LETTERATURA ITALIANA: ALESSANDRO MANZONI

 

Luigi De Bellis

 


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MANZONI

 
GLI INNI SACRI

Poco dopo l’avvenuta conversione il  Manzoni ideò la composizione di dodici inni sacri che avrebbero dovuto celebrare e illustrare le festività più importanti della Chiesa cattolica. Gli Inni sarebbero dovuti essere un’occasione al Poeta per esaltare la riacquistata Fede, l’effetto da essa prodotto sulla sua coscienza, e, ad un tempo, un tentativo di spiegare al popolo il significato ed il valore, sia religioso che morale e sociale, di quelle festività rievocatrici dei momenti salienti dell’incontro dell’umanità col Cristo Redentore. In effetti, se si eccettua la “Pentecoste”, gli altri Inni falliscono sostanzialmente entrambi gli scopi, perché, come giustamente osserva il Momigliano, «quando il  Manzoni li scriveva, era certo fervidamente religioso, ma c'era ancora in lui l'ardore di chi è nuovo ad un sentimento e, quindi, senza accorgersi, lo falsa con la retorica  o  s'accontenta di un'espressione poco meditata e condensata»; d’altra parte l’eccesso di riferimenti biblici e di figure retoriche certo non poteva giovare ad una facile comprensione degli Inni: «La semplicità - osserva ancora il Momigliano -, in misura diversa, difetta nei quattro minori Inni Sacri; e questo vizio si rivela specialmente nella fredda abbondanza delle figure retoriche».

Il piano dell'opera è rivelato dallo stesso Manzoni nella seconda delle 46 carte in cui egli trascrisse gli Inni di suo pugno. Qui sono indicati i titoli dei dodici Inni e  sono  segnati  con una  crocetta   quelli che andava componendo:

 

 1.

Il Natale

+

5.

L’Ascensione

 

 2.

L’Epifania

 

6.

La Pentecoste

+

 3.

La Passione

+

7.

Il Corpo del Signore

 

 4.

La Risurrezione

+

8.

La Cattedra di S. Pietro

 

 9.

L’Assunzione

 

11.

Ognissanti

 

10.

Il nome di Maria

+

12.

I Morti

 

 

Come si vede, solo cinque Inni furono portati a termine, ma il Manzoni iniziò anche un  sesto, “Ognissanti”, che abbandonò  dopo solo quattro strofe.

Il poeta compose il suo primo Inno, “La Risurrezione”, tra l’aprile e il giugno del 1812: nella prima parte (vv. 1-70) il Poeta rievoca il momento della resurrezione di Cristo che, gettata via la pietra sepolcrale, sale in cielo fra lo sbigottimento delle donne preganti sulla sua tomba e la sinistra paura che assale la  “scolta insultatrice”; gli fanno scorta le anime dei Profeti che Egli è disceso a liberare dal Limbo, mentre il monte di Sion, su cui sorge Gerusalemme, commosso ed esultante per l’avvenimento, si scuote come per un terremoto. Nella seconda parte (vv.71-112) si descrive l’esultanza del mondo cristiano: i sacerdoti sostituiscano i paramenti color viola  con quelli bianchi, le madri facciano indossare ai figli gli abiti della festa e il ricco doni il superfluo della sua mensa a quella del povero perché anch’essa sorrida in questo fausto giorno. Peccato che molti, ribelli alla legge del Signore, non risorgeranno dalle tenebre dell’inferno: solo chi confida in Dio risorgerà nel giorno del Giudizio Universale.

  Il nome di Maria” fu composto tra il novembre del 1812 e l’apri­le del 1813: è l’Inno meno denso di reminiscenze bibliche e liturgiche. Se, infatti, si eccettua l’iniziale racconto della visita di Maria alla cugina Elisabetta, tutto l’inno scorre facile sull’esaltazione del nome della Vergine, venerato in tutte le parti della terra ed invocato dal fanciullo impaurito come dal marinaio in pericolo, e dalla femminetta che a Lei “della sua immortale alma gli affanni espone”: a Lei tutti possono ricorrere perché Ella non distingue il dolore “degl'imi e de' grandi”. Tutti debbono onorare il nome di Maria ed anche gli Ebrei, ricordando che la Madre di Cristo fu della loro stirpe, cantino con i Cristiani: «Salve, o degnata del secondo nome, / o Rosa, o Stella ai periglianti scampo;/ inclita come  il sol, terribil come / oste schierata in campo».

Tra il luglio e il settembre del  1813  fu composto “Il Natale”, che, nelle varie edizioni degli Inni Sacri, occupa il primo posto. Dopo aver ricordato che l’uomo, condannato per l’antico peccato, si giaceva in terra come un masso che, caduto dall’alta vetta, resta immobile a valle senza aver la forza di risalire su, annunzia la nascita del Salvatore nell’umile presepe e l’avvento della nuova speranza.  Il procedimento narrativo usato dal Poeta con frequente ricorso a reminiscenze bibliche e liturgiche, spegne in parte lo slancio lirico iniziale, sicché conveniamo col Busetto, secondo il quale  «ciò che difetta in modo manifesto è la sintesi poetica, poiché i particolari motivi e le varie rappresentazioni, rampollanti dal sentimento meravigliato e devoto del grande evento, non si raccolgono  in  un'organica visione religiosa e umana, né convergono armoniosamente ad illuminare il significato misterioso e solenne dell'avvenimento celebrato...Di questo motivo religioso e umano, fecondo d'alta poesia, il Manzoni ebbe l'intuizione e s’abbandonò, nel primo impeto, all'alto volo: ma poi gli si confuse la visione di questo legame tra il figlio dell'Uomo e il figlio di Dio, attorno a cui s'annoda tutta la poesia del Cristianesimo, e  si perse a commentare il gran fatto a mo' dei sermoni chiesastici e a verseggiare il testo biblico».

La Passione”  fu composta tra il marzo del 1814 e l’ottobre del 1815: rappresenta con ordine e scrupolosa aderenza ai testi biblici la vicenda del Cristo che, venuto al mondo per dividere coi fratelli tapini il funesto retaggio del peccato originale, fu vilipeso, deriso, tradito ed infine ucciso col più atroce ed infamante supplizio: ma quel Sangue versato per la riconciliazione dell’uomo con Dio, discenda sui “ciechi” figli della terra e sia “pioggia di mite lavacro”. L’ispirazione è piuttosto fiacca e lontanissima da quella che animò la lauda di Jacopone da Todi: «Jacopone è così icasticamente nudo - avverte il Momigliano -, divino; Manzoni è spesso così enfatico e riflessivo».

Nel giorno di Natale del 1833 morì Enrichetta Blondel e il Manzoni, che per questa perdita rimase terribilmente affranto, vagheggiò l’idea di riscrivere l’inno sacro dedicato al Natale. Solo due anni dopo si accinse a farlo, iniziando un inno che nel manoscritto porta il titolo “Il Natale del 1833”. L’inno fu abbandonato dopo la quarta strofa.

Egual destino toccò anche all’inno “Ognissanti” che, iniziato nel 1847 - secondo la testimonianza della seconda moglie -, fu interrotto alla quarta strofa.

Un discorso a parte merita “La Pentecoste”, composta fra il giugno del 1817 ed il settembre del 1822.

L’inno si divide in tre parti: nella prima (vv. 1-48) si rievoca l’origine della Chiesa, la “Madre de' Santi”, che è ad un tempo “del sangue incorruttibile / conservatrice eterna” e “campo di quei che sperano”: quando il suo Signore fu tratto dai perfidi a morire sul colle e quando la sua divina spoglia uscì dalle tenebre e salì al trono del Genitore, recandosi in mano il prezzo del perdono, i suoi primi sacerdoti, gli undici Apostoli, se ne stavano rinchiusi nel Cenacolo timorosi della sorte che era toccata al Maestro, ma lo Spirito Santo discese su di loro (appunto nel giorno della Pentecoste, cioè il cinquantesimo giorno dopo la Resurrezione) e li animò ad uscire alla luce per diffondere il Verbo. La seconda parte (vv. 49-80) è dedicata alla spiegazione dei miracolosi  effetti della predicazione apostolica che ha raggiunto tutte le regioni della terra e  si è rivolta a tutti gli uomini, ai liberi ed agli schiavi,  ai ricchi ed ai poveri, alle spose ed alle vergini, annunziando una nuova gloria “vinta in più belle pro­ve” ed una nuova pace “che il mondo irride, ma che rapir non può”.

La terza ed ultima parte (vv. 81-144) è una solenne preghiera allo Spirito Santo perché discenda continuamente, propizio ai suoi cultori ed a chi l’ignora, per rianimare i cuori estinti nel dubbio, per donarsi come premio ai vinti, per consolare gli sventurati e sgomentare le ire superbe dei potenti insegnando loro la pietà: lo Spirito Santo faccia che il povero sollevi lo sguardo al cielo e “volga i lamenti in giubilo” e che il ricco dispensi i suoi beni con volto amico e “con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa”: ed accompagni l’uomo dalla nascita al suo tramonto, fino a brillare “nel guardo errante di chi sperando muor”.

Il significato globale dell’Inno è che l’umanità, redenta dal Salvatore, non ha tuttavia la forza morale di conservare la Grazia: il corpo è debole e le tentazioni della terra sono tante, perciò occorre che il miracolo della Pentecoste, della discesa dello Spirito Santo in soccorso dell’umanità, si rinnovi quotidianamente. Detto significato non si ricava, come di solito negli Inni precedenti, da un discorso lucido quanto freddo, ma da una serie di immagini che zampillano, l’una dietro l’altra, dalla fantasia vivida e commossa del Poeta, che sente profondamente la grande forza rigeneratrice della nuova Fede e vive tuttavia il dramma della fragilità umana, delle perenni ingiustizie sociali, dei travagli che affaticano i miseri ed abbattono i più deboli: che è poi la caratteristica dominante della sua particolare religiosità, tendente a privilegiare gli effetti della nuova Fede sulla realtà quotidiana della storia, prima ancora che quelli relativi al destino soprannaturale.

«Ma quel che distingue la Pentecoste - afferma il Momigliano - è il gaudio dell'anima che si sente legata, insieme con tutti gli uomini, a Dio; il suo abbandono appassionato alla guida suprema; il volo ampio dello spirito che raccoglie con sé, in una sola adorazione, come genuflessa in una chiesa sterminata, tutta l'umanità. Il ritmo che move l'inno dal principio alla fine, è pieno di palpiti; ma ciascuna frase, presa a sé, è per lo più serena, precisamente tornita. Anche qui si rivela il poeta che sa frenare i sentimenti più impetuosi e fissarli nella forma più nitida... ».


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