M'accorgo che correndo verso Y ciò che più desidero non è trovare Y al termine della mia corsa:
voglio che sia Y a correre verso di me, è questa la risposta di cui ho bisogno, cioè ho bisogno che lei
sappia che io sto correndo verso di lei ma nello stesso tempo ho bisogno di sapere che lei sta correndo
verso di me. L'unico pensiero che mi conforta è pure quello che mi tormenta di più: il pensiero che se
in questo momento Y sta correndo in direzione di A, anche lei ogni volta che vedrà i fari di un'auto in
corsa verso B si domanderà se sono io che corro verso di lei, e desidererà che sia io, e non potrà mai
esserne sicura. Ora due macchine che vanno in direzioni opposte si sono trovate per un secondo
affiancate, una vampata ha illuminato le gocce della pioggia e il rumore dei motori s'è fuso come in un
brusco soffio di vento: forse eravamo noi, ossia è certo che io ero io, se ciò significa qualcosa, e
l'altra poteva essere lei, cioè quella che io voglio sia lei, il segno di lei in cui voglio
riconoscerla, sebbene sia proprio il segno stesso che me la rende irriconoscibile. Correre
sull'autostrada è l'unico modo che ci resta, a me e a lei, per esprimere quello che abbiamo da dirci, ma
non possiamo comunicarlo né riceverne comunicazione finché stiamo correndo.
Certo mi sono messo al volante per arrivare da lei al più presto; ma più vado avanti più mi rendo
conto che il momento dell'arrivo non è il vero fine della mia corsa. Il nostro incontro, con tutti i
particolari inessenziali che la scena d'un incontro comporta, la minuta rete di sensazioni e significati
e ricordi che mi si dispiegherebbe davanti - la stanza con il philodendron, la lampada d'opaline, gli
orecchini -, e le cose che direi, alcune delle quali di sicuro sbagliate o equivocabili, e le cose che
lei direbbe, in qualche misura certamente stonate o non quelle comunque che io m'aspetto, e tutto il
rotolio di conseguenze imprevedibili che ogni gesto e ogni parola comporta, solleverebbero attorno alle
cose che abbiamo da dirci, o meglio che vogliamo sentirci dire, una nuvola di brusio tale che la
comunicazione già difficile al telefono risulterebbe ancora più disturbata, soffocata, sepolta come
sotto una valanga di sabbia. E' per questo che ho sentito il bisogno, anziché continuare a parlare, di
trasformare le cose da dire in un cono di luce lanciato a centoquaranta all'ora, di trasformare me
stesso in questo cono di luce che si muove sull'autostrada, perché è certo che un segnale così può
essere ricevuto e compreso da lei senza perdersi nel disordine equivoco delle vibrazioni secondarie,
così come io per ricevere e comprendere le cose che lei ha da dirmi vorrei che non fossero altro (anzi,
vorrei che lei non fosse altro) che questo cono di luce che vedo avanzare sull'autostrada a una velocità
(dico così, a occhio) di centodieci-centoventi. Ciò che conta è comunicare l'indispensabile lasciando
perdere tutto il superfluo, ridurre noi stessi a comunicazione essenziale, a segnale luminoso che si
muove in una data direzione, abolendo la complessità delle nostre persone e situazioni ed espressioni
facciali, lasciandole nella scatola d'ombra che i fari si portano dietro e nascondono. La Y che io amo
in realtà è quel fascio di raggi luminosi in movimento, e tutto il resto di lei può rimanere implicito;
e il me stesso che lei può amare, il me stesso che ha il potere d'entrare in quel circuito d'esaltazione
che è la sua vita affettiva, è il lampeggio di questo sorpasso che sto, per amor suo e non senza qualche
rischio, tentando. […]