LETTERATURA ITALIANA: LA LETTERATURA MINORE

 

Luigi De Bellis

 


 

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LETT. MINORE

 
La poesia satirica

Questa poesia ebbe tre grandi interpreti dialettali che manifestarono una viva tendenza al realismo: Carlo Porta, milanese, Giuseppe Gioacchino Belli, romano, e Giuseppe Giusti, toscano di Monsummano.

Carlo Porta (1775-1821), illuminista ma favorevole ai romantici nella polemica contro i neoclassici, fu attento osservatore della vita quotidiana e ritrasse, in dialetto milanese, con un tono tutto suo che ad un tempo canzona le proprie creature e suscita per esse un vivo senso di commozione, le miserie materiali e morali degli umili popolani, la meschinità dei preti, la sicumera dei nobili decaduti, l’arroganza dei nuovi ricchi. Più che castigare i costumi del suo tempo, si compiace di descriverli, ma diviene severo quando si tratta di bollare le prepotenze degli oppressori e soprattutto la perfidia dei “falsi liberatori” francesi. Di lui si ricordano soprattutto le novelle “La Ninetta del Verzee”, il “Lament del Marchionn di gamb avert”, le “Desgrazi de Giovannin Bongee” e le succose satire anticlericali “Miserere”, “El viagg de fraa Condutt”, “Meneghin biroeu di ex-monegh” (cioè “servo di ex monache”), ecc.

Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) è il primo grande poeta romanesco. Attento osservatore e sagace descrittore della vita romana del suo tempo, in più di 2200 sonetti ci presenta popolani, aristocratici, prelati di alto e basso rango, funzionari, dei quali sa cogliere e rappresentare in pochi tratti efficacissimi le caratteristiche salienti ed, ovviamente, soprattutto i difetti. La sua satira è più pungente verso i preti corrotti perché è animata da un senso di profonda autentica religiosità (non per niente verso la fine della vita si dedicò con zelo alle pratiche religiose e fu nominato poeta ufficiale della curia papale), una religiosità che gli impose in termini quasi ossessivi il tema dell’aldilà, come appare chiaramente da questo sonetto: 

Cqua non ze n'esce: o ssemo ggiacubini,
o ccredemo a la legge der Ziggnore.
Si cce credemo, o mminenti o ppaini,
la morte è un passo cche vve ggela er core.


Se curre a le commedie, a li festini,
se vva ppe l'ostarie, se fa l'amore,
se trafica, s'impozzeno quadrini,
se fa dd'ogni erba un fasscio... eppoi se more! 

E doppo? doppo vienghieno li guai.
Doppo sc'è ll'antra vita, un antro monno,
che ddura sempre, e nun finissce mai!


E' un penziere quer mai, che tte squinterna!
Eppuro, o bbene o mmale, o a galla o a ffonno,
sta cana eternità ddev'esse eterna! 


(Da qui non si scappa: o siamo giacobini o crediamo alla legge di Dio. Se ci crediamo, o poveri o ricchi che siamo, il passo della morte ci agghiaccia il cuore. Si va a teatro, alle feste, all'osteria, si fa l’amore, si traffica, si ammassano quattrini, si mescola un po' di tutto... ma poi si muore! E dopo? Dopo vengono i guai, viene la resa dei conti. Dopo c’è un’altra vita, un altro mondo che dura in eterno, non finisce mai! E quel mai ti sgomenta. Eppure, nel bene o nel male, in Paradiso o all’Inferno, questa cagna di eternità deve essere eterna!). 

Giuseppe Giusti, nato a Monsummano nel 1809 e morto precocemente di tisi a Firenze nel 1850, è l’altro importante poeta dialettale della prima metà dell’Ottocento. Liberale, fu però successivamente moderato, tanto che, nella rivoluzione del '48, pur partecipando al nuovo regime in qualità di deputato legislativo, auspicò ben presto il ritorno del Granduca, preoccupato della svolta a sinistra che il nuovo governo intendeva effettuare. Quando però il Granduca tornò con l’appoggio delle armi austriache, deluso si ritirò a vita privata. Nella quale praticamente condusse la maggior parte della propria esistenza, senza nemmeno professare l’avvocatura e vivendo di rendita. Nei suoi “Scherzi” egli riflette questa sua mentalità, questa aspirazione alla vita tranquilla, un po' comune alla borghesia toscana e nettamente in contrasto con le idealità di quelle poche personalità eroiche che meditavano sui destini dell’Italia unita e indipendente, ma anche operavano fieramente, a rischio della vita, per portare a compimento il programma risorgimentale. Ecco perché la sua polemica politica fu moderata e intrisa di un diffuso, anche se superficiale, umanitarismo che giunge a fargli sentire pietà anche per l’esercito oppressore. Nella sua più celebre poesia, “Sant’Ambrogio”, racconta d’essere entrato un giorno nella cattedrale di Milano e di aver ascoltato un coro di soldati “settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati”, messi in Lombardia dall’imperatore d’Austria “a far da pali”. Le note di quel coro (“O Signore, dal tetto natio” da “I Lombardi alla prima crociata” del Verdi) erano così toccanti e poi cantate con sincera partecipazione, che per un po' conciliarono l’animo del poeta con quegli stranieri. Ben presto, però, l’avversione verso di loro tornò a farsi sentire, quand’ecco che “da quelle bocche che parean di ghiro, / un cantico tedesco lento lento / per l'aer sacro a Dio mosse le penne”: era una preghiera, ma sembrava un lamento, un canto di nostalgia di cose care abbandonate per venire in una terra straniera, fra gente che li odia, “strumenti ciechi d'occhiuta rapina”. Il Poeta si commuove e manca poco che abbracci un caporale! In effetti il Giusti col suo buon senso vede giusto quando afferma: 

e quest'odio che mai non avvicina
il popolo lombardo all'alemanno,
giova a chi regna dividendo e teme
popoli avversi affratellati insieme.


La realtà della politica imperialistica austriaca era proprio questa, ma francamente è fuori luogo suscitare un senso di pietà e di fratellanza verso un esercito oppressore che, sia pure costretto e con suo danno, faceva valere la forza delle sue armi contro gl’Italiani e costituiva pur sempre il nemico da combattere e da respingere fuori del territorio nazionale.

Ma il Giusti fu modesto di slanci generosi non solo per quanto attiene al sentimento patriottico: il suo atteggiamento nei confronti della vita in generale fu di corto respiro e si esercitò entro ristretti orizzonti. Il pregio maggiore della sua arte sta nella comicità caricaturale con cui disegna macchiette e marionette umane, mettendo soprattutto alla berlina sovrani inetti e sudditi impotenti. In “Il re travicello”, ad un popolo di rane che si lamenta per aver avuto come re un travicello: 

Un tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato,
oppur ci minchiona:
sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello.


il poeta lancia una solenne ammonizione: 

Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti
è fatto a pennello
un Re Travicello!
2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it