I Canti sono complessivamente
quarantuno e, vivente l’Autore, furono
pubblicati in varie circostanze e
parzialmente, man mano che venivano
composti. L'ultima edizione curata dal
Leopardi stesso risale al 1835 e fu opera
dell’editore Saverio Starita di Napoli.
Questa edizione comprendeva trentanove
canti, non essendovi inclusi “La ginestra”
e “Il tramonto della luna”, che
furono aggiunti nella prima edizione
apparsa dopo la morte del Poeta, a cura di
Antonio Ranieri, per i tipi dell’editore
Felice Le Monnier di Firenze, nel 1844 (con
questa edizione dei Canti leopardiani il Le
Monnier inaugurò la sua “Biblioteca
Nazionale”).
Tanto
l’edizione del '35 che quella del '44 non
seguono scrupolosamente la cronologia di
composizione dei Canti, ma piuttosto un
itinerario ideale voluto dal Leopardi. Ciò
pone un problema a chi voglia presentare i
Canti con intendimento didattico: se sia più
giusto rispettare l’ultima volontà
dell’Autore o invece l’itinerario naturale e
reale da lui seguito nella composizione
delle liriche. E come sempre capita in
queste circostanze, i pareri degli studiosi
sono discordi. Tanto per fare qualche
esempio, ci piace riferire gli opposti
pareri di due valorosi studiosi leopardiani,
a metà fra il Leopardi e noi: Giuseppe
Piergili si rammarica di dover assai spesso
“vedere stravolto l’ordine dei Canti,
stabilito dall’Autore, e quel frammento di
poesia all'apertura del libro, nel posto
della canzone All’Italia, alla quale egli
diede sempre il primo luogo, offende il
senso da noi acquisito”; e di rimando
Giovanni Tambara osserva che “quando
l’opera, come nel caso nostro, è una
raccolta di componimenti lirici che
rispecchiano via via lo svolgersi di un
sentimento o, se così piace, la storia di
un’anima, la loro disposizione cronologica,
oltre a rendersi necessaria per i fini
didattici, costituisce essa stessa una parte
integrante del commento”. Noi non
abbiamo il compito di approntare una
edizione dei “Canti”, ma certamente
quello di presentare ai nostri lettori lo “svolgimento
della poesia leopardiana”, e perciò non
possiamo esimerci in alcun modo dal seguire
la cronologia delle composizioni.
I
primi canti
Nel 1816 il
Leopardi compose una cantica in cinque canti
in terzine (sul modello di Dante e del
Petrarca dei “Trionfi”), intitolata “Appressamento
della Morte”, ma ritenne di dover
includere nei Canti solo i primi 76 versi
col titolo di “Frammento”: l’opera
completa, con questi primi versi rinnovati
nel contenuto e nella forma, ne rimase
fuori. In questo frammento appare una donna
lietissima che va incontro ad un’ “amorosa
meta”: all’improvviso si scatena un
furioso temporale che la respinge indietro e
la fa diventar di pietra. In questi versi,
che ben fanno da prologo ai Canti, già si
afferma il sentimento doloroso della vita e
la concezione che la felicità è mera
illusione e cessa all’apparir del vero:
Come fuggiste, o belle ore serene!
Dilettevol quaggiù null'altro dura,
né si ferma giammai, se non la spene. |
Nel dicembre
del 1817 Gertrude Cassi, cugina del poeta,
fu ospite a Recanati di casa Leopardi per
alcuni giorni (dall’11 al 14) e Giacomo se
ne invaghì follemente. La notte stessa del
giorno della partenza della donna, Giacomo
cominciò a scrivere “Il
primo amore”, in terzine, col
quale intese registrare la “storia”
del suo innamoramento, dallo scoppio della
passione alla delusione dell’allontanamento
ed alle rimembranze di quella dolce quanto
angosciosa vicenda:
Tornami a mente il dì che la battaglia
d'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!
........
.........................................
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
palpitando nel letto e, chiusi gli
occhi,
strinsi il cor con la mano, e
sospirai.
................................................
Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
spira nel pensier mio la bella imago,
da cui, se non celeste, altro diletto
giammai non ebbi, e sol di lei
m'appago.
|
L’anno dopo la
Gertrude tornò a Recanati per una breve
visita e l’amore per lei, mai sopito in
Giacomo, tornò fieramente e fece ripiombare
il giovane nell’angoscia quando si rinnovò
l’amara partenza. In questa occasione il
Poeta compose l’elegia “Dove
son? dove fui?”, i cui versi
40-54, felicemente ritoccati, introdusse nei
Canti ancora come “Frammento”. Il
Leopardi racconta la propria disperazione
per l'imminente partenza dell'amata e come
egli, fuor di sé, invocasse l'arrivo di una
tempesta che costringesse la donna a
ritardare il viaggio:
Io qui vagando al limitare intorno,
invan la pioggia invoco e la tempesta,
acciò che la ritenga al mio soggiorno.
|
Le
canzoni patriottiche
Verso la fine
di questo stesso anno 1818 il Leopardi, che
ormai aveva maturato la cosiddetta
conversione politica e da reazionario e
papalino s'era fatto liberale e patriota (in
una lettera al Giordani del 21 marzo 1817
aveva affermato: “Mia patria è l'Italia,
per la quale io ardo d'amore, ringraziando
il cielo d'avermi fatto italiano”),
compose le due famose canzoni patriottiche,
“All'Italia”
e “Sopra il
monumento di Dante”, con le quali
intese sempre aprire la raccolta dei Canti
nelle edizioni da lui curate. Sono canti
sinceri e commossi che versano lacrime sulle
sciagure della Patria, avvilita ed
asservita, ma vibrano anche di fieri impeti
di ribellione e di caldi accenti di nobile
speranza. In entrambe le canzoni il Poeta
lancia i suoi strali contro i Francesi, la
cui dominazione era però già cessata da tre
anni, anziché contro gli Austriaci, forse
perché ai primi aveva da rinfacciare
l’oltraggio più indecoroso che mai si fosse
fatto all’Italia, quello di strapparle il
fiore della gioventù per portarlo a morire
in terre straniere per estranei destini; ma
anche perché non era prudente in quegli anni
chiamare in causa gli Austriaci, come par di
capire da una lettera che il Leopardi
indirizzò a Pietro Brighenti in data 21
aprile 1820, nella quale si legge: «Quelli
che presero in sinistro la mia canzone sul
monumento di Dante, fecero male, secondo me,
perché le dico espressamente ch'io non la
scrissi per dispiacere a queste tali
persone; ma parte per amore del puro
e semplice vero e odio delle vane parzialità
e prevenzione; parte perché, non potendo
nominar quelli che queste persone avrebbero
voluto, io metteva in scena altri attori
come per pretesto e figura». In entrambe
le poesia aleggia il senso foscoliano della
validità delle memorie patrie, delle glorie
passate, per svegliare gli Italiani dal
torpore del lungo servaggio: alla nostalgia
dell’umanista per le antiche età si
accoppiano la sconsolata consapevolezza
della decadenza dell’Italia e la non spenta
aspirazione verso destini migliori:
O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l'erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond'eran
carchi
i nostri padri antichi...
............................................
Come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessuno de' tuoi? L'armi, qua l'armi:
io solo combatterò, procomberò sol io.
Dammi. o ciel, che sia foco
agl'italici petti il sangue mio.
|
dirà nella
prima canzone; e nella seconda, dopo aver
elogiato l’iniziativa di quanti vogliono
erigere in Firenze un monumento a Dante, si
rivolge allo stesso sommo Poeta per dirgli
di rallegrarsi di questo monumento non
tanto perché rappresenta un doveroso
riconoscimento alla sua fama, ma perché esso
può scuotere i sonnacchiosi Italiani:
Ma non per te; per questa ti rallegri
povera patria tua, s'unqua l'esempio
degli avi e de' parenti
ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
tanto valor che un tratto alzino il
viso. |
Ed aggiunge
più avanti:
In eterno perimmo? e il nostro scorno
non ha verun confine?
Io mentre viva andrò sclamando
intorno,
volgiti agli avi tuoi, guasto
legnaggio;
mira queste ruine
e le carte e le tele e i marmi e i
templi;
pensa qual terra premi; e se destarti
non può la luce di cotali esempli,
che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
questa d'animi eccelsi altrice e
scola:
se di codardi è stanza,
meglio l'è rimaner vedova e sola.
|
Ai critici
moderni queste due canzoni non piacciono
molto e sono in molti a condividere il
giudizio del Pazzaglia, secondo il quale in
“All’Italia” (ma l’osservazione può
riferirsi anche alla seconda canzone) v’è “il
prevalere di un’eloquenza grandiosa, che
appare spesso enfatica. L'ispirazione è
sincera... ma è tradita da un linguaggio
convenzionale, legato a una tradizione
retorica ormai consunta, non scavato e
ritrovato nel profondo”. Ma i
contemporanei furono di ben diverso avviso,
tanto che il Giordani potè scrivere
all’amico che non aveva “mai (mai mai)
veduto né poesia, né cosa alcuna d’ingegno
tanto ammirata ed esaltata”.
I piccoli
idilli
Appartengono
agli anni che vanno dal 1819 al 1821 i
cosiddetti “piccoli
idilli” (secondo altri
sarebbero tutti del 1819), e cioè “L'infinito”,
“La sera del dì di
festa”, “Alla
luna”, “Il
sogno” e “La
vita solitaria”. Fra questi si
può anche annoverare un Frammento, composto
nel 1819, che il Poeta pubblicò con gli
Idilli nel 1826, dandogli il titolo di “Lo
spavento notturno”, eliminandolo
poi dall’edizione fiorentina del 1831 e
riproponendolo infine, appunto come “Frammento”,
distinto dagli Idilli (occupa infatti il
XXXVII posto della raccolta) nell'edizione
del 1835.
L’idillio è un
componimento poetico che rappresenta, in
un’atmosfera di pacata serenità, un
quadretto georgico. Il Leopardi lo adottò
per confidare “situazioni, affezioni,
avventure storiche dell'animo” suo. Con
questi piccoli “Idilli” siamo già su
altissime vette di poesia.
Ne “L'infinito”
il Leopardi descrive un paesaggio immaginato
fatto di “interminati spazi” e “sovrumani
silenzi” e “profondissima quiete”:
egli si trova sul Monte Tabor a contemplare,
in solitudine, l’estremo orizzonte, ma una
siepe gli impedisce in parte la vista.
Proprio questo ostacolo materiale dà la lena
all’immaginazione che può così immergersi
nella profondità dell'infinito spaziale. Ma
il leggero stormire delle foglie agitate da
un tenue venticello riconduce il cuore alla
realtà presente per poi risospingerlo e
sommergerlo nell’infinità del tempo: “E
il naufragar m’è dolce in questo mare”,
conclude il Poeta.
In questo
idillio, che è del 1819, par di cogliere
un'ansia quasi religiosa di eternità, che
non è, come nel Foscolo, intimamente
connessa col desiderio di gloria, ma è
piuttosto avvertita come inconscio desiderio
di totale dissolvimento nel Nulla per
poterne condividere appunto l’eternità.
In
La sera del dì di
festa”, forse del 1820, il Poeta
ci offre anzitutto una di quelle descrizioni
naturalistiche che “ti fanno amare la
vita e la Natura”:
Dolce e chiara è la notte e senza
vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli
orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. |
Ma tanta pace
non può lenire le pene dell’animo suo, che
si travaglia per un amore che sente
impossibile, ed il Poeta lancia un grido
disperato:
...Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per
terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni
orrendi
in così verde etate! |
Tuttavia “
il solitario canto / dell'artigian, che
riede a tarda notte, / dopo i sollazzi, al
suo povero ostello ”, lo induce a riflettere
sulla condizione dell'esistenza umana, “ a
pensar come tutto al mondo passa, / e quasi
orma non lascia ”, sia che si tratti di un
semplice “giorno festivo” a cui succede
quello “volgare”, sia che si tratti dei
popoli antichi, dei nostri avi famosi,
dell'impero di Roma, il cui “fragorio”
“n'andò per la terra e l'oceano”. E torna
col pensiero alla sua prima età, quando,
dopo il dì della festa, vegliando e
piangendo sul suo triste destino, udiva un
canto “lontanando morire a poco a poco” e
gli si stringeva il cuore.
Se il
primo degli
Idilli ha toccato il tema
dell’ infinito, dell’ “indefinito”
che il Poeta considerò sempre essenziale
alla poesia, “Alla
Luna” richiama l’altro tema
altrettanto caro al Leopardi, quello della “rimembranza”.
Il Poeta
torna sul Monte Tabor per parlare alla Luna:
l’animo è in pena ma rassegnato al suo
dolore, tant’è che gli occhi non sono più
velati di lacrime, come l'anno precedente,
quando il volto della Luna gli appariva “nebuloso
e tremulo”. Il Poeta sente che gli giova
la ricordanza del tempo passato, anche se
questo fu tristo e l’affanno dura ancora al
presente, perché, essendo ancora giovane, ha
poco da ricordare e molto da sperare. La
Luna sembra indifferente al lamento del
Poeta e impassibile continua a rischiarare
la selva come fa da sempre.
“Il
sogno”, forse del 1821, fu
probabilmente ispirato alla vicenda di
Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di
casa Leopardi, da qualche anno strappata, in
giovanissima età, alla vita per un male
sottile. Nella sorte di Teresa il Poeta
vedrà riflessa la sua stessa storia terrena,
il suo destino, come chiaramente appare nel
canto successivo, “A Silvia”. Qui, ne
“Il sogno”, esprime piuttosto
il suo profondo bisogno d'amore e
l’impossibilità di poterne godere: ha
sognato di essersi incontrato con la
giovinetta morta e di averle chiesto se ella
ebbe mai pietà del suo amore; la fanciulla
annuisce ed il Poeta tenta di stringersela
al cuore, dimentico che ella ormai non è più
di questa vita.
Ancora
quadretti suggestivi di un paesaggio
splendente di lievi colori e ricco di teneri
profumi si ritrovano in “La
vita solitaria” e ancora su di
uno sfondo così placido e sereno palpita
dolorante il cuore del Poeta:
...Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
balza nel petto; e già s'accinge
all'opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi
occhi
non altro convenia che il pianger
sempre.
|
Nel Frammento
“Odi, Melisso”
il giovane Alceta confida all’amico Melisso
di aver sognato che la luna cadesse dal
cielo e si spegnesse sul suo campo,
lasciando un terribile vuoto fra le stelle:
l’ingenuo pensa che il sogno gli ha forse
rivelato una verità, ma Melisso
scherzosamente gli fa notare che in cielo
...ci ha tante stelle,
che picciol danno è cader l'una o
l'altra
di loro e mille rimaner. Ma sola
ha questa luna in ciel, che da nessuno
cader fu vista mai, se non in sogno. |
Concepito e
composto in un tempo in cui il Poeta andava
meditando intorno alle differenti condizioni
dello spirito umano nelle età primitive e
civili - osserva il Tambara -, vien
fatto di pensare che sotto la forma idillica
esso nasconda il concetto delle forti
commozioni che son proprie dell'animo
naturalmente ingenuo (Alceta), e
dell'indifferenza che è propria di quello
illuminato dalla ragione (Melisso)”.
Le
canzoni storico-filosofiche
Segue un
gruppo di canzoni storico-filosofiche
nelle quali il Poeta condanna severamente la
ragione e la civiltà che hanno corrotto il
genere umano ed esalta le età primitive ed
eroiche.
La prima di
queste canzoni, “Ad
Angelo Mai”, fu scritta in
occasione del ritrovamento di ampi frammenti
del “De Republica” di Cicerone ad
opera del famoso e fortunato filologo Angelo
Mai, bibliotecario della Vaticana di Roma:
dalle felici scoperte di costui rivivono le
imprese dei nostri magnanimi avi che
crudamente contrastano con la viltà
presente:
...Anime prodi,
ai tetti vostri inonorata, immonda
plebe successe; al vostro sangue è
scherno
e d'opra e di parola
ogni valor; di vostre eterne lodi
né rossor più né invidia; ozio
circonda
i monumenti vostri; e di viltade
siam fatti esempio alla futura etade.
|
Certo, fra
l’età della virginale felicità dei primitivi
e il tempo attuale superbo di scienza e
meschino di cuore, c'è stata una civiltà
media “dove un certo equilibrio fra la
ragione e la natura -dirà il Leopardi in
una nota dello “Zibaldone”-, una
certa mezzana ignoranza, mantengano quanto è
possibile delle credenze ed errori
naturali... ed escludano e scaccino gli
errori artifiziali, almeno i più gravi,
importanti e barbarizzanti”. Codesta “mezzana
ignoranza” ha consentito lo sbocciare
della poesia di Dante, “al cui sdegno e
dolore fu più l'averno che la terra amico”,
della poesia del Petrarca, “a cui fu vita
il pianto”, dell'ardimento di Colombo, “ligure
ardita prole”, e ancora della poesia
dell'Ariosto, “Cantor vago dell'arme e
degli amori, / che in età della nostra assai
men trista / empier la vita di felici errori”
, e del Tasso, dopo il quale non è sorto più
alcuno degno di portare il nome d'italiano,
tranne l’Alfieri, che “in su la scena
mosse guerra a' tiranni”. A lui il
Leopardi dedica la parte finale del canto,
che si conclude con un invito ad Angelo Mai
di continuare nella sua opera di ricerca
delle testimonianze dei fasti antichi:
Vittorio mio, questa per te non era
età né suolo. Altri anni ed altro
seggio
conviene agli alti ingegni. Or di
riposo
paghi viviamo, e scorti
da mediocrità: sceso il sapiente
e salita è la turba a un sol confine,
che il mondo agguaglia. O scopritor
famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue dei prischi eroi; tanto che in
fine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si
vergogni.
|
“Nelle
nozze della sorella Paolina” fu
composta per le imminenti nozze della
sorella prediletta con l’urbinate Andrea
Peroli (matrimonio che però andò a monte).
Il Poeta ammonisce la futura sposa che i
figli che le nasceranno saranno “o miseri
o codardi”: si prodighi perché siano
miseri. Rivolgendosi poi a tutte le donne
italiane, ricorda loro che la bellezza e la
saggezza muliebri hanno sempre sortito negli
uomini mirabili effetti di virtù: perché mai
nel presente sembra inefficace la loro
influenza? La patria si aspetta da loro non
poco: sdegnino l’uomo vile e si rincrescano
d’esser “nomate madri d'imbelle prole”,
educando i propri figli, come già le madri
spartane, “i danni e il pianto della
virtù a tollerar” e a disprezzare “quel
che pregia e cole la vergognosa età”.
A un
vincitore nel pallone”
è dedicata ad un giovane campione nello
sport del pallone (assai in voga in quegli
anni e non solo a Recanati), al quale il
Poeta raccomanda di esser fiero degli allori
conseguiti, anche se solo in un giuoco,
perché lo sport rafforza il corpo ed educa
alla virtù, e se i Greci a Maratona
riuscirono nell'impresa di salvare la loro
patria, ciò fu dovuto proprio al loro
costume di esercitarsi nelle palestre in
tempo di pace. Nell’Italia contemporanea la
tendenza dominante è di immergersi
totalmente nell'ozio e tutto lascia credere
che la rovina della nostra patria sia
prossima: non voglia il campione
sopravvivere a tale sfacelo.
In “Bruto
minore” il Poeta rievoca l'eroica
morte di Bruto che, dopo la battaglia di
Filippi, persa ogni speranza di far
trionfare la virtù repubblicana contro i
tiranni, per non cadere nelle mani degli
avversari, ordinò ad un suo luogotenente di
dargli la morte, dopo aver inveito contro i
Numi che siedono piuttosto a tutela degli
empi che dei giusti. La religione vieta il
suicidio, ma l'animo forte non si lascia
intimidire dalle minacce degli Dei, e Bruto
afferma risoluto di volere una morte totale,
che annienti cioè non solo il suo corpo, ma
la stessa sua fama, dal momento che non gli
pare onorevole il ricordo di “putridi
nepoti”:
..mal s'affida
a putridi nepoti
l'onor d'egregie menti e la suprema
de' miseri vendetta. A me dintorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fera, e il nembo
tratti l'ignota spoglia:
e
l'aura il nome e la memoria accoglia. |
In “Alla
primavera o delle favole
antiche” il Poeta lamenta che se
la primavera torna puntualmente per gli
uomini, non tornano invece più le antiche
età così ricche dei lieti inganni della
immaginazione: la natura, nella sua vita
primitiva, è ormai spenta per sempre; ma se
vive d'una nuova vita, come sembrerebbe per
il ritorno della primavera, allora ascolti “le
cure infelici e i fati indegni” dei
mortali e renda allo spirito del Poeta “la
favilla antica”, cioè l'entusiasmo
giovanile, sempre che in essa - in cielo o
in terra o nell’ “equoreo seno”- ci
sia “cosa veruna, pietosa no de' nostri
affanni, ma spettatrice almeno”. Nota lo
Zumbini che negli altri canti
storico-filosofici di questo periodo il
Leopardi “ammira le virtù civili,
l’incomparabile carità di patria, l'amore
immenso alla gloria, tutti insomma quelli
che egli stesso chiamava forti errori; qui
ritrae in particolare quei dolci inganni
dell’immaginazione e del cuore che sono
detti ameni errori nel suo stesso
linguaggio. Errori i primi, errori i
secondi, salvo che gli uni facevano bella la
vita nei consorzi civili, gli altri in
grembo alla natura.”
Rientrano
pur sempre nel ciclo delle canzoni
cosiddette storico- filosofiche l’ “Ultimo
canto di Saffo” e l’ “Inno
ai Patriarchi”, ma con due
sostanziali differenze. Il primo canto,
infatti, pur riaffermando il concetto che la
consapevolezza della trista realtà spazza
via ogni piacevole inganno
dell’immaginazione ed accusando, quindi,
l’infausto ufficio della conoscenza, svolge
il tema dell’infelicità utilizzando la
leggenda di Saffo, antica poetessa, cui il “verecondo
raggio della cadente luna” e lo
spuntare “fra la tacita selva in su la
rupe” del “nunzio del giorno”
furono “dilettose e care sembianze”
agli occhi suoi, ma solo fino a quando le
furono ignoti “l’erinni e il fato”,
fino a quando, cioè, non dové scoprire che
la bruttezza del suo corpo, nonostante la
grande bellezza dell’anima, costituiva una
insormontabile barriera tra lei ed il
giovane amato Faone.
Non c’è,
quindi, nel canto il contrasto fra le
antiche età e la recente, ma quello fra lo
stato sognante d'una grande ingenua anima e
lo stato d’una indifesa creatura che prende
coscienza dell’avversa realtà. E' chiaro che
questo canto sia profondamente
autobiografico e perciò più palpitante, più
commosso, più desolato nell'amara
conclusione: Saffo, cioè il Leopardi,
considera con fredda e spietata lucidità, ma
non senza un fremito di tacita ribellione,
la triste sorte che tocca ad un essere
deforme innanzi al quale la stessa natura si
ritrae inorridita:
...A me non ride
l'aprico margo, e dall'eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de' colorati augelli, e non de' faggi
il murmure saluta: e dove all'ombra
degl'inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l'odorate spiagge.
|
Si chiede
allora di qual colpa si fosse macchiata
bambina, od anche prima di nascere, per
meritare siffatto destino, ma non ne trova
alcuna ed è costretta a riconoscere il
mistero che avvolge la vita umana:
...Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati
eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta
prole
nascemmo al pianto, e la ragione in
grembo
de'
celesti si posa. |
E solo nella
morte, cessati i dilettosi inganni della
fanciullezza, c'è il termine d'ogni umana
sofferenza:
...Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il
sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e
l'ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m'avanza; e il prode
ingegno
han la tenaria Diva,
e l'atra notte, e la silente riva.
|
La
particolarità che, invece, si riscontra
nell’ “Inno ai
Patriarchi o de' principii del genere umano”
consiste nel fatto che il Poeta nega
l'esistenza della mitica età dell’oro,
cantata dai poeti, per affermare che
l'umanità tante volte ha avuto l’opportunità
di vivere, secondo natura, in uno stato di
felicità e sempre per sua colpa se ne è
distaccata per farsi civile ed infelice. I
protagonisti di questo canto sono personaggi
biblici: con Adamo l’umanità era felice, ma
Caino, fondando la prima città e dando il
via alla creazione delle istituzioni civili,
gettò le basi della corruzione dell’umanità
che provocò la punizione divina ed il
diluvio universale; Noè tentò di ricondurre
l’umanità allo stato primitivo, ma ancora
gli uomini vollero sperimentare il progresso
e furono artefici di una nuova condizione di
infelicità; ancora i patriarchi Abramo e
Giacobbe riuscirono a portare il loro “popolo
eletto” allo stato primitivo in cui
l’ingenua immaginazione copre con un velo di
inganni il tristo vero. Quindi l'uomo ha
goduto più di un'età dell’oro e sempre ne è
uscito per sua colpa.
Tuttora
esiste un popolo che vive beato allo stato
di natura, quello californiano, ma già si
apparecchiano le triste crociate dei
civilizzatori, dispensatori dell’infausto
progresso.
L’ultima delle
canzoni di questo ciclo fu composta nel
1823 ed è dedicata “Alla
sua donna”, una donna inesistente
ma, proprio per questo, più vera agli occhi
dell'immaginazione, più viva ai sentimenti
del cuore. Lo stesso Leopardi riassunse
brillantemente il tema del canto in un
articolo critico: «La donna, cioè
l'innamorata, dell’autore, è una di quelle
immagini, uno di que' fantasmi di bellezza e
virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono
spesso alla fantasia nel sonno e nella
veglia, quando siamo poco più che fanciulli,
e poi qualche rara volta nel sonno, o in una
quasi alienazione di mente, quando siamo
giovani. In fine è la donna che non si
trova. L’autore non sa se la sua donna (e
così chiamandola, mostra di non amare altra
che questa) sia mai nata finora, o debba mai
nascere; sa che ora non vive in terra, e che
noi non siamo suoi contemporanei; la cerca
tra le idee di Platone, la cerca nella luna,
nei pianeti del sistema solare, in quei dei
sistemi delle stelle». Anche in questo
canto è ribadito il contrasto fra
immaginazione e realtà, che è però solo di
sfuggita riferito al contrasto fra le età
primitive e la presente: il Poeta si chiede
infatti se questa donna, che si rifiuta di
diventare reale nel presente, sia forse
esistita nell’età dell’oro. Si tenga,
infine, presente che questo canto è la prima
delle “canzoni libere” (cioè composte
in metrica affatto originale e diversa da
canzone a canzone) che scrisse il Leopardi.
A conclusione
di questo rapido esame delle cosiddette
"canzoni storico-filosofiche" ci piace
riferire qualche stralcio della recensione
che lo stesso Leopardi scrisse per il “Nuovo
Ricoglitore” dell’editore Stella
(settembre 1825) a proposito dell’edizione
bolognese del 1824 (che comprendeva queste
sette canzoni più altre che il Poeta non
introdusse nelle edizioni dei “Canti”):
«Sono dieci canzoni, e più di dieci
stravaganze. Primo: di dieci canzoni né pur
una amorosa. Secondo: non tutte e non in
tutto sono di stile petrarchesco. Terzo: non
sono di stile né arcadico né frugoniano; non
hanno né quello del Chiabrera né quello del
Testi o del Filicaia o del Guidi o del
Manfredi, né quello delle poesie liriche del
Parini o del Monti; insomma non si
rassomigliano a nessuna poesia lirica
italiana. Quarto: nessun potrebbe indovinare
i soggetti delle canzoni dai titoli...
Quinto: gli assunti delle canzoni per se
medesimi non sono meno stravaganti. Una ch'è
intitolata Ultimo canto di Saffo, intende di
rappresentare la infelicità di un animo
delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo,
posto in un corpo brutto e giovane: soggetto
così difficile, che io non mi so ricordare
né tra gli antichi né tra i moderni nessuno
scrittor famoso che abbia ardito di
trattarlo, eccetto solamente la Signora di
Stäel, che lo tratta in una lettera in
principio della Delfine, ma in tutt'altro
modo. Un'altra canzone intitolata Inno ai
Patriarchi, o de' principii del genere
umano, contiene in sostanza un panegirico
dei costumi della California, e dice che il
secol d'oro non è una favola.
Sesto: sono tutte piene di lamenti e di
malinconia, come se il mondo e gli uomini
fossero una trista cosa, e come se la vita
umana fosse infelice. Settimo: se non si
leggono attentamente, non s'intendono...
Ottavo: pare che il poeta si abbia proposto
di dar materia ai lettori di pensare...
Nono: quasi tante stranezze quante
sentenze...: che dopo scoperta l'America, la
terra ci par più piccola che non ci pareva
prima; che la Natura parlò agli antichi,
cioè gl'inspirò, ma senza svelarsi; che più
scoperte si fanno nelle cose naturali, e più
si accresce nella nostra immaginazione la
nullità dell'Universo; che tutto è vano al
mondo fuorchè il dolore; che dolore è meglio
che noia; che la nostra vita non è buona ad
altro che a disprezzarla essa medesima; che
la necessità di un male consola di quel male
le anime volgari ma non le grandi; che tutto
è mistero nell'Universo, fuorchè la nostra
infelicità.»
E' chiaro
che il tono ironico adoperato non intende
minimamente mettere in discussione i
princìpi fondamentali della visione della
vita che il Poeta aveva quando compose le
canzoni. A tal proposito osserva giustamente
il Ferretti che “questa specie di
autorecensione..., per il lettore non
ammaliziato, avrebbe dovuto apparire non
dettata da lui. Perciò egli vi assumeva un
atteggiamento apparentemente polemico contro
le idee che gli eran più care,
alludendo con frasi ironiche o d' una
capziosità nella sua stessa intenzione
evidente”.
Dopo questa
canzone il Leopardi cesserà di verseggiare
e si dedicherà completamente alla prosa,
componendo nel solo 1824 ben 19 delle 24 “Operette
Morali”. Unica eccezione
l'epistola in versi “Al
conte Carlo Pepoli”, che è del
1826 e fu inclusa nei “Canti”. In
questa lunga epistola (ben 158 versi) il
Leopardi dice all’amico che lo considera
fortunatissimo perché ancora capace di
dilettarsi con la poesia e di allontanare da
sé lo spettro della noia, che invece assale
tutti, anche coloro che dedicano la propria
vita ai viaggi, o ai piaceri, o a tormentare
il prossimo. Purtroppo a lui è venuta meno
la capacità di eludere il vero con i
fantasmi dell’immaginazione e quando il
cuore gli si sarà impietrito del tutto, non
potrà far altro che dedicarsi alla
speculazione filosofica:
...Te punge e move
studio de' carmi e di ritrar parlando
il bel che raro e scarso e fuggitivo
appar nel mondo, e quel che più
benigna
di natura e del ciel, fecondamente
a noi la vaga fantasia produce
e il nostro proprio error. Ben mille
volte
fortunato colui che la caduca
virtù del caro immaginar non perde
per volger d'anni; a cui serbare
eterna
la gioventù del cor diedero i fati;
........................................................
...Io tutti
della prima stagione i dolci inganni
mancar già sento, e dileguar dagli
occhi
le dilettose immagini, che tanto
amai, che sempre infino all'ora
estrema
mi fieno, a ricordar, bramate e
piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
questo petto sarà, né degli aprichi
campi il sereno e solitario riso,
né degli augelli mattutini il canto
di primavera, né per colli e piagge
sotto limpido ciel tacita luna
commoverammi il cor; quando mi fia
ogni beltade o di natura o d'arte,
fatta inanime e muta; ogni altro
senso,
ogni tenero affetto ignoto e strano;
del mio solo conforto allor mendico,
altri studi men dolci, in ch'io
riponga
l'ingrato avanzo della ferrea vita,
eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
destini investigar delle mortali,
e dell'eterne cose; a che prodotta,
a che d'affanni e di miseria carca
l'umana stirpe; a quale ultimo intento
lei spinga il fato e la natura; a cui
tanto nostro dolor diletti o giovi. |
Dopo il 1826,
il Leopardi compose altre tre “Operette
Morali” nel 1827 (le ultime due saranno
del 1832) e finalmente tornerà alla poesia.
Nel 1828 era a Pisa e sentì rifiorirgli la
salute. Sentì allora urgente il bisogno di
cantare il suo ritorno alla vita, il suo “risorgimento”,
e compose un'agile canzonetta di stile
metastasiano, intitolata appunto “Il
Risorgimento”. In una lettera alla
sorella Paolina scrisse: «Dopo due anni
ho fatto dei versi questo aprile, ma versi
veramente all'antica e con quel mio cuore
d'una volta». Non che in lui sia cessato
il dolore, ma questo è tornato più vivo che
mai a sottrarlo da quello stato di noia in
cui si era accasciato:
...............................................
Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar?
......................................
Pur sento in me rivivere
gl'inganni aperti e noti;
e de' suoi proprii moti
si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
spirto, e l'ardor natio,
ogni conforto mio
solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all'anima
alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
chi lo spirar mi dà. |
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