un ago), che solo per la speranza di una risposta la mia sete di sapere divenne meno ardente.

E quell'anima cominciò a dire: « Il santo monte non è soggetto ad alcuna mutazione che non sia prestabilita da leggi, o che sia insolita.

Questo luogo è esente da ogni perturbazione terrestre: di quanto avviene qui possono essere causa solo le forze intrinseche al cielo, e non ciò che il cielo riceve dal di fuori.

Per questa ragione al disopra della breve scaletta di tre gradini (all'ingresso del purgatorio), non cade pioggia, grandine, neve, rugiada, brina;

non appaiono nubi, né dense né tenui, non lampi, e neppure l'arcobaleno (figlia di Taumante), che di là sulla terra (essendo opposto al sole) muta spesso zona nel cielo:

--Iride, figlia di Taumante e di Elettra, secondo il mito era la messaggera degli dei, specialmente di Giunone; scendeva sulla terra a portare i suoi messaggi camminando sull'arcobaleno che segnava il suo percorso in cielo.

e nemmeno il vapore secco supera la sommità dei tre gradini di cui parlai, dove posa i piedi l'angelo por tiere, vicario di San Pietro.

Qui Dante sottintende la teoria della fisica aristotelica che attribuiva la causa delle alterazioni terrestri ai vapori che sorgono dalla terra: i vapori umidi causano le precipitazioni atmosferiche, pioggia, grandine, neve, rugiada, brina ecc. (cfr. versi 46-50) ; il vapore secco e sottile genera il vento; quello secco e denso, non potendo uscire al l'aperto, rimane imprigionato nelle viscere della terra e produce i terremoti, poiché genera venti sotterranei che fanno vibrare il terreno. L'insistere sulla negazione assunta in funzione coordinativa (non... né... non) conferisce a questa parte della delucidazione di Stazio un ritmo incalzante e concitato, per cui questo intervento didascalico, sfuggendo ai rischi di una sua definizione in termini intellettualistici, s'impone alla nostra attenzione anzitutto in quanto poesia, attonita contemplazione di un ordine di leggi arcane, che la nostra ragione non può cogliere. A determinare la tonalità intimamente poetica di questo passo contribuisce altresì l'animazione nei modi di un capriccioso, leggendario errare (né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade), attribuita al fenomeno dell'arcobaleno, nonché la netta contrapposizione dei due ordini di leggi - tra loro inconciliabili ad opera della sola ragione - cui obbediscono rispettivamente la parte alta e quella bassa della montagna del purgatorio. Stazio "rivela già qui quella sua particolare competenza in naturalibus [in campo scientifico] che sarà la ragione per cui Virgilio gli affiderà l'impegnativo compito d'intrattenere (nel canto XXV) Dante sul problema della generazione dell'uomo" (Mattalia), ma occorre aggiungere che questa sua "competenza in naturalibus" appare qui totalmente trasfigurata e come travasata nella cornice di un mito grandioso, di un eccelso miracolo. A determinare questo clima di miracolo contribuisce per gran parte, al verso 48, il diminutivo scaletta, di cui la specificazione di tre gradi e l'ulteriore attribuzione (breve) posta a chiusura del verso sembrano voler ribadire l'esiguità: la mole immane della montagna dei penitenti è sottomessa ad una giurisdizione che ha quale suo attributo visibile una piccola - derisoria in confronto alle maestose proporzioni che ne tagliano la vetta in un cielo puro scala di appena tre gradini.

Al di sotto dei tre gradini il monte forse trema poco o molto; ma (pur poggiando sopra una base soggetta ai terremoti) quassù, non so come, non tremò mai per il vento che si nasconde dentro la terra (e causa i terremoti).

Qui il monte trema quando qualche anima si sente purificata, al punto di levarsi in piedi (se è in questo girone) o di muoversi per ascendere (se è negli altri) ; e al terremoto segue il canto del « Gloria ».

Della compiuta purificazione è prova soltanto la volontà, la quale, sentendosi del tutto libera di mutar dimora, colpisce improvvisa l'anima, e tale volontà è efficace.

Prima (di sentirsi monda) l'anima vuole bensì ascendere, ma non glielo permette quel desiderio che, in contrasto con la volontà di salire, la divina giustizia pone in lei rivolto all'espiazione, come fu già rivolto al peccato.

E io, che per espiare giacqui cinquecento anni e più in questo girone, solo ora sentii tutta libera la volontà di muovermi verso la dimora del paradiso

per questo hai sentito il terremoto e hai udito gli spiriti pii rendere lode per tutto il monte del purgatorio a quel Signore che mi auguro voglia inviarli presto in paradiso ».

L'esposizione didascalica di Stazio, mantenuta - nella descrizione delle leggi vigenti al di sopra della scaletta di tre gradi breve - su un tono di ancora apparente oggettività, assurge, nella seconda parte del suo discorso, ad una tonalità più intensa: lo stupore che aveva determinato la cadenza quasi di favola della precedente descrizione si interiorizza, è come assorbito in un raccolto, seppure gioioso, ripiegarsi dell'anima redenta sul proprio destino. Oggetto dei chiarimenti di Stazio non è più qui la natura - contemplata in una sua condizione edenica, in quanto sottratta al determinismo cieco che sembra vincolarla in terra - ma la sfera del libero volere, autonoma nei riguardi della natura anche nel corso del nostro esistere terreno. Il motivo - già fatto oggetto di disamina severa da parte di Virgilio nel canto XVIII - della moralità (verso 69: però moralità lasciato al mondo) riaffiora commosso, dopo un preludiare rapito ed estatico (trema... tremaci), nelle terzine 61 e 64, per concludersi trionfalmente nella contrapposizione del grande numero di anni occorso per la purificazione di Stazio all'istante che di tale purificazione ha segnato il termine felice (pur mo sentii) e colmarsi di gratitudine nell'augurio da quest'anima rivolto ai pii spiriti che hanno glorificato il Signore per la sua avvenuta liberazione.

Così ci parlò: e poiché bevendo si gode tanto quanto grande è la sete, non saprei dire quanto egli mi giovò (soddisfacendo con questa risposta la mia ardente brama di conoscere).

E la mia saggia guida: « Ormai intendo chiaramente che cosa (il desiderio guidato dalla volontà divina: cfr. versi 64-66) vi tiene qui impigliati come una rete e come (con la penitenza) ci si scioglie da essa, perché qui il monte trema, e perché col canto vi rallegrate tutti insieme.

Ora ti piaccia farmi sapere chi fosti, e le tue parole mi rivelino perché hai dovuto giacere tanti secoli in questo girone ».

«Nel tempo in cui il valoroso Tito, con l'aiuto di Dio, vendicò le piaghe di Cristo dalle quali usci il sangue venduto da Giuda,

Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano e in seguito suo successore (79 d. C.), condusse una spedizione punitiva contro gli Ebrei ribelli, che si concluse nel 70 d. C. con la distruzione di Gerusalemme, distruzione che, secondo Dante, avvenne per volontà divina, affinché fosse vendicata la morte di Cristo.

io ero di là sulla terra col nome di poeta, il più duraturo e onorifico di tutti i nomi » rispose quello spirito « assai famoso, ma non ancora con la fede cristiana.

Lo spirito, dopo aver a lungo parlato; finalmente rivela la propria identità: si tratta di Publio Papinio Stazio, poeta latino, nato intorno al 50 d. C. a Napoli, dove morì verso la fine del secolo. Dante lo dice tolosano confondendolo, come tutti i dotti del Medioevo, con Lucio Stazio Ursulo, un noto retore vissuto ai tempi di Nerone e nativo di Tolosa, nella Gallia Narbonese: confusione che risale già a scrittori latini cristiani, San Gerolamo e Fulgenzio. Stazio, considerato nel Medioevo come uno dei maggiori poeti epici dopo Virgilio, è autore di due poemi: la Tebaide, in dodici libri come l'Eneide, che tratta le vicende della guerra dei Sette contro Tebe (cfr. verso 92) , e l'Achilleide, rimasto interrotto al secondo libro (cfr. versi 92-93), che canta le gesta di Achille. Una terza opera di Stazio, le Silvae, era ignota a Dante perché fu scoperta solo nel secolo XV dall'umanista Poggio Bracciolini. Nel De Vulgari Eloquentia (II, VI, 7) Dante colloca Stazio accanto a Virgilio, Ovidio e Lucano tra i poeti ai quali ispirarsi come a maestri. Dalla sua morte fino al 1300 Stazio ha passato nel purgatorio 12 secoli, di cui più di cinque nel girone degli avari e dei prodighi, dopo essere stato più di quattro secoli in quello degli accidiosi (cfr. Purgatorio XXII, 92-93) e il resto del tempo o nell'antipurgatorio o nelle prime cornici.

Il mio canto fu così dolce che, sebbene fossi di Tolosa, Roma mi chiamò a sé, e lì meritai di cingere la fronte con la corona di mirto (con il mirto, infatti, oltre che con l'alloro, si coronavano i poeti).

La gente nel mondo dei mortali mi chiama ancora Stazio: prima cantai le vicende della guerra tebana, poi quelle del grande Achille: ma morii in piena attività quando la fatica del secondo poema non era ancora compiuta.

Nelle parole di Stazio, altrimenti improntate a lieto, incontenibile entusiasmo, riaffiora qui grave - nel caddi, nel concretissimo soma del verso 93, esprimente tutta la fatica del poetare,. da Dante concepito come un compito severo, una missione profetica da portare a compimento a prezzo della vita - il tema del nostro destino di esseri destinati a morire, cui il mesto e più consapevole eloquio di Virgilio ha dato vita nell'immagine della Parca insonne (versi 25-27). Il tema della morte incrina per un attimo il lieto ascendere del gaudio di Stazio verso espressioni di sempre più accesa gratitudine per la sorte di poeta famoso arrisagli in terra e per l'avventura che ebbe di imbattersi nell'opera di Virgilio (cfr. versi 94-96 e 97-99), ne rende più sommessa la voce, vela la stessa baldanza con la quale è stato da lui affermato il primato della poesia nel mondo (col nome che più dura e più onora) e la sopravvivenza della fama, che si consegue poetando, alla fragilità del nostro destino personale. Stazio la gente ancor di là mi noma: quale orgoglio contenuto, ma non per ciò meno esplicito, nelle due determinazioni avverbiali, rispettivamente di tempo e di luogo (ancor e di là) poste alla fine del primo emistichio ed al principio del secondo! Ma il tempo è espresso attraverso una modalità la quale non consente aperture al futuro: quello di Stazio, nonostante tutto, è soltanto un mesto sguardo retrospettivo, che misura il passato, si esalta e si spegne in un nostalgico ancor; lo spazio d'altra parte, evocato con non minore accoramento nel di là, non localizza e non precisa, additando nel suo complesso la vita. Anche nelle anime promesse alla beatitudine riaffiora il rimpianto - che tanto frequentemente riecheggiò nell'inferno (ricordiamo il dolce mondo di Ciacco, il dolce lume di Cavalcante, il trepido riandare col pensiero alla terra nativa di Francesca da Rimini o di Pier da Medicina) - per la vita rischiarata dai raggi di un sole non simbolico, non sottratto al nostro concreto sentire.

II fuoco della mia poesia prese alimento dalle scintille, che sempre mi scaldarono, di quella fiamma divina, al cui calore moltissimi altri poeti si sono accesi;

intendo dire la fiamma dell'Eneide, che mentre poetavo mi fu madre (generando in me l'amore alla poesia) e mi fu nutrice (educando quell'amore) : senza tenerla a modello non creai nei miei versi nulla che avesse un valore anche minimo (peso di dramma: l'ottava parte di un'oncia).

L'immagine della divina fiamma verrà ripresa, al verso 68 del canto XXII - in un'accezione più cauta ed intima, assai più ricca tuttavia di risonanza spirituale - in quella, pacata e tersa, non più dell'incendio divoratore che semina faville negli animi, ma del lume, il quale, privo di bagliori improvvisi o esorbitanti, ma saldo, punto di riferimento indefettibile, fa luce nelle tenebre ed indica la strada. La diversa ampiezza di risonanze delle due immagini va messa in rapporto con il diverso angolo visuale da cui Stazio considera nei due canti l'influsso su di lui esercitato dal vate mantovano. Qui Stazio menziona, quale promotrice del suo destarsi alla vita dello spirito, l'Eneide, da lui considerata esclusivamente sotto il profilo poetico, in quanto modello insuperato di bello stile (il tributo di riconoscenza di Stazio verso Virgilio ha un evidente sottofondo autobiografico nella vicenda di Dante, trova le sue radici in uno dei momenti cruciali dell'esperienza spirituale del Poeta e quest'ultima esprime, coronando così il panegirico di Virgilio dei versi 79-87 del primo canto dell'Inferno). Invece, nel canto XXII, l'influsso del mantovano appare aver operato su di lui attraverso un testo diverso, la IV Egloga, e in una direzione divergente da quella che lo spinse, acceso di sacro amore per l'Eneide a cercare la gloria poetica. La IV Egloga determina, infatti, in Stazio, una «conversione» di tutt'altro genere rispetto a quella, meramente letteraria, evocata entusiasticamente da quest'anima nei versi 94-99 del canto presente: la conversione di tutto il suo essere, non del suo solo intelletto poetante, alla vera fede, quella che conforta anzitutto non i favoriti dalle Muse, ma i cuori sempiici, i poveri di spirito. Nell'espressione mamma fummi e fummi nutrice poetando culmina l'entusiastico tributo di gratitudine da Stazio rivolto al "suo" autore. Notiamo in essa la pregnanza del gerundio poetando, usato in funzione di participio presente. Poetando sta qui a significare «nell'atto in cui poetavo», ma dalla definizione di questo atto l'elemento soggettivo è sparito: l'atto poetico - della poesia nel suo farsi - è concepito come per sé stante, acquistando in tal modo una densità di implicazioni e rimandi che un più disteso discorrere avrebbe precluso.

E se fosse stato possibile esser vissuto sulla terra al tempo di Virgilio, accetterei di ritardare di un anno solare oltre il tempo dovuto la mia liberazione da questo esilio (uscir di bando) del purgatorio. »

Queste parole fecero voltare Virgilio verso di me con un volto che, pur senza parole, diceva: "Taci"; ma la volontà non può tutto,

perché il riso e il pianto seguono con tanta prontezza i sentimenti della gioia e del dolore, da cui ciascuno dei due deriva, che obbediscono ancor meno al freno della volontà nei caratteri più schietti.

Io sorrisi soltanto come chi accenna solo con l'occhio; per questo Stazio tacque, e mi fissò negli occhi, dove la espressione dell'animo traspare più che in ogni altra parte;

e: « Possa tu condurre a buon termine la cosi ardua fatica del viaggio» disse, « ama perché or ora il tuo volto mi ha lasciato vedere un lampo di sorriso? »

A questo punto io sono prigioniero fra due volontà contrarie: una (quella di Virgilio) mi fa tacere, l'altra (quella di Stazio) mi scongiura di parlare; per questo io sospiro, e vengo compreso

dal mio maestro, che mi dice: « Non aver paura a parlare; ma parla e digli quello che chiede con tanto interesse ».

Per ciò io dissi: « Forse, o antico spìrito, ti meravigli del mio sorridere; ma voglio che tu sia preso da una meraviglia anche maggiore.

Questi che mi guida a vedere l'alta cima del monte, è proprio quel Virgilio dal quale attingesti la virtù di cantare nei tuoi poemi gli uomini e gli dei.

Se hai creduto che fosse un'altra la causa del mio sorriso, lasciala da parte come falsa, e credi che a farmi sorridere furono proprio quelle parole che dicesti di lui».

Stazio già stava chinandosi per abbracciare i piedi al mio maestro, ma questi gli disse: «Fratello, non fare questo, perché tu sei un'ombra e in me non vedi che un'ombra ».

E Stazio rialzandosi: «Ora puoi comprendere quanto sia grande l'amore che mi infiamma per te, dal momento che dimentico la nostra inconsistenza corporea,

e tratto le ombre come fossero corpi solidi ».



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it