LETTERATURA ITALIANA: LA LETTERATURA MINORE

 

Luigi De Bellis

 


 

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LETT. MINORE

 
Giuseppe Gioacchino Belli

Nato da Gaudenzio e Luigia Mazio il 7 settembre 1791 a Roma, ivi morto il 21 dicembre 1863. Il suo primo nome era Giuseppe ma, a evitare omonimie, assunse da adulto il quinto dei nomi di battesimo, Gioachino. Quella del padre era per tradizione una famiglia di computisti. Proclamata a Roma la repubblica dai Francesi (1798) che fucilarono un suo parente materno, il generale Valentini, comandante dei Borbonici, il piccolo Belli fugge con la madre a Napoli. Per via sono derubati d'ogni loro avere da un servitore infedele: a Napoli, oltre alla miseria subiscono persecuzioni come parenti del Valentini. Tornato a Roma Pio VII, la famiglia Belli potè riunirsi e il padre ottenne una carica lucrosa al porto di Civitavecchia: ma il Belli vi prende la malaria. Del padre ha lasciato scritto: "Non mai lo vidi sorridermi, rado compiacermi, e sempre sollecito a mortificarmi nell'amor proprio, cioè nel mio lato più sensibile. Ricorderò sempre con orrore il castigo da lui datomi nell'età di sette anni, in pena dell'essermi ritenuto con silenzio un soldo da me trovato sopra la di lui scrivania. Mi rinchiuse, solo, per tre giorni, in una camera oscura". 
In seguito a speculazioni sbagliate e a sperperi, il padre, venuto a mancare nel 1803 per una epidemia che infierì nel porto, lasciò la moglie e i figli in stato di indigenza. La madre, tornata a Roma, si adattò a fare lavori di cucito; si risposò nel 1806 e mori "gravi infirmitate detenta" il 5 ottobre dell'anno dopo. Il Belli che nel 1804 era stato mandato a scuola dai gesuiti al Collegio Romano, fu accolto nella casa dello zio paterno Vincenzo, d'agiata condizione, e in seguito da una zia, sorella dello stesso. "Che io mi risparmi - scriveva più tardi - il rossore di rammentare quelle beneficenze che furono chiamate elemosine". 
Ma dopo breve tempo, lo zio trovò il modo di sistemare il nipote nell'amministrazione di casa Rospigliosi e così il giovane raggiunse una sia pur modesta indipendenza. Cambiò molti uffici (Spogli ecclesiastici, Demanio, segreteria del principe Poniatowsky) e cominciò a conoscere il mondo e anche a godere la sua gioventù; ebbe i suoi facili amori. Di questo periodo di scapigliatura che tanto importerebbe conoscere, non si sa quasi nulla, all'infuori del cupo giudizio moralistico che lo stesso Belli dette di questi suoi anni, definendoli una pagina che avrebbe volentieri strappato dal libro della sua vita. Notevole la sua partecipazione a serate, spettacoli e recite in teatri privati. Sin dal 1806 comincia a scrivere versi italiani. Noto nei circoli dei letterati, viene accolto col nome di Tirteo Lacedemonio all'Accademia degli Elleni che ebbe però breve vita. Nel 1813 fonda con altri l'Accademia Tiberina e vi fa frequenti letture di suoi lunghi componimenti poetici. Aveva appreso il francese in cui scriveva correttamente, e l'inglese; e, inclinato alle scienze, s'interessa di fisica, di chimica, scrivendo su argomenti scientifici numerose !dissertazioni!. 
La frequentazione dell'Accademia gli dà il modo di conoscere Maria Conti, ricca vedova del conte Pichi, la quale s'innamora di lui. Il Belli era sulle prime riluttante all'idea di questo matrimonio, per la troppa disparità delle condizioni rispettive; ma avendogli la Conti ottenuto dal cardinale Consalvi un buon impiego, il poeta si lasciò persuadere alle nozze che seguirono segretamente il 12 settembre 1816, di sera, come si costumava quando uno dei coniugi era vedovo. Questo matrimonio assicurò al Belli un periodo di vita agiata e tranquilla, al quale dobbiamo le condizioni favorevoli in cui scrisse la maggior parte dei Sonetti romaneschi. Ogni estate fa dei viaggi per l'Italia; il suo spirito si apre al soffio di vita nuova che corre la penisola coi primi moti del Risorgimento. Nel 1828, per uno screzio sorto tra i soci della Tiberina e forse da lui provocato, il Belli esce dall'Accademia; e, nel 1830, la creazione del grande poema di Roma si inizia con foga torrenziale. Il Belli aveva più di quarant'anni. Quasi duemila sonetti egli compone con un getto che ha del prodigioso nel settennio 1830-'36. Il declino coincide con la morte della moglie nel '37. Il Belli si ritira con i parenti Mazio: le sue condizioni economiche non sono più floride. Con onestà scrupolosa paga i debiti e riassetta il suo piccolo patrimonio, legato alla vita unicamente da un amore sconfinato per il figlio Ciro. 
Del '37 è il testamento in cui dispone che i Sonetti si dovranno ardere. Intanto ha stretto amicizia con monsignor Tizzani, professore di teologia all'università e canonico generale della Congregazione Lateranense: esortato da questo, rientra nel marzo del '38 all'Accademia Tiberina. Si delinea così un riaccostamento del Belli alla Chiesa, molto facilitato dal Tizzani che nel '39 promuove la pubblicazione di versi italiani del poeta. E' del 1841 la riammissione del Belli negli impieghi pontifici e del '42 la sua nomina a Capo della Corrispondenza: ufficio nel quale, tuttavia, per la sua malferma salute non durerà molto tempo, poiché nel 1845, per diretta volontà del papa, viene giubilato con una buona pensione. Nel periodo dal gennaio '43 al marzo '47 si nota una notevole ripresa della sua musa romanesca, che coincide con le sue condizioni di spirito nuovamente tranquillo. Ma i rivolgimenti del '47 e la successiva proclamazione della Repubblica Romana trovano l'animo del Belli sconvolto e preoccupato, pavido degli eccessi popolari, memore forse dei tragici avvenimenti della sua infanzia. Dopo un ultimo sonetto del febbraio '49, la sua musa romanesca tace per sempre. Nessuno dei suoi immortali sonetti romaneschi fu pubblicato lui vivo, a eccezione di uno all'attrice Amalia Bettini che uscì in un periodico. Gli fu affidato l'ufficio di censore teatrale che esercitò con reazionario vigore. Nel 1850 è eletto presidente annuale della Tiberina; e negli anni successivi il vecchio poeta, chiuso in una lugubre sopravvivenza di se stesso, vive nell'ossessione che i suoi famosi sonetti possano nuocere, anche se inediti, alla riputazione e alla carriera del figlio. Li aveva consegnati, chiusi in una cassetta e con incarico di bruciarli, a monsignor Tizzani, il quale però si guardò bene dall'eseguire.

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