IL NOVECENTO ITALIANO : UGO BETTI

 

Luigi De Bellis

 
 
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Ugo Betti, nato a Camerino nel 1892 e morto a Roma nel 1953, iniziò giovanissimo la sua attività letteraria: è del 1910 il poemetto Le nozze di Teti e di Peleo, cui seguì nei primi anni Venti una raccolta di liriche, Il Re pensieroso. Si dedicò anche alla narrativa (Caino, 1928; Le case, 1933; La pietra alta, 1948), mala sua produzione più importante fu quella teatrale, iniziata nel 1926 con La padrona. Sono parecchi i drammi, nei quali ha espresso con suggestivi risultati la sua visione della vita sostanzialmente pessimistica e tuttavia sottesa da una severa religiosità: Frana allo Scalo Nord (1936), Ispezione (1947), Corruzione al Palazzo di giustizia (1949), Delitto all'isola delle capre (1950). Betti per molti anni fu magistrato, e questa esperienza trova trascrizione nei suoi drammi migliori, impostati su un'inchiesta, su un processo che mira a cogliere una verità e una responsabilità ben più profonde di quelle contemplate dalle leggi umane.

Frana allo Scalo Nord ha la struttura di un'inchiesta giudizíaria: «l'azione si svolge in una città straniera, fra gente del luogo ed emigrati di vari paesi. Ai nostri giorni». AI Palazzo di Giustizia arriva l'Accusatore generale Goetz, per controllare e concludere il procedimento giudiziario che il consigliere Parsc ha avviato per individuare i responsabili di una frana che si è verificata in un cantiere durante la costruzione di uno scalo ferroviario e che ha provocato parecchie vittime.
Da frammentarie e confuse testimonianze sembra che la maggiori responsabilità siano del costruttore Gaucker, che però si difende e le addebita alla Ferroviaria, la società da cui aveva ricevuto l'appalto dei lavori. Ma via via il processo si complica e si amplia e non riguarda più un fatto specifico e le singole persone, ma il senso della vita di ognuno di loro, le frustrazioni, i fallimenti, le miserie del quotidiano. Attraverso un accumularsi di particolari e di sfumature i personaggi arrivano a una nuova consapevolezza: di essere travolti, tutti, da "un ingranaggio", di esserci tutti dentro, di essere tutti corresponsabili. Appaiono alla fine a dialogare coi vivi i morti, le vittime. Sia loro sia gli altri che intervengono nel dialogo sentono ora la loro vita come un destino di sofferenza, prendono coscienza di essere stati nient'altro che «poveri stracci». Il giudice Parsc è impossibilitato ad emettere «una condanna» e conclude: «Noi dichiariamo che questi uomini pronunciarono, pronunciano essi stessi ogni giorno con la loro vita, con la loro pena, la giusta sentenza; trovarono essi stessi la loro certezza. E che forse dalle mani del giudice essi dovranno avere un'altra cosa, più alta: la pietà. La pietà». E a queste parole tutti «con voce sommessa» rispondono (è la conclusione del dramma) «Pietà... Pietà».

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2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it