LETTERATURA ITALIANA: L'ETA' DEL REALISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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REALISMO

 
Giosué Carducci

L'impegno civile. La poetica

Nell’ambito della poesia realistica, ma con voce ben più possente e affatto singolare, si inquadra la produzione artistica di Giosue Carducci, il quale, però, non rivolse la propria attenzione al mondo degli umili, dei diseredati, ma guardò più in alto, alla “stirpe” italica, che gli sembrava aver toccato il fondo della miseria morale, aver quasi dimenticato gli antichi fasti, aver perso l’energia primitiva che l’aveva fatta assurgere a regina dei popoli nell’età romana. Il Carducci meditò a lungo, anche se con scarso rigore scientifico e molto indulgendo al suo temperamento gagliardo e impulsivo, sulle cause che avevano determinato l’infiacchimento della coscienza nazionale del suo tempo, e concluse, molto superficialmente, che esse erano da ricercare nell’infausto innesto d’una smidollata letteratura europea sulla pianta vigorosa della secolare gloriosa tradizione italiana: segno, que­sto, che a lui sfuggì completamente il senso profondo del romanticismo europeo (d’altra parte egli solo in età avanzata si avvicinò ad autori europei come l’Hugo, il Platen, l’Heine e lo Shelley). Da questa visione della realtà sociale del suo tempo e della sua patria, maturò la determinazione di indirizzare la propria attività di poeta e di critico verso un preciso impegno di natura “civile”, tendente al “risorgimento” della coscienza nazionale.

Di qui la sua violenta avversione al romanticismo imperante nella letteratura italiana (ovviamente a quello suo contemporaneo, che oggi si definisce “secondo romanticismo” e che in effetti rappresenta solo la crisi dei valori espressi dal vero e proprio romanticismo: una crisi che va attribuita a precise ragioni storiche, come abbiamo visto a suo luogo, e non già alle influenze straniere intraviste dal Carducci) e la risoluzione a ripristinare nelle lettere l’antico splendore dell’arte classica, che egli considerava l’unica congeniale al popolo italiano ed autentica espressione di virilità e di grandezza. “Scudiero dei classici” egli si proclamò e tutta la vita spese nella sua missione civilizzatrice, alternando alle sue vigorose scudisciate critiche contro le facili romanticherie dei contemporanei, esempi di monumenti poetici ispirati all’orgoglio della stirpe, maestosi e solenni, frutto di una elaborazione stilistica lungamente sofferta e faticosamente maturata, che desse già di per sé il segno del decoro, il senso della conquista e rappresentasse già di per sé uno schiaffo beffardo alla faciloneria dei “romantici” rammolliti e impotenti. Ecco come il Carducci definisce il poeta nella lirica che conclude la raccolta delle “Rime nuove” (ed è perciò intitolata “Congedo”):

Il poeta, o vulgo sciocco,
un pitocco
non è già, che a l'altrui mensa
via con lazzi turpi e matti
porta i piatti
ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.
E né meno è un giardiniero
che il sentiero
de la vita co 'l letame
utilizza, e cavolfiori
pe' signori
e viole ha per le dame.
Il poeta è un grande artiere,
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
capo ha fier, collo robusto,
nudo il busto,
duro il braccio, e l'occhio gaio.


Il Carducci esercitò un notevole fascino sulla gioventù italiana del tempo e dominò largamente nella cultura di circa mezzo secolo, nonostante i limiti che bisogna purtroppo riconoscere ai suoi orizzonti culturali. Nota opportunamente il Cappuccio: «La gioventù italiana per lunghi anni orientò la propria vita sulle sue parole: fu con lui antiromantica, anticlericale, classicheggiante, esaltò la patria, la libertà, la giustizia, volle una vita sana, gagliarda, operosa. Egli fu il maestro, l'ultimo poeta-vate del Risorgimento. Ma nonostante tutto, i suoi ideali, il suo magistero nazionale ebbero sempre qualcosa di chiuso e di angusto. Il suo mondo spirituale, la sua cultura, il suo pensiero si movevano dentro un orizzonte limitato. La sua cultura fu certo ricchissima, ma quasi interamente ristretta alla nostra storia e alla nostra tradizione letteraria». 

Cenni biografici 

Nato a Val di Castello il 27 luglio 1835, dal '39 al '49 visse a Bolgheri, dove si era trasferito il padre Michele, medico condotto. A Firenze studiò poi presso gli Scolopi e nel '53 passò a frequentare la facoltà di lettere presso la Normale di Pisa, dove a soli venti anni si laureò. Nel '56, con Chiarini, Gargani e Targioni-Tozzetti, formò il gruppo degli “amici pedanti” che iniziarono pubblicamente un'accesa polemica contro il romanticismo: «Quando sorsero i più grandi uomini d'Italia? quando non v’era né scuole nuove né romanticismo, quando si adoravano i classici, e non si ammiravano e si studiavano né inglesi né tedeschi». Dopo un anno di insegnamento nel ginnasio di S. Miniato al Tedesco, attraversò un momento difficile, uno dei più tristi della sua vita: il fratello Dante si suicidò nel '57, il padre morì l’anno successivo ed egli dovette provvedere ai bisogni della famiglia impartendo lezioni private e curando una collana di classici per conto dell’editore Barbera. Nel '59 sposò la cugina Elvira Menicucci. Erano questi gli anni in cui il Carducci professava idee repubblicane, ma ben presto si convinse che solo la monarchia piemontese avrebbe potuto unificare l’Italia.
Deluso dall’atteggiamento del governo monarchico post-unitario, tornò alle idee repubblicane per poi avvicinarsi lentamente di nuovo alla monarchia, ottenendo anche la nomina di senatore del regno. Intanto, dopo un breve insegnamento nel liceo di Pistoia, era stato chiamato a ricoprire la cattedra di letteratura italiana nell’università di Bologna, svolgendo qui il suo magistero dal 1860 al 1904, quando fu costretto a ritirarsi per motivi di salute. Nel 1906 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura e l’anno dopo morì a Bologna. 

“Juvenilia" e "Levia gravia": la polemica letteraria 

Lo svolgimento della poesia carducciana prende l’avvio da due raccolte di liriche giovanili, “Juvenilia” e “Levia gravia”, che contengono rispettivamente poesie scritte tra il '50 ed il '60 e tra il '61 ed il '71. Esse rappresentano in effetti il tirocinio artistico del Carducci condotto sull’esempio dei classici antichi e dei maggiori poeti italiani da Dante a Foscolo e sono sostanzialmente prive di una vera originalità, anche se mettono in luce alcune caratteristiche del temperamento del Carducci ed alcune sue propensioni tematiche che si riscontreranno anche nella produzione successiva. Ad esempio è già palese una certa fierezza e indipendenza morale che egli mostra non solo con atteggiamenti polemici anticlericali ed antiromantici, ma anche nella dichiarata volontà di non voler assolutamente cadere in una sorta di sudditanza nei confronti delle accademie ufficiali, dei salotti mondani, delle mode imperanti. A tal riguardo è significativo quanto afferma nella prefazione alle “Rime di San Miniato”, incluse in “Juvenilia”: «Queste rime, non fatte avanti la pubblicazione girare per le contrade, né vedute da niuno dei dittatori chiarissimi, non intrinsecate per le accademie o per gli uffizi dei giornali, né mormorate nei gabinetti delle femmine eleganti...io le intitolo e mando a voi, miei cari ed onorevoli amici; oscure e in condizioni umili, tuttavia sdegnose e salvatiche alcun poco, il che tengono dalla natura del padre loro». Nella stessa prefazione dice chiaro e tondo la sua avversione alle tendenze della poesia moderna ed afferma la sua libera scelta di rifarsi agli antichi: «Io, non eclettico in letteratura come né in altro, di poesia sociale e umanitaria non so nulla, so d’una poesia italiana e civile, come la fecero Dante e il Parini: la cristiana, qual la scrivono i moderni, parmi declamazione profana e barbara; e torno volentieri a quella grave e soavissima dell’Alighieri e del Petrarca e degli altri trecentisti e quattrocentisti: la popolare a questi tempi con questi uomini con questa lingua reputo non potersi avere: la intima parmi romanzaccio di gente sfatta in versi per lo più laidi, con buon condimento di scostumatezza parigina e metafisica tedesca. Del resto cosmopolita non sono e ottimista né manco: rìdomi delle utopie: né credo al furor poetico... sì penso con Giordani non vi sia altro furor che l’ingegno, non altra ispirazione che dallo studio: liberamente, non mi piace l’arte rinnovata e sto coi vecchi». 

L’inno "A Satana": la polemica anticlericale 

Sotto il nome di Enotrio Romano, nel novembre del 1865, il Carducci pubblicò a Pistoia una poesia che aveva composto in una notte, precisamente quella del 10 settembre, due anni prima: si tratta dell’inno “A Satana”, che destò scalpore e scandalo negli ambienti culturali del tempo per le idee rappresentate, decisamente anticlericali e libertarie. Dal punto di vista estetico non raggiunse risultati apprezzabili e lo stesso Carducci, diciotto anni dopo, riconosceva pubblicamente e pesantemente questi limiti (“Non mai chitarronata - salvo cinque o sei strofe - mi uscì dalle mani tanto volgare”), che pure aveva intravisto subito dopo la composizione, tanto è vero che all’amico Chiarini confessava di ritenere necessaria una sua revisione. In tale occasione il Poeta spiegava pure il suo intento polemico: «E' inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola Vade retro Satana; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all'autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitata». La revisione non ci fu mai, ma l’inno ebbe tanta popolarità, certamente eccessiva rispetto ai pregi reali, per più di vent’anni, proprio perché veniva riproposta ogni volta che gli ambienti laici intendevano riaccendere e vivacizzare la polemica anticlericale. Questo interesse ovviamente piaceva molto al Carducci e lo stuzzicava ad entrare nelle polemiche: egli ne andò fiero e sotto questo aspetto definì il suo inno “una birbonata utile”. Satana rappresenta la Natura, la Ragione, il Progresso: Satana fu l’ispiratore delle più salutari ribellioni che la storia ricordi in campo civile, religioso e morale, quelle di Arnaldo da Brescia, di Wicleff, di Huss, di Girolamo Savonarola, di Martin Lutero. E' comprensibile allora il motivo per cui questo inno fu salutato dagli ambienti laici della cultura nazionale come un grido di riscossa contro l’egemonia secolare della cultura clericale. 

“Giambi ed epodi”: la polemica politica. Il realismo 

In “Giambi ed epodi”, che raccolgono poesie composte tra il '67 e l' '87, il Carducci dà invece libero sfogo alla sua polemica politica contro una classe dirigente che gli sembrava fiacca e corrotta e lontanissima dallo spirito patriottico che aveva animato i grandi del Risorgimento. Si accentua in lui la passione per la storia, ma la mente e il cuore sono maggiormente intenti a scrutare nella decadenza del presente. Con l’ironia e il sarcasmo tipici della poesia giambica antica, egli satireggia la timidezza e la viltà dei nuovi governanti, che spesso accomuna ai languidi e svirilizzati letterati del tardo romanticismo, come nel “Canto dell’Italia che va in Campidoglio”, ove lancia strali pungenti contro il primo ministro Giovanni Lanza, che sembra timoroso di realizzare il sogno di tutti i patrioti italiani che vogliono Roma capitale: l’Italia, circospetta, si affaccia di notte sul Campidoglio e prega le oche di non attirare l’attenzione del cardinale Antonelli col loro clamore:

Zitte, zitte! Che è questo frastuono
al lume della luna?
Oche del Campidoglio, zitte! Io sono
l'Italia grande e una.
Vengo di notte perché il dottor Lanza
teme i colpi di sole:
ei vuol tener la debita osservanza
in certi passi, e vuole
che non si sbracci in Roma da signore
oltre certi cancelli:
deh, non fate, oche mie, tanto rumore,
che non senta Antonelli.
Fate più chiasso voi, che i fondatori
de la prosa borghese,
Paulo il forte ed Edmondo da i languori,
il capitan cortese.
E così d'anno in anno, e di ministro
in ministro, io mi scarco
del centro destro sul centro sinistro,
e 'l mio lunario sbarco:
fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese,
dato un calcio alla cassa,
venda a un lord archeologo inglese
l'augusta mia carcassa.


Nelle trenta poesie di questo volume, che si rifanno non solo per il tono polemico, ma anche per la forma metrica ai “Giambi” del poeta greco Archiloco (VII sec. a.C.) ed agli “Epòdi” del poeta latino Orazio (I sec. a.C.), il Carducci mette in risalto la sua vocazione verso un'arte realistica, ma pure la sua profonda e commossa capacità di rievocare i palpiti più segreti della propria anima leggendoli nel “paesaggio”. Ad esempio nella poesia dedicata all’amico Eduardo Corazzini, morto per una ferita riportata nella battaglia di Mentana (1867), mentre esaspera la sua polemica politica fino ad arrivare all’insulto nei confronti del papa Pio IX (“te io scomunico, o prete... prete empio... infame”), sa anche rivivere con nostalgia le ore serene trascorse con l'amico in mezzo alla natura: “...ma de' tuoi monti a l'aprico / aer e nel chiostro ameno / più non ti rivedrò, mio dolce amico, / come al tempo sereno”. Tuttavia questa disposizione elegiaca a cogliere e rappresentare le più antiche memorie, scandagliando i recessi più nascosti della propria coscienza di uomo (padre, amante, amico) e di cittadino (storico, critico, maestro), attraverso anche la rievocazione di paesaggi noti e delle più vibranti pagine della storia nazionale, sarà una caratteristica saliente della produzione poetica successiva. Qui prevale l’impegno realistico, come egli stesso affermò in una lettera del 17 febbraio 1870: «...bisogna far l’arte realistica; rappresentare quel che è reale, in termini più naturali e con verità...; a ciò accoppiare lo studio degli antichi, che sono realistici e liberi (Omero, Eschilo, Dante), e lo studio della poesia popolare col sentimento moderno e con l’arte». 

"Rime nuove" e "Odi barbare": classicismo e romanticismo; storia e paesaggio
Il meglio della poesia carducciana è però contenuto nelle due successive raccolte di “Rime nuove” e “Odi barbare”, che raggruppano rispettivamente poesie composte fra il 1861 e il 1887 e fra il 1873 ed il 1889.

A spiegare la diversità di tono delle nuove liriche provvide lo stesso Carducci nel poemetto “Intermezzo” (complessivamente cento quartine di endecasillabi e settenari alternati) in cui dichiara esplicitamente l’intenzione di abbandonare la poesia protestataria e di volersi dedicare a cogliere le voci più intime della sua coscienza, promettendo ad un tempo di tenersi ben lontano dal patetico languore dei romantici. In realtà con queste nuove liriche il Poeta non rinuncia affatto alla sua “missione civile”, ma riesce a contenere i suoi impulsi battaglieri, a frenare i suoi impeti polemici, a dare ugualmente un messaggio di dignità e decoro ma con animo più sereno ed attingendo più direttamente alla radice spirituale. D’altra parte i lutti familiari (inclusa la morte del figlioletto Dante di appena tre anni), le ristrettezze economiche e il rancore verso una classe politica inetta fanno parte del passato (nel 1870 Roma fu finalmente occupata e dichiarata capitale d’Italia), mentre il presente appare senza grosse nubi e promette finanche un ringiovanimento del cuore grazie all’amore profondamente nutrito per una certa Lina Cristofori Piva e felicemente ricambiato dalla donna.

Forse a queste due raccolte di poesie meglio si addice il giudizio del Croce, secondo il quale: «La battaglia, la gloria, il canto, l’amore, la gioia, la malinconia, la morte, tutte le fondamentali corde umane risuonano e consuonano nella poesia carducciana, che appartiene veramente a quella che il Goethe chiamava poesia tirtaica, atta a preparare e confortare l’uomo nelle pugne della vita con l’efficacia del suo tono alto e virile».

In queste liriche il classicismo ed il romanticismo (quello più autentico e profondo della tradizione foscoliana e leopardiana) si fondono in mirabile sintesi ed il Poeta, pur senza rinunziare all’abito morale austero ed icastico derivatogli dalla lezione o, per dir meglio, dal culto degli antichi, sa ripiegarsi su se stesso per trarre dallo scrigno delle memorie gli affetti intimi più puri e farli rivivere entro lo scenario dei paesaggi dell’infanzia, e riscoprire con animo romantico le virtù avite del proprio popolo come erano state espresse nell’età di Roma ed in quelle dei liberi comuni medievali, anch’esse fatte magistralmente rivivere come fantasmi che popolano i paesaggi che furono teatro delle epiche imprese della nostra gente.

Il costante pensiero della morte, il contrasto tra il sogno e la realtà, la rievocazione storica, i ricordi della fanciullezza, l’esaltazione degli ideali e degli eroi tanto della Rivoluzione Francese che del Risorgimento italiano sono i motivi che più costantemente ricorrono in queste due raccolte poetiche.

Le “Rime Nuove”sono complessivamente 105 liriche distribuite in nove libri. 

Il primo libro presenta una sola poesia, “Alla rima”, nella quale il Poeta, in risposta ad un articolo di Domenico Gnoli, nel quale si affermava che la rima era destinata a scomparire in quanto “tiranna del pensiero”, fa l’elogio della rima:

Cura e onor de' padri miei,
tu mi sei
come a lor sacra e diletta.
Ave, o rima, e dammi un fiore
e per l'odio una saetta.


Il secondo libro contiene 34 sonetti, fra cui i celeberrimi “Il bove”, “Funere mersit acerbo”, “Traversando la Maremma toscana”, ed inizia proprio con la poesia “Il sonetto”, in cui la forma metrica prescelta viene celebrata negli esempi di Dante e del Petrarca:

Dante il mover gli dié del cherubino
e d’aere azzurro e d'or lo circonfuse;
Petrarca il pianto del suo cor, divino
rio che pei versi mormora, gl’infuse.


Al terzo libro appartengono, fra le altre (25 in tutto), le non meno famose liriche “Pianto antico” e “San Martino”. Il quarto libro contiene cinque sole liriche, fra cui le tre “Primavere elleniche” dedicate alla sua Lidia (Lina Piva). Il quinto libro ne contiene nove, tutte ispirate ai ricordi personali, fra cui “Idillio Maremmano” e “Davanti San Guido”. Il sesto libro riporta sette poesie di argomento per lo più storico (famosa quella che celebra “Il comune rustico”). Il settimo libro è dedicato ai dodici sonetti “Ca ira” (= “Andrà bene!”, che è un verso tratto dal ritornello della canzone dei giacobini all’epoca della rivoluzione francese) in cui rievoca i fatti salienti del settembre 1792 durante la grande rivoluzione, mettendo in risalto, come egli stesso afferma, “la difesa della patria inspirata dalle nobili tradizioni e dallo spirito eroico della nazione francese; le stragi consigliate dalla paura e consumate con quel delirio di fanatismo, di torva leggerezza, di avventatezza feroce che è nel sangue celtico, e che si rinnova a fatali periodi in tutte le rivoluzioni per le quali passò e passa quel popolo”: il nuovo governo francese nato dalla rivoluzione deve difendere i confini della patria contro i nemici esterni che, con l’aiuto delle forze conservatrici interne, mirano a ripristinare l’ordine antico; la difesa militare è affidata ai valorosi Kléber, Hoche, Desaix, Murat e Marceau, i quali, dopo una pesante sconfitta subita a Verdun, ottengono una strepitosa e definitiva vittoria a Valmy: da questa vittoria ha inizio per il glorioso popolo francese la “novella storia”; ma intanto la Nemesi storica (la fatale Giustizia, presente nella storia, che ha il compito di vendicare la empietà dei tiranni), rappresentata in una calma e infaticabile vecchietta, fila la tela della vendetta che si abbatterà principalmente sui nemici interni della Francia e farà scempio del corpo della decapitata Marie Lamballe. A proposito della descrizione minuta di tale scempio, molti accusarono il Carducci di sadismo, ma il Poeta si difese energicamente affermando di aver voluto suscitare nei lettori lo stesso sentimento di orrore che aveva provato lui. Nel libro ottavo compaiono undici versioni poetiche dallo spagnolo e dal tedesco. Il libro nono presenta invece il solo “Congedo”, di cui abbiamo già parlato a proposito della poetica del Carducci. 

Le “Odi barbare” sono cinquanta componimenti composti in metri classici e divisi in due libri: nel primo sono quasi tutte odi ispirate alla storia (“Nell'annuale della fondazione di Roma”, “Dinnanzi alle Terme di Caracalla”, “Alle fonti del Clitumno”, “Nella piazza di S. Petronio”, “Miramar”, nella quale ricompare la Nemesi storica questa volta per fare scontare al giovane ed innocente Massimiliano d’Asburgo, fucilato dai rivoltosi messicani, le antiche colpe dell'imperatore Carlo V su quella popolazione al tempo della colonizzazione); nel secondo libro sono invece odi di argomento autobiografico (“Alla stazione in una mattina d’autunno”, “Canto di marzo”, “Sogno d’estate”, “Colli toscani”, dedicato alla figlia Bice, “Presso l’urna di P.B. Shelley”).
La novità del metro (che per altro era stato già provato sia da autori italiani - come L. B. Alberti, il Chiabrera, il Fantoni - che da autori stranieri -Klopstock, Goethe, Platen -) suscitò molte polemiche ed il Carducci sentì il bisogno di chiarire pubblicamente il suo intento, che era soprattutto quello di rivestire i propri sentimenti con un abito stilistico che gli sembrava più naturale e congeniale al loro concepimento: «Queste odi le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani. E così le composi, perché, avendo ad esprimere pensieri e sentimenti che mi parevano diversi da quelli che Dante, il Petrarca, il Poliziano, il Tasso, il Metastasio, il Parini, il Monti, il Foscolo e il Leopardi... originalmente e splendidamente concepirono ed espressero, anche credei che questi pensieri e sentimenti io poteva esprimerli con una forma meno discordante dalla forma organica con la quale mi si andavano determinando nella mente».

Per dare un esempio pratico della tecnica usata dal Carducci nelle odi barbare, analizzeremo dal punto di vista metrico due strofe saffiche, una del poeta latino Orazio (la prima strofa della X ode del libro I) ed una del Carducci (la prima strofa dell'ode “Dinnanzi alle terme di Caracalla”): mettendole poi a confronto, se ne intenderanno le differenze e meglio si comprenderà perché il Carducci definì “barbare” le sue odi.

Riportiamo anzitutto la strofa oraziana:

Mercuri, facunde nepos Atlantis,
qui feros cultus hominum recentum
voce formasti catus et decorae
more palaestrae,


il cui schema metrico è composto da tre endecasillabi saffici

e da un verso adonio


per cui metricamente la strofa oraziana va così letta:

Mèrcurì, facùn // de nepòs Atlàntis
quì feròs cultùs // hominùm recèntum
vòce fòrmastì // catus èt decòrae
mòre palaèstrae, 


Nei primi tre versi il Carducci, per ottenere la cesura dopo la quinta sillaba, anziché usare gli endecasillabi puri, ha preferito ottenerli accoppiando un quinario (verso formato da cinque sillabe con due accenti, uno sulla prima o sulla seconda ed uno sulla quarta) ed un senario (verso formato da sei sillabe con due accenti, uno sulla seconda e uno sulla quinta), sicché la prima strofa dell’ode “Dinnanzi alle Terme di Caracalla” va così letta metricamente:

Còrron tra 'l Cèlio // fosche é l’Aventino
le nùbi: il vènto // dal piàn tristo mòve
ùmido: in fòndo // stanno ì monti albàni
biànchi di néve.


Come si vede la struttura delle quartine è identica sia nella poesia di Orazio che in quella del Carducci, però leggendole metricamente qualcosa non concorda: infatti negli endecasillabi di Orazio cadono tre accenti prima della cesura e due dopo, mentre in quella del Carducci gli accenti sono due per parte. Inoltre nei versi latini è molto più raro che in quelli italiani che l’accento ritmico corrisponda a quello tonico (cioè a quello naturale della parola). E' quindi comprensibile che se un romano antico avesse letto i versi del Carducci, li avrebbe definiti “barbari”, cioè fattura di uno straniero. 

"Rime e Ritmi": l'ultimo Carducci

L’ultima raccolta di poesie, che si intitola “Rime e Ritmi” perché comprende liriche in metri italiani tradizionali (rime) e liriche in metrica “barbara” (ritmi), comprende ventinove poesie, scritte tra il 1887 ed il 1898, che rappresentano l’ultima stagione poetica del Carducci. Vi ricorre frequente il tema storico, che però ha perduto il grande slancio della commossa partecipazione con cui il Poeta l'aveva trattato nelle raccolte precedenti e mostra i segni di una certa stanchezza: non che la visione dei grandi avvenimenti abbia perduto alcunché della maestosità ed incisività delle rappresentazioni precedenti; anzi la volontà di erigere monumenti alle virtù patrie appare più intenzionale di prima; ma proprio per questo si avverte che non nasce da un profondo interesse morale e si è portati a cogliere con maggiore evidenza l’enfasi e il declamatorio in cui spesso sono imprigionate le immagini.
Tuttavia le liriche che esprimono stati d’animo più intimi e personali non hanno perduto l’ardore del cuore di una volta. Talora anche nelle odi storiche ci sono momenti di abbandono, un malinconico sentimento della vita che scorre e volge al termine come una faticosa giornata al suo tramonto, quando l’uomo ha sete di pace ed attende lo squillo della campana della rustica chiesetta per recitare l’Ave Maria:

Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono
e che saranno?
Un oblìo lene de la faticosa
vita, un pensoso sospirar quiete,
una soave volontà di pianto
l'anime invade.
Taccion le fiere e gli uomini e le cose,
roseo il tramonto ne l'azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti
Ave Maria.


Questi versi concludono l’ode storica “La chiesa di Polenta” che fu composta nel luglio del 1897, dopo una visita del Poeta alla piccola chiesa di San Donato presso Polenta. A parte le ultime strofe, in cui sembra far capolino un certo bisogno di mistico raccoglimento, in precedenza il Poeta, dopo aver ribadito la condanna dell’esasperato ascetismo medievale, riconosce alla Chiesa di Roma una funzione civilizzatrice e provvidenziale nell’epoca delle invasioni barbariche. Naturalmente questa ode suscitò un dibattito accesissimo fra i cattolici, che salutavano con favore questo presunto avvicinamento del Poeta alla Chiesa Cattolica, ed i laici che non riuscivano a spiegarsi e rifiutavano di accettare questo improvviso ammorbidimento del loro capo e maestro ideale: sembrava loro assurda questa inaspettata manifestazione di “spiritualità religiosa”, dopo tanta professione di ateismo, ed inspiegabile soprattutto il nuovo giudizio sulla funzione storica del cattolicesimo, dopo una così fiera e lunga milizia laica.
In effetti, però, il Carducci aveva più volte manifestato una sorta di religiosità panteistica e quelle ultime strofe de “La chiesa di Polenta” stavano piuttosto a rappresentare il sentimento religioso popolare - magari condiviso nella sostanza ma non nella forma - e non potevano pertanto valere una “conversione” al cattolicesimo (che forse non ci fu mai, sebbene un sacerdote dichiarasse di aver avuto dal Poeta morente la “confidenza” di una sua conversione).
Quanto al giudizio positivo espresso sulla funzione storica del cattolicesimo, questo si spiega o con un onesto e per altro fondato ripensamento sui giudizi espressi nell’epoca della più accesa polemica fra Stato e Chiesa, o con una precisa e studiata volontà di favorire l’intesa politica fra le due istituzioni, un’intesa che in quegli anni appariva quanto mai necessaria per le future sorti del giovane Stato unitario.
In chiusura del volume di “Rime e Ritmi” il Poeta collocò, come “Congedo”, uno stornello di appena tre versi scritti anni addietro in una lettera a Lidia, ma ora rivolto all’Italia per annunziarle il suo malinconico commiato dalla poesia:

Fior tricolore,
tramontano le stelle in mezzo al mare
e si spengono i canti entro il mio cuore.


Infine, in appendice, vi aggiunse “Il parlamento”, in tredici lasse di dieci versi ciascuna (le lasse sono strofe tipiche dei poemi epici medievali), scritto nel 1876, che rappresentava la prima parte del poemetto “La canzone di Legnano”, che avrebbe dovuto avere altre due parti, nelle quali sarebbero state narrate rispettivamente la battaglia di Legnano e la fuga notturna del Barbarossa. 

L'oratore e il polemista

Del Carducci critico letterario tratteremo nel capitolo dedicato alla critica. Qui ricorderemo solo che egli fu anche un grande prosatore ed un geniale oratore: sono famosi i discorsi su “L’opera di Dante”, su “La libertà perpetua di San Marino”, “Presso la tomba di Francesco Petrarca” nel quinto centenario della morte, “Per la morte di Giuseppe Garibaldi” e i numerosi scritti polemici raccolti sotto il titolo di “Confessioni e battaglie”.

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