LETTERATURA ITALIANA: PETRARCA

 

Luigi De Bellis

 


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Francesco Petrarca


Laura
a cura del prof. Mario Fubini

È la donna amata dal Petrarca, cantata nel Canzoniere e nei Trionfi. Per lei il poeta rinnova gli elogi degli "stilnovisti" e ne fa il tipo di ogni virtù e perfezione, che diffonde intorno a sé purezza e beatitudine: ma quei motivi rimangono laterali nell’opera sua o sono trasfigurati in una nuova concezione terrena e umana della donna e dell’amore, per la quale la bellezza è celebrata non come simbolo di verità o virtù, o come mezzo di ascesa spirituale, ma per se stessa, nel suo ineffabile e pur reale valore. E Laura è innanzi tutto bella, bella non della bellezza di Beatrice e delle altre donne dello "stil novo", luminose e indefinite come l’angelo del Purgatorio che "col suo lume se medesmo cela"; ma di una bellezza che, pur spiritualizzata, resta ciononostante terrena, oggetto non solo di adorazione estatica, ma di trepido desiderio: e quella bellezza il poeta non si stanca di vagheggiare, rievocando nella memoria "Gli occhi sereni e le stellanti ciglia, - La bella bocca angelica di perle - Piena e di rose e di dolci parole" e riascoltando dentro di sé "il riso e il canto e il parlar dolce umano", ritraendola come l’ha veduta in momenti fugaci e indimenticabili, e, morta, ancora ridicendone a se stesso tutto l’incanto: "Gli occhi di ch’io parlai si caldamente e le braccia e le mani e i piedi e ‘I viso - Che m’avean si da me stesso diviso - E fatto singular da l’altra gente, - Le crespe chiome d’or puro lucente - E ‘I lampeggiar de l’angelico riso - Che solean fare in terra un paradiso... ". Né la bellezza di Laura per lui e per noi si può disgiungere dalla natura in mezzo a cui la donna si muove ed è partecipe della sua umanità, così come ella sembra partecipare della perenne freschezza della vita naturale, così l’immagine di lei si associa a quella di verdi solitudini, di prati luminosi, di acque mormoranti ("Qual miracolo è quel quando fra l’erba - Come un fior siede Io ver quand’ella preme - Co ‘I suo candido seno un verde cespo"), e noi la vediamo mentre sul prato fiorito se ne va "sola co’ pensier suoi ‘insieme - Tessendo un cerchio a l’oro terso e crespo" o quando sul "fresco, ombroso, fiorito verde colle siede or pensando ed or cantando", e, pur lontana, ne sentiamo col suo poeta la presenza nel fruscio delle fronde e nel mormorio delle acque di un ombroso recesso ("Parmi d’udirla, udendo i rami e l’ore - E le frondi e gli augel lagnarsi e li acque - Mormorando fuggir per l’erba verde"). Persino dopo la sua morte, più che nel Cielo ove di rado è sollevato, il poeta la ritrova in mezzo alla verde natura, ove la sua presenza è ancora diffusa in ogni cosa ed egli la rivede e la ascolta viva ("Se lamentar augelli o verdi fronde - Muover soavemente a l’aura estiva... "; "Or in forma di ninfa o d’altra diva - Che dal più chiaro fondo di Sorga esca, - E pongasi a sedere in su la riva - Or l’ho veduta su per l’erba frese, - Calcar i fior com’una donna viva...") Tutte queste immagini si raccolgono, come intorno a un centro ideale intorno alla grande visione della canzone "Chiare, fresche e dolci acque", la visione, da cui il poeta non si sa staccare e a cui sempre ritorna, di Laura com’egli l’ha veduta in un "benedetto giorno", accanto alle acque correnti, appoggiata al tronco di un albero, avvolta in una pioggia di fiori: "Da’ bei rami scendea - (Dolce ne la memoria) - Una pioggia di fior sovra ‘I suo grembo". Pensiamo a una dea pagana, e il poeta stesso altrove ce ne suggerisce con la sua domanda l’immagine: "Qual ninfa in fonti, in selve mai qual dea - Chiome d’oro si fino a l’aura sciolse?" ma in realtà a significare il nuovo senso che egli ha della bellezza gli soccorrono immagini classiche e immagini cristiane e l’une e le altre si fondono nella figurazione della bellissima, ignota così al mondo antico come al mondo medievale. La Laura a cui s’inchina festante come a sua dea la natura primaverile è pur la medesima creatura intorno a cui, al suo giungere nel cielo, come un giorno intorno al Cristo risorto, si affollano ammiranti "li angeli eletti e l’anime beate" e che in quel trionfo celeste "si paragona pur coi più perfetti" e a dire la beatitudine che dagli occhi di lei si diffonde in chi li contempla, il poeta non teme di paragonarla alla beatitudine che la visione di Dio infonde nelle anime del Paradiso "Pace tranquilla senza alcun affanno - Simile a quella che nel cielo eterna - Move dal loro innamorato riso.." E soltanto per metafora può dirsi ellenica la figurazione della morte di Laura nel Trionfo della morte nella quale sullo sgomento e l’orrore prevale il senso della bellezza divina, vittoriosa della morte stessa e composta nella purezza inalterabile di un bassorilievo sepolcrale ("Morte bella parea nel suo bel viso"): uno dei vertici della poesia petrarchesca e una delle più compiute espressioni di quell’idealità che si incarna nella figura di Laura. La quale è per il poeta al centro dell’universo, miracolo nuovo che dà spirito e senso alla vita terrena e che dileguandosi lascia in terra una solitudine desolata ("Nel tuo partir partì del mondo Amore - E Cortesia"): oggetto di meraviglia per tutti gli uomini, ella è il soggetto più degno della poesia, a cui il poeta sente inadeguate le proprie forze ma che di continuo riprende, beato, fra le sue amarezze e afflizioni, di essere stato eletto a suo cantore, di avere ottenuto, per grazia sua, il dono della poesia e della gloria che ne consegue. Così Laura, l’ispiratrice e il tema dei suoi versi, si confonde più d’una volta con la stessa poesia e con la gloria poetica, e l’entusiasmo dell’amante sembra essere una cosa sola con l’entusiasmo del poeta per la propria vocazione e per il premio perseguito attraverso dolori e travagli. Laura è pur il nome della corona poetica, della fronda di quell’albero che fu già una ninfa (Dafne) invano amata da Apollo, e che ora eterno verdeggia sacro al biondo Dio della luce e della poesia: idoleggiando la sua donna, il poeta si compiace di intessere la sua con l’antica storia di vedere in Laura la risorta Dafne, di vedere nel Sole che sull’amata risplende il Dio che un giorno l’ha amata e che ancora la vagheggia ("Almo sol, quella fronde ch’io sola amo - Tu prima amasti... "). Ne nascono, come dall’altro gioco "Laura - L’aura", vaghe fantasie, e, con esse, l’emblema della poesia petrarchesca: "Giovane donna sotto verde lauro" e (congiunte in una sola le due figure, la donna e l’albero l’oggetto della poesia, la poesia e il suo premio "Arbor vittoriosa, triunfale - Onor d’imperadori e di poeti". Ma Laura non è tutta nell’estetica perfezione della sua figura, come la poesia del Petrarca non è soltanto la lirica celebrazione della bellissima: I’amata vive nella vita dell’amante, nelle sue brevi gioie e nei suoi più lunghi tormenti, e la figura immobile di lei si anima per l’intera dialettica della passione del poeta, il quale ha fatto suo idolo di una creatura e non può più, fra gli alterni moti di entusiasmo e di rimorso, di dedizione e di dubbio, ritrovare la pace. Laura, fonte di beatitudine, può diventare così Medusa. il volto stesso del peccato che impietra ("Medusa e l’error mio m’ha fatto un sasso - D’umor vano stillante"), e, altra volta, deposto l’aspetto di altera onestà, apparire al poeta vaga e vana della propria bellezza e lieta, nella sua fredda civetteria dell’amore che ha suscitato e che non sa ricambiare ("E certo son che voi diceste allora: ‘Misero amante Ia che vaghezza il mena?’ Ecco lo strale onde Amor vol ch’e’ mora"). Qual è l’animo vero di lei? Il poeta non cessa di chiederselo ritornando di continuo al pensiero di colei "che sempre gli è si presso e sì lontano", e noi con lui crediamo a volte di intravederlo in un atto più benigno, in un saluto, in uno di quei silenzi, che solo gli amanti possono intendere ("Chinava a terra il bel guardo gentile, - E tacendo dicea com’a me parve: - Chi m’allontana il mio fedele amico?"), o con lui ancora fantasticando su quello che può essere e che forse molto probabilmente, non è ("E forse io che spero? il mio tardar le dole"). Ma quel dualismo quell’estraneità dei due spiriti tende a dissolversi nelle rime in morte: scomparsa dalla terra, Laura è viva per il suo poeta, e, si direbbe, per lui solo, e anche il passato, quel passato che gli era stato così penoso, si illumina ora per lui di una nuova luce. Non solo a dirgli parole di ascetica saggezza, Laura scende ora dal cielo, ma per confortarlo con femminile sollecitudine, come madre e come sposa (‘Né mai pietosa madre al caro figlio - Né donna accesa al suo consorte amante..."),`e quelle stesse parole valgono, più che per quanto significano per l’affetto che le impronta. per gli atti che le accompagnano: "Con quella man che tanto desiai - M’asciuga gli occhi... ". A lei il "soave suo fido conforto" e, il poeta può dire le sue pene, quelle di oggi e quelle di ieri, tutto quanto aveva voluto e non aveva saputo dirle mentre ella viveva. Qui, meno ancora che nelle rime in vita, Laura può ricordare Beatrice: ché, pur beata, gli occhi suoi sono rivolti alla terra e anche nel sonetto nel quale il poeta narra di essere stato sollevato al terzo cielo accanto a lei, alla terra guarda e all’amato che per lei ha sofferto e che le ha fatto più cara la sua bellezza: "Te solo aspetto, e quel che tanto amasti - E là giuso è rimaso, il mio bel velo ". Non vi sono ora più fra loro ripari né schermi: le loro vite, la vita del poeta come quella di lei appaiono ora tutte dominate da quell’affetto unico, immortale. Ora il poeta, ritornando al passato, può ritrovarvi l’intimità del presente e intendere quanto in quell’ultimo, fatale giorno dopo il quale non doveva più rivederla, gli occhi di lei gli avevano detto rivolgendosi ai suoi: "Rimanetevi in pace, o cari amici; - Qui mai più no ma rivedremme altrove ", ora finalmente nella visione descritta nei Trionfi ("La notte che seguì l’orribil caso"), può rivolgere a lei quella domanda, tante volte formulata dentro di sé: "Creovvi Amor pensier mai nella testa - D’aver pietà del mio lungo martire?", e la donna può rispondergli: "Mai diviso - Da te non fu ‘I mio cor né giammai fia", e, senza abbandonare un delicato pudore, confessare il proprio compiacimento per l’amore di lui e per la poesia che l’ha cantata, e mostrarsi consapevole del tormento della sua passione, e aprire a lui il segreto così a lungo nascosto del proprio animo: "Fur quasi eguali in noi fiamme amorose... Teco era ‘I cor, a me gli occhi raccolsi ". Cosi si risolve il dramma e si compie la figura di Laura, che la poesia del Petrarca ha fatto per tutti i tempi quasi il simbolo di ogni creatura amata, dell’intima contraddizione e dell’ineffabile beatitudine della passione d’amore. 

 
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