Luigi
De Bellis

 


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Giovanni Pascoli



MYRICAE: Raccolte di poesie


I singoli componimenti erano apparsi precedentemente in diverse pubblicazioni; i primi nove, con il titolo Myricae, erano usciti nel 1890 sulla rivista «Vita nuova» (ma le poesie più antiche, poi notevolmente modificate, Rio Salto e Il Maniero, erano state pubblicate su «I Nuovi Goliardi» nel 1877). In seguito furono accorpati in ben nove edizioni sempre più fitte. Oltre al numero dei componimenti, Pascoli mutò incessantemente il loro ordine, la struttura, per non dire delle varianti e della punteggiatura. Tutte le edizioni furono stampate dal libraio Raffaello Giusti, tranne la sesta, stampata dal tipografo di Lucca Alberto Marchi, che rientrò nel piano delle Opere complete presso Zanichelli (Bologna), pur risultando formalmente edita sempre da Giusti. Alla sesta edizione il poeta aggiunse, in apertura, una «Nota bibliografica», in cui riassunse la storia del libro. La prima edizione, in occasione delle nozze dell'amico Raffaello Marcovigi, uscì in cento copie ed ebbe due tirature, una fuori commercio con apposita copertina per gli sposi. In epigrafe, l'emistichio virgiliano arbusta iuvant humilesque myricae indica la scelta di una "voce' dimessa che parli di cose quotidiane.

La composizione del libro, suddiviso in trentuno sezioni, è stata laboriosa; non così si può dire del suo tono complessivo, già definito fin dall'inizio. Terzine di settenari, strofe saffiche di endecasillabi, madrigali e sonetti, ogni elemento metrico e prosodico di questo primo grande libro pascoliano aderisce perfettamente a un nucleo ben maturo di contenuti emotivi e morali, esemplati nel poemetto introduttivo Il giorno dei morti, rievocazione del padre ucciso, a cui il libro è dedicato. Come spesso in altre poesie, sono molte le reminiscenze virgiliane e dantesche in questo dialogo con i morti, dove l'ossessiva ripetizione del verbo chiave («Io vedo...vedo...vedo») conferisce al componimento un alone di funereo romanticismo. L'uso spregiudicato della ripetizione (anafora, epanalessi), l'onomatopea spinta all'estremo di calchi sempre più sofisticati (dai banali «chiù», «cu...cu», «dan...dan», ai più enigmatici «viro», «scilp», «vitt...videvitt» ), reticenze e punti di domanda costellano ogni pagina imprimendo il sigillo di una cantilenante lamentazione. La leggendaria capacità mimetica, che si applica preferibilmente alla minuta realtà naturale e familiare, non disdegna rare personificazioni metafisiche come in Scalpitio, dove una fuga di piani deserti e un galoppo sinistro riproducono l'approssimarsi della morte. Anche nei suoi momenti più alti, dove il dolore della lontananza sembra risolvere la materia del ricordo in un dato puramente ideale, come in Romagna (le famose quartine di endecasillabi dedicate all'amico Severino Ferrasi), Pascoli non smette di inventariare la realtà. E se l'incipit, «Sempre un villaggio, sempre una campagna», e la successiva apostrofe all'amico lasciano pensare a un'operazione di nostalgia e memoria libera da scorie o dettagli, la folta presenza di piante e animali riconduce a una più concreta dimensione. L'esigenza di un lemmario accurato serve per mitigare i sentimenti, come nel paesaggio di I puffini dell'Adriatico, dove il «rigo di carmino», «l'oro» e il «mar liscio di lacca» sembrano tocchi pittorici e calligrafici.

Accanto alle tentazioni gnomiche, che nella sezione «Pensieri» sfruttano la contaminazione con i classici, stanno tranquillamente (composizione e pubblicazione spesso sono coeve) i quadri naif della sezione «Creature». I contorni fiabeschi («Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca», Orfano) sono concepiti per accogliere le mutevoli e vibratili suggestioni dell'arcano; molli tenebre si fendono all'improvviso per lasciar irrompere il riso sgangherato di una strega (La civetta). Proprio l'esiguità dei nuclei emotivi (il dialogo con i morti, la fanciullezza, lo scoramento esistenziale) costringe a una continua e rinnovata bravura nella modulazione.

Nell'«Ultima passeggiata» - forse la sezione in cui il raccordo tra i componimenti appare dosato con maggior sapienza - spiccano due tra le poesie maggiori: Arano e Lavandare. Nella prima, composta da due terzine e una quartina, la semplice posposizione del verbo principale «arano», all'inizio della seconda terzina, ha come effetto di ritardare la prospettiva al cui centro si muovono lentamente i contadini, e tutto viene seguito dagli occhi di un passero, forma viva e muta per cui il lavoro umano è solo un'occasione di furba rapina. Nella stessa forma metrica, in Lavandare, l'umano viene assimilata alla realtà del non umano, secondo un procedimento sottile quanto ambiguo: il paragone tra la/le lavandaie e l'aratro abbandonato nel campo, in un primo momento solo suggerito dalla assimilazione delle donne al rumore del loro lavoro, viene ripreso esplicitamente nel canto d'amore che intonano. Esempio di virtuosismo puro è Miracolo (della sezione «Le gioie del poeta»), dove ciascuna delle strofe è giocata, come e più del modello rimbaudiano, sulla sinestesia suono-colore delle cinque vocali.

Se la natura occupa quantitativamente la parte maggiore dell'opera, una sezione intera, «Finestra illuminata», è composta da madrigali che ritraggono una serie di interni. Mezzanotte sembra riprendere il tema caro a Baudelaire della finestra accesa nella notte, che «brilla» come una marmorea «pupilla aperta». In un altro componimento, La solitudine, l'intreccio di natura e storia viene còlto nelle sue più tenui manifestazioni: nel silenzio di un pendio, un uomo si lascia avvolgere dai suoni e dalle immagini di uccelli in volo, cavallette, moscerini, e dal ronzio dei fili del telegrafo: «Qui quel ronzio. Le cavallette sole / stridono in mezzo alla gramigna gialla; / i moscerini danzano nel sole; / trema uno stelo sotto una farfalla».

Nella sezione «Elegie», che si apre con la prosopopea della felicità (Felicità), figura dell'assenza in forma di donna, compare X Agosto, la poesia più nota. Pubblicata nel 1896, composta di quartine di endecasillabi e novenari in ricordo dell'uccisione del padre, ritrae nel modo più scoperto il trauma dell'infanzia. Il tema del nido che attende invano il ritorno della rondine termina con una stoica invocazione al cielo. Il paesaggio toscano, che costituisce uno degli elementi costanti di queste poesie, domina incontrastato la sezione «In campagna». La natura, interpretata o, meglio, vissuta come luogo dello smarrimento, dove niente distrae dalla inesorabile nudità delle cose, restituisce all'io una sorta di privilegio (Nella macchia) al rovescio: l'io torna alla panica desolazione delle creature («Io siedo invisibile e solo / tra monti e foreste: la sera / non freme d'un grido, d'un volo»), per diventare il cieco bersaglio di un canto di capinera. E di nuovo l'identificazione, non simbolica, di una monaca e di un passero (Il passero solitario), sembra quasi enfatizzare, più che il comune destino, una condizione di assoluto abbandono, come quella, alta e trasfigurata, che governa una delle liriche più belle, L'assiuolo. Al chiarore della luna che già cede alla luce di un'alba velata da nubi e lampi, il verso dell'assiuolo incarna ogni muta disperazione, e il frinire delle prime cavallette evoca il suono rituale dei sistri devoti a Iside. Quasi alla fine della sezione, in Ultimo canto, la poesia-bozzetto riesce a trasformare, dall'interno di un esile stornello, il sentimentalismo in sentimento: «Canta una sfogliatrice a piena gola: / Amor comincia con canti e con suoni / e poi finisce con lacrime al cuore». Nella poesia Il bacio del morto, la presenza dei morti si dispiega in commossi novenari, segnando il doppio trapasso dal sonno alla veglia e dalla notte all'alba. Nell'apostrofe alla cara ombra del defunto, l'intenso pathos grammaticale delle interrogative dà corpo a un'invocazione senza risposta.

Nella lirica La sirena, in una delle ultime sezioni, «Tramonti», la bravura compositiva raggiunge uno dei vertici dell'intera opera pascoliana. In una sera brumosa il fischio della nave diviene per metamorfosi canto di una Sirena (sfruttando, come spesso accade, l'ambivalenza semantica della parola), con accordi delicati di assonanze, allitterazioni e rime, sul ritmo cadenzato del novenario dattilico. Il componimento che chiude la raccolta, Ultimo sogno, compendia nelle sue quattro quartine di endecasillabi, le ragioni del libro: la commistione tra apparenza e realtà l'evanescenza dei segni, l'impossibile dolcezza di ogni regressione, l'incombere della fine come estrema lontananza. Il risveglio da un sogno confuso è anche l'imprevista guarigione da una malattia, il quieto ritrovarsi accanto alla rassicurante figura della madre. Ma un lontano sussurro di alberi e d'acqua annuncia, forse nel sogno stesso che non si è mai interrotto, l'approssimarsi della morte.

Definito «classico-romantico» da Carducci, il Pascoli di Myricae fu lodato dall'anonimo recensore della «Nuova Antologia» (1892) per la sua freschezza ma anche rimproverato per una certa oscurità di linguaggio, una sorta di ermetismo in anticipo sui tempi. Sulla faticosità lessicale, in gran parte attribuita all'uso del dialetto e di termini scientifici, insistette anche Ruggero Bonghi (1895), e alle scelte lessicali, all'involuzione sintattica, mosse obiezioni Domenico Gnoli (1897), che denunciò, come difetto maggiore dell'opera, «la preoccupazione di chi teme di farsi intendere, di chi ha orrore delle vie battute». Costantino Nigra (1894) mise in rilievo l'intreccio tra classicità e modernità, esaltando l'autenticità del sentimento; altri, come Alberto Cioci (1894), scesero in polemica con Pascoli sulle arditezze metriche, intese come scorrettezze o veri e propri errori. Il lettore più acuto del libro fu Gabriele d'Annunzio, che aveva scritto di Pascoli nel 1888, e che nel 1892 dichiarò: «Giovanni Pascoli è assoluto signore dello strumento metrico e, a differenza degli altri poeti, varia su quello con molta abilità le sue ricerche». Ma all'esaltazione dell'artefice, e quasi volendo limitarne una possibile appartenenza al più vasto ambito del simbolismo europeo, aggiunse: «Nella sua poesia rare volte si sente l'Indefinito. Dirò alla fine, sperando d'esser meglio inteso, che in questa poesia manca il mistero». Recensore d'eccezione fu anche Luigi Pirandello (1897), che respinse «la sottigliezza troppo studiata» delle liriche pascoliane, per ammirarne «il vivissimo, profondo sentimento della natura... e sempre la finezza, sempre una vaga diffusa soavità melanconica».

 

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