IL NOVECENTO ITALIANO: EUGENIO MONTALE

 

Luigi De Bellis

 
 
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Un testimone del nostro tempo

Nella riservatezza talora scontrosa, nell'appartata, ma acuta e intransigente, osservazione critica del proprio tempo e della condizione umana in generale stanno le cifre forse più significative della biografia di Eugenio Montale, uno degli intellettuali italiani del Novecento che più concordemente, ancor vivi, sono stati elevati dalla critica e dal pubblico al ruolo di classici del nostro tempo.
L'infanzia e la giovinezza di Montale, (nato a Genova nel 1896) di agiata famiglia borghese, sono caratterizzate da studi irregolari, dalla passione per il canto (ne interromperà lo studio perché, dirà poi, «d'insonnia non mi dava tregua», cioè perché non si sentiva la tempra di chi quotidianamente affronta il pubblico) e soprattutto da un particolarmente ravvicinato contatto con la propria terra d'origine, Genova e Monterosso. I paesaggi liguri sono elementi essenziali della sua prima stagione poetica, che, dopo qualche incerta prova, può farsi incominciare nel 1916, data della prima stesura di Meriggiare pallido e assorto, il più remoto degli Ossi di seppia. Subito dopo Montale partecipa, come volontario, alla prima guerra mondiale. Ma a differenza di altri scrittori-soldati (ad esempio Ungaretti e Gadda) questa esperienza non lascia che deboli tracce nella sua opera. Il trauma che lo sfinge a scrivere è tutto esistenziale e intimo: « mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro...» , «avevo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava».
Questo senso di una profonda estraneità alla vita e al mondo sta all'origine della sua poesia: «pensai presto, e ancora penso, che l'arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che s'incarica di sfuggirgli».

Fra due guerre

Al ritorno dal fronte, da Genova, dove risiede e frequenta Sbarbaro e altri, Montale prende contatto con l'ambiente liberale torinese, che in Gobetti ha il suo organizzatore e in Debenedetti e Solmi alcuni personaggi di spicco. Collabora come critico letterario al «Baretti» e ad altre riviste (è tra i primi ad accorgersi di Svevo) e pubblica su «Primo Tempo» alcuni versi che danno corpo alla prima raccolta, Ossi di seppia, che vedrà la luce per le edizioni Gobetti nel 1925. L'esperienza torinese vale anche come scuola di antifascisrno: Montale nello stesso anno degli Ossi firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti del Croce. A questa scelta di campo politico e di rigore morale il poeta non verrà mai meno. Alcuni versi delle sue prime poesie, poi, «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe / ... / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», e l'intera raccolta con il suo programmatico rifiuto di ogni eloquenza, di ogni fede o mitologia positiva e di ogni facile consolazione diventano un emblema di una scelta etica e politica chiara e precisa e, in quegli anni, difficile.

Montale a Genova non ha un'occupazione che gli consenta l'indipendenza dalla famiglia. La cerca a Milano, senza fortuna, e poi a Firenze, dove si trasferisce nel 1927, prima impiegandosi presso l'editore Bemporad, poi, dal 1929, dirigendo il Gabinetto Vieusseux, una celebre biblioteca della città. Terrà l'incarico fino alla fine del 1938, quando verrà licenziato perché inviso al regime (no"veva mai voluto prendere la tessera del Partito fascista). A Firenze frequenta gli ambienti letterari (le riunioni del mitico caffè delle Giubbe Rosse e del gruppo di « Solaria») e conosce Gadda, Vittorini, De Robertis, Contini, Praz e molti altri. Negli ultimi anni d'anteguerra collabora alle riviste dell'ermetismo fiorentino, «Letteratura» e «Campo di Marte», i cui giovani rappresentanti - Luzi, Bigongiari, Bo e altri - lo sentono e lo leggono come un maestro. Ma il rapporto di Montale con l'ermetismo rimarrà, sul piano poetico, tangenziale, anche se la poesia delle Occasioni (1939) che in questi anni viene componendo, per certi temi (l'assenza, l'attesa) e certa oscurità suggestiona non poco gli ermetici. Ma se quella degli ermetici sarà una poetica della parola, quella di Montale è una poetica di cose e oggetti. Molto più decisiva per lui è la lettura dei poeti europei e in particolare di Eliot, che conosce grazie a Praz. Montale traduce qualche lirica di Eliot e questi pubblica su «Criterion» Arsenio. Anche in questo caso, però, la ricerca montaliana procede per linee di sviluppo in gran parte autonome e, date le premesse, quasi obbligate.

La "bufera"

Molto più della prima, incide sulla poesia montaliana la seconda guerra mondiale. È, come il fascismo, una catastrofe che conferma e accentua il senso di disagio esistenziale, l'originaria sfiducia nel reale e nella storia, da sempre costitutivi della sua lirica. Montale pubblica poco prima del 25 luglio 1943 in Svizzera, affidandole a Contini, le liriche di, Finisterre (poi confluite nella terza raccolta, La bufera e altro del 1956), riflesso personale di quella "bufera", con un'epigrafe contro i tiranni che la rendeva allora assolutamente impubblicabile in Italia. Dopo la liberazione di Firenze partecipa per gli affari culturali al CLN toscano. Nel 1945 si iscrive, per poco, al Partito d'Azione e fonda il quindicinale «Il Mondo». Ma la sua lirica non può e non vuole ridursi a poesia politica: di fronte al fascismo e al nazismo - scriverà - « io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte», assai più vasto. Il disagio espresso dalla poesia montaliana non è solo storico ma anche e forse soprattutto cosmico, investendo la condizione umana nella sua totalità.

In attesa che la sardana si faccia infernale

Da qui si può muovere per spiegare le ragioni che, dopo la guerra e la breve militanza politica, hanno indotto Montale a far parte per se stesso. Il suo credo negativo lo porta a rifiutare la militanza nelle opposte chiese rossa e nera (Piccolo testamento), comunista e cattolica, che dividono l'Italia del dopoguerra. Il mondo della guerra fredda, minacciato da un conflitto atomico (la «Bardana infernale»), la società europea avviata verso un insensato sviluppo tecnologico e consumistico ripropongono in lui ancor più vivo e acre il senso di un rapporto disarmonico con la realtà. Archiviata anche la fase delle ansie metafisiche, pubblicata nel 1956 La bufera e altro, Montale tace. Tace come poeta. Perché dal 1948, trasferitosi a Milano, vive facendo il giornalista, come osservatore culturale per il «Corriere della Sera» e poi come critico musicale per il «Corriere d'Informazione». Le prose giornalistiche (narrative e saggistiche) a cui affida le proprie nuove riflessioni, spesso ironiche e caustiche, più tardi vedranno la luce in diverse importanti raccolte, soprattutto Farfalla di Dinard e Auto da fè.
Quando Montale riprende a scrivere versi, negli anni Sessanta, la sua poesia appare profondamente mutata nelle forme e nei toni (spesso ironici, satirici, sarcastici nei confronti dell'insensatezza generale) e sorprende tutti. Dopo i versi lentamente e parcamente distillati in precedenza, il nuovo Montale si mostra anche assai prolifico, in ragione di una poesia spesso epigrammatica, da appunto su fogli volanti, in cui si dà più spazio alla contingenza storica e meno al simbolo: escono, tra il 1971 e il 1980, Satura, Diario del '71 e del '72, Quaderno di quattro anni e Altri versi. Ma non viene meno alla propria natura profonda: in forma nuova tocca i temi di sempre. Anzi, una delle spinte decisive a riprendere la penna sembra venire dalla morte della moglie, Drusilla Tanzi, la "Mosca", avvenuta nel 1963, che lo rimette tragicamente di fronte a una situazione tante volte oggetto di poesia, l'assenza della donna. A partire dagli anni Cinquanta giungono al poeta importanti riconoscimenti, tra cui la Legion d'onore, la nomina a senatore a vita (1967), cittadinanze onorarie, lauree honoris causa e infine nel 1975 il premio Nobel. Montale, ormai uomo pubblico di primo piano e pur sempre appartato e scontroso, muore a Milano nel 1981, poco dopo l'uscita dell'edizione critica della sua Opera in versi. Al funerale presenziano oltre quarantamila persone.

Ossi di seppia

Il contesto


Gli Ossi di seppia forse non saranno l'opera montaliana migliore in assoluto, che molti individuano nella Bufera, ma sono un'opera che ha profondamente inciso nella cultura novecentesca e certo la raccolta montaliana più popolare. Con gli Ossi Montale entra di diritto e precocemente nel novero di quei poeti del Novecento che in forma esemplare e durevole hanno dato voce al disagio dell'uomo contemporaneo, configuratosi, dopo gli anni del decadentismo estetizzante, sempre più spesso come dolorosa inettitudine alla vita (da Svevo a Pirandello, da Hofmannsthal a Eliot).
Gli Ossi di seppia vengono composti fra il 1916 e il 1925 (poi qualche aggiunta porta all'edizione del 1928). Nella poesia italiana, dopo l'impressionismo e il simbolismo di Pascoli e D'Annunzio, odiosamati maestri della lirica nuova, si sono affermate e presto esaurite le esperienze di futuristi, crepuscolari e vociani. In tale contesto letterario vede la luce la poesia montaliana. D'Annunzio in particolare è per Montale un idolo da combattere ma anche da "attraversare", come ha fatto Gozzano, perché tra i padri è il più ingombrante e il più innovatore. Nell'attraversarlo e superarlo per Montale sono poi esperienze decisive l'ironia gozzaniana, il minimalismo antieloquente dei crepuscolari e il moralismo e l'espressionismo di alcuni vociani (Sbarbaro prima di altri). Viceversa la sua inclinazione alla discorsività risulta «agli antipodi del frammentismo ungarettiano» (Bonora).

La poetica

Basta leggere, I limoni, il testo-chiave della poetica montaliana, per cogliere sia i debiti sia l'originalità montaliana. In polemica aperta con i «poeti laureati» (cioè con D'Annunzio) che si muovono «fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti», Montale si colloca fra i poeti «poveri», riecheggiando tante dichiarazioni antiauliche dei crepuscolari (Corazzini; « Io non sono un poeta», « Io amo la vita semplice delle cose») ed elegge i semplici e comuni «limoni» come piante tutelari della sua poesia. Ma l'operazione montaliana è subito più sottile, più in linea con quella di Gozzano che per attraversare D'Annunzio aveva fatto «cozzare l'aulico col prosaico» (Montale). Di fatto, accanto a limoni e canne, nella poesia montaliana entrano pure «bossi ligustri o acanti», «l'ellera che guarda i suoi corimbi» (Ripenso il tuo sorriso) e alcune altre piante dai nomi poco usati. E vi entrano un lessico e infiniti stilemi arcaizzanti, aulici e dannunziani, accostati a produrre "scintille" con lessici e stilemi del linguaggio discorsivo comune e dell'umile quotidianità (si vedano a titolo d'esempio I limoni stessi e Falsetto).

Disarmonia e linguaggio

Comunque la polemica antidannunziana e la scelta antieloquente, pur nel necessario "attraversamento", mostrano subito il loro risvolto ideologico ed esistenziale. Non è possibile una poesia eloquente perché non ci sono verità positive da affermare, da cantare a voce spiegata. Se la condizione umana è quella desolata disarmonia col mondo che Montale subito percepisce, la poesia dovrà farsi veicolo immediato di essa e pronunciare al massimo «qualche storta sillaba e secca come un ramo» (Non chiederci la parola, altro essenziale documento montaliano di etica e poetica). Di qui anche la predilezione per forme scabre e aspre, correlativi formali di quel disagio che non di rado attingono moduli dall'espressionismo vociano e suggestioni addirittura dall'esperienza petrosa di Dante: «Vorrei sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi», «Volli cercare il male / che tarla il mondo, la piccola stortura / d'una leva che arresta / l'ordegno universale», «ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi», «Arremba su la strinata proda»... Ogni lirica degli Ossi fornisce esempi analoghi. E si possono ricordare parole tematiche significative come arsura, arsicce, aride, sterpi, pietrisco, petraie, salmastro, scabro, arcuata ripa, grovigli, tronchi, rabido ventare di scirocco, turbini, gorgo, chiostra di rupi; stride, sgretola, sfibra, s'abbarbica al crepaccio, abbranca rocce, ecc. In questo contesto, aggiungiamo, l'adozione di arcaismi e di termini aulici e rari non appare tanto un vezzo estetizzante, né solo un elemento dialettico: assume anche una funzione straniante, talora d'irrealistico espressionismo, consona alla distanza che Montale sente tra sé e la realtà.

Oggetti simbolici e commento

Questi suoni e gli oggetti da essi designati introducono anche al paesaggio ligure degli Ossidi seppia, colto nei suoi aspetti più aspri, con scabra essenzialità, verrebbe da dire. Anche questo paesaggio ha naturalmente a che fare con la condizione interiore del poeta, che nei suoi connotati riconosce il segno della propria angoscia e aridità interiore (e raramente, in più cordiali dettagli, i pochi segni dei suoi momenti di grazia). Il fatto è che il paesaggio e i pochi eventi che in esso accadono sono già in potenza "correlativi oggettivi" dell'animo del poeta, se non fosse che egli - come farà sempre meno in seguito - all'occasione e all'oggetto simbolico affianca il commento psicologico ed esistenziale, sdipanando spesso egli medesimo il possibile groviglio dei significati con attitudine descrittivo-riflessiva e disvelando la relazione simbolica: «Spesso il male di vivere ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia / riarsa...» (Spesso il male di vivere); «sentire con triste meraviglia / com'è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» (Meriggiare pallido e assorto). Quando in Arsenio e nelle Occasioni cadrà per lo più il commento e ,rimarrà quella che Contini chiamala «componente assertiva», cioè la pura rappresentazione di oggetti, eventi, personaggi, la poetica del correlativo oggettivo sarà pienamente realizzata. Intanto la fusione di situazioni, oggetti (simbolici) e commento dà il tono peculiare e inconfondibile della raccolta.

Male di vivere e ricerca del varco

Disarmonia, angoscia, male di vivere in un paesaggio scabro. Questi i temi essenziali e veramente significativi degli Ossi di seppia. Ossessivamente Montale torna su questa condizione fondamentale del suo animo: la vita felice e autentica, la vita tout court è altrove. Come Leopardi, egli afferma risolutamente: «a me la vita è male», è tedio, necessità, ferreo determinismo, legge inalterabile di sofferenza. Nascono così le metafore più celebri degli Ossi: camminare lungo un muro invalicabile, vedere il cielo «soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase», trovarsi impigliato fra le maglie di una rete e via dicendo. Eppure Montale si sente vicino al quid rivelatore e liberatore, a un passo dall'afferrare la vita, spezzare la catena della necessità, dare un senso all'esistere. A tale condizione alludono metafore altrettanto celebri: il varco (Casa sul mare), la smagliatura nella rete, il fantasma che può salvare (In limine), lo sbaglio di natura, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che metta «nel mezzo di una verità» (I limoni), il «pezzo di suolo non erbato» che «s'è spezzato perché nascesse una margherita» (Giunge a volte, nepente) « il miracolo, / il fatto che non era necessario» (Crisalide) e molte altre analoghe. E naturalmente per Montale, che concepisce l'arte come sostituto della vita, la poesia è lo strumento e la forma essenziale di questa ricerca.

Miracolo e memoria

Quale sia in concreto l'evento "miracoloso" che finalmente lo metta «nel mezzo di una verità», Montale però non sa: potrebbe essere qualunque cosa, anche la più imprevista e la più assurda o la più banale. Nei Limoni il poeta, in un momento di grazia, aguzza gli occhi e tien desta l'attenzione, per vedere se qualcosa accade. Più tardi egli attribuirà il miracolo che pare aver beneficato altre persone a oggetti insignificanti (i piccoli amuleti di Dora Markus: «forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d'avorio; e così esisti!», Dona Markus). Forse il varco è legato al recupero di un fantasma della memoria («Un rovello è di qua dall'erto muro. / Se procedi t'imbatti / tu forse nel fantasma che ti salva», In limine), a un'immagine sottratta al passato. Vari componimenti degli Ossi affrontano questo tema. Cigola la carrucola è un caso esemplare: in uno specchio d'acqua pare formarsi un'immagine, un volto riappare, ma presto è ringhiottito nell'«atro fondo»: il tempo perduto non può essere recuperato, il miracolo non è accaduto e il poeta è ricacciato nel tedio di sempre. L'esperienza dello scacco si ripete.
Altri riescono a trovare il varco forse: le ombre di «disturbate Divinità» dei Limoni o Esterina di Falsetto, che spensierata si tuffa in mare, mentre il poeta è «della razza di chi rimane a terra» (questa dialettica inettitudine/attitudine a vivere la dice lunga, tra l'altro, circa la precoce comprensione del valore di Svevo da parte di Montale). Montale prega che ciò accada per il "tu" di In limine («Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l'ho pregato...») e con ulteriori implicazioni per Casa sul mare («forse solo chi vuole s'infinita, / e questo tu potrai, chissà, non io. / Penso che per i più non sia salvezza, / ma taluno sovverta ogni disegno, / passi il varco, qual volle si ritrovi. / Vorrei prima di cedere segnarti / codesta via di fuga / labile...» ). Con Arsenio, invece, il suo primo alter ego oggettivo, ci imbattiamo in un personaggio che non riesce a svellere le proprie viscide radici e tuffarsi nel mare sconvolto dal turbine di un temporale, momento e luogo finalmente propizi per liberarsi dal male di vivere (anche se ciò significherebbe forse darsi la morte, suprema e tragica liberazione). Arsenio è attratto ma non riesce a compiere il passo decisivo, rinuncia e ritorna alle consuetudini di sempre simboleggiate dai villeggianti, «ghiacciata moltitudine di morti».
Altre oggetti, immagini e simboli non tutti univocamente interpretabili compaiono negli Ossi di seppia: ricordiamo almeno il sole (illuminazione e arsura) e il girasole «impazzito di luce» che col suo tendere alla luce solare costituisce una metafora della ricerca della felicità, del senso dell'esistenza. Più avanti alcune di queste immagini verranno riprese e dotate di più precisi significati, soprattutto con la donna assente, Clizia-girasole, protagonista di un importante ciclo delle Occasioni e della Bufera, simbolo di un'attesa al tempo stesso esistenziale e metafisica. 

Gli sviluppi della lirica montaliana

Sviluppi


Dagli Ossi alle Occasioni e poi alla Bufera c'è più sviluppo che frattura. Gran parte dei postulati che muovono il primo Montale sono ancora validi, e medesimi sono i problemi esistenziali di fondo («la campana di vetro persisteva intorno a me, ed ora sapevo ch'essa non si sarebbe mai infranta») su cui non insisteremo oltre. Mutano invece circostanze storiche e personali (l'affermarsi della dittatura, la crisi europea, poi la guerra e le tensioni del dopoguerra; amori e conoscenze, nuovi paesaggi), la riflessione si approfondisce, il disagio si radicalizza e talora sembra cercare nuovi improbabili (razionalmente negati) varchi metafisici, il linguaggio sperimenta qualche soluzione nuova.

Le occasioni: poetica degli oggetti e oscurità

Quell'impasto di «lirica e commento», di componenti assertive e descrittivo-riflessive, caratteristico degli Ossi non soddisfa più Montale che già con Arsenio e poi nella seconda raccolta cerca soluzioni nuove: «Non pensavo a una lirica pura nel senso ch'essa poi ebbe anche da noi, a un giunco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. [...] bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta». Alla lirica pura, alla poetica della parola degli ermetici, contrappone una poetica degli oggetti. Ma risolvere la poesia nell'oggetto, sopprimendo il commento psicologico, significa anche rendere più oscuro il discorso: è quanto accade nelle Occasioni, opera di più teso lirismo e di più ardua decifrazione, malgrado i tardi (talora ironici) chiarimenti concessi dal poeta circa le occasioni-spinte che hanno originato le poesie.
Tra i fatti salienti della raccolta è subito da annoverare il mutamento del paesaggio che, a parte qualche caso (La casa dei doganieri), non è più quello ligure; più spesso è quello toscano, colto però non nella sua proverbiale dolcezza bensì in componenti inquietanti (Tempi di Bellosguardo), segno che l'animo montaliano non muta per mutar di luoghi. Ma il paesaggio non è più protagonista come negli Ossi: è stato osservato che alla poesia prevalentemente spaziale della prima raccolta si sostituisce ora una poesia prevalentemente temporale, spesso memoriale. E una poesia, potremmo dire, relazionale: più che in passato, quando dialogava con presenze astratte (tu generici) o con il paesaggio (il mare, nella sezione Mediterraneo), ora egli apre o tenta di aprire un dialogo con persone concrete, anche se per lo più assenti materialmente e presenti solo nella memoria personale. Anche le relazioni umane infatti sono sottoposte all'esperienza dello scacco.

Clizia

In particolare è significativo l'ingresso prepotente del morivo dell'amore e del dialogo con la donna assente (Clizia, Dora Markus, Liuba), valido in primo luogo sul piano esistenziale e privato, ma carico anche di implicazioni simboliche ulteriori: la vicenda d'amore, amore lontano, impossibile è infatti un'oggettivazione del senso di isolamento esistenziale che da sempre tormenta il poeta (che lo ritiene ora per sé definitivo, ineliminabile) e una figura, se vogliamo, anche dell'isolamento culturale e politico dell'intellettuale negli anni della dittatura e del precipitare verso una catastrofe i cui segni si percepiscono nettamente, anche se solo allusivamente. Varie donne evocate dai versi delle Occasioni infatti sono lontane anche perché ebree. A Clizia in particolare sono dedicati molti componimenti e per intero la sezione dei Mottetti. A Clizia, la donna tramutata secondo il mito in girasole, colei che guarda la luce (un varco), Montale attribuisce fattezze stilnovistiche: dispensatrice di segni potenzialmente salvifici, talora viene assimilata a un angelo o a un uccello («angelo o procellaria») che giunge, con personale sofferenza, da distanze remote a dare alla vita del poeta quel poco di senso che le rimane. Questa caratterizzazione stilnovistica della donna (dovuta forse ancora a suggestioni eliotiane) verosimilmente ha per ora valore soprattutto metaforico ed esistenziale; più tardi acquisterà espliciti significati metafisici, quando con La bufera e altro a Clizia verrà attribuita una simbologia cristiana.

La bufera e altro

La terza raccolta montaliana segna innanzi tutto un'irruzione della realtà nella poesia, e in particolare della realtà storica e politica, che non ha precedenti analoghi nella storia della poesia montaliana. «Considero La bufera e altro come il mio libro migliore, sebbene non si possa penetrarlo senza rifare tutto il precedente itinerario. Nella Bufera è vivo il riflesso della mia condizione storica, della mia attualità d'uomo» (Montale). Se l'universo delle Occasioni era creato nell'ipotesi costruttiva, per quanto improbabile, di «un'eccezione significativa» (come dice Contini), di una possibilità di relazione pur in assenza dell'interlocutrice, quello della Bufera è un universo totalmente sconvolto dalla guerra storica e cosmica e dall'insensatezza umana (anche post-bellica).

Clizia teofora

È in questo contesto che trova spazio una tensione metafisico-religiosa, in contraddittorio con lo scetticismo della ragione. Una tensione che, per quanto assuma espliciti riferimenti cristologici (Clizia teofora, mediatrice fra l'umano e il divino), in definitiva è religiosa in quanto non venir meno di una residua speranza (non fede), di un'attitudine resistenziale nei confronti della catastrofe che piomba il poeta nella più cupa desolazione. Quella di un varco metafisico è al tempo stesso un'ipotesi che affascina intellettualmente il razionalissimo Montale e, in termini psicologici, un'ancora di salvezza cui affidarsi nel momento della massima disperazione esistenziale. «Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria». Naturalmente il significato metafisico delle epifanie di Clizia non nega ma si aggiunge a quelli esistenziali, e Clizia è intercambiabilmente donna, nube, angelo o procellaria.

Un piccolo testamento

Finita la guerra storica, non cessa quella cosmica; anzi all'orizzonte storico si profila la «Bardana infernale», una guerra totale ancor più assurda; del resto in attesa di quella l'insensatezza non è minore. Il finale della Bufera segna l'esaurirsi anche dell'ultima ipotesi di possibilità che un varco esista e si manifesti. Con il Piccolo testamento Montale proclama di far parte per se stesso, di rifiutare il «lume di chiesa o d'officina / che alimenti / chierico rosso, o nero». La fioca luce che balena nella sua mente, non più d'una «traccia madreperlacea di lumaca» è d'altra natura. Non è molto, ma è testimonianza d'una ricerca tenace; è portafortuna labile, che non resisterà alle nuove bufere che si profilano, scomparirà anzi con chi l'ha concepito, ma è l'indicazione di una via giusta. Montale - si noti - non attende più indicazioni circa la natura e l'ubicazione del varco da Clizia o da chicchessia. Anzi, se aveva aperto gli Ossi ipotizzando per il tu un varco che a lui era negato («Va, per te l'ho pregato»), ora chiude La bufera con un messaggio suo da consegnare agli altri, per quanto non contenga l'indicazione di una via di scampo, ma solo la certezza che non c'è scampo, né «persistenza» se non con l'«estinzione».

Accanto al negativo c'è dunque una positività minima "resistenziale": la ricerca non è conclusa («il mio sogno di te non è finito»), chi ha «ravvisato» il «segno» indicato da Montale «non può fallire nel ritrovarti», non può non incontrare il proprio simile (se non ci inganniamo, Montale in questi versi allusivi, nel lanciare un messaggio nel deserto, affidandolo agli uomini di buona volontà si colloca sulla stessa lunghezza d'onda del Leopardi della Ginestra). Il lascito montaliano è dunque un invito a resistere ancorati alle minime (negative) certezze del'esistere, aggrappati ai propri valori etici, è immagine di una ricerca che nonostante gli scacchi continua, di «un'ostinazione biologica [...] figura di una volontà spirituale che si afferma attraverso la concretezza della condizione terrena» (Fortini) simile a quella dell'anguilla nostra "sorella" che dai «mari freddi» risale fino ai «balzi d'Appennino» per poi ritornare al mare (L'anguilla).


Satura e oltre

L'ultima poesia montaliana, come si è detto, al suo primo apparire dopo sette anni di silenzio totale, sorprese tutti soprattutto per la novità di modi e toni e in definitiva di poetica (ma non di ideologia). «Ridotte o messe fra parentesi le funzioni di sonda metafisica e di fulmineità rivelatoria un tempo affidate alla poesia, ora a questa sta spetta in sostanza il ruolo di un esercizio di annotazione diaristica in cui l'autore, anziché cancellare o introvertire le "occasioni" che lo sollecitano, le esplicita discorsivamente e quasi le spiattella, come nascondendo dietro di esse la propria vera personalità, o meglio alienandola in una serie di maschere» (Mengaldo). A muoverlo in questo senso è un ulteriore incremento dello scetticismo: la poesia, il poeta non possono comunicare direttamente il pensiero, lo devono fare obliquamente, in forma ironica, con quel distacco nel frattempo maturato dentro in tutta serietà. Si cela l'amarezza per disillusione, come per pudore si cela lo strazio che arreca un lutto personalmente catastrofico (negli Xenia dedicati alla moglie scomparsa, che mescolano pathos e ironia). Adeguato ai tempi e ai trascorsi, cioè più in forme più drastiche, è un ritorno alle ragioni antieloquenti della poesia degli Ossi. Ma è anche vero che si tratta di un ritorno alla poesia, dopo molti anni di silenzio: Montale riattribuisce cioè una funzione al proprio mezzo privilegiato di espressione, anzi alla forma e allo scopo della propria esistenza (in quanto sostituto della vita). In altri termini la degradazione al livello comico-realistico e satirico è lo scotto necessario per riaprire il discorso poetico, il far finta di non crederci la via necessaria per dire che ci si crede ancora, nonostante tutto. Temi, concezione del mondo e ideologia del resto, pur nell'aggiornamento dei riferimenti filosofici e culturali (dall'esistenzialismo alla fenomenologia) e con le dovute concessioni alla storia e alla cronaca (conseguenti al nuovo ruolo assegnato alla poesia), sono nella sostanza in gran parte immutati. «Secondo l'indicazione del titolo, in Satura s'intrecciano e mescolano, non senza esatti calcoli strutturali [...], le tonalità e i motivi più diversi: i colloqui con l'al di là, le epifanie di esseri salvifici e fantasmi, le meditazioni distese e gravi sul senso dell'esistenza, convivono con le registrazioni feriali della quotidianità più trita e con l'ironia portata sull'insensatezza del mondo contemporaneo e dei suoi idola» (Mengaldo). Le ombre proiettate già nella Bufera sugli sviluppi di una società insensata trovano in Satura e nelle successive raccolte piena espressione e un linguaggio adeguato (la prosa, il nonsense, la filastrocca, la parodia, il motto sentenzioso e via dicendo, con attitudine sperimentalistica). È il modo montaliano di adeguarsi ai tempi e insieme di continuare ad essere un testimone inflessibile del proprio tempo
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