PRIMO PREMIO PROSA GINNASIOANNO 1995-1996

Piccola Autobiografia Di Un Muro

 

         Finalmente è tornata la primavera e, con lei, il sole. Ne avevo proprio bisogno, come queste piccole creature che mi circondano, che vivono tutte intorno a me, sopra di me, sotto di me, dentro di me. Si scaldano al sole sopra le mie pietre, felici anche loro della primavera che è tornata e ancor più per la fine dell’inverno. Eppure non è una così brutta stagione; è il tempo adatto a meditare, a ripensare a tutti gli inverni che sono passati e che ancora passeranno.

         Ma un muro come me a cosa può pensare? Non può far altro che ricordare tutti gli avvenimenti che ha visto e le innumerevoli generazioni di quegli esseri che si fanno chiamare uomini e che da secoli camminano accanto alle sue pietre. Non ho mai capito completamente quelle insulse e frustrate creature, che però dovrei ringraziare perché, in fin dei conti, mi hanno tirato su millenni fa e - devo dire - anche piuttosto bene. Ma la loro vita è così caotica, così frettolosa che spesso gli eventi si confondono a tal punto da non essere più ricordati distintamente neppure dagli esseri umani. L’esistenza di noi muri, invece, è profondamente diversa. Non siamo in grado di influenzare ciò che ci accade intorno, né nel bene né nel male; siamo solo degli spettatori che osservano e registrano ciò che gli altri fanno o dicono. Un uomo al nostro posto si sentirebbe inutile e insignificante, si struggerebbe per l’impossibilità di compiere anche il più piccolo movimento ed impazzirebbe quasi di sicuro. Ma un muro gli direbbe che non c’è nulla di cui disperarsi, perché può osservare e pensare.

         Un tempo gli esseri umani pensavano - o meglio riflettevano - molto più di quanto non facciano oggi, in questa caotica epoca piena di macchine e di energia elettrica. Forse perché, con meno comodità, erano più vicini a quelle loro origini di animali: di conseguenza sapevano passare delle ore immobili, ad ascoltare il canto degli uccelli o il battito del loro cuore, come fanno i gatti, i cavalli e quasi tutti gli altri esseri.

          Quattro secoli fa, ricordo, un giovane signore passava i suoi pomeriggi  d’estate sotto il vecchio olmo che, compagno fedele, ancor oggi è qui di fronte a me. Quel nobiluomo - perché tale sicuramente era - restava ore ed ore immobile, con gli occhi chiusi, appoggiato al tronco nodoso; i primi tempi pensavo che dormisse, ma poi mi resi conto che era ben sveglio e pensava. Quando, poi, gli veniva un'idea che gli pareva buona, si scuoteva di colpo e, presi foglio, penna e calamaio, iniziava a  comporre una poesia. Doveva avere l’animo di un artista perché, quando tutto era calmo e gli attimi parevano restare sospesi nell’aria per un poco prima di passare, mi sembrava quasi di leggere i suoi pensieri; vi trovavo gioia e dolore, pace e tormento e soprattutto un grande, grandissimo amore per la vita. Solo un vero artista avrebbe potuto sentir pulsare il mondo intorno a sé in quel modo, solo un artista avrebbe potuto capire che cosa regola queste nostre esistenze. E lui l’aveva capito: lo si leggeva nei suoi occhi, in quella luce particolare che molti stupidi scambiano per pazzia.

         Non credo che riuscirò più ad incontrare una persona come quel giovane signore; è stato forse il miglior esponente della razza umana che io abbia mai conosciuto. Qualche volta mi ritornano ancora in mente delle sue poesie, così piene di gioia di vivere.

         Un pomeriggio, però, egli non venne, e neppure quello successivo, né quello dopo ancora. Per lunghe settimane il prato all’ombra dell’olmo rimase vuoto. Poi un mattino presto, all’alba, il vento portò delle novità: si combatteva poco più a nord e la battaglia si spostava a sud, verso di noi. La sera i due eserciti arrivarono. Non erano molto numerosi, ma le spade cozzavano con forza e qua e là si udivano i colpi di quei nuovi, infernali moschetti. Combatterono fino a quando fu buio pesto e ricominciarono il mattino seguente. Non ricordo cosa accadde esattamente, ma a mezzogiorno era tutto finito e sul prato non restavano altri se non i morti e i feriti non trasportabili. Guardai quella carneficina, chiedendomi con un certo disagio se tutto ciò era stato davvero necessario; ma dopo pochi istanti un movimento attirò la mia attenzione: un uomo vestito di una ricca armatura si trascinava strisciando verso il vecchio olmo. Solo dopo alcuni minuti vidi chi si trattava: era il giovane signore che componeva versi tenendomi compagnia. Aveva il volto rigato di polvere e sudore e si premeva una mano insanguinata contro il petto: la corazza era squarciata e la carne era dilaniata fino a lasciar scorgere un osso. Con una mano tremante cercò di togliersi l’elmo, ma vi riuscì solo con una grande fatica; inutili furono tutti gli sforzi di sfilare quella dannata armatura. Quello è stato l’unico momento in cui io abbia maledetto la mia perpetua immobilità.

         Infine desistette, vedendo che tutti gli sforzi erano inutili. Rimase lì, a fissare prima me, poi l’olmo, poi il cielo, poi nuovamente me, con sguardo smarrito. Il suo mondo felice si era trasformato in un inferno contorto dal dolore, tutte le sue speranze e i sui sogni erano svaniti come fumo disperso dal vento. Ma quella luce nei suoi occhi continuava a brillare, sempre più forte. L’amore che provava verso la vita si accresceva ogni istante di più, mano a mano che si accorgeva di scivolar lontano da lei. Raccolse a stento una margherita che cresceva lì accanto e, nel guardarla, i sui occhi si riempirono di lacrime. Con un ultimo sguardo a tutto quel mondo che amava, morì.

Forse è questo che rende gli uomini migliori di noi muri: il loro amore per la vita è più forte del nostro, proprio perché sanno che un giorno la perderanno. A parte quello che possono pensare su ciò che li aspetta dopo, è proprio il sapere che un giorno non vedranno più gli alberi in fiore o il tramonto che li rende tristi. In effetti nessuno può uccidere un muro, né questo può morire; possono farci e disfarci, ma non possono porre un termine definitivo e inderogabile alla nostra esistenza.

         Sono stato costruito dai Romani, circa un secolo dopo la nascita di Cristo. Ricordo ancora l’impressione strana che faceva la malta bagnata sulle pietre e quell’iniziale senso di vertigine accompagnato dalla preoccupazione di stare su, di non cadere. Gente strana quei Romani, ma davvero in gamba: non è da tutti riuscire a conquistare, e soprattutto a mantenere, un impero come il loro (credo che, ad essere sinceri, nessun muro sarebbe in grado di farcela). L’uomo che dirigeva la mia costruzione era davvero bravo: non un operaio lavorava meno di quanto avrebbe dovuto.

         La ragione per la quale sono stato costruito doveva essere abbastanza importante, ma ormai non la ricordo più; inizio a chiedermi se l’abbia mai saputa. Conosco invece il motivo della mia prima (e finora unica) morte. Erano passati sì e no trecento anni dalla mia costruzione, quando voci inquietanti iniziarono a passare di bocca in bocca; ma per me non erano altro che curiosità e mai mi sarei aspettato che avrebbero avuto un epilogo così decisivo per me e per molti esseri umani. I contadini, nei campi che mi circondavano, parevano sempre più irrequieti ad ogni giorno che passava e rientravano nelle loro case ogni sera più presto. Un pomeriggio, quasi verso il tramonto, giunse trafelato un ragazzino gridando« Arrivano i barbari!» e tutti fuggirono; ma non accadde nulla. Giunsero invece nella notte, come l’ondata di un fiume. In lontananza vidi le fiamme alzarsi dal villaggio e poco dopo uomini al galoppo mi passarono accanto, con delle fiaccole accese. Non vidi altro che ombre e fuoco e non so quale fosse il loro aspetto, ma non erano di sicuro né Romani né contadini.

         Mi accorsi solo poco dopo di ciò che avevano fatto: i campi di grano bruciavano e l’incendio procedeva nella mia direzione. Ricordo solo le fiamme, altissime, e la malta che crepitava portando una sensazione che potrei quasi definire dolore; poche ore dopo ero un ammasso di pietre annerite e fumanti, sparse fra la cenere, ciò che era rimasto del grano. Giacqui lì, disperso in un cumulo che si snodava qua e là dove un tempo mi trovavo dritto come - credo - vigile guardiano. Sentivo l’erba crescere su di me, tra le mie pietre, e cancellarmi a poco a poco, trasformandomi in qualcosa che assomigliava sempre più ad una collinetta e sempre meno ad un muro. I ricordi che mi restano sono vaghi, quasi fossero frammentati come lo ero io; il mondo intorno a me era come offuscato da una nebbia insidiosa, che si attaccava alle mie pietre e mi assediava.

         Mi vengono in mente delle pecore che brucavano tra i miei resti ed un ragazzino che le portava al pascolo e restava tutto il giorno a dormire sotto un giovane olmo; ma non ricordo quando questo albero (che sarebbe poi diventato il mio più grande amico e compagno di solitudine) venne piantato, o se crebbe da solo.

         Infine un giorno un gruppo di pastori e contadini iniziò a ricostruirmi; sorsi di nuovo e tutto ritornò chiaro e concreto: potei ricominciare a vedere il cielo e i campi dalla mia antica posizione, decisamente più comoda di quella orizzontale e frammentaria che un mucchio di rovine qual ero possa assumere. Ora tutto era di nuovo compatto e, soprattutto, lo ero io. Le mie sensazioni dovevano essere molto simili a quelle di un uomo che è rimasto per giorni al buio, in un letto, malato, e che infine si alza ed apre la finestra della propria camera, ritrovando il sole e la terra proprio come li aveva lasciati, ma con dei colori e delle sfumature diversi come se fossero stati dipinti di nuovo a tinte più vivaci. Mi ero sentito poche volte così resistente e reale e tutto intorno a me appariva più interessante e gioioso che mai.

         Dico di non capire gli esseri umani, ma dovrei essere più preciso: non capisco alcuni tipi di esseri umani. Invece comprendo perfettamente, per esempio, i contadini che mi hanno ricostruito. Erano così semplici, così istintivi, eppure in ogni loro gesto c’era l’immensa saggezza del popolo: quella dei proverbi, quella delle abitudini agricole che i genitori tramandano ai figli, quella delle fiabe che i bambini si raccontano portando al pascolo le pecore. In tutto ciò si sente pulsare la natura come una cosa viva, proprio come avviene nei campi, negli alberi, negli animali. Gli uomini d’oggi, invece, hanno perso di vista tutto questo, circondandosi di immagini posticce nel tentativo frenetico di nascondere la propria fragilità. Quando qualcosa ricorda ad essi le loro origini o l’onnipotenza che non hanno e non avranno mai, semplicemente lo distruggono. Quei contadini avevano, al contrario, ben presenti i limiti imposti loro dalla natura ed era questa consapevolezza che li rendeva più forti: ammettendo che era loro negato qualcosa, erano in grado di apprendere e sfruttare quello che avevano, primi fra tutto quei fertili e sterminati campi dei quali ero stato innalzato al ruolo di custode.

         Pensandoci bene, credo che sia questo il più grande problema dell’uomo moderno: troppe volte si scorda che sotto quell’asfalto, quel selciato, quel cemento sul quale cammina si trova la terra, da lui rinnegata nel nome del progresso e messa nel dimenticatoio.

         Non voglio innalzarmi al ruolo di giudice né tanto meno devo scordare che sono solo un muro, incapace di comprendere appieno che cosa siano nel profondo i miei costruttori. A dire la verità sto qui  a pensare solo perché non ho nient’altro da fare; non ci sono neppure più quei bei duelli, per amore di una dama o del proprio onore, che fino a un secolo fa erano un ottimo diversivo. Beh, negli ultimi tempi erano diventati solo più una presa in giro, quasi non si versava più sangue; non si vedeva più alcun odio a guidare i fioretti. Forse è meglio che siano finiti: le cose vanno fatte bene o è meglio non farle per nulla.

         E a proposito di cose fatte bene, credo di poter catalogarmi fra quelle: una delle cose poco numerose che gli esseri umani hanno imparato ottimamente è l’arte della costruzione. Cupole, ponti, archi arditi sono certo edifici eccelsi e nobili; eppure anch’io, con queste mie vecchie ma sagge pietre, non sono da disprezzare: forse il mio ruolo nella storia è stato molto più grande di quello delle cattedrali, forse la mia presenza ha protetto e salvato delle vite, siano state esse umane o animali.

         Questi miei vecchi massi ne hanno proprio viste di tutti i colori; mentre se ne stavano qui immobili, tra questi prati, sotto lo sguardo bruciante o flebile del sole, intorno a loro sono successe innumerevoli cose ed altrettante sono cambiate, tanto numerose che nessun essere umano potrebbe ricordarne neppure la decima parte. Eppure la maggior parte di esse erano anche fatti della vita di uomini, donne e bambini che sono nati, vissuti e morti mentre io resto qui, immutato ed immutabile. Un tempo, quando ero giovane, guardavo la gente che viveva sotto la mia protezione con un distacco ed un senso di superiorità che con gli anni sono andato perdendo; la causa probabilmente è che la vicinanza degli esseri umani mi ha contagiato irrimediabilmente e mi ha tolto quell’impassibilità che rendeva la mia vita molto più facile, immune dai dispiaceri ma anche dalle gioie. Poco per volta il mio vecchio cuore di pietra sta perdendo la sua durezza. Se avessi avuto lacrime, avrei pianto alla morte del giovane signore che amava la vita; se avessi avuto una bocca, avrei sorriso nel vedere di nuovo uniti i due giovani innamorati che anni prima si erano detti addio, accanto a quelle mie stesse pietre che li avevano visti separarsi e ritrovarsi e che non erano riuscite a rimanere impassibili. Dovrei preoccuparmi per questo mio indebolimento, eppure inspiegabilmente ne sono felice.

         Ora il sole ha raggiunto il suo apice e sulle mie pietre si scaldano ogni sorta di animali. É bello veder ritornare la vita: i prati traboccano di margherite e non-ti-scordar-di-me, mentre i giovani peschi, sul limitare del bosco, sono tutti in fiore, coperti di macchioline rosa. Anche il mio caro, vecchio olmo ha i rami punteggiati dalle nuove foglie e presto tornerà ad agitare placido le sue fronde al vento, una musica che il giovane poeta amava tanto.

         Da qualche giorno viene a trovarmi un pittore: ha dipinto i peschi, il bosco e l’olmo; poi, da ieri, si è seduto accanto al tronco del mio vecchio amico ed ha iniziato a disegnare i fiori: immagini chiare e precise, con i colori tenui ma allegri della primavera. Credo che per un po' le mie giornate saranno molto interessanti.

Dopo aver visto guerre ed incendi, odio ed amore, vita e passione, dopo essere morto e poi risorto, ora che sono vecchio e forse un po' smemorato, posso dire di essere totalmente felice, con il sole, i campi, gli animali, l’olmo e un umile ma allegro pittore.  

Tiziana A. E. Tosco