IL NOVECENTO MONDIALE : OSCAR WILDE

 

Luigi De Bellis

 
 
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Oscar Wilde nacque a Dublino nel 1854, studiò a Oxford (dove fra gli altri gli fu maestro W.Pater, un altro dei teorici dell'estetismo). Ottenne presto fama dalle sue opere letterarie (versi, romanzi, drammi, saggi) e fu una delle personalità di spicco nei principali salotti inglesi e francesi. Visse prevalentemente a Londra e Parigi, ma nei suoi molti viaggi fu anche in Italia e negli Stati Uniti. Dopo un matrimonio presto naufragato, una sua relazione omosessuale con un lord inglese fece grande scalpore e costò a Wilde un processo e una condanna a due anni di lavori forzati (1895), dopo di che - rifiutato da quanti prima lo avevano celebrato - lasciò definitivamente l'Inghilterra per la Francia, dove mori nel 1900.
Tra le sue opere più significative i saggi estetici Intenzioni (1891), quelli politici L'anima dell'uomo sotto il socialismo (1891) in cui espone una concezione anarchica della politica, il romanzo II ritratto di Dorian Gray (pure del 1891) e alcune opere teatrali tra cui spiccano le commedie II ventaglio di Lady Windermere (1892) e L'importanza di chiamarsi Ernesto (1895), e il dramma Salomè (1896), in seguito musicato da Richard Strauss.
La forma aforismatica (cioè di breve massima), sovente arguta e paradossale, che è tipica dello scrittore irlandese, non rende sempre facile l'esatta comprensione delle massime. Ma certo a Wilde importava più la fama di profondità e arguzia che non una precisione definitoria e un'aperta comunicabilità del proprio pensiero, che più facilmente avrebbe raggiunto attraverso un discorso disteso e non frammentario. Anche questo fatto (che pure non esclude in altri casi la forma saggio) ci porta nell'area degli atteggiamenti decadenti. Si veda ad esempio la sottile e paradossale distinzione fra artista e critico, che sembrano scambiarsi alcuni connotati (l'arte deve celare l'artista, deve essere oggettiva; la critica consiste in una sorta di autobiografia, cioè è soggettiva); il che, più che ribadire una concezione naturalistica dell'arte, sembra voler approdare a una indistinta comunione-confusione fra arte e critica. E si veda l'arguta simmetria delle due massime sulla «rabbia di Calibano» (che lasciano nel vago il nesso tra realismo e romanticismo).
Più che analizzare, rivelandone ogni implicazione, le singole affermazioni, a noi importa sottolineare alcune linee di forza del discorso: in particolare l'insistenza sul culto della bellezza come ragione essenziale dell'arte («belle cose» più volte ripetuto) e la non pertinenza di qualsivoglia criterio morale in arte: non c'è speranza per chi dietro le cose belle intuisce cattive intenzioni, c'è speranza per chi ne intuisce di buone; ma eletto e perfetto è solo chi esaurisce l'interpretazione dell'arte nella contemplazione e nella degustazione della bellezza («Eletti son gli uomini ai quali le belle cose richiamano soltanto la bellezza»).
Più apertamente e perentoriamente il senso di questo trittico di aforismi è ribadito nel successivo: «Non esistono libri morali o immorali... I libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto». Che è un'affermazione di fede formalistica: arte è forma; i contenuti, specie quelli morali (più in là si citano «la vita morale», «il vizio e la virtù»), sono semplice «materia» cui si deve dare forma. L'unica «moralità» concepibile per l'arte è quella dell'«uso perfetto di un imperfetto strumento» (cioè del linguaggio). In modo paradossale il concetto viene ribadito in un successivo aforisma: qualsiasi preferenza etica da parte dell'artista costituisce una forma di manierismo stilistico!
Ne consegue anche che l'arte non ha scopo pratico: non «aspira a provare alcunché», men che meno aspira a giovare o modificare la realtà; l'arte-osservata da questa specola-è completamente inutile».

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2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it