PANORAMA ITALIANO: FINE SECOLO ED ETA' GIOLITTIANA

 

Luigi De Bellis

 
 
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Negli ultimi decenni dell'Ottocento nel contesto europeo si verifica una serie di trasformazioni dell'assetto economico-sociale, delle quali partecipa naturalmente anche l'Italia. Un dato fondamentale è il passaggio dal cosiddetto capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico o oligopolistico, che comporta un processo di concentrazione delle strutture produttive, di un determinato settore e quindi il costituirsi di gruppi di pressione e di interessi che innescano un'intensa competizione tra gli stati per la conquista sia di materie prime sia di nuovi mercati. Da queste solide motivazioni economiche nascono miti di supremazia nazionale, di conquista (e quindi la teorizzazione dello "Stato forte"), di "missione dell'uomo, branco", di violenza e di avventura. Dall'idea di nazione, che nella prima metà dell'Ottocento era stata intesa come legittima affermazione della propria identità nazionale, si passa ora al nazional-imperialismo e al colonialismo, al disprezzo dell'egualitarismo democratico, all'esaltazione della grande personalità al vagheggiamento dello Stato forte. In questa complessa trasformazione della società europea si intrecciano condizionamenti economici e ideologie, si influenzano vîcendevolmente miti letterari e comportamenti degli individui e dei gruppi.

In Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento la costruzione di uno Stato unitario pone problemi complessi: la repressione dei malcontento meridionale sfociato nel banditismo; il pareggio del bilancio raggiunto con una tassazione spesso esosa; l'organizzazione scolastica e l'unificazione linguistica; l'avanzare del "quarto stato" che si esprime ora in jacqueries e disperate proteste ora nelle prime organizzazioni mutualistiche e socialiste; l'inserimento del nuovo Stato nel gioco della politica europea. A confronto con le speranze e le idealità risorgimentali la realtà nazionale di fine Ottocento appare di una grigia mediocrità, la vita parlamentare immiserita nei giochi trasformistici. Da ciò sorgono molteplici atteggiamenti variamente legati però fra di loro: la cosiddetta delusione risorgimentale (già presente in Carducci e in Verga); il disprezzo per i principi e la pratica democratico-parlamentare; il vagheggiamento di uno Stato forte (Fogazzaro e D'Annunzio se ne faranno banditori); l'esaltazione delle grandi personalità e il conseguente disprezzo per la "plebe". Siamo di fronte a una revisione di fondo della cultura precedente, dei princìpi - in sintesi, il positivismo - che nel corso del secolo avevano ispirato l'ascesa della borghesia. Questa revisione o meglio questa crisi è d'altra parte riscontrabile in tutta la cultura europea. Le certezze positivistiche, la fiducia nella scienza liberatrice dall'ignoranza, dalla malattia, dalla miseria, l'assoluta validità dei metodo scientifico, fa convinzione che il progresso sia inarrestabile ora vengono contestate; e il pensiero filosofico e scientifico sottolinea la relatività della conoscenza scicltifíca (Einstein), rivela l'incidenza, nei cemportamenti dei singoli e delle collettività, di componenti oscure e di pulsioni che sfuggono alla consapevolezza (Freud), e tende alla demistificazione dei valori fondati sul progresso scientista e sull'etica borghese che ora vengono considerati falsi valori (Nietzsche). Questo orientamento fondamentalmente razionalistico percorrerà a lungo l'Europa generando inquietudini e ricerche, inciderà profondamente nelle manifestazioni artistiche sia, per le tematiche sia per le tecniche, e costituisce per così dire una "cifra" dell'arte novecentesca.

In Italia questo clima novecentesco è ben evidente nel quindicennio giolittiano, nel corso del quale prende avvio un processo di intensa industrializzazione che comporta una serie di problemi: si accentua il divario fra Nord e Sud; si intensifica lo scontro sociale per il costituirsi di organizzazioni politiche di operai e braccianti; si diffondono i miti della competitività, interna e internazionale, del nazional-imperialismo, della conquista e dello Stato forte. Lucidamente consapevole del nuovo clima, Giolitti tenta un coraggioso disegno politico: quello di integrare nell'anemico stato liberale italiano le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazione, un blocco, tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno, che nei primi tempi sembrava destinato al successo, fallisce, in quanto egli si trova a dover combattere con un'opposizione di destra e con una di sinistra. A destra le esaltazioni nazionalistiche, la teorizzazione dello Stato forte, la polemica contro una politica "pacifista" e imbelle assumono una sempre più virulenta consistenza. Si distinguono in queste posizioni - collegate anche ai desiderio di fare tabula rasa dei valori dei passato, a un'inquieta disponibilità ai "nuovo" - le riviste fiorentine e i futuristi: su «Hermes», sul «Leonardo», sul «Regno», nelle serate futuriste, folti gruppi di intellettuali esaltano l'avventura, il rischio, la missione africana dell'Italia, contaminando la dannunziana lezione di una vita d'eccezione col torbido esplodere di posizioni irrazionalistiche e con gli interessi espansionistici della grande industria. Da sinistra Giolitti viene attaccato come gestore dello Stato "borghese", e la polemica trae alimento dall'affermarsi, in campo socialista, di una corrente massimalista e di una mitologia della violenza rivoluzionaria che trovano alimento nella ferrea logica del processo di industrializzazione ed espressione esemplare negli scritti di George Sorel, che proprio in quegli anni si diffondono in Italia.

Con un'abile politica pendolare Giolitti riesce a tenersi in equilibrio tra le due opposizioni: ora combatte il potere delle concentrazioni bancarie, ora fa concessioni agli interessi industriali e alle mitologie nazionalistiche con l'impresa di Libia, ora con le leggi di tutela del lavoro e con la riforma elettorale realizza fondamentali aspirazioni socialiste. Ma le lotte per l'intervento e il prevalere - in dispregio della volontà del parlamento - delle forze nazionalistiche, del mito della guerra come "sola igiene del mondo", degli interessi della grande industria e degli intrighi della monarchia portano l'Italia nella prima guerra mondiale e pongono fine all'egemonia di Giolitti.

Prima di passare in rassegna la fisionomia letteraria di questa età, sarà utile soffermarsi sulle caratteristiche che ha assunto in questo periodo il "mercato delle lettere". Molteplici fattori economici, sociali, culturali e ideologici determinano in questo periodo un allargamento del pubblico dei lettori, che via via comincia ad includere anche i ceti subalterni. Si tratta di fattori che interagiscono fra di loro: la costruzione dello Stato unitario e l'unificazione amministrativa comportano la diffusione di una burocrazia e l'adozione di una lingua nazionale, ma per diffonderla bisogna lottare contro l'analfabetismo e quindi avviare un processo di larga scolarizzazione. Sono processi lenti, specie per quanto riguarda le classi subalterne, ma che già nell'età gîolittiana danno frutti. Si aggiunga a questo - ma qui il discorso riguarda gli strati borghesi - l'influenza che esercita D'Annunzio contaminando la letteratura con la mondanità, intuendo che il giornalismo può essere un veicolo per accostare il lettore alla letteratura e che il romanzo è il genere più adatto all'allargamento del pubblico potenziale. Si intreccia con questi fattori - causa ed effetto insieme l'industria editoriale che sollecita e accontenta insieme i bisogni di un pubblico che lentamente ma costantemente si allarga: te case editrici Sonzogno e Treves con la loro produzione (popolare e divulgativa quella di Sonzogno, più borghese e rivolta alla narrativa contemporanea quella di Treves) testimoniano che in età giolittiana si può già parlare di una produzione di consumo. di una letteratura di massa.

Passando ora agli aspetti specificamente letterari, la profonda crisi epocale di cui abbiamo parlato all'inizio dà luogo a quella fase dell'arte e della cultura europea che viene definita unitariamente decadentismo. ma che presenta una gamma assai variegata di soluzioni in rapporto alle singole aree nazionali e ai singoli autori. Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un cupo senso di stanchezza, una lucida consapevolezza di estraneità alla vita normale, di "inettitudine", un'insuperabile sfiducia nell'agire umano, quasi un'ebbrezza di rovina, dovuta alla coscienza di essere degli epigoni, la voce di un'età che vive il suo tramonto (era stato Verlaine il primo a paragonarsi, in un verso che ora diventa un emblema, all'impero romano sul finire della sua decadenza). Questa coscienza di epigoni e questa predilezione per le epoche in disfacimento costituiscono un terreno comune a tanti artisti del decadentismo, dal quale deriva tutta una serie di temi ricorrenti: gusto delle esperienze "estreme" e ricerca della lussuria; stanchezza ed estenuazione dei sensi; femminilità ambigua e perversa (da Salomè - rappresentata dal pittore Moreau, da Huysmans e da Wilde - a tutte le donne che popolano la prosa e la poesia dannunziana); contemplazione della morte delle cose e della società. Nato da una frattura fra l'artista e la società, che col progressivo affermarsi della civiltà di massa era destinata ad accentuarsi, il decadentismo si esprimeva anzitutto nell'enfatizzazione della diversità (da Huvsmans a D'Annunzio), nell'angoscia della solitudine o dell'inconoscibilità del reale (Pascoli, Pirandello), nel privilegiamento della "malattia" rispetto alla "salute" (Mann, Svevo), nel compiacimento vittimistico.

Ma c'è un'altra espressione, sia pure minoritaria, del decadentismo: la coscienza della diversità, l'assenza di legami con la comunità poteva costituire la premessa per lo scatenarsi di uria volontà di affermazione individualistica, per la celebrazione delle valenze vitalistiche e irrazionali, per la supremazia dell'uomo d'eccezione, (lei superuomo (che Nietzsche teorizzava in quegli anni) sulla "plebe".

Nella letteratura italiana il decadentismo trova parecchie - e ovviamente differenziate - espressioni. Pascoli, deluso nelle iniziali speranze laiche di estrazione positivistica fil progresso scientifico e il socialismo), smarrito di fronte al mistero del mondo e al dolore dell'uomo, tenta di carpire alle cose di ogni giorno il loro senso riposto, ne esprime il mistero ricorrendo al simbolo, scruta e si scruta con voluttà di pianto. La posizione di D'Annunzio è più vistosa ma meno profonda: il suo decadentismo saturo di compiacimenti estetizzanti è soprattutto - ma non sempre - giocato sul versante attivistico e diventa celebrazione di vitalistica ferinità, mito del superuomo, culto del bel gesto. In Pirandello la sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà, il relativismo gnoseologico approdano alta coscienza della solitudine e dell'incomunicabilità dell'io, al frantumarsi della personalità: nella rappresentazione che nella narrativa e nel teatro egli dà della vicenda umana c'è posto per l'assurdo e il grottesco, ma anche per una dolente pietà della condizione-umana, per la «pena di vivere cosi». Sul fallimento, sullo scacco, sulla "senilità" come inettitudine alla vita normale, sulla malattia è centrata la narrativa di Svevo, che nella Coscienza di Zeno stempera il suo pessimismo in una distaccata e superiore ironia.

Sono, questi autori, espressioni esemplari di un'età di crisi e di profondo malessere, che sarebbe durata ben oltre il quindicennio giolittiano e che però trova una sua ulteriore espressione - non intimistica e riflessiva ma aggressiva, urlata, nichilistica - nelle avanguardie: l'espressionismo, che si sviluppa nell'area germanica già in questo periodo e troverà significative espressioni nell'immediato dopoguerra, è una violenta reazione al buonsenso e all'ottimismo borghese, è «la poetica della vita tramontata; violentata, della disperazione, della morte e dell'assurdo che ne hanno preso il posto» (Bonesio) e predilige forme espressive "urlate", grottescamente deformanti, violente, dissonanti; il futurismo, l'unica avanguardia italiana, intende fare piazza pulita delle tematiche e delle modalità dell'arte del passato, ripudia le complicazioni intimistiche e i "chiari di luna", esalta l'aggressività, le valenze istintuali e vitalistiche, la velocità, e propugna un radicale scardinamento delle modalità espressive tradizionali (è difficile comprenderlo senza collegarlo al clima di aggressiva competitività conseguente allo sviluppo capitalistico della società italiana); il dadaismo; sorto a Zurigo nel 1916, si fonda sull'alogicità, sul nonsense, sulla provocazione fine a se stessa: ma questa vocazione distruttiva, nichilistica, finisce col diventare un vicolo cieco che non dà adito ad alcuna realizzazione.

Se ora rivolgiamo l'attenzione ai singoli generi letterari, non sarà difficile cogliere i segni di quel processo di superamento della tradizione, di inquieta ricerca di novità che caratterizza quest'epoca. Nell'ambito della produzione poetica Pascoli e D'Annunzio, di contro alla poesia tradizionale che aveva avuto in Carducci il suo ultimo aulico esponente, danno inizio al rinnovamento ma con vistose differenze: Pascoli crea il nuovo nel rispetto delle strutture metriche tradizionali, dissolvendole dall'interno, spezzando i ritmi tradizionali in una musica nuova, ricca di pause e di silenzi, e col ricorso, da un lato, agli effetti fonosimbolici e, dall'altro, al simbolo, cerca di dar voce al mistero che ci circonda; D'Annunzio supera le strutture metriche tradizionali, adotta con varietà il verso libero, dà voce con una lingua ricercata e fastosa all'inesauribile trama di rapporti tra l'uomo e il mondo della natura. Al rinnovamento, alla destrutturazione delle forme tradizionali contribuiscono in vario modo i futuristi più con enunciazioni di poetica che con durevoli realizzazioni di poesia (ma L'Allegria di Ungaretti si spiega solo tenendo conto dell'esperienza futurista) e i crepuscolari con l'adozione di un linguaggio antiletterario o con un'abile contaminazione di letterario e di parlato e con l'ironico trattamento a cui sottopongono strutture metriche e rime. Intanto, esiti di grande interesse e suggestione raggiungono Clemente Rebora con le sue asprezze espressionistiche e Dino Campana con la sua dimensione favolosa e onirica. Saba realizza già risultati notevoli, ma la sua fisionomia si chiarirà meglio in seguito.

Meno ricco il panorama della narrativa, dove per l'ampliamento del pubblico al quale si è accennato prevale una produzione di intrattenimento, di consumo (Guido Da Verona volgarizza in accattivante erotismo le tematiche dannunziane): ma due opere fondamentali sconvolgono le modalità narrative tradizionali: le novelle e soprattutto Il fu Mattia Pascal di Pirandello e l'antiromanzo il codice di Perelà di Palazzeschi.

Nella produzione teatrale, accanto alla persistenza di modalità veristiche o naturalistiche, sono presenti indicazioni e realizzazioni orientate verso il nuovo. Il superamento del teatro naturalistico avviene o attraverso una particolare attenzione dedicata ai valori poetici del testo (è il cosiddetto "teatro di parola" o "teatro di poesia", di cui D'Annunzio è in Italia il maggior esponente) o attraverso l'utilizzazione di suggestioni che derivano dalle avanguardie (è in parte il caso del cosiddetto "teatro del grottesco").

L'autore di rivoluzionaria originalità è Pirandello, la cui definitiva affermazione si avrà negli anni Venti, ma che già negli anni 1916-18 ha dato, fra l'altro, due testi fondamentali della sua produzione: Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare).

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