Luigi
De Bellis

 


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Primi poemetti

 

 





Giovanni Pascoli



PRIMI POEMETTI: Raccolte di poesie


La prima edizione riuniva, con il titolo rimasto poi definitivo, le liriche apparse nelle due edizioni di Poemetti che il frontespizio dichiarava «raddoppiata»), a esclusione di quelle di argomento civile e politico che confluiranno in Odi e Inni. L'aggettivo primi, che compare nel titolo, indica appunto la volontà di restaurare le intenzioni originarie dell'edizione 1897. Una terza raccolta, autonoma rispetto alle prime due, Nuovi Poemetti, usci nel 1909. L'opera, dedicata alla sorella Maria, reca in epigrafe paulo maiora, emistichio virgiliano.

Con l'evidente ambizione di dare alla poesia italiana una versione aggiornata delle Georgiche, Pascoli costruisce attorno al lungo poemetto Le armi, esaltazione didascalica dell'operosità contadina, un più vasto affresco della vita rurale. Attenuata, ma non scomparsa, la vena simbolico-allusiva di tanti versi di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, prevale in questi componimenti la volontà di narrare, sfuggendo agli schemi lirici tradizionali. Così l'amore tra la giovane Rosa e il cacciatore Rigo si dipana sullo sfondo della famiglia del «capoccio» (capo colonico) che, oltre al padre, comprende la madre, le sorelle Rosa e Viola, i fratellini Nando e Dore. La scansione temporale della vicenda è data dalle diverse ore del giorno, dalle occupazioni domestiche e dalle necessità del lavoro dei campi, oltre che dal trascorrere delle stagioni. La singolare tenuta del racconto in versi è riconducibile al paesaggio, in prevalenza la Garfagnana, agli innesti dialettali, il barghigiano, e all'uso di un unico metro, la terzina dantesca. Nella prima sezione, «La sementa», la successione dei quadri riproduce i tempi ella giornata lavorativa dei contadini - l'alba, la preparazione del pranzo, l'Angelus, l'Avemaria, la notte con la sospirata pioggia -, framezzati all'incontro dei due giovani e al racconto di una favola da parte del cacciatore (La cincia). L'originalità della narrazione in versi sta nella sorprendente capacità di riprodurre dettagli inusuali, senza temere la trascrizione di ricette contadine: «E tu, mentr'io soffriggo uno o due spicchi / d'aglio trito, costì, su la brunice, / fa la polenta, buona anco pei ricchi» (Per casa); «Ora la madre nella teglia un muto / rivolo d'olio infuse, e di vivace / aglio uno spicchio vi tritò minuto» (Il desinare).

La sezione centrale, «Il bordone-L'aquilone», mescola ricordi d'infanzia a scene d'amore e di morte, non disdegnando un rifacimento-lettura dell'episodio dantesco del XXXIII canto dell'Inferno (Conte Ugolino). Alla sezione appartengono alcuni componimenti di grande intensità. Nel primo, Digitale purpurea, il dialogo tra le due amiche di gioventù, la sorella del poeta Maria e Rachele - che ricordano gli anni trascorsi come educande in convento -, si trasforma in evocazione di un passato che torna a farsi presente, carico di segni inquietanti, premonizioni d'amore e di morte: «Memorie (l'una sa dell'altra al muto / premere) dolci, come è tristo e pio / il lontanar d'un ultimo saluto». In Suor Virginia l'avvicinarsi della morte di una suora (anche qui lo spunto risale ai ricordi delle sorelle del poeta) è evocato con una meticolosa e quasi rallentata descrizione del silenzio notturno («Dormivano. Il lor cuore era tranquillo. / La suora si svestì, così leggiera, / ch'udì per terra il picchio di uno spillo»), immagine di una devozione che affronta il suo destino in estrema solitudine. Celebre e delicata metafora della morte del padre, La guercia caduta è un esempio di quell'uso particolare dell'endecasillabo ("a minore") che, nella sua monotonia, sembra significare l'ineluttabilità della morte. Ma è certo in L'aquilone che ricordo (la morte di un compagno di studi a Urbino) e dolore si fondono in una perfetta sintesi formale, sfruttando al massimo le opposizioni cromatiche (il bianco e il rosso) e la concitazione ritmica (i numerosi monosillabi). Il tema della nostalgia per l'età dell'innocenza («Sono le voci della camerata / mia: le conosco tutte all'improvviso, / una dolce, una acuta, una velata»), che si realizza con l'uso mimetico della prospettiva infantile, riprende quello della nostalgia per la vita incompiuta delle due amiche in Digitale purpurea.

Riaffiora nella sezione «I due fanciulli-I due orfani» la vena orfico-simbolica che tocca una delle sue prove più alte in Nella nebbia. In una natura spettrale, da cui la nebbia cancella i tratti più comuni, lo sguardo si smarrisce e il guaito di un cane, un rumore di passi, sembrano le uniche forme vive e indecifrabili: «Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante / con sopra il capo un largo fascio. Vidi, / e più non vidi, nello stesso istante». La raccolta termina con il poemetto Italy che descrive il ritorno di una famiglia di emigranti. Il fitto dialogato, il frequente ricorso a espressioni inglesi e al gergo dialettale, le storpiature linguistiche, l'apprezzabile abilità narrativa, ne fanno uno dei momenti più avanzati dello sperimentalismo pascoliano, né l'enfasi patriottica toglie qualcosa al crudo sapore di realismo epico.

Le reazioni della critica andarono dall'ammirazione per l'abilità formale («Ma talvolta accanto al Francescano che parla cogli uccelli, v'è l'erudito che trascrive il tema musicale in righe rigide, v'è il virtuoso che gioca colle difficoltà», Nemi, pseudonimo di Alfredo Grilli, 1904) al riconoscimento di un'ispirazione più profonda e commossa: «Non è dunque paesaggio esteriore questo del Pascoli. Insieme con un sentimento schietto e profondo della natura e della vita campestre, lo pervade un largo sentimento umano d'amore» (Vittorio Cian, 1900). Giuseppe Saverio Gargano, fedele lettore di Pascoli, da una parte lo difendeva dall'accusa di manierismo («Può darsi che un lettore distratto e non ingenuo scambi tutto questo indugiarsi del poeta a descrivere con così esatti e vividi particolari un umile lavoro domestico delle campagne, con una povera ambizione letteraria di far pompe di frasi e di parole»), dall'altra ne coglieva la particolare e ambigua adesione alla doppia dimensione della realtà e all'immaginario: «E così due impressioni si confondono sempre in noi alla lettura di ogni canto di Giovanni Pascoli, l'ombra delle cose e l'ombra del sogno» (1904).

 

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