PRIMO PREMIO PROSA LICEO ANNO 1997-1998

Il fantoccio di paglia

Il fantoccio camminava per le strade, passo a passo, senza fretta; teneva lo sguardo basso osservando le sue gambe di stoffa riempita di paglia, che qua e là spuntava dai piccoli buchi causati dal tempo. Non ricordava quando era nato, o se fosse in effetti nato in un qualche momento, né chi o cosa l’avesse creato; non era nulla per gli altri, e ben poco per se stesso. Ora però c’era un problema: iniziava ad importargli qualche cosa della sua vita, se così la si poteva chiamare, non gli erano più del tutto indifferenti quei piccoli buchi nella stoffa, quel perdere ogni giorno due o tre fili di paglia; non che ne fosse angosciato, non era ancora giunto a questo punto, ma sentiva un po’ di disagio, una piccola stretta lì, in mezzo al busto, dove si favoleggiava che gli uomini avessero quella cosa bella e terribile, il cuore.

Lui, povero fantoccio di paglia scappato dal campo, non si era mai potuto permettere di desiderare un cuore; non ne aveva mai sentito la mancanza, anche perché non avrebbe saputo in fondo che farsene, ma aveva sempre provato quel desiderio che si prova per la barba bianca di mago Merlino o per le ali membranose del drago di san Giorgio, particolari fiabeschi irraggiungibili e per questo ancora più affascinanti. La sua vita era sempre andata avanti benissimo, anche senza cuore; anno dopo anno aveva visto semine e raccolti, semine e raccolti, aveva guardato con affetto i corvi (mai un passero si era posato sul campo, in barba a un banale luogo comune), era stato felice nel vederli sfamarsi, avrebbe voluto allontanare il contadino che a loro sparava.

Tranquilla, la sua vita; forse era questa la parola giusta; caldo e freddo non gli davano fastidio, solo l’umidità faceva un po’ ammuffire la sua paglia, ma a lui questo non era mai importato. Ma un giorno, un giorno qualcosa era cambiato. Ora dovrei dire che un bel mattino si era svegliato con una nuova idea in testa, ma, si sa, i fantocci non dormono; semplicemente gli era capitato di seguire con lo sguardo il volo di un corvo per un istante in più, un solo istante, e aveva visto in cielo una strana creatura dai colori cangianti, dal collo fiero, dalle ampie ali aggraziate; ne era rimasto folgorato, la sua paglia aveva tremato, per la prima volta aveva scorto qualcosa che non aveva mai visto, che non assomigliava per nulla a quanto c’era nel suo campo. Era saltato giù dal palo, con lo sguardo fisso sulla meravigliosa creatura, aveva mosso i suoi primi passi fra i moncherini del granoturco senza neppure accorgersi che quelli erano in effetti i suoi primi passi; senza badare a nulla aveva seguito il volo di quel sogno multicolore con la testa rivolta in alto, passando fra rovi e spine e perdendo paglia. Ma dietro la punta di un pioppo lo aveva perso di vista, in un istante era scomparso. E il fantoccio si era ritrovato così in mezzo alla campagna, lontano dal suo campo, ormai senza la sua creatura meravigliosa, del tutto smarrito. Cosa fare? Ora sarebbe dovuto tornare indietro, ma non voleva, non ne aveva più il coraggio; non sarebbe più stato in grado di restarsene lì a guardare semine e raccolti, e i corvi saccheggiare le une e gli altri ogni anno sempre nello stesso modo.

E dunque, che fare? Aveva continuato a camminare senza una meta, tenendo lo sguardo ora rivolto al cielo nella speranza di ritrovare la sua creatura, ora abbassato e sconsolato, quasi vergognoso per quanto era accaduto, sia perché aveva abbandonato il suo campo sia perché aveva perso la sua guida sgargiante. La campagna era monotona, ma il fantoccio se ne accorgeva solo perché non notava nulla di diverso dal suo campo, non perché si aspettasse di vedere qualcos’altro, non conoscendone l’esistenza; semplicemente il paesaggio circostante non attirava la sua attenzione. La sola cosa interessante che era riuscito a trovare erano le sue gambe, e precisamente il loro incedere un passo dopo l’altro, e il veder scorrere il terreno sotto di esse, come divorato da un qualche sortilegio; aveva sempre visto gli altri muoversi, mentre lui restava fermo, un punto di osservazione fisso nell’avvicendarsi di persone, cose e animali. Adesso la sua visione aveva iniziato a cambiare ad ogni istante, nulla era più esattamente come l’aveva conosciuto fino ad allora; le cose prendevano un loro spessore, osservabili da tutti i lati.

Ma il fantoccio non aveva questa consapevolezza così precisa, il suo era solo un insieme di sensazioni per lui in parte nuove e in parte ben conosciute, il che lo lasciava alquanto disorientato. Ma la cosa più importante (e di questo se ne era accorto quasi del tutto) era che aveva iniziato a pensare; questo per lui non voleva più dire soltanto decidere se una cosa era bella o brutta, usuale o fuori dall’ordinario, buona o cattiva. Lentamente aveva iniziato a porsi domande e a cercare risposte, e queste non erano state necessariamente piacevoli o confortanti. Ad esempio, nella delusione per la scomparsa della creatura meravigliosa, credeva di aver trovato una risposta al suo volo veloce che l’aveva sottratta alla vista; con triste consapevolezza si era incolpato dell’accaduto, perché in quanto fantoccio di paglia il suo compito era spaventare e cacciare gli uccelli e questo, per la prima volta, era accaduto. Amaramente aveva constatato la propria inutilità, poiché non era mai riuscito a cacciare i corvi, quando invece avrebbe dovuto, ed ora che desiderava veramente avvicinare la creatura meravigliosa quella sua capacità non era risultata vana.

E mille, mille altre domande come questa erano affiorate alla sua mente, seguite da altrettante risposte a volte tristi e scoraggianti e a volte allegre, quasi divertenti. Ma ben presto il fantoccio si era accorto che non poteva continuare in quella sua folle presunzione, dettando sentenze come se fosse... come se fosse... Non osava completare il pensiero, inorridito per la propria audacia: aveva, anche se per un solo istante e senza esserne conscio, osato innalzarsi al livello di quei grandi esseri onnipotenti che erano gli uomini; solo loro avevano il diritto di pensare, non di certo un fantoccio di paglia, per di più fuggito dal suo campo.

Ma i suoi passi avevano cancellato anche questi pensieri e dopo un po’ di tempo si era ritrovato a camminare e basta, con lo sguardo basso sulle sue gambe di paglia, senza rendersi neppure ben conto di dove stava andando. E così si era ritrovato in città. Stava ancora camminando così quando qualcosa per terra attirò di colpo la sua attenzione; con il cuore - anche se non lo aveva - in tumulto, si bloccò e si chinò a raccogliere una piuma. Era rosso fuoco con la punta gialla. Il fantoccio si sentì salire al settimo cielo e in un istante tutte le speranze perdute ritornarono; aveva già visto quella penna: era della creatura meravigliosa. Si chinò a raccoglierla tutto tremante, con religioso timore, e la tenne sul palmo della mano aperta, osservando come il sole giocava in mille riflessi sulle sue venature. Era leggera, quasi impalpabile, e il fantoccio temeva di rovinarla con le sue mani grossolane; l’unico posto che gli sembrò sicuro per conservarla fu il taschino della sua giacca sgualcita.

«Ehi tu, cosa fai?» . A questa voce inaspettata il fantoccio per poco non gridò dallo spavento. Si guardò intorno terrorizzato e fece per scappare, ma l’essere che gli aveva parlato - e che lui non vedeva - si fece di nuovo sentire.

«No, no, no! Non scappare, per favore. Sono stanco di seguirti dappertutto!» . Il fantoccio allora si fermò, guardandosi intorno.

«Dove sei?» chiese piano allungando la testa di qua e di là, strizzando gli occhi per vedere nel buio di un vicolo chiuso.

«Sono qui» rispose la voce, senza fare altro.

«Ma qui dove?»

«Qui, qui! Se dico che son qui, sono qui» esclamò la voce, con un accento stizzito. E dalle ombre del vicolo, dondolando lentamente, si fece avanti in una pozza di sole un vecchio cane marrone, sporco e spelacchiato, ma con due occhi neri che sembravano pozzi spalancati sul mistero.

«Oh» riuscì a dire il fantoccio.

«Che c’è, sono troppo brutto per te?» domandò burbero il cane, mostrando due file di denti gialli e minacciosi.

«No, signore, no» esclamò in fine il fantoccio con qualche esitazione, e fece un passo indietro.

«E allora perché mi guardi terrorizzato? Non ti mangio mica, sai?» . Il cane accennò un qualcosa che doveva sembrare un sorriso, e forse l’intenzione era buona, ma il fantoccio ne rimase ancora più spaventato.

«Dai, non volevo terrorizzarti» riprese «mi sembri già abbastanza spaurito e spaesato. Hai bisogno di un amico, lo si vede lontano un miglio».

«Tu... tu credi?» chiese il fantoccio, avvicinandosi di un passo ma sempre con molta cautela.

«Certo»

«E... scusa, ma cos’è un amico?» . Il cane rovesciò il muso indietro con disperazione.

«Per la coda di un bassotto! Ma non hai neanche un briciolo di sale in zucca, tu?»

«No, solo paglia...»

«Ma questo lo so, spaventapasseri! Dicevo per metafora...»

«Metaché?»

«Metafora... oh, lascia perdere! Piuttosto, dimmi: come ti chiami?»

«Fantoccio» . Il cane iniziò a sentirsi esasperato.

«Bene, Fantoccio. Non hai nome, non hai amici - sì, sì, ti spiego poi cosa sono - non hai cultura... è già meglio di quanto mi aspettassi, anche se un po’ di furbizia ti farebbe comodo. Allora, questo almeno lo sai: cosa ci fai qui?»

«Seguivo una creatura bellissima... l’hai vista?»

«Oh, sì». Il fantoccio dimenticò la sua diffidenza.

«E sai dov’è andata?». Sarebbe stato più di quanto avesse sperato.

«No, non lo so, nessuno lo sa. Ma non preoccuparti; tornerà, prima o poi, perché se qualcuno l’ha vista una volta lei non l’abbandonerà più».

Queste parole lasciarono perplesso il fantoccio, non perché non vi credesse, ma perché era esattamente quello che aveva provato quando aveva ritrovato la piuma, quasi come una promessa di ritorno.

«Ti sei imbambolato?» chiese il cane dopo un po’, con tono arrabbiato; ma, chissà perché, il fantoccio ora si sentiva quasi rassicurato da quella sua aggressività. In fondo era l’unico che lo avesse mai ritenuto degno di qualche parola. «Allora?».

«Allora io cerco; voglio continuare a cercarla fino a quando non l’avrò trovata».

«D’accordo, è giusto; ti accompagno».

«Ma... non ne ho bisogno». Subito il fantoccio si pentì delle sue parole, vedendo il cane digrignare i denti.

«Sì che ne hai bisogno, o prima di domani mattina sarai diventato esca per il fuoco». Quel riferimento al tempo portò di colpo il fantoccio a guardare in alto e accorgersi che la sera si avvicinava a grandi passi; non aveva un posto dove andare ma sapeva, dopo le ultime parole del cane, che doveva trovarne uno. In fondo sarebbe stato proprio stupido a non restare in compagnia dell’altro, visto che gli era stato offerto aiuto.

«Va bene, vieni con me» gli disse, anche se aveva la netta sensazione che sarebbe stato lui a seguire il cane.

«Grazie per la concessione, Fantoccio» esclamò, e i due si misero in cammino sul grigio marciapiede colpito dagli ultimi raggi del sole. Erano una strana coppia, decisamente male assortita; l’unica cosa che avevano in comune, oltre al fatto di essere decisamente fuori posto lì, era che entrambi apparivano molto trasandati, l’uno spelacchiato e arruffato, l’altro sgualcito e bisognoso di toppe, oltre a quelle che già aveva. Camminarono fino a quando non fu buio e non ebbero raggiunto una zona fuori mano, dall’illuminazione scarsa e arancione. A questo punto il cane si infilò in un vicolo scuro e sporco, e il fantoccio dietro.

«Siamo arrivati?» chiese lo spaventapasseri.

«Sì, questa è casa mia; non è un granché, lo so, ma ti dovrai accontentare. Almeno da qui si vedono le stelle». Era vero. In tutto il tempo del loro tragitto sotto i lampioni della strada avevano più volte sollevato la testa per vedere il cielo, ma tutto quello che avevano trovato era una massa scura senza luci, cancellata e livellata dal chiarore diffuso della città. Qui invece si scorgevano le stelle; non molte, per lo meno non tante quante si vedevano dal campo, ma almeno non avevano più sopra di loro una coperta anonima.

Quando si furono sistemati in un angolo, il cane interruppe il silenzio.

«Allora, vuoi sapere cos’è un amico?» chiese con gentilezza, mettendo da parte il suo fare ruvido, ora che era nella sua casa, lontano dai grandi uomini con i bastoni. Quello spaventapasseri gli piaceva, perché non era aggressivo e prepotente, non portava bastoni o lacci con cui catturarlo e, soprattutto, era disposto ad ascoltare quanto gli veniva detto. Anche ora che gli stava raccontando cos’era l’amicizia, qual era la forza che univa tra loro le persone, ora che tutti i sospetti, da entrambe le parti, erano stati deposti, ritrovava il piacere di parlare con qualcuno che non si ritenesse onnisciente, non si sentiva più così tanto solo in quella città troppo grande e fredda per un cane. Parlarono a lungo quella notte, parlarono di tutto; il fantoccio narrò al suo compagno la vita dei campi, le albe e i tramonti sull’orizzonte piatto, il ritmo delle stagioni e il loro rifluire, il disgelo a primavera e i primi fiori, i non-ti-scordar-di-me e poi i fiordalisi e i papaveri allo sbocciare dell’estate. Il cane gli raccontò la vita degli uomini e le loro opere, i loro orrori, dolori e errori, le loro grandezze e i loro amori; gli parlò del cuore e dell’anima, delle storie belle e terribili che spiava dallo scantinato di un teatro.

L’alba li colse ancora così, l’uno di fronte all’altro ad ascoltare racconti di cose sconosciute, ogni diffidenza ormai cancellata fra loro dalle stelle che ne avevano vegliato i discorsi. Il cane aveva abbandonato la sua amarezza nello scoprire nuovi mondi e nuove realtà al di fuori della periferia cittadina, il fantoccio aveva iniziato ad intuire cosa fossero la vita e gli uomini, e come questi ultimi non fossero soltanto degli esseri perfetti e irraggiungibili.

 «Sono felice di averti trovato, cane» disse lo spaventapasseri quando il sole era già sorto. «Non avrei saputo come fare altrimenti». Il cane socchiuse gli occhi compiaciuto.

«Anch’io sono contento di averti incontrato; non sei poi così imbranato come avevo pensato in un primo momento».

«Allora mi aiuterai a cercare la creatura meravigliosa?» chiese tra l’ansia e la felicità il fantoccio.

«Che fai, ricominci a non usare il cervello?» esclamò con una certa irritazione il cane. «Ti ho già detto che tornerà lei. Ormai l’hai vista, è tua».

«Ma cosa devo fare io?»

«Niente. Cammina per il mondo e impara; lei verrà sempre con te»

«Ma dimmi almeno cos’è»

«Fa parte di una razza di esseri rari, limpidi come la luce del sole e simili a visioni; sono pochi, ma molto potenti, e guidano la vita di chiunque li veda. Gli uomini li chiamano Ideali».

«E lei, la mia, come si chiama?»

«Libertà».

Tiziana A. E. Tosco