LETTERATURA ITALIANA: IL DECADENTISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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DECADENTISMO





PREMESSA STORICA

Con l’avvento della “Sinistra” al governo dello Stato unitario, nel 1876, il Depretis concepì ed attuò quello sciagurato metodo parlamentare che va col nome di “trasformismo” e che consisteva nel fare e disfare maggioranze numeriche al di fuori di ogni logica di gruppo precostituito e naturalmente legato a visioni ed interessi politici ben determinati. Ne derivarono un totale isterilimento della vita parlamentare basata sulla dialettica operante tra maggioranza e minoranza e l’affossamento di ogni principio di autentica democrazia: i parlamentari - per lo più esponenti dell’alta borghesia -, prevaricando le proprie ideologie, praticavano con disinvoltura l’arte del compromesso senza alcuna disciplina di partito, ma a seconda dei propri interessi e di quelli del gruppo economico cui facevano capo. Tale sistema, ovviamente, giovò molto ai detentori della ricchezza - i capitalisti industriali del Nord e i grossi proprietari terrieri del Sud - coalizzati nello sfruttamento delle classi subalterne (specialmente del proletariato, cioè degli operai delle fabbriche nel Nord e dei braccianti agricoli nel Sud).


Fu proprio con la “Sinistra” (che non va intesa nell’accezione di oggi essendo pur sempre una derivazione dell’area liberale) che ebbe grande sviluppo l’industrializzazione nel Nord e in particolare nel Piemonte, nella Lombardia e nella Liguria: infatti numerose leggi protezionistiche misero


le giovani industrie italiane al riparo dalla concorrenza delle più agguerrite industrie del centro-Europa, ma produssero guasti irreparabili nell’ordinamento sociale del Paese, accentuando il divario fra Nord e Sud ed esasperando i rapporti tra il ceto dominante e la gran massa del popolo.


Intanto il proletariato prendeva sempre più coscienza della propria funzione e quindi della sua forza e dei suoi diritti e riusciva a sollecitare in suo favore l’interessamento di non pochi intellettuali (Antonio Labriola nel 1890 iniziava dall’Università di Roma la diffusione su basi scientifiche del pensiero marxiano) e dello stesso pontefice Leone XIII (che nel 1891 emanò la famosa enciclica d'argomento sociale “Rerum Novarum”): nel 1892 fu fondato il Partito dei lavoratori italiani (il futuro Partito socialista) e nel 1893 furono istituiti in Sicilia i Fasci dei lavoratori.


Lo Stato ufficiale, rappresentato da un governo trasformista e conservatore, non seppe o non volle interpretare questi fermenti popolari come una forza vitale ed una spinta morale capaci di avviare un processo di rinnovamento sociale utile e necessario all’intero Paese, e vide invece in essi un nemico da combattere con ogni mezzo, non escluso quello della violenza militare che di fatto esercitò in Sicilia (stato d’assedio in tutta l’isola e soppressione dei Fasci dei lavoratori), nella Lunigiana ed a Milano (oltre cento morti fra i dimostranti in seguito alla spietata repressione dei moti popolari effettuata dal generale Bava Beccaris). L’unico ad avere una più realistica intelligenza dei fenomeni sociali di quegli anni fu Giovanni Giolitti, che nelle “Memorie della mia vita” così scrive:


«Il malessere economico che gravava sul paese, col conseguente sorgere e diffondersi del malcontento e delle agitazioni nelle classi popolari e nella piccola borghesia, che ne erano particolarmente colpite; l’affacciarsi di nuove dottrine politiche quali il socialismo, che facevano presa sulle folle tanto nelle città che nelle campagne, creavano indubbiamente nuovi e gravi problemi, sia economici che politici, di non facile soluzione, e che preoccupavano le classi dirigenti ed il Parlamento. La principale questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche ed agli uomini di governo, era se questi problemi potevano risolversi col regime di libertà o se essi richiedevano ed imponevano un restringimento di freni e l'adozione di provvedimenti eccezionali. Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta soluzione non potesse ottenersi che col mantenimento dei principi liberali, e che qualunque provvedimento di reazione per soffocare il malcontento e per impedire la manifestazione di nuove aspirazioni popolari avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare le cose e minacciare le stesse istituzioni...


Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché benevolo da parte del governo, il cui compito invece avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini.» 


Ma se allo statista piemontese va il merito di aver saputo meglio degli altri comprendere la portata di quegli avvenimenti, non gli si può d’altra parte riconoscere uno spirito di solidarietà verso le classi popolari, tanto è vero che così egli prosegue nelle pagine delle “Memorie”: 


«Nessuno poteva ormai illudersi di poter impedire che classi popolari conquistassero la loro parte d'influenza sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non con le chiacchiere ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai di più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali. Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.» 


Non aveva quindi torto il Salvemini quando, ne “Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana”, osservava:


«La tattica dell'onorevole Giolitti è stata sempre quella di far la politica conservatrice per mezzo dei condottieri dei partiti democratici: sia lusingandoli e addomesticandoli per via di attenzioni individuali (siamo arrivati già alle nomine senatoriali) sia, quando si tratta di uomini personalmente disinteressati, come Turati e Bissolati, conquistandoli con riforme le quali non intacchino seriamente gli interessi economici e politici dei gruppi dominanti nel governo (esempio: certe leggine sociali misurate col contagocce) oppure tali che l'onorevole Giolitti s'illuda di poter ridurne l'attuazione pratica ad una turlupinatura (esempio: il suffragio quasi universale).»


Questo stato di cose (crisi morale, esasperazione dei comportamenti conservatori da parte della classe dominante, disordinato atteggiamento rivendicativo da parte delle classi subalterne) non poteva non determinare una crisi di coscienza tra gli intellettuali e soprattutto tra gli artisti, indirizzandoli verso quel tipo di “sensibilità” che si andava diffondendo un po' in tutta l’Europa e che già si era abbastanza affermato in Francia, ove per prima fu definito “decadente”.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it