Luigi
De Bellis

 


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Resultanze in merito alla Vita e al Carattere di Gino Bianchi. Con allegato

 
 

 

 
 

Ragazzo

 
     
     

 





Piero Jahier



RESULTANZE IN MERITO ALLA VITA E AL CARATTERE... : Romanzo


Primo romanzo di Jahier, fu pubblicato a Firenze nel febbraio del 1915 presso la Libreria della Voce, di cui costituisce il venticinquesimo quaderno.
Dedicato «agli impiegati ancora uomini / agli uomini non ancora impiegati», il romanzo è un affresco disincantato del mondo impiegatizio, mondo ben conosciuto dall'autore, che lavorò per tutta la vita nell'Amministrazione delle Ferrovie. «Gino Bianchi» era lo pseudonimo redazionale apparso in calce a una serie di articoli pubblicati su «La Voce» nel 1909: le «Lettere dalla Beozia», che denunciavano vizi e storture della vita pubblica italiana. Jahier, riprendendo quel personaggio-fantasma e facendone il prototipo dell'impiegato italiano, ne studia origini, abitudini e caratteristiche psicologiche con minuziosa perfidia. Egli abbandona dunque lo spirito appassionato e propositivo, "impegnato, che aveva caratterizzato i primi anni della «Voce» e al quale aveva aderito con giovanile entusiasmo; e assume l'ironico atteggiamento di uno scienziato positivista - le beffarde citazioni di Paolo Orano e di Paolo Mantegazza non sono casuali -, il quale descrive il suo oggetto con apparente distacco, in un linguaggio piatto, formale e inespressivo che, a sorpresa, accumula paradossi e aforismi, gioca con le antitesi in una rigorosa argomentazione sillogistica e s'impenna in ritmi e cadenze liriche.
A salvaguardia dell'istanza morale del suo sperimentalismo, le Resultanze sono introdotte da una «Lettera accompagnatoria», firmata dall'autore, che spiega le ragioni dell'inchiesta con motivi autobiografici e in buona misura polemici: in una società dominata dal Credo Borghese del danaro, a un intellettuale che, come l'autore, rifiuti il giornalismo e non sopporti di entrare schiera degli articolisti centopelli girasoli stipendiati, spelluzzicatori di midolla altrui, recipienti senza tenuta», non resta che cercare ricovero nella burocrazia, «rassegnato a esercitare poesia in cupa nerezza di giornaliera manovalanza». La burocrazia è dunque, nella amara e spesso pungente sociologia di Jahier, l'istituzione fondamentale della società democratica: mossa dalla dinamica del Sicuro Guadagno Scarso, provvede ad allevare l'uomo amministrativo di specie italica, «spersonalizzato, disumanizzato, disintelligenzato». Liquidata come «messianica» ogni ipotesi di riforma e miglioramento (non a caso quelle stesse proposte dalla «Voce»: sfoltimento degli organici, miglioramenti economici, assunzione di responsabilità), il narratore descrive in Gino Bianchi, nei suoi colleghi - indimenticabile l'Ispettore Capo ossessionato dalla forfora, o il vecchio capo officina che, ottenuta per motivi di servizio una bicicletta, non resiste alla tentazione di una gita in campagna - e nei rituali della giornata impiegatizia, un mondo privo di luce, demoniaco.
La forma del romanzo imita quella del rapporto di un qualsiasi Ufficio Pubblico Amministrativo nei confronti dell'Applicato Principale Bianchi Gino, nœ 19287, e la sua storia è un semplice «elenco delle pratiche evase»: come relazioni amministrative, con messa in evidenza grafica dell'oggetto ed elenco degli allegati - splendido il prospetto su quattro colonne che permette di seguire la vita di Gino Bianchi in qualsiasi momento dell'anno e in qualsiasi ora del giorno -, si aprono davanti agli occhi del lettore i quadri di uno spaccato di vita piccolo-borghese. L'esame della posizione personale del protagonista - precedenti, connotati, composizione della famiglia, matrimonio, alloggio, bisogni, relazioni, carriera - porta alla conclusione che egli è «in fondo» un brav'uomo, chiuso nella ripetizione di gesti sempre uguali, prigioniero dì bisogni minuti e materiali: tanto da meritare il premio paradossale di vivere «un anno andata e ritorno», cioè un anno assolutamente identico a quello appena trascorso. Ma a questo punto emerge, dal rigido linguaggio burocratico in cui si è finora nascosta, la voce dell'autore - autore del rapporto e dunque anche del romanzo - l'io dolente e lirico che è la spirituale antitesi di Gino Bianchi: egli invoca per sé, con accenti nietzschiani (come nella prosa ritmata e intensa che chiude il romanzo, «Ritratto dell'uomo più libero"), la volontà di esistere vivendo la propria natura autentica e ritrovando nel dolore il senso del comune destino umano: «se siamo poveri, se siamo deboli, se siamo tristi - diritto al più acuto disperato grido di gioia».
L'opera ebbe scarso successo di pubblico e di critica: fu già una stroncatura la recensione di Giovanni Boine su «La Riviera ligure», con il suo lapidario incipit: «Il torto di questo libro è di durare oltre il necessario». Il romanzo apparve infatti troppo legato alla volontà di sperimentare una forma letteraria nuova, parodistica, lontana dalla tradizione narrativa italiana. Di questo l'autore era pienamente consapevole, se scriveva nell'aprile del 1915 ad Alessandro Casati: «Questo Gino Bianchi è una cosa nata in disparte dall'anima mia - secco e astratto, senza carità; l'ho scritto irrigidito in una corazza perché il mio amore era stato offeso e sprezzato».

 

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