Luigi
De Bellis

 


 HOME PAGE 
  
Opere riportate:

     
 

Il soldato Cola

 
 

 

 
     
     
     

 





Mario Puccini



IL SOLDATO COLA: Romanzo


Pur annunciato nel 1918 come Storia di un soldato semplice, il romanzo venne effettivamente redatto - secondo l'indicazione dell'autore tra il 1917 e il 1927, anno in cui usci la prima edizione, con il titolo Cola, riproposta senza modifiche nel 1931, ma modificata in modo sensibile nel 1935.

Il romanzo è suddiviso in tre parti più un «Epilogo», per un totale di trentasette capitoli. Nell'edizione del 1935 comparve una dedica al Duce, probabilmente dettata dalla necessità di far passare un messaggio, come quello contenuto nel libro, non facilmente tollerabile dal regime. La vicenda narrata ha inizio nel febbraio del 1916, quando il reggimento di fanteria del protagonista - costituito da «uomini tutti sui trent'anni» - giunge alle pendici dal Monte Nero e viene acquartierato nel paese di Ausa per l'addestramento. I primi capitoli sono dedicati soprattutto alla descrizione dei vari personaggi, a cominciare da Giuseppe Cola, un contadino toscano con moglie e quattro figli, emigrato in Francia per lavoro. Di estrazione contadina sono molte delle reclute che compongono il solo reparto; non mancano però i borghesi, come il trombonista Vezzani e il giornalista e scrittore Vencini. Questi è amato dalla truppa poiché, pur avendo un'istruzione superiore, ha scelto di non fare l'ufficiale per «toccar con mano il sacrificio». Inoltre, egli «si fa in quattro per quelli che non hanno nessuna istruzione e non sanno difendersi con le loro parole». Nell'economia del romanzo, oltre a rappresentare una sorta di alter ego dell'autore, Vencini si configura come il portavoce dell'interventismo, opposto alla riluttanza dei contadini (gente che «non ha davvero urlato per le strade di Milano viva la guerra»). A Cola, come a molti altri, infatti, le ragioni del conflitto restano completamente estranee: egli non comprende perché si debba liberare una popolazione, quella del Carso, «che ha in bocca non una lingua ma una raspa», ed è convinto che non valga la pena di morire per il confine, dal momento che «le nostre famiglie più che del confine hanno bisogno del capo di casa».

Nel periodo dell'acquartieramento i soldati dimostrano di avere solo una vaga idea della guerra di trincea, essendo attratti più che altro dal gioco delle carte (il ricorrente «sette e mezzo») e dalla bottiglia. I numerosi lavori di fatica affidati al reggimento di Cola - come il traino notturno di pezzi di artiglieria da montagna che apre la seconda parte - documentano la considerazione di cui gode la «fanteria scalcinata», arma «nata a servire» gli altri, composta di poveri disgraziati. Proprio durante una di tali operazioni, muore il primo soldato. Allo scopo di irreggimentare meglio la truppa, arrivano i caporali, provenienti dalla trincea, tra i quali si fa notare Gallo, che solidarizza facilmente con i soldati semplici. Al termine dell'addestramento, il reparto muove verso la propria destinazione: tra marce e trasferimenti in treno si giunge infine a Marostica; ha così inizio la terza parte del romanzo.
Nella cittadina veneta il plotone viene diviso e Cola perde di vista Vezzani, mentre rimane con Vencini. Alla visita medica alcuni sono destinati al fronte, mentre altri vengono dichiarati inabili; tra questi c'è Cola, al quale vengono diagnosticati «anemia e cardiopalmo». Il duro e audace Carboni, giudicato anche lui inabile, fugge e raggiunge il proprio reparto, ormai partito, pur di andare in trincea. Assegnato a un nuovo plotone, Cola ritrova i suoi ex commilitoni Tarenghi e Filibbini, e ne conosce di nuovi. Giunto ad Asiago, vi trascorre, quale «soldato presidario», parte della primavera: in virtù della diligenza che lo contraddistingue, viene nominato attendente del tenente. Alla ricerca di una lavandaia che lavi le camicie dell'ufficiale, ha una fugace avventura con una donna di nome Nanne; nonostante sia tormentato dal peccato, il giorno di Pasqua non trova il coraggio di confessarlo al prete. La tranquilla vita della presidiaria viene bruscamente interrotta da una pesante offensiva austriaca (Asiago è sottoposta al tiro dell'artiglieria nemica); anche il reparto di Cola è così costretto a salire in montagna per conoscere finalmente «la guerra vera», titolo dell'ultimo capitolo della terza parte. Cola ha modo di mettersi in mostra per la destrezza con la quale riesce a svolgere le missioni che il tenente gli affida, ma nel corso di una di queste viene ferito.
L'epilogo vede il protagonista in ospedale, con il braccio destro amputato. La disgrazia non lo abbatte; al contrario, comprende che l'importante è essere vivo, e conclude che la moglie, alla quale pensa di continuo con un senso di colpa, «si convincerebbe anche lei che questo taglio con la pensione ed il resto erano la mano di Dio». Nel giardino dell'ospedale il protagonista si imbatte ancora una volta in Vencini, ferito alla testa, e a lui, tra alcune incertezze, ricostruisce le circostanze del proprio ferimento. Timoroso che la perdita del braccio sia una punizione divina per il peccato mai confessato, fa penitenza con un ufficiale cappellano. Ormai con l'animo sempre più leggero, pochi giorni prima di partire ritrova Vezzani, ricoverato nello stesso ospedale e restio a farsi curare; Cola cerca di alleviarne la disperazione, infondendogli fiducia nei medici e nella vita. Il romanzo si chiude con la partenza di Cola per casa.

«Com'è buona la gente povera, qualunque sia la razza da cui vien fuori e il dialetto che parla»: in questa constatazione di Cola è inscritta buona parte del programma del romanzo, cioè la volontà di sottolineare le ragioni dei contadini, sottomessi a leggi fatte «pei ricchi», ma capaci di prendere facilmente Trento e Trieste se solo si avesse il coraggio di assegnare loro «un premio bello come quello di regalargli la terra». Si tratta insomma, come ha scritto Mario Isnenghi, di «recuperare la guerra degli anonimi; dare voce all'uomo-massa», di cui Cola costituisce la massima espressione. Risiedono qui le ragioni della notevole coralità del testo, perseguita attraverso uno stile volto a riattivare alcuni dei procedimenti più tipici della scrittura verghiana, dal discorso indiretto libero all'incontro tra lingua e dialetto (il toscano, nella fattispecie), utilizzato con minore frequenza rispetto al modello di riferimento.
In virtù della tematica, di grande interesse nel primo dopoguerra, il romanzo - che aveva riscosso l'ammirazione di Thomas Mann - venne prontamente tradotto in francese e in spagnolo.
Nel 1978 è uscita un'edizione, introdotta da Ruggero Jacobbi, che recupera alcune ulteriori varianti che l'autore aveva apportato nel 1952, in occasione di una mancata ristampa.

 

HOME PAGE


Copyright ¿ 2002 Luigi De Bellis.
Webmaster: letteratura@tin.it