LETTERATURA ITALIANA: GIACOMO LEOPARDI

 

Luigi De Bellis

 


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LEOPARDI

Operette morali

«Questo è il  sentimento che riempie di  sé tutta l'opera leopardiana: la desolata nostalgia d'una felicità sconosciuta ed assurda, la disperata aspirazione verso un mondo migliore. Nelle più riuscite fra le "Operette", come nei "Canti", la poesia non nasce dalla brutta realtà ma dal vano bisogno di superarla... Così nelle "Operette" come nei "Canti" questa realtà grigia si disegna sul fondo luminoso di un ideale: e l'impressione dominante è quella di una delusione non rassegnata». 

Queste parole di Attilio Momigliano bastano da sole a definire il mondo poetico del Leopardi; e di una definizione sintetica il giovane lettore aveva certamente bisogno dopo la lunga attenzione dedicata ai “Canti”.

Ma queste parole valgono anche come magistrale premessa allo studio delle “Operette Morali” perché ci danno subito una indicazione preziosa: che le “Operette” sono  certamente opere di poesia a dispetto dello stesso Autore che voleva forse farne opera di filosofia e che anche per questo aveva adottato la prosa. Anche per questo, ma la ragione più profonda, quella che si impone da sé all’artista, certamente derivò dalla condizione particolare in cui venne a trovarsi l’animo del Poeta, costretto nuovamente, dopo la squallida parentesi romana, a rinchiudersi in Recanati senza alcuna prospettiva per un futuro migliore (resterà nel “borgo selvaggio” dal 1822 al 1825, fino a quando, cioè, ebbe l’invito di recarsi a Milano dall’editore Stella; la maggior parte delle “Operette” risalgono al 1824). 

Nelle “Operette Morali”  il Leopardi ci vuol dare “la descrizione concreta della vita e la dimostrazione che essa è ignobile e misera” (Momigliano) e a questo scopo non serve il ritmo del verso, l’immagine icastica che sorge per incanto da un sostantivo, da un aggettivo, e che invita la fantasia a prodursi in un volo acrobatico nella stratosfera del sentimento: serve invece il tono dimesso, che più agevolmente scivola nei meandri della coscienza, il sottile linguaggio del persuasore che deve inculcare una amara verità. Eppure anche nella prosa delle “Operette” il Leopardi è soltanto poeta: «Sembra prosa riflessiva - osserva il Momigliano -, ragionativa, ma in fondo non è. Si paragoni, per esempio, con quella del “Principe”; e si vedrà che qui si può sempre isolare il periodo o il breve tratto che, anche in sé, ha il suo significato e il suo rilievo, perché la sua forza deriva dal pensiero, da una riflessione morale o psicologica: nelle “Operette” questo non succede, perché il motivo è diffuso, è uno stato d’animo assai più che una osservazione o una constatazione: e anche le “Operette”, come i “Canti”, sono, nella loro viva essenza, un’autobiografia sentimentale». Insomma il Leopardi prosatore non cessa di essere poeta; e se si risolve a scrivere in prosa è perché egli in questi anni, “ripiegandosi su se medesimo - come nota il Fubini - trova purificati e chiariti i motivi originari del suo pessimismo, formulati in alcuni concetti tra logici e fantastici a cui egli si può rivolgere  con un moto di affetto, di amore e di odio”: non per nulla le pagine più vive e palpitanti sono quelle in cui riaffiorano le rimembranze degli ameni inganni, si riaccendono lumi di speranza nonostante la piena consapevolezza che la vita è male.

Le “Operette Morali” composte dal Leopardi furono 26. Due, però, il Poeta stesso le ripudiò successivamente, sicché l’edizione definitiva curata da lui stesso tra il 1834 ed il 1835 ne comprende 24. Di queste, 19 furono scritte nel 1824, una nel 1825, due nel 1827 e due nel 1832. Le “Operette” non vanno intese singolarmente, come opere a se stanti, ma nel loro insieme, perché tutte rappresentano un'opera d’arte sostanzialmente unitaria per tono ed ispirazione. Questo anche se alcune sono in forma di dialogo (ad imitazione dei dialoghi ironici dello scrittore greco Luciano di Samosata, 121-180 d.C.) ed altre in prosa continuata.

 

Vari documenti  danno la certezza che  il  Leopardi meditasse da tempo sul progetto di queste “Operette”: nel 1818 scrisse che aveva in animo di dare all'Italia un nuovo tipo di prosa in cui “la lingua e lo stile essendo classico e antico paresse moderno e fosse facile ed intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati”; nel 1819 affermò di volere scrivere alcuni “dialoghi satirici alla maniera di Luciano... tra personaggi che si fingono vivi, ed anche volendo, fra animali”; nel 1821 annunciava: «Io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i princìpi fondamentali della calamità e miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, delle civiltà presente» (da qui forse derivò l’idea di definire “morali” le sue future operette); e sempre nel 1821, quasi a voler giustificare per tempo quella che sarebbe stata una tendenza abbastanza diffusa nella sua opera di prosatore, e cioè la rievocazione di “favole antiche”, scrisse: «Io non voglio credere alle allegorie né cercarle nella mitologia o invenzioni dei poeti o credenze del volgo. Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell’anima, che era felicissima senza conoscere e accontentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazione vera  su questa terra, del danno del sapere, della felicità che si conveniva, che unendo questa considerazione col manifesto significato del nome Psiche appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo»; e, ancora più esplicitamente, qualche mese dopo: «Uno dei principali dogmi del cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice... Il principale insegnamento del mio sistema è appunto la detta degenerazione. Tutte, pertanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari ch’io adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto primieramente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale, che non si trova mai nel fatto, fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura tanto più diveniamo infelici... ».

Se però il Leopardi meditava da tempo la composizione delle “Operette”, bisogna riconoscere che a queste pose mano quando il suo “istinto” poetico glielo impose. Ed anche se parla di sistema ed afferma di voler dimostrare  con osservazioni e prove generali la degenerazione della condizione umana, in effetti anche in queste prose dà corpo alla propria immaginazione ed esprime i propri sentimenti: non è cosa assai ardua “rendersi conto della sostanziale unità - come sostiene il Ferretti - che accomuna l’opera poetica e quella in prosa del Leopardi, poeta in quanto filosofo e filosofo in quanto poeta, più conscio forse d’esser filosofo, cioè di aver offerto ai suoi lettori la documentazione di un pensiero originale e coerente, che d’esser poeta: ma, per noi, essenzialmente poeta non meno nella limpida prosa che nei versi concettosi, perché non meno in quella che in questi muove l’immaginazione, cioè fa rivivere in noi il suo mondo interiore”.

La prima delle “Operette Morali” è la “Storia del genere umano” in cui il Leopardi accoglie, trasformandola, la materia di un mito pagano già cantato da Esiodo e da Ovidio. La storia dell'uomo si divide in quattro epoche: nella prima l'umanità viveva in uno stato quasi felice, allietato da vaghe speranze che però non venivano mai ad effetto. Non paghi di questa condizione che, pur essendo quasi beata, non mostrava di poter accrescere il bene, gli uomini si lamentarono e Giove per accontentarli mandò sulla terra sogni e illusioni. Ebbe così inizio la seconda età in cui gli uomini, eccessivamente impegnati nella impossibile realizzazione dei sogni e delle illusioni, scivolarono nella corruzione e furono da Giove puniti col diluvio che li annientò. Si salvarono Deucalione e Pirra cui gli dei assegnarono il compito di ripopolare la terra. Ebbe così inizio la terza età, nella quale Giove

 

«...fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l'impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò  valersi di nuove arti a conservare  questo misero genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto di intrattenere gli uomini, e divertirli [= distrarli] quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità.

Quindi primieramente diffuse  tra  loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure; parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de' beni; parte acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l'acume e le veemenza del desiderio...

E per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli della California... Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficiarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi all'uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l'un sesso verso l'altro, nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano veramente, ma si appetiscono.»

In questa terza  età  gli uomini condussero  una vita abbastanza tollerabile, ma poi si stancarono anche di essa e cominciarono a pretendere di conoscere la verità. Giove, seccato di questa eterna incontentabilità degli uomini, mandò in terra la Verità e rimosse tutti gli altri antichi fantasmi, ad eccezione dell'Amore: sorse così la quarta ed ultima età dell'uomo, quella della infelicità. 

La seconda  delle “Operette” è in forma di dialogo e si intitola appunto “Dialogo d’Ercole e di Atlante”. Anche qui la materia è tratta da una favola mitologica: Ercole, per volere di Giove, si reca da Atlante per aiutarlo a sostenere la sfera terrestre. Questa però non ha più quasi alcun peso e sembra morta o addormentata. Per scuoterla in qualche modo decidono di giocare “a palla”, ma la sfera cade loro di mano e dopo un botto sembra per davvero morta. I due si spaventano: Atlante si affretta a riporsi il carico sulle spalle mentre Ercole corre dritto da Giove a scusarsi del fallo. Inutile dire che l’intenzione del Poeta è di deridere, mettendola addirittura in ridicolo, la sonnacchiosa società contemporanea, ma non certo con la volontà di scherzare su un argomento che invece sentiva molto seriamente e dolorosamente: in effetti egli in questa operetta porta ad effetto quanto affermato qualche anno prima in una nota dello “Zibaldone”:  

«A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualche cosa di serio e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagatelle e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giovi, poco diletta e presto annoia. Quanto più la natura del ridicolo è seria, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto... ».

Forse è bene anche per questa operetta riportarne uno squarcio, in modo da dare un esempio di dialogo leopardiano:

«Ercole: Come può stare  che sia  tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti: ma tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.

Atlante: Della causa non so.  Ma della leggerezza  ch'io dico  te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.

Ercole: In fe d'Ercole, se io  non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è quest'altra novità che vi scuopro? L'altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quando al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [= un benché minimo rumore].

Atlante: Anche di questo non ti so dire altro,  se non ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni rumore sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi porre...

Ercole: Io piuttosto credo che dorma... io voglio che  noi  proviamo qualche modo di risvegliarlo.

Atlante: Bene, ma che modo?

Ercole: Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che  lo finirei di schiacciare, e che io  non ne facessi una cialda [= sfoglia di pasta]; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell'orto: ma le pugna basteranno.»

Durante il gioco la sferuzza cade, ma nessun uomo sembra svegliarsi al gran colpo. Ciò è di pretesto ad Ercole per una sagace battuta: 

«Ercole: E' molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s'è mosso.

Atlante: Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, che io m'aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.»

Nel “Dialogo della Moda e della Morte”  il Leopardi ironizza sulla vanità della prima e la definisce sorella della Morte perché entrambe sono nate dalla Caducità: dice la Moda: «...l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vada a questo effetto per una strada e io per un'altra».

Segue la “Proposta di premi fatta dall'Accademia dei  Sillografi” [=poeti burleschi], in cui, come nella “Palinodia al marchese  Gino Capponi”, si afferma che le nuove scoperte ed invenzioni scientifiche possono accrescere il benessere materiale, ma non liberare l’umanità dai vizi, che sono la fonte maggiore dell’infelicità degli uomini. 

Nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo” (il primo  appartiene alla categoria degli spiriti, di invenzione medievale, che vagavano nell’aria a molestare gli uomini; il secondo alla categoria degli spiriti che custodivano i tesori nascosti nella terra)  si canzona la  pretesa dei filosofi che affermano che l’universo sia stato creato per gli uomini: i due protagonisti del dialogo  si incontrano dopo la  scomparsa dell’uomo dalla terra e ridono sulla vanità degli uomini, ma poi incominciano a discutere se il mondo sia stato creato per i folletti o per gli gnomi. Più saggi degli uomini, però, alla fine concludono che non vale la pena discutere su tale argomento perché forse anche le lucertole ed i moscerini staranno rivendicando ognuno per la sua specie il privilegio di avere il mondo in funzione di loro. 

Nel “Dialogo di Malambruno e di Farfarello” il mago Malambruno evoca il diavolo Farfarello per ottenere da lui almeno un attimo di felicità, ma lo spirito infernale gli dice che nemmeno Belzebù potrebbe concedergli tanto, dato che questo andrebbe contro l'ordine della natura. 

Nel “Dialogo della Natura e di un'Anima” l’Anima chiede alla Natura un po’ di felicità, ma questa risponde che al più può concederle un po’ di gloria, visto che tutti la considerano un gran bene, anche se per l’invidia che produce è piuttosto motivo di dolore che di gioia. L’Anima allora prega la Natura di riprendersi pure tutte le nobili doti che le ha dato e di ricacciarla pure nel più ignobile degli animali, purché la faccia morire presto.

Nelle operette successive continua  la  polemica contro la nuova filosofia e la nuova scienza e contro il progresso in generale: “Dialogo della Terra e della Luna”, “La scommessa di Prometeo”, “Dialogo di un Fisico e di un Metafisico” (nel quale il Fisico si vanta di aver trovato il modo per prolungare la vita dell’uomo e il Metafisico lo accusa di aver danneggiato l’uomo in quanto questi apprezza la vita solo se è fonte di felicità e quindi il Fisico meglio avrebbe fatto a scoprire il modo di rendere felice l’esistenza umana, magari abbreviandola), “Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare” (nel quale si espone la tesi che la vita umana è fatta di dolore e noia e di niente altro). Questo gruppo di operette si conclude col “Dialogo della Natura e di un Islandese” nel quale si attribuisce alla Natura la responsabilità dell’infelicità umana, ma questa si difende dicendo che essa si limita a compiere il “perpetuo circuito di produzione e distruzione” senza minimamente porsi il problema della felicità o infelicità degli uomini.

Segue una lunghissima operetta, “Il Parini ovvero della gloria”, divisa in dodici capitoli. Rifacendosi con molta probabilità alla terza e quarta lezione di eloquenza tenute dal Foscolo a Pavia, il Leopardi afferma che la gloria può essere conseguita più con le azioni che con le lettere, che è comunque difficile da raggiungere e dà certamente più pene che gioie. Però, mentre il Foscolo riteneva che, passata la stagione dell’attuale barbarie, i posteri avrebbero riconosciuto il valore dei poeti, il Leopardi, più pessimisticamente, ritiene che i posteri non saranno punto migliori della società presente e che pertanto ingegno e immaginazione sono beni superflui e dannosi. 

Nel “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie”  il  Leopardi immagina che il grande anatomista olandese (1638-1731), svegliato in piena notte dal canto delle mummie, atterrito dal sospetto che queste siano resuscitate, intraprende con esse una discussione circa le sensazioni che si provano nel momento del passaggio dalla vita alla morte.

Le mummie affermano che tale passaggio non è affatto doloroso, anzi è piacevole perché annienta i sensi gradualmente, fino a spegnerli del tutto, come fa il sonno che ci vince poco a poco, dandoci una benefica sensazione di rilassamento. In questa operetta sono evidenti le influenze di Epicuro, Lucrezio e Cicerone (per citare solo gli antichi). 

C’è poi un’altra lunga operetta, in sette capitoli, “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, in cui il Leopardi, imitando la foscoliana “Notizia intorno a Didimo Chierico”, ci offre una breve ideale autobiografia ed un insieme di precetti di filosofia pratica che riguardano i temi del dolore e del piacere, dei vizi e delle virtù, sulla giustizia, sulla falsa austerità e concretezza degli uomini maturi e sull’imprudenza dei giovani, ecc. Nel primo capitolo, in cui dà notizie biografiche sull’Ottonieri (cioè su se stesso), è assai evidente l’imitazione del Foscolo:

«Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni  ragionamenti notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrata da altri; nacque e visse il più del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdiveneto [entrambi sono nomi fantastici]; dove anche morì poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con parole...

Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto maggiore diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall'ozio, dalla negligenza, e dall'uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all'età moderna, fu del tutto aliena dall'antica.

Nella filosofia godeva di chiamarsi socratico: e spesso, come Socrate, s'intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall'occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e degli altri simili; perché stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto altrettanto, sarebbero morti di fame...

Non lasciò scritta cosa  alcuna di filosofia, né d'altro che  non appartenesse ad uso privato. E dimandandolo alcuni perché non prendesse a filosofare anche in iscritto, come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non sono o non credono di essere parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che,  stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.» 

E come il Chierico foscoliano, anche l’Ottonieri provvide a scrivere il proprio epitaffio: 

«Vicino a morte, compose esso medesimo  questa  inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura:

OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NE' DELLA FORTUNA
SUA»

 

 

Il “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez” anticipa la tematica, poi svolta nella canzone “Al conte Carlo Pepoli” e nell’idillio “La quiete dopo la tempesta”, che la vita non è altro che dolore e noia e che quel tanto di piacere che tocca ai mortali deriva o dallo scampato pericolo o dalla pausa breve che intercorre fra un dolore e l'altro.

Nell’ “Elogio degli uccelli” il Leopardi, per bocca del filosofo Amelio (III sec. d.C.), dice che gli uccelli sono le uniche creature a mostrare di prendere diletto dalla vita: «Sono gli uccelli naturalmente le più belle creature del mondo... Si veggono gli altri animali comunemente seri e gravi; e molti di loro anche paiono malinconici: rade volte fanno segni di gioia, e questi piccoli e brevi;... Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi: e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia».

Nel “Cantico del Gallo Silvestre” l’Autore fa ricorso questa volta ad un’immagine biblica, a quella di “un certo gallo selvatico, il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo”: questo gallo di buon’ora chiama al risveglio gli uomini perché tornino al consueto dolore, dato che è questo il loro destino ed il sonno è concesso dalla Natura solo perché altrimenti sarebbe impossibile vivere in uno stato permanente di sofferenza.

A questo punto il Leopardi inserì  un’operetta scritta nel 1825, “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”, in cui tratta della origine del mondo, della sua esistenza e della sua certa distruzione: è esperienza comune che le cose del mondo, singolarmente considerate, periscono tutte. Esse, quindi, debbono avere un principio. Ma la materia di cui sono composte non perisce mai: deve quindi ritenersi che non abbia un principio e sia perciò eterna. Questa incessante trasformazione della materia è però assai lenta, sicché noi ci accorgiamo della scomposizione dei singoli individui, ma non percepiamo la dissoluzione dei generi e delle specie. Da qui la nostra falsa convinzione che il mondo sia eterno. Ma non è così, perché anch'esso, nella sua totalità, prima o poi si dissolverà, dando origine ad un nuovo caos. Ma poiché nessuna particella della materia può perire, dal caos nasceranno nuove relazioni fra le innumerevoli particelle che costituiscono la materia e quindi un nuovo mondo: «Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl’innumerabili che già furono, e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare». E' chiaro che in questa operetta il Leopardi faccia propria la dottrina dei materialisti e che, ravvisando la rovina del mondo sulla scorta delle ipotesi del Newton e del Laplace, attribuisca tale rovina solo ad una forza intrinseca nella materia stessa, con l’esclusione di ogni intervento di una “mente superiore”. 

Segue l’ultima delle operette scritte nel 1824, il “Dialogo di Timandro e di Eleandro”. I due protagonisti (i cui nomi, secondo un’etimologia greca, significano rispettivamente, “colui che onora il genere umano” e “colui che ha compassione del genere umano”) hanno uno scontro verbale tra di loro perché Timandro accusa Eleandro (che rappresenta il Leopardi stesso) di prendersi gioco degli uomini, pur non facendo mai loro male materialmente. Eleandro ribadisce che, consistendo la vita in uno stato permanente di infelicità, è necessario che l’uomo si convinca ad  accettare tale suo destino senza ricorrere goffamente ed assurdamente a  teorie filosofico-religiose che vogliono  illuderlo del contrario o ingannarlo con false promesse di felicità futura: meglio è accettare virilmente la propria condizione e ridere dei mali comuni, anziché disperarsi. 

Seguono le due operette composte nel 1827, “Il Copernico” e “Dialogo di Plotino e di Porfirio”. Di quest’ultima, che tratta il tema del suicidio, abbiamo già parlato. L’altra è in forma drammatica ed è divisa in quattro scene. Nella prima il Sole annuncia alla Prima Ora che vuole riposare perché è stanco di illuminare la terra: se vuole riscaldarsi, faccia essa il cammino intorno al sole; e se gli uomini sono riluttanti a ciò, dia l’incarico ad un filosofo di convincerli. Nella seconda scena Copernico (il grande astronomo prussiano, 1473-1543, che compì i suoi studi a Bologna), stupito che il Sole tarda a sorgere, si affaccia “in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a levante, per mezzo d’un cannoncello di carta; perché non erano  ancora inventati i cannocchiali”. Tutta la scena è occupata da un suo soliloquio. Nella terza scena Copernico ha un colloquio con l’Ora Ultima e si lascia convincere a seguirla nella casa del Sole per tentare di persuaderlo a desistere dal suo proposito. Nell’ultima scena si svolge il dialogo fra Copernico ed il Sole. Copernico dice che non è facile convincere la Terra ad abdicare al suo ruolo di regina dell’universo ed a mettersi a roteare intorno al sole; che se anche accettasse di farlo, gli altri pianeti pretenderebbero la parità con essa e vorrebbero fiumi, piante, abitatori, ecc., senza dire che poi le altre stelle potrebbero avanzare la pretesa di stare ferme ed essere attorniate pure loro da vari pianeti: insomma si sconvolgerebbe l’ordine attuale dell’universo ed il Sole cesserebbe di essere il secondo nell’universo, dopo la Terra. Il Sole risponde che preferisce essere il primo nel suo sistema anziché il secondo nell’universo, e che comunque non ne fa una questione di dignità, quanto piuttosto una questione di tranquillità. A Copernico non resta che accettare di convincere gli uomini alla nuova disciplina, ma confessa di temere il rogo. Il Sole però gli consiglia come fare per salvare la pelle:

«Copernico: Che io non vorrei, per  questo fatto,  essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perché, accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri, come fa quell'uccello, e di non vedere mai più, da quell'ora innanzi, la faccia della signoria vostra.

Sole: Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando  voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile: ma che tu per conto di quest'impresa, a quel ch'io posso conoscere, non patirai nulla. Se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa. In questo modo, ti prometto che né anche hai da perdere il canonicato.»

Ancora una volta il Leopardi fustiga l’orgoglio degli uomini e la presunzione dei filosofi, con una ironia così sottile e con una grazia discorsiva così elegante, che non ti stancheresti mai di leggere queste pagine.

Concludono le “Operette Morali” due dialoghi, veri gioielli d'arte, entrambi scritti nel 1832. Nel primo, il famosissimo “Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere”, con poche argute battute, il Poeta afferma che la vita che piace non è quella trascorsa, ma quella avvenire, quella cioè che si ignora: il che equivale ad affermare che la felicità non esiste in atto, ma solo nella speranza; nel secondo, “Dialogo di Tristano e di un amico”, il Leopardi, nelle vesti di Tristano, finge prima di ricredersi di tutte le sue pessimistiche passate opinioni circa il destino dell’uomo, ma poi fa sul serio, tanto serio che il De Sanctis disse che il tono qui raggiunto era quello solenne di un testamento, e riafferma per l’ultima volta che la vita è male e solo la morte può salvarci: egli non invidia quelli che avranno lunga vita né i posteri, ma gli uomini passati, che sono già morti.

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