Luigi
De Bellis

 


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La sera andavamo in via Veneto

 
 

 

 
 

 

 
     
     

 





Eugenio Scalfari



LA SERA ANDAVAMO IN VIA VENETO: Autobiografia


Malgrado la decisa affermazione iniziale, «questa non è un'autobiografia» l'opera è sospesa tra la memoria intenerita di un lontano passato e la cronaca compiaciuta di eventi che riguardano l'immediato presente dell'autore, suffragati da una citazione puntigliosa di nomi e di date. Scalfari si appresta a fare, sia pure implicitamente, un rendiconto: tracciare la «storia di un gruppo dal "Mondo" alla "Repubblica"», come recita il sottotitolo, vuol dire ripercorrere, illustrandone il senso, le tappe di un'esistenza che, dalla pratica giornalistica, sono legate indissolubilmente alle principali vicende dei Paese. Come a dire che, attraverso la vita di una testata, si può ricostruire senz'altro il percorso di un individuo, di una cerchia intellettuale e quindi di un'intera nazione.

Il volume contiene un indice dei nomi e un apparato iconografico dedicato ai fatti salienti della vicenda umana e professionale dell'autore, ed è diviso in quattro parti che coprono un lasso di tempo quarantennale, dal dopoguerra ai giorni nostri: «I nomi, i luoghi, i libri», «Gli amici del "Mondo"», «Gli anni dell"Espresso"», «"La Repubblica" prende il mare». La distribuzione della materia pone perciò l'accento sul ruolo pubblico del protagonista, e in effetti in prima battuta ci si trova di fronte a una riflessione di mestiere, alquanto autocelebrativa e condotta in una forma garbatamente conversevole. Il lettore viene così introdotto nell'ambiente elitario e un poco snob del «Mondo», celeberrimo periodico fondato da Mario Pannunzio nel 1949. Il settimanale, in continuità con il pensiero liberale otto-novecentesco intendeva proporsi come qualificata sede di riflessione intorno alla quale far convergere la parte illuminata del Paese, disposta a riconoscersi nell'autoironica definizione del direttore: «Progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel costume». Scalfari comincia in quest'ambiente la propria carriera, ma pochi anni dopo avverte la necessità di passare da «un giornale di gruppo a un giornale per il mercato». È il momento del sodalizio con Arrigo Benedetti. La figura dell'ex direttore dell'«Europeo» introduce una lunga meditazione sulle caratteristiche che possono rendere un giornale appetibile al grande pubblico: una scrittura chiara e d'impatto, disposta anche alla drammatizzazione e alla spettacolarizzazione delle notizie; il ruolo centrale lasciato alle fotografie che, nel caso dell'«Europeo», tanto collaboravano al successo dei celebri reportages. Tale è la formula che caratterizzerà, appena rivitalizzata dall'aggiunta di collaboratori illustri, prima «L'Espresso» (1955) e poi «La Repubblica» (1976), le due imprese che vedono l'autore sempre più nel ruolo di protagonista del mondo dell'informazione. Di nuovo, con una delle sue frequenti incursioni didattiche, Scalfari proietta la saggezza del presente sull'esperienza avviata dieci anni prima e si cimenta in un'analisi del successo di «Repubblica», cui viene attribuito un forte rilievo emblematico. Cinque sono i motivi che hanno concorso alla riuscita dell'ambizioso progetto editoriale: una solidità economica, tale da garantire libertà di giudizio e di denuncia; una disponibilità del pubblico giovane e femminile verso un prodotto «che lasciava spazio a indipendenza ed immaginazione»; la concomitante crisi del «Corriere della sera» e la capacità di «Repubblica» di catturarne i lettori scontenti; la ricerca da parte dell'opinione pubblica di sinistra di un quotidiano da aggiungere o sostituire all'organo di partito, ormai invecchiato; ultimo, ma non meno importante, l'apporto d'immagine e di mezzi fornito dalla prestigiosa casa editrice Mondadori, che pubblicava la testata.

Dietro quest'elenco, che combina fenomeni di costume, mondo della finanza e rapporti con i partiti, si cela il messaggio dell'autore: nessuna attività intellettuale, e la giornalistica in particolare, è efficace senza una comprensione chiara del contesto politico, economico, culturale nel quale deve inserirsi e operare. Di conseguenza, i tre settori vengono frequentemente chiamati in causa in tutto il volume. Da Montecitorio alla grande azienda, i ritratti di imprenditori e politici, visti da vicino e con l'occhio di chi si muove a suo agio tra colleghi, Si susseguono infatti a ritmo serrato: De Benedetti, Agnelli e Olivetti, Ugo La Malfa e Pietro Nenni, Aldo Moro e Berlinguer, Pertini e Cossiga, Craxi e Andreotti, e perfino, risalendo a ritroso, un Togliatti che chiacchiera amabilmente durante un dopocena e un giovanissimo Marco Pannella del quale si traccia un astioso profilo. Il tono è, per una volta, mondano e divulgativo, quasi privo del sussiego che caratterizza i celeberrimi editoriali di Scalfari.

Sul filo dell'appunto veloce e delle rivelazioni di corridoio e di ristorante, vengono tratteggiati con estrema abilità il caso Moro, il compromesso storico, il '68. Il piglio di chi ha sempre fatto parte di certi ambienti è però giustificato. In fondo, il gruppo di coloro che la sera andavano in via Veneto negli anni Cinquanta contava al suo interno personalità eminenti: Saragat, per esempio, ma anche scrittori come Elsa Morante e Alberto Moravia. E le pagine dedicate alla rievocazione del magico periodo hanno un deciso timbro letterario, appena venato di nostalgia. La brigata intellettuale che si preparava a svolgere un ruolo di primo piano nei destini italiani viene descritta come una geniale congrega impregnata sì di crocianesimo, ma con il cuore rivolto ai film di Federico Fellini, Otto e mezzo soprattutto. Insomma, un «gruppo d'uomini indecisi a tutto», secondo l'autodefinizione di Ennio Flaiano, misogini e voyeurs, che si sono macerati su Friedrich Hegel, Eugenio Montale, Francis Scott Fitzgerald, ma più d'ogni altro su Marcel Proust.

È proprio alla lezione della Recherche - «libro di capezzale senza la conoscenza del quale l'appartenenza al gruppo restava largamente imperfetta» - che nelle ultime righe Scalfari si confessa debitore. Il lungo viaggio a ritroso, nel tempo e nelle redazioni giornalistiche, è cominciato infatti sull'onda del dolore per la morte dell'amico e compagno di liceo Italo Calvino, perché, ci vien detto citando il Tempo ritrovato, «mi sembrava che non avrei avuto la forza di tenere avvinto a me quel passato che discendeva già così lontano».
Da qui nasce il tentativo di riunire i tre filoni, giornalistico, politico ed esistenziale, ordinando insieme una galleria di ritratti perché, in conclusione, se «la sola storia possibile è quella che si ricostruisce da dentro attraverso la memoria di sé», è anche vero che «il senso di una storia non può che essere corale».

L'opera incontrò un discreto successo: la prosa vivace, l'autorevolezza di Scalfari, già assai noto al grande pubblico, garantirono una buona circolazione del testo. Immediate, discordanti e piuttosto accese le reazioni della critica militante, che guardò poco all'aspetto letterario, invero scarsamente significativo, accanendosi invece sui contenuti di ordine politico-culturale di «un libro orgoglioso, di una sgradevolezza ricorrente, davvero troppo scritto in prima persona e col piglio del protagonista che vede giusto», come lo bollò la rivista «Letteratura». Le recensioni più equilibrate e distese sono di Alberto Asor Rosa e Vittorio Spinazzola, nonché del poeta Giovanni Giudici, tutte volte a sottolineare il valore di testimonianza storica del «viaggio nella memoria di un liberal italiano».

 

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