“Era il 17 febbraio 1944 e avevo sei anni, verso sera, stavo sul balcone della mia casa, a Lanuvio. La casa si trovava nella zona di Borgo San Giovanni, a sud del paese, fuori dalle mura medievali. Da quel punto la collina scende rapidamente, subito dopo le case c’erano orti, vigneti, uliveti e più in basso, canneti e boschetti di querce di castagni.

        Il cielo era limpido e il mare sembrava più vicino di quanto fosse realmente. Ed era proprio il mare che stavo osservando, perché c’era una lunga fila di navi, ben visibili, nonostante la distanza.

        Ad un tratto dalle navi si levarono dei lampi abbaglianti che io interpretai come fuochi di artificio. Ma subito dopo si udirono dei sibili seguiti immediatamente da scoppi fortissimi. La fila delle case accanto alla mia saltò in aria (in seguito venni a sapere che c’erano stati tanti morti).

        Mio padre mi prese in braccio e corse verso la porta di casa, chiamando a voce alta mia madre che, a sua volta, correva verso l’uscita con in braccio mio fratello più piccolo.

        Andammo a rifugiarci nella grotta di mio nonno, che si trovava poco distante e qui trovammo altre persone che ci avevano preceduto.

        Le esplosioni continuarono ancora per molto tempo e la terra tremò come se ci fosse il terremoto.

        Un’ esplosione più forte, perché più vicina, provocò uno spostamento d’aria che ci scaraventò contro le pareti della grotta e spense i lumi a petrolio e le candele con le quali ci facevamo luce. Ci fu un caos indescrivibile, con le donne che urlavano e i bambini che piangevano disperati.

        Qualcuno riaccese le candele e questo riportò un po’ di calma, ma poco dopo ci accorgemmo che l’esplosione aveva distrutto l’uscita. La gente fu di nuovo in preda al panico. Di ossigeno non ce ne era per molto tempo. Chi piangeva, chi urlava, chi era rimasto immobile, chi pregava. Alla fine con pale e picconi, gli uomini riuscirono ad aprire un varco sotto la volta dell’arco che era crollata e, attraverso quel varco, uscimmo, a gran fatica, tra le terra che tremava e il rombo assordante delle bombe.

        Quel giorno si scatenò l’offensiva degli Alleati che erano sbarcati ad Anzio, per chiudere in una tenaglia le truppe tedesche arroccate a Montecassino.

        In mezzo a quella tenaglia, si trovavano, purtroppo, i Castelli Romani e soprattutto Lanuvio, che era più esposta degli altri, data la sua posizione protesa verso il mare.

        I bombardamenti navali ed aerei di quel giorno, distrussero gran parte delle abitazioni del paese. Ma di bombardamenti ce ne erano stati anche prima, per opera degli aerei americani che si levavano in volo dagli aeroporti africani.

        A Lanuvio, infatti, i Tedeschi avevano stabilito il loro quartier generale; da qui dominavano la pianura fino al mare di  Anzio dove c’erano appunto le truppe alleate.

        L’occupazione tedesca era stata molto dura per i Lanuvini. I soldati mettevano paura, girando armati fino ai denti: fucili mitragliatori, pugnali e bombe a mano infilate negli stivali e nei cinturoni. Prendevano uomini e ragazzi per fargli scavare le trincee; sfondavano le porte delle case e si impadronivano di tutto quello che trovavano da mangiare ed anche di altre cose.

        Il cibo scarseggiava e si pativa la fame. Ma un giorno accadde un fatto che permise ai Lanuvini di riempirsi la pancia. Verso Aprilia si vide alzare un polverone; si pensò che gli Americani avessero sfondato il fronte e stessero avanzando. Poi però ci si accorse che migliaia di pecore, buoi e cavalli, correvano impazziti verso Lanuvio, risalendo in intere mandrie le pendici della collina. Per la gente del paese fu una vera festa e tutti corsero incontro agli animali per catturarli. Per molti giorni non si fece altro che mangiare arrosto di pecora. Quelle povere bestie appartenenti agli allevamenti di Marzicola, erano state spinte dagli Americani sui campi minati dai Tedeschi, per aprire dei varchi.

        Quelle che sfuggivano alla cattura, tornavano indietro finendo di nuovo sulle mine.

        Il bombardamento del 17 febbraio fu terribile per Lanuvio, tanta gente che si era rifugiata nelle grotte non ne uscì.

        Uno degli episodi più tragici fu causato da una bomba che cadde sulla strada davanti al Municipio e che fece saltare la conduttura dell’acqua. Accanto c’era una grotta dove si erano rifugiate tante famiglie.

L’acqua si riversò impetuosamente all’interno della grotta, che nel frattempo era diventata una trappola mortale, perché un’altra bomba aveva causato il crollo dell’uscita. Molti morirono annegati, altri chiedevano aiuto. Tanta gente accorse con pale e picconi per liberare i superstiti. Arrivarono anche i pompieri da Velletri, ma i Tedeschi erano impazienti, volevano chiudere il buco per far passare i carri armati. Così fecero e le grida cessarono. Appena usciti dalla grotta di mio nonno, arrivarono subito dei soldati e ci radunarono con altre persone. Un ufficiale, che parlava italiano, ci disse che dovevamo abbandonare il paese, di preparaci per la partenza e di prendere con noi poche cose.

Rientrammo in casa mentre, nel frattempo, c’era stata un pausa dei bombardamenti, preparammo in fretta la valigie.

        Prima di uscire i miei genitori si fermarono a guardare, con le lacrime agli occhi, la casa per l’ultima volta che venne poi completamente distrutta. Quindi chiusero la porta e uscimmo sulla strada dove c’era già tanta gente, fra cui molti dei miei parenti. Mio nonno aveva un mulo sulla cui groppa caricammo quante più cose potemmo, tanto che alla povera bestia si piegavano le zampe. Furono poi costretti ad alleggerirgli il carico così che molte cose restarono sulla strada, non essendo possibile portarsele dietro.

        Era quasi mezzanotte quando ci mettemmo in marcia. Partimmo dalla piazza del paese raggiungendo l’Appia e ci avviammo verso Roma. Superata Genzano, i bombardamenti ricominciarono. Lungo la strada incontrammo altri gruppi di sfollati che si unirono a noi. Si formò così una fila che si allungava sempre di più.

        Eravamo costretti a camminare vicino ai bordi delle strade, perché c’era un intenso e frenetico traffico di carri armati, camions e macchine dei Tedeschi, nelle due direzioni.

        Ogni tanto si incontravano cadaveri di soldati e di civili gettati nelle cunette per liberare la strada. I soldati ci incitavano a camminare più in fretta, urlando e minacciandoci con pistole e fucili, tanto da farci quasi correre. In questo modo alle prime luci dell’alba arrivammo alle porte di Roma, nella zona dell’Alberone. Qui ci fermammo perché fummo ospitati nella casa di un nostra parente. Gli altri proseguirono per altre direzioni. Dopo pochi giorni, però, ci trasferimmo in una casa vicino alla stazione Termini, che ci era stata assegnata dalle Ferrovie dello Stato, nelle quali mio padre lavorava. In quella casa, che era molto grande, ospitammo altri parenti che rimasero con noi per molti mesi, fino alla fine della guerra, quando tornammo a Lanuvio”.  

(Testimonianza raccolta da Matteo F.)