Luigi
De Bellis

 


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Lettere di una novizia

 
 

Le stelle fredde

 
 

 

 
 

 

 

 





Guido Piovene



LETTERE DI UNA NOVIZIA: Romanzo


La prima lettera fu pubblicata - con il titolo Lettera di una novizia al suo confessore e con qualche variante rispetto alla successiva stampa in volume - nel novembre 1939.

Il romanzo, scritto in forma epistolare si compone di un'introduzione e di quarantadue lettere le quali ruotano attorno alla vicenda di Margherita (Rita) Passi, novizia in un convento veneto. La narrazione procede su due piani temporali: uno presente quello delle lettere, l'altro passato, cioè l'antefatto che conduce Rita a scrivere (il 17 luglio di un anno imprecisato, a pochi giorni dalla propria monacazione) al proprio confessore, don Giuseppe Scarpa, per esprimergli alcune perplessità in merito alla vocazione. La storia della protagonista - narrata nella sua interezza fin dalla prima lettera - emerge a fatica, tra menzogne, omissioni e successive integrazioni da parte di Rita stessa e di altri interlocutori (della madre Elisa, per esempio), sollecitate di volta in volta dalle missive stesse oppure dagli accadimenti esterni; ed è pertanto ricostruibile solo a posteriori per quel che attiene la dinamica dei fatti, mentre rimangono sostanzialmente oscure le ragioni e le intenzioni della protagonista. Don Scarpa, il quale, superficialmente, attribuisce a presunti «riscaldi della mente» la crisi di Rita, scompare presto e lascia il posto a colui che diviene il corrispondente privilegiato della giovane, nonché autentico deuteragonista del romanzo, don Paolo Conti, segretario del Vescovo, da questi incaricato di svolgere un'indagine a proposito della monacazione di Rita.

Rimasta presto orfana del padre, Rita ha trascorso l'infanzia con la madre, non particolarmente sollecita verso la figlia e tutta dedita ai propri amori effimeri, e con i nonni paterni, al contrario molto affettuosi (la nonna le faceva avere delle lettere che diceva essere scritte da Gesù), crescendo «docile e passiva e ignorante». Per correggerne il «carattere troppo difficile» e incline alla menzogna (ha accusato ingiustamente una cameriera di averla picchiata), la madre l'ha mandata in collegio: qui Rita è divenuta «docile e fredda», estranea alla compagnia delle altre ragazze e ha «deliberato di non amare più nessuno al mondo», dedicandosi a Dio. Compiuti i sedici anni, alla morte quasi contemporanea dei nonni, Rita ritorna a casa al termine della scuola e trova sua madre molto cambiata, insolitamente affettuosa con lei. Tra le due donne si stabilisce così un nuovo rapporto di confidenza, che talvolta sfiora la morbosità, e Rita si convince di esercitare un ruolo benefico nei riguardi della madre. Nel frattempo, malgrado la disapprovazione della mamma, che giudica rozza la gente del luogo, la ragazza, con l'aiuto della domestica Zaira, comincia a frequentare una compagna del collegio, Anna Carli, attraverso la quale conosce la contessa Verdi e suo figlio Giuliano di cui si innamora e con il quale progetta una fuga. La madre, intanto, vive una difficile relazione con un uomo dal quale non si sente ricambiata: per liberarsi della sua presenza assillante, Rita la rassicura contro ogni evidenza fino a spingerla a compiere un viaggio a Milano, che si rivela fallimentare. A questo punto gli eventi precipitano. Giuliano, che pure appare in piena sintonia con Rita (anche nel biasimo verso la madre), respinge l'idea della fuga e prospetta alla ragazza un matrimonio: nella lite che segue tra i due giovani, Giuliano resta ucciso da un colpo accidentalmente partito dal suo fucile da caccia. All'incidente assiste Zaira (il cui contributo è determinante per chiarire l'avvenimento a don Paolo), che diventa depositaria del segreto, insieme con Elisa, con l'altro cameriere Giacomo e con madre Giulietta Noventa, superiora del convento in cui Rita è stata rinchiusa per evitare lo scandalo.

Chiariti tutti i retroscena (soltanto alla lettera XXII), don Paolo, nonostante condanni con molta durezza le «abili e graduali menzogne» di Rita, comprende che la giovane non deve restare in convento e, con l'aiuto di Zaira, la fa fuggire per nasconderla in una casa fidata in città. Nella lettera XXVI il sacerdote spiega per esteso le ragioni caritatevoli che lo hanno spinto a occuparsi di una ragazza di cui deplora l'egoismo. Pochi giorni dopo la fuga (il 23 settembre) Rita viene vista in città dalla moglie di Cesare Colla, un chimico imbalsamatore che ha lavorato nel convento, il quale informa della circostanza l'amico commerciante Luigi Semin e gli chiede consiglio. Questi denuncia Rita alla superiora: interviene così la madre, che invia Giacomo per convincere la ragazza a rientrare in convento. Nel frattempo, don Paolo sta organizzando un'ulteriore fuga e scrive a Rita «voglio condurvi a una vita in cui l'anima vostra trovi la propria salvezza». La giovane equivoca le parole del prete, accusandolo di «lusinghe colpevoli», e chiede aiuto a un giovane vicino di casa, Michele Sacco. Nella lettera XXXVI (del 5 ottobre), questi narra che Rita, la mattina della fuga convenuta, ha ucciso Giacomo con una pistola. Al processo, raccontato da don Camillo Molin a don Carlo Rivello (lettera XXXVII del 22 novembre), Rita, che viene considerata pazza, dichiara di non essersi ribellata prima perché «io per mia indole non vado in fondo alle cose, e spesso mi lascio vivere, anche perché sono un po' pigra». Nella lettera XXXIX don Paolo, ormai trasferito per punizione, scrive a don Rivello meditando sulla propria vicenda: «La nostra fede dunque può anche vantarsi di una sublime incoerenza tra il cuore e l'intelletto, che talvolta dà la salvezza». Travolte, secondo le parole di don Rivello, da un «cieco e pazzo egoismo», Rita e sua madre, la quale si ammala gravemente, finiscono per riconciliarsi. Dall'ultima lettera (16 dicembre, dal cappellano del carcere a don Molin) si apprende che Rita è morta di polmonite, con il timore di essere giudicata malvagia. Le sue ultime parole sono: «Speriamo che Dio mi capisca».

Nella «Nota introduttiva», l'autore afferma che i personaggi del romanzo «tutti ripugnano dal conoscersi a fondo», dediti come sono alle loro piccole miserie. Rita, sua madre, la superiora rappresentano le mediocri personificazioni di quell'«intima diplomazia», se non proprio «malafede», che fa «regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza». Lo stesso don Paolo, il più incline a interrogare la propria coscienza, svela «la ripugnanza di veder chiaro» in se stessi. Alla vicenda fa peraltro da sfondo il paesaggio del «Veneto di terraferma», che non resta in secondo piano, anzi esercita una funzione considerevole nell'economia del testo, giacché la sua «mollezza» rappresenta l'aspetto più evidente del carattere di Rita.
Ispirato senza dubbio a modelli secenteschi e settecenteschi (dalla letteratura gesuitica al romanzo epistolare), il testo conduce tuttavia un'operazione tutta novecentesca, moltiplicando i piani della narrazione e soprattutto i punti di vista, per cui, come ha indicato Giorgio Bárberi Squarotti, la «dissoluzione della narrazione realista non potrebbe essere più completa e radicale».

Il libro ha conosciuto un ampio successo. È stato tradotto in numerose lingue, tra cui francese, spagnolo, portoghese, ceco, polacco. Nel 1960 ne è stato tratto un film diretto da Alberto Lattuada (sceneggiatura di Lattuada e di Enrico Medíoli), con Pascale Petit, Jean-Paul Belmondo e Massimo Girotti.

 

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