Luigi
De Bellis

 


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Opere riportate:

     
 

Pianissimo

 
 

 

 
 

 

 
     
     

 





Camillo Sbarbaro



PIANISSIMO: Raccolta di Poesie


Pubblicata per la prima volta nel 1914, con la dedica «A mio padre», la silloge fu poi ristampata, per iniziativa di Neri Pozza, a Venezia, nel 1954, in una versione rinnovata. Delle poesie del '14 dieci furono espunte, nove dalla prima sezione e una dalla seconda. L'interessante scelta editoriale di Neri Pozza poneva in maniera speculare due redazioni della raccolta: quella frutto dei numerosi rimaneggiamenti operati dall'autore lungo i quarant'anni trascorsi, e quella originale. Un'introduzione, scritta dallo stesso Sbarbaro, spiegava le ragioni dei mutamenti stilistici.
Le diverse stesure delle poesie presentano varianti tipografiche - nella distribuzione degli spazi bianchi e nella divisione in strofe -, varianti morfosintattiche e un adeguamento lessicale («Talor» che diventa «A volte», in Talor, mentre cammino solo al sole) o addirittura semantico («non d'ira o di speranza / e neppure di tedio» trasformato in «non d'ira o di rivolta / e neppure di tedio», in Taci; anima stanca di godere), in funzione sia del diverso contesto culturale in cui venivano riproposte le liriche, sia dell'evoluzione personale dell'autore.
La scelta di porre le poesie del 1954 a precedere quelle della prima redazione è indicativa della volontà dell'autore di mantenere per le nuove il diritto al ruolo di rappresentanti della sua ultima fase, lasciando alle poesie del 1914 la sola testimonianza storica di un periodo importante della sua vita.
Il titolo che il poeta voleva dare alla sua opera, Sottovoce, non piacque ad Ardengo Soffici e a Giovanni Papini, interessati alla sua pubblicazione. Esclusa anche la proposta di Soffici, che voleva fosse intitolata Grisaglie, fu accolta infine l'idea che Papini aveva avuta durante un concerto: Pianissimo, appunto.

L'edizione vociana si componeva di trenta liriche, divise in due sezioni: le prime venti datate «inverno 1912» , e le successive dieci che recavano come indicazione di chiusura «maggio 1913». Queste liriche venivano dopo un periodo di «siccità» poetica, e testimoniano perciò il momento di transizione che il poeta stava vivendo, «dove sull'affiorare di torbidi istinti e di nausee sessuali dominava il lutto, patito in anticipo, per la morte che vedevo prossima di mio padre». La raccolta è infatti imperniata, soprattutto nella prima sezione, su un grave senso di colpa verso il genitore morente.
I temi che appaiono più evidenti, e che ritornano con un'insistenza quasi ossessiva, riguardano principalmente la solitudine del poeta, la sua estraneità e il carattere illusorio della complicità che la natura sembra manifestare nel rapporto con l'uomo. Un momento, un bagliore di coscienza durante il sonnambulismo che distingue la vita, e tutto viene compreso nella sua insignificanza: «un improvviso gelo al cor mi coglie» (Talor, mentre cammino solo al sole). E allora il poeta si lascia trasportare, quasi senza vita, in assenza di gioia o dolore, dalla «Necessità». Descrive quindi il senso di abiezione all'uscita di un bordello, la rinuncia alla virtù per abbrutirsi nella colpa (ritorna l'ombra del padre) o ancor più per annullarsi nell'indifferenza morale, nell'oblio. Il suo è un inno al Sonno, dolce fratello della Morte, invocazione alla perdita di sé.
Con Padre, se anche tu non fossi il mio, Sbarbaro svela l'amore per il padre, attraverso ricordi di vita semplici, capaci di riempire il cuore di quelle lacrime che più avanti, con lacrime, sotto sguardi curiosi, divengono lo strumento di riconciliazione con se stesso e con gli altri.

Agli slanci emotivi fa però sempre da contrappeso l'annichilimento cui porta la tragica consapevolezza degli abissi di silenzi, di incomunicabilità, di estraneità che si spalancano tra uomo e natura, tra uomo e storia: «Una parola, Taci, e si svela tutta la poetica di Sbarbaro, una tonalità asciutta, oggettiva, che rifiuta l'eccesso di abbandoni sentimentali» (Giovanni Getto).
La disperata ricerca del dolore diviene perciò, paradossalmente, l'unica fonte di vitalità contro l'indifferenza, l'annullamento nella meccanica necessità. Strumento di salvezza, o palliativo del dolore, è la poesia: «Ed io lavorerò allora all'altro / scopo pei quale vivo, di lasciare / un segno al mondo che sono stato anch'io» (Forse un giorno, sorella, noi potremo).

Le liriche della seconda sezione non portano rilevante varietà di temi, se non una maggiore partecipazione in un mondo di «marginalità» che stavolta il poeta allarga dal suo io ad altri personaggi emblematici: prostitute, ubriachi, disperati che vagano per le strade la notte «sulla sponda della via», alla ricerca di un'occasione qualsiasi che li faccia sentire finalmente vivi.

Solitamente inscritto nell'area "vociana", difficilmente Sbarbaro può essere catalogato in una corrente poetica ben definita, facendo parte di quel gruppo di scrittori - come Umberto Saba o Sandro Penna - in cui temi e figure restano intatti al di là di qualsiasi tendenza alla moda. Scrivendo di lui, Giuseppe Prezzolini confessava: «Non ho mai capito l'orgoglio dell'umiltà come nella sua figura e nel suo esile e puro canto fatto d'angoscia universale». Secondo Pier Vincenzo Mengaldo, «Pianissimo risultò, assieme ai versi giovanili dell'affine ma più vitalistico Saba, il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all'eloquenza tradizionale, senza l'aria di volerlo fare: altrimenti detto, il prosaismo e il tono dimesso di monologo qui non stanno più in funzione di controcanto ironico, ma si offrono come una pronuncia necessaria e naturale».

 

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