LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO

 

Luigi De Bellis

 


HOME PAGE
SETTECENTO






Il Settecento


Cesare Beccaria: introduzione a Dei delitti e delle pene
a cura di Giuseppe Bonghi

Nel 1763, esortato dai fratelli Verri, Cesare Beccaria comincia ad interessarsi di problemi sociali e giudiziari, in special modo delle condizioni della giurisdizione penale del tempo e dei metodi dell'inquisizione criminale delle torture, di cui nulla conosceva, ma che Alessandro Verri conosceva bene, in quanto "protettore" dei carcerati. Viene così raccogliendo le sue impressioni per iscritto, che nel contempo vengono dibattute e approfondite nelle conversazioni con gli stessi Verri ed altri amici, come il conte Lambertenghi, che collaboreranno al "Caffè" e che fanno parte dell'Accademia dei Pugni, amici che lo stimolano e gli danno utili suggerimenti anche in ordine alla divisione degli argomenti.
        Dal marzo 1763 al gennaio 1764, per dieci mesi, durano le discussioni e i dibattiti non solo sulle idee ma anche sullo stile; il risultato è la pubblicazione del suo capolavoro, il trattato Dei delitti e delle pene, che esce nel 1764 a Livorno, coi tipi del signor Aubert, che aveva stampato le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri. L'opera ottiene subito un grande successo in Toscana, tanto che la prima edizione, uscita in giugno, viene esaurita in soli tre mesi, e ad agosto non se ne trova in giro più una copia, ancor prima che se ne sentisse parlare nei circoli culturali di Milano. Era ciò che Beccaria e i Verri aspettavano: dopo gli applausi della Toscana, anche in Milano l'opera, che pur conteneva una certa pericolosità per le idee progressiste e di condanna della pena di morte, non avrebbe potuto raccogliere dissensi.
        Lo straordinario successo dell'opera, mette l'autore in una situazione difficile, dato il suo carattere schivo e fondamentalmente debole, durante la quale gli furono di grande aiuto i fratelli Verri, che intervennero in suo favore con uno scritto contro le accuse che gli erano state lanciate, in particolar modo di offesa alla religione e di mancanza del rispetto che è dovuto all'autorità del principe, che gli erano state rivolte dal padre vallombrosano Ferdinando Facchinei, che aveva ricevuto "dal Consiglio dei Dieci a Venezia l'incarico di combattere con un apposito scritto le dottrine di Cesare Beccaria, specialmente in riguardo all'abolizione della tortura e della pena di morte. Ed il monaco compose alcune scipitissime sue note e osservazioni, a cui Beccaria ebbe a rispondere subitamente nell'ottobre di quell'anno".
        Nello stesso in cui scrive la sua opera, il Beccaria collabora attivamente anche con la pubblicazione di molti articoli la rivista "Il Caffè", che comincia le sue pubblicazioni nel giugno 1764 uscendo con una cadenza di dieci giorni e durerà fino al maggio 1766: due anni ricchi di animazione culturale e di contributi originali di idee.
        Intanto col susseguirsi delle edizioni, l'opera comincia ad ottenere anche il plauso dei filosofi e dei giuristi stranieri, come D'Alembert e il Duca di Wurtemberg, che gli scrivono lettere piene di lodi. Nel 1766 l'abate André Morellet, nato a Lione nel 1727 e celebre a Parigi come polemista e scrittore di vivissimo ingegno, traduce l'opera in francese e la divulga fra gli intellettuali parigini insieme al D'Alembert, che invitano il Beccaria a Parigi, viaggio che viene effettuato in quello stesso anno in compagnia di Alessandro Verri.
        Ma il viaggio si risolve in un mezzo disastro per il Nostro autore per il suo carattere schivo e irresoluto, talvolta pauroso delle novità. A proposito della presenza a Parigi di Beccaria, così scrive il Morellet nelle sue memorie:

Il Beccaria fu ricevuto con ogni sollecitudine immaginabile in tutte le nostre compagnie... Tosto però avemmo una triste esperienza delle debolezze umane. Il Beccaria erasi strappato dal fianco di una giovane sposa di cui era geloso, sentimento che lo avrebbe condotto a ricalcare le orme ancor fresche tornando da Lione a Milano, se l'amico (Alessandro Verri) non l'avesse con sé strascinato. Finalmente arriva e non se ne può cavare quattro parole. L'amico suo per contrario, di figura avvenente, d'indole facile e gaia, che pigliava piacere a tutto, in breve raccolse le cure e le finezze di tutti. Questo finì per far girare il capo al povero Beccaria, il quale, dopo aver passato tre settimane o un mese in Parigi, se ne andò soletto. Verso la fine della sua dimora nella nostra città la testa e l'umore erano in lui così alterati, ch'egli restava tutto il giorno confinato in albergo, dove mio fratello ed io ci recavamo per tenergli compagnia e cercare di calmarlo.

        Nell’opera Beccaria affronta il problema della legittimità dei governi di punire coloro che in qualsiasi modo contravvengono a quanto stabilito dalle leggi, in quanto, come affermavano gli illuministi, tra il cittadino e lo stato si stabiliva un "patto sociale" in base al quale ogni cittadino rinunciava a una piccola parte della propria libertà per il raggiungimento della maggior felicità possibile che a ciascun cittadino lo Stato avrebbe in qualche modo garantito colla sua azione: le leggi, che regolano i rapporti fra i cittadini sia fra di loro che con lo Stato, partono proprio da questo presupposto; criterio costante e fondamentale sia dell’azione dei governi che dello studio e dell’approvazione delle leggi deve essere quello dell’utilità pratica generale di tutta la comunità, non solo rispetto all’individuo ma alla società nella sua totalità, per cui l’irrorazione delle pene, e la loro costituzione, deve portare ad impedire al cittadino di arrecare danni alla collettività e di evitare che altri possano seguire l’esempio del reo. In questa ottica non possono essere più seguiti i vecchi criteri del passato, perché dannosi e inumani: uno dei freni al delitto non può essere la crudeltà delle pene ma l’infallibilità di esse; la loro moderazione e dolcezza è la dimostrazione più chiara del principio dell’utilità generale.
        Di qui nasce la parte più "originale" dell’opera beccariana, che consiste in due punti fondamentali:
                1) il diritto della società di inquisire il supposto colpevole colla tortura;
                2) l’irrorazione della pena capitale.

        La necessità, afferma Beccaria, costrinse gli uomini a cedere una parte della propria libertà, unendosi agli altri uomini per resistere meglio all’attacco e alla sopraffazione di altri gruppi: ciascun individuo non "vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti ad indurre gli altri a difenderlo". L’insieme di tutte queste minime porzioni forma il "diritto di punire", per cui la giustizia diventa il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari.
        "Tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura". La giustizia diventa un fatto assolutamente umano, da sganciare da ogni idea religiosa, dalla fede in mondo e una vita possibili dopo la morte: oltrepassato il vincolo che tiene uniti gli interessi particolari di ciascun individuo, ogni azione diventa illegittima e ingiusta.
        Per questo anche la tortura e la pena di morte diventano ingiuste, perché entrambe sono basate non sul diritto, ma sulla forza dello Stato. Non esiste una condizione di necessità da parte di uno Stato, proprio perché la "necessità" è una condizione che appartiene agli individui, e la necessità di uno Stato diventa la necessità di un gruppo di individui di mantenere il proprio potere di governo a scapito della collettività.

        In questo consiste la grande novità dell’opera di Beccaria: nell’aver rovesciato la prospettiva dell’indagine sulla legittimità dell’azione di uno Stato: fino all’Illuminismo lo Stato era preminente e la sua azione assolutamente e sempre legittima, per cui gli uomini abitanti sul territorio di quello Stato erano semplicemente sudditi senza "volontà politica" e senza "capacità decisionale" perché privi di diritto. Questo permetteva al sovrano di poter dire: "lo Stato sono io" o "la legge sono io", e di fronte a lui null’altro poteva esistere se non la sottomissione cieca e passiva di tutte le altre persone.
        La prospettiva si sposta dal sovrano alla sovranità che è l’insieme di tutte le piccole porzioni di libertà cedute dagli individui, che non sono più sudditi passivi, ma cittadini protagonisti del vita della collettività e che hanno nelle mani "un diritto" che proviene proprio dalla cessione di una porzione della propria libertà.
        In questo senso il libretto di Beccaria, che non presentava idee molto originali rispetto a quelle già espresse da tanti esponenti dell’Illuminismo, a partire da Hobbes e Locke per finire a Rousseau, che con forza avevano messo in discussione tutto ciò che riguarda la società e la sua costituzione: il "patto sociale" era stato già teorizzato, spiegato e diffuso, rappresentava una novità assoluta e una pericolosità elevata per il potere costituito sia religioso che politico, tanto che il padre vallombrosano Ferdinando Facchinei scrisse un violento opuscolo contro il Beccaria e la sua opera proprio per incarico del governo della Repubblica della Serenissima.
        Il problema non era il rifiuto della tortura e della pena di morte, ma portava a discutere il principio stesso della legittimità del potere assoluto dei sovrani, ponendosi al di sopra "dei pregiudizi, dei tradizionali rispetti, fuori dagli schemi prefigurati da sempre"; un problema che poteva portare a prese di posizione che avrebbero potuto intaccare, come abbiamo visto, il fondamento stesso del potere.

La lingua

        Qualche annotazione sulla lingua diventa necessaria perché questa non è usata in modo da far risaltare la bravura dello scrittore e la sua capacità di scrivere che avrebbe potuto suscitare l’ammirazione del lettore ponendo in secondo piano il contenuto dello scritto; il linguaggio di Beccaria ha un andamento semplice e discorsivo, scientifico per quel che riguarda la dimostrazione delle sue idee, per cui date certe premesse non si può che arrivare a determinate conseguenze, e chiaro nella scelta delle parole da usare: non avrebbe dovuto essere difficile per nessun lettore capire il contenuto dell’opera.
        La diffusione delle nuove idee aveva bisogno non solo di un linguaggio razionale e comprensibile nel quale fossero chiare le due parti dell’esposizione delle idee:
                1) affermazione di un’idea o di un principio,
                2) dimostrazione della giustezza dell’affermazione stessa,
ma anche della partecipazione viva e della fede dell’autore nelle idee espresse e del tentativo di coinvolgimento del lettore.
        Beccaria fa proprio questa operazione:
                a) usa la terza persona per l’affermazione e la dimostrazione,
                b) usa la seconda persona singolare e la prima plurale per coinvolgere il lettore,
                c) usa la prima persona singolare per manifestare il suo sentimento e le sue convinzioni.

        L’analisi della lingua ci porta, quindi, a riconoscere il procedimento scientifico del ragionamento di Beccaria e a scoprire un sottofondo continuo che è la partecipazione viva alle idee esposte. Beccaria si espone in prima persona, andando al di là dei pregiudizi moralistici del tempo, affermando il rispetto dell’uomo per qualunque uomo nel nome della "libertà", che è patrimonio esclusivo di ciascuno, e della "giustizia", che è il vincolo che unisce "le singole porzioni di libertà cedute" da ciascun individuo formando lo Stato.

http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/index080.htm


2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it