LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






FU IL MANZONI UN CATTOLICO LIBERALE?
a cura di Arturo Carlo Jemolo


Giurista e storico, docente di diritto ecclesiastico e insigne studioso dei rapporti fra Stato e Chiesa durante il Risorgimento, il cattolico Arturo Carlo Jemolo (1891-1981) fu allievo all’Università di Francesco Ruffini, al quale si deve il fondamentale saggio La vita religiosa di Alessandro Manzoni (1931). La sua intensa attività di storico, affidata a testi quali Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione (1928), Chiesa e stato in Italia negli ultimi cento anni (1948), non poteva evidentemente prescindere dal "caso" Manzoni; nasce cos, nel 1973 la raccolta di saggi Il dramma del Manzoni. Le pagine che seguono sono tratte dal più importante degli scritti ivi raccolti Fu Manzoni un cattolico liberale?, nel quale si dimostra che la problematica del cattolicesimo liberale rimase sostanzialmente estranea al grande scrittore lombardo.

Fu Manzoni un cattolico liberale?

Per cominciare da quello che pare inserirlo nel cattolicesimo liberale, egli non è affatto tra coloro che in qualsiasi ambito sentono, pensano, esultano e soffrono con il Papa. Crede che Pio IX erri ritenendo necessario il potere temporale, è chiaramente per l’unità nazionale, va in Senato per votare per Cavour, giunge a ricevere Garibaldi. Questo peraltro non è che l’aspetto più estrinseco del comportamento, rimane ancora al di fuori della vera e propria religiosità. E per mio conto accederei senza riserva alla pagina conclusiva del Ruffini, rinvenirsi nel saldo blocco della fede cattolica del Manzoni una venatura giansenistica [...]. In che consiste la vena giansenistica di Manzoni?Si può essere tentati a dire ch’essa si riduca al rigorismo morale al credere nella grazia donata da Dio misteriosamente, senza che l’intelligenza umana possa comprendere perché gli uni sono illuminati, gli altri no. Questa è la sostanza; peraltro nelle predilezioni che Manzoni mostra per l’uno o per l’altro aspetto della religiosità cattolica, in qualche giudizio storico-morale, potrebbe anche rinvenirsi qualcosa di più.

Vecchia questione quella se nel giansenismo penetrasse il predestinazionismo; che è poi a ben guardare inutile questione, riducibile ad un uso più o meno felice di termini. Giacché se ci sono, come ci sono, ale del giansenismo (ale estreme, cui certo non partecipò Manzoni), che neghino una grazia sufficiente impartita a tutti gli uomini, sì che per uscire dalla massa dannata in cui l’umanità fu precipitata dal peccato originale occorra un aiuto particolare, che Dio misteriosamente accorda oppure nega, allora può ben dirsi che si ha un predestinazionismo, che affonda le sue radici nel mistero, in quanto mai gli uomini conosceranno l’arcano di questo dono o di questo diniego. Mentre la più gran parte dei giansenisti, certo quelli della generazione tarda che conobbe in giovinezza Manzoni, non accedevano ad una tale visione; rispettosi del mistero, della sorte di chi male operava non tentavano conoscere se così seguisse per colpa del peccatore, che aveva scelto liberamente la via del male, o per mancanza di un aiuto necessario non offertogli. [...]Ma non c’è alcun argomento per ritenere che Manzoni pensasse alla massa dannata, a Cristo venuto per la salvezza di pochi, all’esclusione dalla salvezza dei bambini morti senza battesimo: che sono le vere connotazioni del giansenismo; meno che mai alla predestinazione, ad individui nati condannati già in partenza alla geenna. Del pari non si potrebbe ravvisare un qualsiasi adeguamento di Manzoni agli aspetti politici del giansenismo: sia che si guardi il giansenismo di un Tamburini od uno Scipione de’ Ricci, l’obbligo assoluto di fedeltà al monarca, buono o cattivo, cristiano o non cristiano, ché soltanto Dio può giudicare i re, ed ai sudditi è solo dato pregare Dio per la loro conversione, sia invece che si voglia vedere un giansenismo che rechi in se i fermenti di una non lontana rivolta, che scuota il principio di autorità, che rivendichi all’uomo la libertà di giudicare i suoi governanti e persino di ribellarsi. Quando Manzoni parla dei tumulti di Milano, non mi sembra passi affatto nella sua mente che i tumultuanti, neppure nei momenti peggiori, pecchino perché si ribellano all’autorità, né che nella loro rivolta vi sia il germe di un domani migliore. Non vi scorge che effetti della insipienza umana, della incapacità di rinvenire le origini dei mali, così degli editti che non tengono conto delle leggi economiche, come del credere che la farina salti fuori impiccando i fornai. Del pari nessuna traccia di episcopalismo o di rivendicazioni dei diritti dei pensatori del second’ordine, che sono altro spunto giansenistico. Se non accetta il temporalismo di Pio IX, non mostra alcuna angoscia per ciò che il Papa possa proclamare e poi proclami il dogma della infallibilità; così come nessuno scandalo per ciò che il Papa proclami il dogma della Immacolata7 senza accertarsi che tutta la Chiesa, tutto il corpo dei pastori aderisca [...].Nessuna riserva al primato di giurisdizione del Papa: questi è il vertice, il corona mento necessario dell’edificio della Chiesa. Peraltro siamo negli anni in cui il culto per la persona umana del Pontefice, iniziatosi con gli esili di Pio VI e di Pio Vll, si accresce intorno alla persona di Pio IX. E non vi troviamo Manzoni partecipe, diremmo che dove più ha sentito il Papa sia stato guardando all’alto medioevo, al Papa protettore Begl’italiani, solo italiano che potesse parlare da pari ai conquistatori; la sua più decisa apologia sia stata per Adriano Il che ha chiamato i Franchi contro i Longobardi: in funzione italiana, dunque, non religiosa. [...]Questo per cercar di fissare i limiti della vena giansenista di Manzoni: che a me sembra si possano cogliere nel romanzo; da un lato in quella sfiducia nell’agire degli uomini, pure i migliori, i bene intenzionati; ché soltanto Dio può operare, fuori di ogni previsione della saggezza umana, per sue vie misteriose, accordando così la grazia efficace, folgorando con la sua misericordia anche chi nulla aveva fatto di apprezzabile nel bene per gli occhi umani, chi non aveva pregato, non chiesto aiuto, ma da un altro lato con il lieto fine del romanzo, che non è fine di tonalità giansenista. [...]Il nocciolo della religione di Manzoni mi sembra compendiarsi nel colloquio dell’uomo con Dio, che dov’essere continuo: l’uomo preghi, chieda, sia intento ad ascoltare la risposta, che suole venire, ma molte volte sfugge all’uomo disattento. [...]Religione di Manzoni: necessità dei ministri della Chiesa, dispensatori dei sacramenti, che impongono la penitenza con l’assoluzione, hanno il potere di convertire i voti, nel romanzo c’è tutto questo, e la figura di fra Cristoforo non potrebbe essere più nobile. Però siamo lontanissimi dal tipo di pietà cattolica che fu detta gesuitica, e che fu effettivamente coltivata dal finire del Seicento fino ad un’epoca prossima a noi: santi protettori, ciascuno contro ogni male ed ogni pericolo, bacio delle immagini, determinate devozioni, spesso connesse a rivelazioni, così di una santa che aveva garantito si sarebbe salvato chiunque in certi giorni della settimana attendesse a date pratiche. Pietà cattolica con elementi estetici, dove l’arte, le belle immagini pittoriche e scultoree avevano la loro parte, e così la musica sacra; e l’oratoria fioriva in lunghe prediche, dai bei periodi forbiti. [...]Miracoli: fra Galdino parla di quello delle noci; ma è in un tono di leggenda popolare, e non appare proprio che Manzoni considererebbe empio chi non vi prestasse fede. Di santi nel romanzo si parla poco o punto; se mai pare sia una vanità nobiliare vantarne nell’ascendenza. [...]L’unico richiamo ad una forma di devozione tradizionale si ha quando Lucia si pone intorno al collo come una salvaguardia il rosario; e lo connetterei con la devozione alla Vergine, che mi pare in Manzoni schietta e spontanea, come fu certamente in molti giansenisti che pur prendevano posizione contro gli eccessi della Mariologia. Più si ha coscienza dell’uomo decaduto, dell’uomo in basso, dell’uomo esposto alle passioni ed alle tentazioni, più si avverte il bisogno di un intermediario, [...] di un essere umano, che, non avendo subito gli effetti della caduta, mostri a quale nobile creatura Dio avesse dato vita nell’Eden. I sacramenti: quanto poco se ne parla nel romanzo. Conversione dell’innominato; ma ci si attenderebbe una confessione sacramentale e poi vederlo alla balaustra dell’altare a ricevere la Comunione; Renzo e Lucia alla fine salvi, alla vigilia del matrimonio; nessuna menzione neppur qui di confessione e Comunione. Anche a tener conto del continuo controllo storico di Manzoni, e che la Comunione frequente non era consueta nel Seicento, non è dubbio che altri scrittori cattolici vi avrebbero accennato.Nella pietà cattolica di ogni tempo, quale ci appare pur nelle cantiche di Dante, il pensiero dei morti, l’idea che i nostri cari in un’altra vita preghino per noi e che noi dobbiamo suffragarli nelle nostre preghiere, ha gran posto; Renzo alla fine promette di dire dei De profundis per don Rodrigo, ha la sicurezza che fra Cristoforo sia in cielo, ma mai né lui né Lucia accennano ai propri morti, Lucia non invoca mai la protezione del padre morto; del culto dei morti, della loro invocazione, c’è proprio l’indispensabile.[…]

Risultati più conclusivi non si hanno se si raffronta Manzoni con le varie correnti di quello che si suole chiamare cattolicesimo liberale. Il cattolicesimo liberale del primo Lamennais ed in genere di quanti deploravano i legami tra il trono e l’altare, ma soprattutto per gl’impacci ch’esso poneva alla libera attività della Chiesa, non si riscontra in Manzoni. Non si scorge mai in lui la visione di una Chiesa desiderosa di bene, di azione conforme all’insegnamento evangelico, che si trovi arrestata, coartata dallo Stato. Certo nei Promessi sposi la Chiesa vive in un secolo in cui predominano date classi, ed i pastori sentono tutti i riguardi per queste, restano inseriti nel sistema; hanno, essi medesimi, il sentire del tempo, ne accettano le convenzioni, le gerarchie. Ma questo non ha a vedere con una coercizione dello Stato; nei domini del Papa le cose non vanno diversamente. Nessun organo statale impedirebbe all’esaminatore delle aspiranti al convento di esaminare meglio Gertrude [cap. X], né imporrebbe al Provinciale dei cappuccini di trasferire fra Cristoforo [cap. XIX], né al cardinal Federigo di non consentire alla processione che darà maggior esca alla peste [cap. XXXII]; non si sente mai di opere di bene volute dagli ecclesiastici ed ostacolate dallo Stato. Nessun accenno neppure al reale e grave male delle alte cariche ecclesiastiche accordate su proposta o richiesta dei sovrani. Non scorgo neppure alcun passo di Manzoni in cui mostri fastidio dei privilegi che la Chiesa possedeva: il diritto di asilo, il solo accennato, l’esonero da tributi. Cattolico liberale di quelli che invocano la libertà di ricerca nel campo della storia ecclesiastica, delle origini della Chiesa, libertà per le scuole teologiche? Non ce n’è traccia, non troviamo Manzoni in polemica con alcuno degli apologeti ufficiali. Nessun dubbio ch’egli è uno storico che reclama la giusta libertà [...] e già si è detto che il suo sentire religioso, il suo modo di manifestarlo, tanto nelle pagine del romanzo che in quelle stesse delle Osservazioni sulla morale cattolica non coincidono affatto con quello che è il volto che ha assunto il cattolicesimo ortodosso, pietistico, del suo tempo. Ma non si addentra mai sul terreno pericoloso delle origini del cristianesimo, e non ci dà mai ragione di sospettare un qualche suo fastidio per inibizioni, per censure ecclesiastiche. I cattolici integrali che lo osteggiano lo fanno guardando il suo atteggiamento verso il Papa, Il suo modo dl giudicare avvenimenti contemporanei, non mai perché non sia rispettoso del dogma o della storia più remota. Che a Manzoni dia noia la censura austriaca, la polizia che apre la corrispondenza, la necessità di passaporti per uscire dallo Stato, nessun dubbio. Peraltro non si pone mai il problema di emigrare per uno dei Paesi liberi, Francia o Svizzera, in cui pure ha radici, amicizie, dove non gli sarebbe difficile stabilirsi e vivere. Quando cerchiamo il suo orientamento politico, vaghiamo piuttosto incerti, anche a prescindere da quella sua carenza di azione, da quel suo mai compromettersi, che trova spiegazione in quel perenne stato angoscioso, che fu il grande peso, il tormento della vita di Manzoni. Senso della unità italiana, aspirazione al compimento di questa unità, accettazione di chiunque ne fosse il campione, quale potesse essere il sentire, pur religioso, di questi: è il dato più sicuro, dall’ode per il tentativo di Murat, che avrà esito così infelice, al considerare come i nostri gl’insorti delle cinque giornate, all’esultare per l’esercito sardo che varca il Ticino, giù giù, fino al ’59, al ricevere Garibaldi. Non accettazione di alcuna distinzione da parte dell’Austria, rifiuto di ogni contatto pur con l’insinuante arciduca Massimiliano, mentre accetterà poi di essere senatore del regno e voterà per Cavour. Qui nessuna ombra, tutto è chiaro [...]. Diremmo anzi quella di Manzoni una italianità ombrosa, ché diversamente non si spiegherebbe che esulti per la fine del regno Italico, che pure aveva portato ai primi posti tanti lombardi, alcuni dei quali suoi amici, e che continueranno per quanto possibile come funzionari austriaci le vie fino allora battute. Ma c’è qualche elemento per parlare di una fiducia di Manzoni negli ordinamenti costituzionali, nei Parlamenti, nel gioco dei partiti? [...]Si è scritto a proposito del romanzo che mostra i mali della dominazione spagnola che mostra la società prostrata dell’era post-tridentina, che è un attacco al Seicento, secolo dell’oscurantismo, in cui sono spente le luci del Rinascimento, ed ancora non ci sono barlumi d’illuminismo; che è il primo romanzo in cui gli umili sono i protagonisti, il primo romanzo popolare; e si è pure scritto, all’opposto, che Manzoni vede gli umili come bestiole, che ogni animo ben nato è incline ad amare, ma di cui non si può sperare che crescano in intelletto, che apprendano a governarsi; che è romanzo paternalistico, che insegna che i poveri devono rassegnarsi, patire, ponendo in una vita ultraterrena le loro speranze; che è romanzo scettico, posto che l’insegnamento immediato è che miglior partito per ciascuno è guardare ai fatti propri, non fare chiacchiere, tenere per se i propri pensieri, ed allorché c’è in giro aria di rivolta asserragliarsi in casa. Se anche in effetto appaiano nel romanzo i danni delle guerre, che non interessavano affatto il popolo lombardo, non è proprio a pensare che Manzoni ritenesse che le cose procedessero meglio dove c’erano sovrani nazionali, sotto i Medici od i Farnese od i Savoia; che questi fossero particolarmente preoccupati di evitare incomodi ai loro popoli anche rinunciando alle proprie pretese di principi, che rendessero meglio giustizia. Certamente il quadro è quello di uno Stato dove l’autorità non è obbedita, dove si moltiplicano le leggi ma solo eccezionalmente le si applica, ed allora le pene sono atroci, dominando la preoccupazione della esemplarità su quella della giustizia. La giustizia è ben lungi dall’essere eguale per tutti, i funzionari minori sono agli ordini dei potenti, gli avvocati si rifiutano di difendere contro questi. Nella Storia della Colonna Infame sono denunciate le aberrazioni cui conduce l’uso della tortura come mezzo istruttorio.

Ma si può scorgere qualche designazione, qualche indicazione dei modi per avere un assetto migliore?Non direi proprio che appaia in Manzoni un culto per i potenti, i grandi reggitori. Nell’Adelchi Carlo è figura poetica, un inviato da Dio a vendicare i torti fatti al papato; non lo si scorge in funzione di legislatore, di reggitore di un popolo, meno che mai del nostro popolo. Nel romanzo i fugaci accenni ai re di Spagna e di Francia, allo stesso Pontefice regnante, ai grandi della politica, il conte-duca Olivares od il cardinale di Richelieu, un gradino più sotto il governatore Gonzalo de Cordova, tutto dicono fuorché riverenza, sottomissione, non accennano davvero che siano quelli gli uomini nelle cui mani i popoli debbano rimettere con sottomissione e fiducia le proprie sorti.Ed occorre pur dire che non si vede nemmeno una qualche fiducia nella Chiesa in quanto struttura giuridica, complesso burocratico di organi cui sia dato governare i popoli nelle cose temporali.Don Abbondio non è affatto una eccezione, rappresenta l’aurea mediocritas, non sentiamo di alcun parroco che si comporti in modo antitetico al suo, i frati troppo zelanti nella difesa degli oppressi sono allontanati; nei monasteri seguono per anni bruttissime vicende, dovute pure a ciò, che si chiudono gli occhi per non sapere che le cadette delle grandi famiglie vengono avviate ai conventi senza vocazione (e del pari segue per i cadetti, indirizzati al clero od all’Ordine di Malta, con voti di castità, di cui tutti sorridono).L’esaltazione del cardinal Federigo non implica che il lettore, oltre alle debolezze che lo stesso Manzoni non tace, non possa facilmente risalire a quel che si nasconde sotto le parole del cap. XXII del romanzo, sulle opinioni che il cardinale sostenne e che oggi sembrerebbero piuttosto strane che mal fondate, e le sostenne non solo in teoria (così la credenza negli untori, pure pensando che si esagerasse scorgendoli ovunque)ma anche in pratica, sicché credendo nelle stregonerie lasciò torturare come strega una povera infelice; cedette allo spirito del tempo dando largamente ad un gentiluomo perché potesse dotare la figlia adeguatamente al suo rango, mentre c’era intorno tanta miseria [cap. XXII]. Non implica che il lettore non si accorga che questo presule non punisce don Abbondio (probabilmente sa che non troverebbe un parroco che valesse più di lui), e quando soldatesche devastano la Lombardia non pensa affatto di dover imitare Leone Magno che affronta Attila 15 E se Manzoni può scrivere che il cardinale visitava i lazzaretti per dar consolazione agli infermi e per animare i serventi, non lo mostra mai a confessare o dare la estrema unzione ad un appestato. Dà solo parole di consolazione "sotto la finestra" delle case.Se qualcosa si può escludere con sicurezza è che Manzoni abbia mai pensato ad un reggimento semiteocratico, vescovi e sacerdoti preposti alle magistrature civili. [...]Nessuna fiducia nei nobili di toga, Ferrer, il vicario alle provvisioni Melzi (il primo descritto bonariamente come il furbo, che, sia pure a fin di bene, sa darla a bere alla folla; il secondo un pover’uomo terrorizzato), od in quelli che si dedicano agli studi come don Ferrante, e neppure nei veri dotti, come il Tadino, che per primo diagnostica la peste, ma poi asserisce essere causata dagli untori (e lo stesso Ripamonti fa il pesce in barile e non ha il coraggio di prendere netta posizione contro la superstizione degli untori); per non parlare del "funesto Delrio" e di quanti scrissero di magia; e così del Settala che ebbe tanti meriti, ma con un suo consulto fece bruciare come strega una servente, incolpata delle sofferenze del suo padrone [cap. XXXI]Nessuna fiducia in quelli che costituiranno poi la borghesia, rappresentati dall’Azzecca-garbugli, dai parassiti che siedono alla tavola di don Rodrigo. Il marchese che succede a don Rodrigo appare un bravo signore e nulla più; nessun accenno che intenda prendere una qualsiasi iniziativa per modificare un po’ la comunità rurale di cui è ora divenuto il feudatario. Fiducia del popolo? accenni a possibili reggimenti popolari (Manzoni conosceva certamente il reggimento delle piccole comunità elvetiche del suo tempo)? di popolano istruito c’è la macchietta del sarto, macchietta e nulla più, il cugino di Renzo trasferitosi nel Bergamasco mostra che l’uomo di buona volontà, onesto lavoratore, risparmiatore, può migliorare la propria condizione economica; nessun accenno ad una trasformazione sociale. Può darsi che sbagli, ma a me pare certo che per Manzoni c’è lo scetticismo sull’opera delle forze politiche, sulla efficacia dell’una o dell’altra struttura. Per la vera, profonda religiosità di Manzoni, la vita attuale è veramente un’anticamera della eternità, anche se mi sembra uno di quei cristiani che non s’illudono sia dato all’occhio umano di intuire quel che sia la vita ultraterrena, da qui una prima remora ad un soverchio impegno, fosse pure solo intellettuale, nell’ambito politico. Ma c’è poi il fondamentale pessimismo manzoniano intorno all’uomo (veramente l’uomo decaduto di Pascal). Manzoni è all’antitesi di quelli che inseguono la chimera del governo giusto, che fa tutti contenti, del buon governo, che tutti giudicano tale, della possibilità di arrestare la storia. [...]In tutte le generazioni ci sono gli scettici dei regimi politici, quelli che danno ad essi un ben limitato valore, che ritengono solo gli uomini contino, possa aversi un governo di una relativa bontà con uomini buoni se pure le leggi, le istituzioni siano pessime, ed un cattivo governo con leggi perfette, se gli uomini valgano poco. Perché non protestano contro i principi assoluti, perché non reclamano riforme, perché appaiono indifferenti di fronte ai cambiamenti di governo, c’è chi volta a volta li ritiene conservatori o pavidi; non sono tali, non è neppure esatto definirli indifferenti, allorché sono soltanto convinti che le vicende di cui seguono lo svolgersi poco o nulla possono per la felicità degli uomini. Penso Manzoni fosse uno di questi. [...] Tra le componenti dell’uomo Manzoni, a prescindere dal suo perenne stato angoscioso, a prescindere da quel suo mirabile esprit de finesse che ne fa un pascaliano, cui si congiunge quella sua insaziabile ansia di analizzare il cuore umano, pervenendo a mirabili risultati, c’è la profonda fede cattolica, c’è la sua passione di storico, che da un lato si riannoda all’analisi dell’uomo - cosa c’è di perenne nell’uomo, cosa invece condizionato al tempo ed all’ambiente - e da un altro lato si connette e forse genera questa fede nella unità nazionale, questo amore per l’Italia, per il nostro popolo.


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