Luigi
De Bellis

 


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Pier Paolo Pasolini



LE CENERI DI GRAMSCI: Raccolta di poesie


Il volume, con il sottotitolo «Poemetti», raccoglie poesie scritte (e tutte già pubblicate su rivista) in un arco di anni che va dal 1951 al 1956.
Il primo degli undici poemetti ha per titolo L'Appennino; è datato in calce 1951 e fu pubblicato su «Paragone-Letteratura» del dicembre 1952. In esso l'autore percorre l'Italia centromeridionale, da Lucca a Napoli, in un itinerario geografico-culturale, storico-antropologico, dove domina poeticamente la luce bianca della luna e al cui centro ideale c'è la statua di Ilaria del Carretto, scolpita da Jacopo della Quercia («Jacopo con Ilaria scolpì l'Italia / perduta nella morte quando / la sua età fu più pura e necessaria»), descritta da Pasolini con accenti che hanno fatto pensare al Leopardi di Sopra un bassorilievo antico sepolcrale.
Attraverso Roma, si giunge a Napoli, al suo «golfo / affricano», dove non c'è più la «luce di intelletto» toscana, ma dove «tutto è preumano, e umanamente gioisce», dove trionfa il barocco «di stracci, d'ori», dove si trova «una gente / abbandonata al cinismo più vero / e alla più vera passione; al violento / negarsi e al violento darsi; nel mistero / chiara, perché pura e corrotta». Grumo di contraddizioni, il popolo partenopeo è emblema della condizione tipica dell'universo retorico-ideologico pasoliniano, disperatamente paradossale. L'ultimo Pasolini ritornerà, in veste di pedagogo, a prendere posizione sulla gente napoletana, ammaestrando un immaginario Gennariello nelle Lettere luterane.

Il secondo poemetto, Il canto popolare, è datato 1952-53 e apparve, in una redazione più ampia, in una plaquette edita nel 1954. Il popolo «è partecipe alla storia / solo per orale, magica esperienza; / e vive puro», esprimendo la sua forza vitale nel canto; non si dimentichi che Pasolini curò nel 1955 un Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, la cui ampia introduzione confluì nel volume Passione e ideologia. Il poemetto chiude con un'allocuzione a un giovane che, con «festiva leggerezza», canta sulle rive dell'Aniene un motivo popolare; anche qui un sapore leopardiano («Ragazzo del popolo che canti...») si traduce, però, in un pessimismo venato del suo contrario: l'adesione luminosa, anche se problematica, alla «forza» della «felicità» del ragazzo proletario.

Segue il poemetto Picasso, del 1953, apparso su «Botteghe oscure» nello stesso anno: si apre sulla dorata domenica a Valle Giulia e sulla «scalea» della Galleria Nazionale d'Arte Moderna. All'interno del museo è allestita una mostra dedicata a Pablo Picasso descritta dal poeta come in una neobarocca Galeria o come in una sorta di "recensione" in versi con espressività longhiane; Pasolini giunge quindi al punto centrale, il rilevamento di un «errore» nella pittura dello spagnolo, cioè l'assenza in essa del popolo e del suo «brusio», quel popolo che invece «fuori esplode felice per le placide / strade festive»: c'è in questa valutazione un'implicita polemica con l'establishment culturale comunista che vedeva in Picasso un artista altamente rappresentativo dell'ideologia marxista. Il poemetto Comizio, apparso ancora su «Botteghe oscure» nel settembre del '54, con il titolo Notte a Piazza di Spagna, vede il poeta capitare per caso a un comizio del Movimento Sociale, dove «guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista». La «falange, folta, / urlante» di neofascisti è cupa, portatrice di una «triste oscurità», dove il popolo sano è invece caratterizzato da una «oscura allegria». Tuttavia anche il mondo fascista è descritto attraverso formulazioni contraddittorie: la sua «energia» è «debolezza», la sua gioventù è precoce vecchiaia, il suo coraggio è viltà ecc. Le ultime terzine sono dedicate al fratello dell'autore, Guido, il cui fantasma «compagno» gli appare in quella folla deforme ideologicamente e fisicamente, come un Cristo pallido fra i mostri in un dipinto di Bosch. Guido mori giovane, partigiano, e rappresenta nell'immaginario pasoliniano «il troppo puro», la vittima cara al cielo; il suo dolce spettro «chiede pietà» e chiede luce, in un «mondo rinato in un oscuro mattino», nuova concordia discors a indicare una mancata palingenesi della storia.

Il poemetto L'umile Italia apparve su «Paragone-Letteratura» dell'aprile 1954. Si apre sulla contrapposizione fra l'impura, cupa tristezza dell'Agro romano e la limpida luminosità del Settentrione, cioè, autobiograficamente, fra l'esilio del poeta a Roma e il cosmo della giovinezza in Friuli. Le rondini diventano emblemi dell'umiltà e della purezza dell'Italia (del Nord), non senza tuttavia la consueta complessità antitetica senza sintesi: «Questa è l'Italia, e / non è questa l'Italia: insieme / la preistoria e la storia che / in essa sono convivano, se / la luce è frutto di un buio seme» (si notino le inarcature violentissime, brutali e ripetute). Quel che sembra certa è la volontà di evolvere, in senso problematicamente marxista: «È necessità il capire / e il fare: il credersi volti / al meglio», lottare e soffrire, non cedendo alla «rassegnazione-furente marchio / della servitù e del sesso-/ che il greco meridione fa / decrepito e increato, sporco / e splendido». Quel Meridione del mondo (l'Africa o Napoli) che lo stesso Pasolini coltiverà, ricercherà e amerà disperatamente, con scandaloso desiderio, in uno slancio contraddittoriamente filo-primitivo e illuministico, razionalmente anzi-arcaico e insieme eroticamente regressivo.

Il poemetto Quadri friulani apparve su «Officina» nel luglio del 1955, con il titolo I campi del Friuli; è dedicato all'amico pittore Giuseppe Zigàina, e rievoca il paesaggio friulano di sambuchi, rogge, «venchi»; palpita tutto di primavera e venti profumati, con movenze talora di marca prettamente foscoliana: «Felice te, a cui il vento primaverile». La memoria dell'adolescenza si concentra sul paesaggio e sul popolo «di braccianti vestiti a festa, / di ragazzi venuti in bicicletta / dai borghi vicini», in mezzo al quale i due giovani, loro «non popolani», amavano confondersi, in un'ebbrezza di adesione ideologico-amorosa.

Il poemetto che dà il titolo alla raccolta, Le ceneri di Gramsci, datato in calce 1954, era apparso su «Nuovi Argomenti», n. 17-18, del novembre '55 - febbraio '56. Apre su un ossimorico «autunnale maggio», una primavera romana oscura e sporca; l'incipit sembra opporsi al celebre Era de maggio digiacomiano: «Non è di maggio questa impura aria». Il poeta è al cimitero inglese acattolico di Testaccio, a colloquio con la tomba di Antonio Gramsci, in un décor sepolcrale tra urne e cipressi che evoca ancora la poesia di Foscolo; lontano è il «maggio italiano» in cui il giovane Gramsci delineava «l'ideale che illumina», oggi tutto sembra tedio e silenzio. Pasolini dichiara apertamente la propria posizione di intellettuale irregolare, che assume la contraddizione come dato ineliminabile, nei celebri versi «Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». Sulla propria "vergognosa" regressività poetico-ideologica Pasolini fa cadere una luce bianca, zenitale, impietosa e lucidissima, dichiarando: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza». Il poeta desidera nostalgicamente l'identificazione con l'oggetto d'amore, il proletariato, ma sa di essere diverso è «illuminato», è cosciente, «ma a che serve la luce?», domanda sconsolatamente. Il nucleo originario della sessualità e, quindi, dell'ideologia pasoliniane è in questo intreccio di desiderio e di voler essere l'oggetto desiderato.
Le Ceneri proseguono con un excursus sul poeta inglese Shelley, «nordico / villeggiante» stregato dall'Italia, dove si stabilì e morì, inquieta figura romantica dalla biografia apparentabile (ma geograficamente speculare) a quella foscoliana. Pasolini riprende poi il dialogo con Gramsci, confessandosi anch'egli sedotto dal «sesso» dalla «luce» e dalla «lietezza» italiane e domandando: «Mi chiederai tu, morto disadorno, / d'abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?», quasi contrapponendo all'austerità ideologica la propria passione, la propria disperata vitalità (Una disperata vitalità è il titolo di un componimento presente nella raccolta Poesia in forma di rosa, del '64; l'espressione è di Longhi, a proposito dei pittori manieristi).
L'ultima sezione del poemetto descrive la sera romana nel rione Testaccio, dove esplode la vita, dove giocano i ragazzi «leggeri come stracci», sereni, quasi mitici, fuori della storia. Il Poeta si contrappone a essi («Ma io ...», avversativa che evoca il topos lirico della distanza tra l'universo festante e l'io dolorante), con la carica della propria cosciente desolazione («potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?»), che anche nel vitalismo non si spegne mai.

Alle Ceneri segue il poemetto Récit, già pubblicato su «Botteghe oscure» nel settembre 1956; prende spunto dall'accusa di oscenità rivolta al suo romanzo Ragazzi di vita, per cui l'autore subirà un processo: la notizia della denuncia gli viene data dall'amico poeta Attilio Bertolucci. La cornice è nuovamente un quartiere di Roma, Monteverde Vecchio; sembra di udire, nel sole, i latrati minacciosi dei persecutori, «sordidamente ossessi / contro chi tradisce, perché è diverso», ma il poeta non è capace di odiare, «quasi grato al mondo per il mio male, il mio / essere diverso», e non può che amare, diperatamente, fedelmente e testardamente amare, come un laico Christus patiens.

Il pianto della scavatrice è il terzultimo, lungo poemetto della silloge, già apparso su' «Il Contemporaneo» nel 1957 (ma datato 1956 in calce). Pasolini torna sul motivo della città, Roma, e in particolare rievoca i primi tempi del suo esilio, dopo la fuga dal Friuli in seguito alla denuncia per atti osceni. Viveva presso Rebibbia con la madre, «povero come un gatto del Colosseo», e in quel «calvario» il giovane riusciva ad amare, «anche se non riamato», con gratuità d'amore luminosamente cristiana, anche se atea, e in una dimensione di sofferenza e di libertà insieme. Tutto l'impeto vitale di Pasolini è in quella «mescolanza di beatitudine e dolore», in quel «grido di gioia» che esce dalla ferita, in quell'estasi di angosciata, fidente e purissima vittima: «angoscia anche nella fiducia / che ci dà vita».

Il poemetto Una polemica in versi apparve in «Officina» nel novembre del '56: sulla stessa rivista Pasolini aveva pubblicato un articolo, La posizione, in cui criticava il «prospettivismo» e le durezze ideologiche degli intellettuali comunisti; sul «Contemporaneo» del giugno '56 era uscito un contrattacco redazionale e Pasolini rispondeva, appunto, con Una polemica in versi. Teatro è una Festa dell'«Unità», che si svolge «in un'aria di morte»; l'autore si rivolge ai comunisti (voi) accusandoli di «brutalità della prudenza» e di «ipocrisia del clamore», rimproverando loro sostanzialmente una mancanza di passione, un atteggiamento tattico di calcolo, un'incapacità di servire il popolo «nel suo cuore», invitandoli provocatoriamente «al religioso errore».

L'ultimo poemetto, La Terra di Lavoro, datato 1956 e uscito su «Nuovi Argomenti» nel 1957, descrive un treno affollato di pendolari, poveri lavoratori: sono soli, hanno per nemici ovviamente «il padrone», ma anche «il compagno che pretende / che lottino in una fede che ormai è negazione / della fede»; dolorosamente e sempre lucidamente Pasolini ammette che è loro nemica anche la sua stessa pietà. La frustrazione dell'impossibile identificazione, lo scacco di non poter essere popolo si ripropone in chiusa, straziante.

La raccolta si propone come innovativa, sul piano formale, per la scelta di una lingua poetica che tende alla prosa e al saggismo, pur inglobando il lirismo anche sublime, ma tendenzialmente "impuro" e pluringuisticamente contaminato, scavalcando sia l'ermetismo e il neoermetismo sia il neorealismo. Si adottano metri prenovecenteschi, di impronta magari dantesca e ancor più pascoliana (quasi tutti i pezzi sono in terzine di endecasillabi spesso ipermetri o ipometri, con sistema ritmico irregolare, ricco di assonanze, e con versi o emistichi isolati e irrelati), oppure di ascendenza più complessa: Il canto popolare è in strofe di nove endecasillabi a schema prevalente ABABCDCDC; L'umile Italia è in strofe di dieci novenari, con schema prevalente ABABACDCCD; Récit è in distici di martelliani, cioè doppi settenari, a rima baciata; la rima convive sempre con l'assonanza e l' 'irregolarità" è sempre armoniosamente amministrata.

 

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