LETTERATURA ITALIANA: L'ETA' DEL REALISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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REALISMO

 
Giovanni Verga

La formazione artistica 

Giovanni Verga è unanimemente riconosciuto come il più grande dei nostri scrittori veristi.

Nato a Catania nel 1840, vi restò fino all’età di venticinque anni, fino a quando, dopo aver interrotto gli studi di giurisprudenza per tentare la via dell’arte e dopo avere scritto i suoi primi romanzi sul modello dei romanzi storici risorgimentali (“Amore e patria”, “I carbonari della montagna”, “Sulle lagune”) si trasferì a Firenze, ove frequentò i maggiori salotti letterari e compose le sue prime opere di successo, “Una peccatrice” e “Storia di una capinera”, che risentono spiccatamente dell’influenza del secondo romanticismo, quello languido e voluttuoso del Prati e dell’Aleardi, ma già rivelano la tendenza del Verga alla ricostruzione oggettiva di ambienti e personaggi. C’è, infatti, specie nel secondo romanzo (che tratta di una giovane costretta dai familiari a vestire l’abito monacale senza alcuna vocazione e che, innamoratasi perdutamente di un uomo, si lascia consumare dalla tisi), assai palese lo sforzo di ritrarre oggettivamente l’ambiente monacale, su cui l’Autore operò una minuziosa ricerca di informazioni. Nel 1872 si trasferì a Milano ed anche qui fu bene accolto negli ambienti culturali e dell’alta borghesia e proseguì nella sua attività di scrittore di successo e compose altri romanzi, “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”, nei quali persiste la volontà di compiacere al pubblico dei suoi ammiratori tardo-romantici, ma si accentua la tendenza verso una più attenta ed oggettiva analisi della psicologia umana (visibili i segni dell’influenza degli “scapigliati”) e affiora l’esigenza di scoprire un mondo umano più autentico, che fosse cioè espressione più vera dell’universo umano, un mondo in cui vivono le genuine passioni primordiali legate ai bisogni elementari della sopravvivenza e depurate delle angosce fittizie e delle lacrime false, tipiche degli ambienti borghesi intristiti ed annoiati in una vita vanamente lussuosa e profondamente viziata. Si avvertono, cioè, i primi segni del bisogno impellente di una nuova moralità personale, di una rigenerazione spirituale, che lo porterà al ripudio della vita salottiera fino allora condotta ed alla intuizione che l’umanità più vera è quella che si è lasciata alle spalle, nelle desolate terre malariche della Sicilia, quella che stenta la vita giorno dopo giorno nelle cave di pietra, nelle saline, o su di una barca sgangherata che affronta i rischi di un mare a volte spietato nella sua violenza, quasi sempre avaro dei suoi pesci. Si matura così nel Verga, a poco a poco, una sorta di redenzione, prima morale e poi poetica, lucida e consapevole, che lo porta alla cosiddetta conversione al verismo, ma che è piuttosto uno sbocco naturale della sua personalità di uomo e di artista, una riscoperta della propria umanità più pura che si era lasciata un po' deviare dal suo corso naturale dalla suggestione dei primi successi mondani. 

L'adesione al Verismo

Già un anno prima di “Tigre reale” e di “Eros” aveva tentato di dare una risposta alla sua più genuina vocazione scrivendo la novella “Nedda” (1874), ambientata in Sicilia ed ispirata alla poetica verista. Non tarderà a rendersi conto di aver imboccato la strada giusta proprio con questa novella che tanto si distaccava, nel motivo e nello stile, dalle sue opere precedenti, e proseguirà poi sempre per questa via, fino a quando, stanco e deluso per la scarsa considerazione tributatagli sia dal pubblico che dalla critica, deciderà di far ritorno alla sua città natale e di non scrivere più.

Il 1880 segna l’ingresso ufficiale del Verga nell’area del verismo italiano. E' di quest'anno, infatti, la pubblicazione della prima raccolta di novelle dichiaratamente veriste, “Vita dei campi”, tra le quali compaiono alcune fra le più famose novelle del Verga (“Cavalleria rusticana”, “Jeli il pastore”, “Rosso Malpelo”, “La lupa”, oltre a “L’amante di Gramigna”, nella cui breve prefazione traccia le linee della sua nuova poetica, di cui abbiamo già detto) e la prosa lirica “Fantasticheria”, nella quale annuncia l’idea di volere scrivere un romanzo sulla condizione esistenziale degli umili pescatori di Aci-Trezza (il non lontano romanzo de “I Malavoglia”) e mostra chiaramente di essere consapevole che il suo approdo all’arte verista è essenzialmente una conquista morale e, ad un tempo, un ritorno alle origini. Infatti in “Fantasticheria” il Verga immagina di scrivere una lettera ad una nobile dama del bel mondo che lo ha accompagnato per una vacanza ad Aci-Trezza. Qui la coppia avrebbe dovuto soggiornare per un mese, ma dopo solo quarantott’ore la dama era già in fuga verso i salotti festosi della grande città, per raggiungere la folla dei suoi corteggiatori elegantissimi e profumatissimi e allontanarsi da quella plebaglia schifosa e da quelle viuzze tutte ciottoli e polvere. Alcuni squarci di questa prosa sono utili per capire non solo le ragioni più profonde per cui il Verga rinnega quel mondo frivolo e slavato, che pure lo aveva visto protagonista per un decennio, per accostarsi agli umili di Aci-Trezza, ma anche lo stato d’animo con cui opera questa conversione: 

«...Diceste soltanto ingenuamente: "Non capisco come si possa viver qui tutta la vita".

Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casupole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.


Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmeno io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspettati eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori.

Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.

Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia “sotto le sue tegole”, tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi.

Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua “occhiata di sole” accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi tra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quegli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere si inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.

Ora rimangono quei monellacci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie; rimangono a ronzare attorno alla mendìca, a brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, buccie d'arancie e mozziconi di sigari,

tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c'è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull'asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va. 

- Insomma l'ideale dell'ostrica! - direte voi - Proprio l’ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non essere nati ostriche anche noi.

Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui. E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.»
 

Il mondo poetico 

Queste pagine sono essenziali per capire il mondo poetico del Verga ed il suo atteggiamento morale nei confronti dell'esistenza umana.

La sottile ma esplicita polemica contro il bel mondo borghese, cui appartiene la dama destinataria della lettera, mette a chiare note in luce l’inconsistenza di quel mondo e fa emergere per contrasto tutta la serietà della misera condizione della plebe del sud, che in modo naturale rappresenta la realtà drammatica della vita, ove è legge fondamentale la lotta per la sopravvivenza, ove il pesce grosso divora il piccolo: un mondo questo in cui le reazioni umane derivano direttamente dall’istinto, sono per lo più dettate dai bisogni più immediati ed elementari, da motivi, che in termini sociologici si direbbero “economici”, che sembrano espressione di egoismo e sono invece segni di una necessità non eludibile in alcun modo. E sono questi stessi motivi che tengono caparbiamente aggrappati alle scogliere del proprio mare i miseri pescatori siciliani e che li rendono così legati al loro nucleo familiare, in cui il “patto sociale” è semplificato nella norma del mutuo soccorso ed è amministrato dall’autorità del patriarca, del nonno, del “padron”, che è il depositario dell’antica primordiale “scienza” umana trasmessasi, di generazione in generazione, attraverso i proverbi popolari. Questa solidarietà, che nasce pur sempre da un bisogno di protezione reciproca, assume la dimensione di moralità perché è regolata da rigide norme di comportamento ed è ispirata dalla subconscia paura di essere divorati da quel pesce vorace che è il mondo esterno. L’ideale dell’ostrica che accomuna gli “umili” del Verga non nasce in loro da una conquista del pensiero, da una speculazione filosofica di alto livello, non è frutto di una libera scelta: è una necessità dettata da una caparbia volontà di sopravvivere e fronteggiata da un istin­tivo buon senso.

Le opere che seguiranno daranno appunto la rappresentazione della drammatica esistenza degli “umili” e saranno espressione di un pessimismo cupo, non riscattato da alcuna visione di vita ultraterrena, non confortato da alcuna fede religiosa, da alcuna speranza di redenzione: un pessimismo sofferto nel segno della pietà verso un mondo di diseredati che rappresentano l’aspetto più autentico dell’esistenza umana, che sono soggetti ad una “fatalità” che li costringe al ruolo di “vinti”, la cui dignità è salvata solo dall’eroica caparbietà di tirare “la vita coi denti più a lungo che potranno” e da quella sorta di “religione del focolare domestico” che li tiene uniti. 

"I Malavoglia" 

Nasce così il primo dei capolavori verghiani, il romanzo de “I Malavoglia”, pubblicato per la prima volta a Milano, dall’editore Treves, nel febbraio del 1881.

Narra le vicende dolorose d’una famiglia di pescatori di Aci-Trezza, i Malavoglia («veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci-Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole»), sulla quale si abbatte pesantemente la mala sorte con un crescendo spaventoso che porta alla dissoluzione della famiglia, che è il guaio peggiore che potesse capitare a quella povera gente in cui il culto dell’unità familiare era profondamente radicato nella coscienza (il vecchio patriarca soleva ripetere: «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l'un l’altro» e «Gli uomini sono come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo»). La famiglia era composta, oltre che dal vecchio Padron 'Ntoni, dal figlio Bastianazzo con la moglie, la Longa, e dai cinque figli di questi, 'Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Campavano di pesca, ma un giorno decisero di tentare la via del progresso e di dedicarsi al commercio dei lupini. Ne acquistarono una prima partita a credito, ma la loro barca che li trasportava fu capovolta dalla burrasca e i Malavoglia si trovarono senza lupini, con un debito da pagare e senza più l’aiuto delle forti braccia di Bastianazzo, che nel naufragio aveva perso la vita. Da quel momento i guai non cessarono più, ed il primo bilancio della sciagura, le prime previsioni sulla sorte “economica” della famiglia furon fatti lì per lì, il giorno stesso del funerale:

«La casa del nespolo era piena di gente; e il proverbio dice: “triste quella casa dove ci è la visita pel marito!”. Ognuno che passava, al vedere sull'uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche, scrollava il capo e diceva:

- Povera comare Maruzza! ora cominciano i guai per la sua casa!

La Mena, appoggiata alla porta della cucina, colla faccia nel grembiale, si sentiva il cuore che gli sbatteva e gli voleva scappare dal petto, come quelle povere bestie che teneva in mano. La dote di sant' Agata se n’era andata colla Provvidenza [la barca affondata],e quelli che erano a visita nella casa del nespolo [la casa di proprietà dei Malavoglia], pensavano che lo zio Crocifisso [l’usuraio che aveva prestato il denaro per l'acquisto dei lupini e che andava blaterando che lui il prestito l'aveva fatto “perché aveva sempre conosciuto padron 'Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s'era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! ché quello era un credito sacrosanto come l'ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l'appendeva ai piedi di Gesù crocifisso; ma santo diavolone! padron 'Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza!”] ci avrebbe messo le unghie addosso.

Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c'era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a Padron 'Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere.


Don Silvestro per far ridere un po' tirò il discorso sulla tassa di successione di compar Bastianazzo, e ci ficcò così una barzelletta che aveva raccolta dal suo avvocato, e gli era piaciuta tanto, quando gliel’avevano spiegata bene, che non mancava di farla cascare nel discorso ogniqualvolta si trovava a visita da morto.

- Almeno avete il piacere di essere parenti di Vittorio Emanuele, giacché dovete dar la sua parte anche a lui!

E tutti si tenevano la pancia dalle risate, ché il proverbio dice “Né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”.»


La realtà fu peggiore delle già pessimistiche previsioni: Luca muore in guerra, nella battaglia di Lissa; la Longa è vittima del colera; 'Ntoni, che si ribella alla sorte e si allontana dalla famiglia, imbocca la strada del vizio e del facile guadagno e finisce in galera per aver accoltellato il brigadiere che voleva arrestarlo; Lia, poiché gli avvocati difensori di 'Ntoni hanno messo in giro la voce che il giovane col suo atto delittuoso ha voluto salvare l’onore della sorella, per la vergogna fugge dal paese natio e viene anch’essa inghiottita dal vortice del vizio della città; la “casa del nespolo” passa in proprietà allo zio Crocifisso in cambio del debito non soddisfatto dai Malavoglia; il nonno muore in ospedale distrutto più nell’anima che nel corpo. Solo Alessi, che ha resistito ai colpi della malasorte, non ha voluto cedere, ed ha assunto per sé l’eredità morale del nonno, riesce, dopo tanti stenti, a riacquistare la casa del nespolo ed a metter su famiglia che porterà avanti nel solco delle vecchie tradizioni. Con lui resterà Mena, che, per mancanza di dote, ha visto sfumare i suoi progetti matrimoniali. 'Ntoni, uscito dal carcere, farà ritorno alla casa del nespolo e conoscerà la triste storia della famiglia. Dopo aver divorato una scodella di minestra messagli innanzi dalla generosità di Alessi, prende il suo misero bagaglio e si allontana per sempre da quella casa e da quel paese che egli un tempo ha tradito ed ora avverte come estranei.

Ne “I Malavoglia”, oltre al tema della religione del focolare domestico, dell’ideale dell'ostrica, della fatalità che incombe sull’umanità primitiva dei diseredati di Aci-Trezza, della saggezza popolare che è fatta di rassegnazione ed è tutta racchiusa in massime proverbiali, c’è anche il tema dell’infausto desiderio di progresso che prende un po' tutti gli uomini, a vari livelli, ed è sempre la fonte primaria dell’insoddisfazione e dell’infelicità, e in definitiva rende tutti gli uomini dei “vinti”. 

Il ciclo dei vinti 

Il Verga, durante la composizione de “I Malavoglia”, aveva già ben preciso in mente un “ciclo” di romanzi che svolgesse per intero l’evoluzione di questo desiderio di progresso, di benessere e di potenza, che si manifesta anzitutto con la sete di possesso della “roba”, per poi arrivare più in alto, al blasone, al potere, alla gloria. E di questo “ciclo dei vinti”, che doveva comprendere ben cinque romanzi, egli ci parla nella prefazione a “I Malavoglia”, che diviene il primo romanzo del ciclo:

«Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipione, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà.»

In effetti il Verga non portò a termine il suo piano di lavoro e di tutto il ciclo ci diede solo l’altro suo capolavoro, “Mastro-don Gesualdo” ed un capitolo della “Duchessa di Leyra”. Ma prima di comporre il suo secondo grande romanzo, scrisse altre famose novelle, raccolte in “Novelle rusticane” (fra cui è famosa “La roba” che ci presenta il personaggio Mazzarò, un vero e proprio abbozzo di Mastro-don Gesualdo) ed il dramma “Cavalleria rusticana”, tratto dall’omonima novella di “Vita dei campi”. 

"Mastro-don Gesualdo"

Nel romanzo “Mastro-don Gesualdo” il tema predominante non è più quello del “focolare domestico”, ma quello della “roba”.

Bianca Trao, di famiglia nobile ma finanziariamente ridotta al lumicino, è scoperta dai familiari in intimo colloquio col ricco cugino Ninì Rubiera. I Trao pretendono la riparazione ed invitano il giovane a sposare Bianca: pensano così di trarre anche un qualche beneficio economico. Ma la energica madre di Ninì, la baronessa, rifiuta decisamente tale soluzione, affermando senza mezzi termini che i suoi antenati non fecero suo figlio barone e “non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo o di quello”. Promette solo di punire il figlio costringendolo a sposare chi dice lei e di aiutare la nipote Bianca a trovare un “galantuomo” che la sposi prima che risulti evidente l’errore della donna e scoppi uno scandalo in città. Il galantuomo è presto scelto nella persona di Gesualdo Motta, un ex-manovale che ha stentato la vita per farsi, pezzo a pezzo, una proprietà tra le maggiori del paese e che aspira a salire qualche gradino nella scala sociale. Il matrimonio si fa così in fretta che quando nasce il frutto della colpa Gesualdo è convinto di aver avuto una figlia. Isabella cresce con tutti gli agi possibili e nei migliori collegi frequentati dai nobili, ma è angustiata dai pettegolezzi che si fanno sulle sue origini (figlia di una nobildonna e di un manovale!). Per questo motivo la fanciulla verrà su con un sordo rancore verso il presunto padre. Un giorno fuggirà con un giovane, ma il padre la perdona ed organizza per lei le nozze sontuose col nobile Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra. Isabella si allontana ancora di più dal padre per aver dovuto subire questo matrimonio; la moglie Bianca non si è mai presa cura di lui; il genero pensa solo a sperperargli il patrimonio con le sue dissolutezze. Alla fine mastro-don Gesualdo, affetto da una malattia inguaribile, viene trascinato a forza nel palazzo palermitano del genero e relegato in una camera appartata, dove alcuni servi si prendono cura sgarbatamente di lui fino a quando muore. E quando nottetempo muore, essi attenderanno l’alba prima di darne l’annunzio, per non turbare il sonno dei padroni:

«Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.

- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? - balbettò, grattandosi il capo.

Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare ancora un po', o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s'irrigidì e si chetò tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s'affacciò a prendere una boccata d'aria, fumando.

Lo stalliere che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.

- Mattinata, eh, don Leopoldo?

- E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M’è toccato a me questo regalo!


L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.

- Ah...così...alla chetichella?... - osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.

Degli altri domestici s'erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po' la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera, vedendo tutti quegli uomini dalla finestra, dirimpetto, venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.

- Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiano mica... E neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...

- Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto!... Ha cessato di penare.

- Ed io pure - soggiunse don Leopoldo.

Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva dato quel cristiano - uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. - Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla.

- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore .- Guardate che mani!

- Già, son le mani cha hanno fatto la pappa!... Vedete cos’è nascere fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...

- Allora - disse il portinaio - devo andare a chiudere il portone?


- Sicuro, eh! E' roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della duchessa.»

Durante questi anni il Verga volle tentare pure la descrizione degli umili settentrionali nei racconti raccolti in “Per le vie” (1883), “Vagabondaggio” (1887) e “Don Candeloro e C.” (1894), ma questo mondo non gli apparteneva e l’esito artistico fu assai meno felice. Come poco felici furono i suoi ritorni alla prima maniera (forse per una sorta di rivalsa sulle tiepide accoglienze riservate dai critici ai suoi capolavori): “Il marito di Elena” (1882) e “I ricordi del capitano d’Arce” (1891).

Lo stile 

Lo stile del Verga rispecchia il tono ed il colore del mondo di pescatori e contadini siciliani che popolano le sue novelle ed i suoi maggiori romanzi: è estremamente elementare, pittoresco, decisamente antiletterario: esso aderisce intimamente alla psicologia dei personaggi e per questo motivo usa con molta frequenza la citazione di proverbi (che racchiudono l'antica saggezza popolare) e il dialogo, la cui struttura a volte viene utilizzata anche nel discorso indiretto.

Nota acutamente il Sapegno che «Poetica è...la qualità della sua prosa nei libri più grandi: quel lessico ritrovato alle sorgenti con uno strano sapore di arcaicità dialettale; quel discorso infittito di formule e di proverbi, che richiama Omero e la Bibbia; quella sintassi scarna e povera, ma originalissima, segnata di musicali cadenze, con un ritmo di canzone di gesta; quella tecnica del disegno e del colore, di un impressionismo primitivo e sommario, che ripete e varia all'infinito il suo gruzzolo di immagini e di toni; quel linguaggio di Verga, insomma, che è senza dubbio, dopo Manzoni, e in perfetta coerenza con le idee sulla lingua e lo stile della poetica verista, l’apporto più nuovo e di più alto rigore stilistico nella storia della nostra letteratura fino ad oggi».

La fortuna

Abbiamo già detto che l’accoglienza alle opere veriste del Verga fu assai fredda da parte del pubblico e della critica e assai lontana dagli entusiasmi che avevano provocato i suoi precedenti romanzi. Le ragioni di ciò sono molteplici: intanto c’era una dichiarata avversione al verismo in generale che si estese all'opera del Verga, la cui originalità non fu per niente avvertita; c’era poi il fatto che la sensibilità dominante era in quegli anni fortemente suggestionata dal misticismo e dal sensualismo dei primi autori del decadentismo italiano, dal Fogazzaro, dal Pascoli e dal D’Annunzio; e infine dominava il pregiudizio che la buona prosa non dovesse allontanarsi dal solco della tradizione letteraria e quella del Verga appariva pertanto eccessiva­mente volgare e plebea: l’unico a capire la necessità artistica di quel linguaggio fu Luigi Capuana, ma la sua difesa non trovò che scarsi consensi.

Perché l’opera del Verga venisse chiarita e rivalutata, si dovrà attendere il saggio del Croce apparso su “La critica” nel 1903. Il Croce nega ogni validità alla teoria dell’ “impersonalità dell’arte” e nel contempo afferma che tale principio fu affatto assente nell'opera verghiana, alla quale riconosce una sincera partecipazione “fatta di bontà e di malinconia”.
Tuttavia nemmeno il saggio del Croce riuscì a rimuovere le diffidenze verso l’arte del Verga, la quale dovrà attendere ancora sedici anni per ottenere il giusto riconoscimento ed un’ampia divulgazione, grazie alla vasta monografia dedicatale da Luigi Russo.
Il Russo mise a fuoco i problemi essenziali che era necessario risolvere per intendere l’opera del Verga. Anzitutto chiarì il rapporto fra il verismo italiano ed il naturalismo francese; poi quello fra il verismo ed il romanticismo. Con un’analisi attenta e scrupolosa di tutte le opere del Verga, ne tracciò poi lo svolgimento, mettendone in luce la continuità e l’intrinseca coerenza (approfondendo un'intuizione crociana) e individuandone i motivi ispiratori ed originalissimi e spiegandone la singolarità dello stile: il Verga «ha risvegliato l’uomo, dove gli altri vedevano il bruto, ed egli ha saputo calarsi nella profondità misteriosa del mondo interiore del barbaro. Stilisticamente, questa miracolosa adesione alla logica dei primitivi, si è tradotta in una specie di musica triste e monotona con cui lo scrittore viene accompagnando la narrazione». L’ispirazione profonda de “I Malavoglia” - che per il Russo rappresentano il vero capolavoro verghiano - consiste nella “religione del focolare domestico” mentre quella di “Mastro-don Gesualdo” consiste nella “religione della roba”. In entrambe le definizioni il critico usa il termine “religione” perché la fedeltà dei personaggi verghiani “alla vita, alle costumanze antiche e severe, agli affetti semplici e patriarcali” gli appare profondamente segnata di senso religioso, anche se questa religiosità primitiva non si accompagna ad una condizione di serenità né ad alcuna speranza.
La critica successiva ha approfondito questo e quello dei vari aspetti dell’opera, a volte allontanandosi dalle valutazioni del Russo, il cui saggio tuttavia resta fondamentale per intendere il Verga. Chi ha scorto una dimensione più altamente universale nell'ispirazione verghiana è il Ramat, che così nota: «Ritroviamo in Verga il senso religioso del mistero, la domanda religiosamente angosciata di cosa sia l’uomo, la ricerca spietata e insieme compassionevole del rapporto fra l'uomo e l’universo. Ritroviamo il tragico impegno leopardiano in una ribellione conoscitiva di fronte al fato, e il suo piegare in elegia: e il ridurre all’essenziale, fuor dei termini filosofici, il dolore del mondo, la storia del mondo come dolore, calata in motivi realisticamente quotidiani; e lo scavare la sostanza universale ed eterna dell'uomo d’ogni tempo e spazio per entro alla crosta di civiltà, convenzioni sociali, per ritrovarne l'essenza primitiva e costante. Recanati è tutto il mondo come Aci-Trezza: Jeli, Rosso Malpelo, sono tutti gli uomini, come il Pastore errante».

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it