PRIMO PREMIO PROSA LICEO ANNO 1998-1999

IL MELOGRANO

 

         La brina inghirlandava ogni cosa nel giardino addormentato; aveva ricamato strani e aggraziati arabeschi sui rami sottili degli alberi, sulle foglie piccole e tonde della siepe, irrigidite dal ghiaccio e simili a tante scagliette di un metallo sconosciuto. Tutto era immobile, muti gli alberi dai molti anni e quelli più giovani, fermi i cespugli, il roseto e gli esili fili d’erba sul bordo del vialetto. Persino il tempo sembrava immobile, anch’esso gelato da quel freddo in forme di una bellezza perfetta ma senza vita, come bellissimi disegni sulla superficie di uno stagno senza possibilità di moto. Quell’anno l’inverno indugiava più del solito, più di quanto fosse augurabile o addirittura possibile; il sole splendeva, ma era pallido e debole, e illuminava ogni angolino, ma non aveva calore o allegria. Ogni cosa era perfetta oltre ogni desiderio, e sconsolante quasi oltre il limite della sopportazione.

         Il violinista guardò fuori dalla finestra e vide quel giardino di ghiaccio; nulla sembrava cambiato, e sospirò con tristezza. Faceva freddo nella vecchia casa al centro del giardino e non c’era più legna nel caminetto; le dita erano gelide ed era così difficile suonare il violino senza il fuoco acceso. Si chinò nuovamente sui fogli coperti di note, ricominciando il lungo lavoro: per il giorno dopo doveva completare il concerto, o il direttore non l’avrebbe pagato; già non sapeva se avrebbe avuto la forza di arrivare al mattino seguente. Ma stare immobili nella stanza gelida era difficile e le dita si intorpidivano sempre più, tanto che stringere la penna era un compito davvero arduo; il violinista proprio non riusciva a continuare.

         Ed allora si alzò, poiché gli venne in mente che forse quel mattino il sole era un po’ più caldo o per caso un soffio di vento africano poteva giungere fino al suo giardino ghiacciato. Si mise un paio di guanti bucati ed uscì fuori, fra i pizzi ricamati dal gelo. La ghiaia del sentiero si era riunita in blocchi e non cedeva sotto le scarpe logore e nulla sembrava cambiato dall’ultima volta che era uscito, nulla sembrava in grado di cambiare in futuro.

         «Ma un giorno dovrà pur tornare la primavera », si ritrovò a dire a voce alta «l’inverno non può durare per sempre».

         «E invece l’inverno non finirà, giovane artista »disse una voce accanto a lui. Il violinista si guardò intorno, ma non vide nessuno. Non c’era anima viva nel suo giardino, né poteva esserci in casa, perché vi abitava da solo; forse la fame e il freddo avevano portato le prime allucinazioni e presto sarebbe morto.

         «Sono la Quercia, violinista, l’albero su cui passavi le tue estati che non torneranno più »disse ancora la voce, e il giovane si voltò nella sua direzione.

         «E come fai a sapere che la primavera non tornerà? »chiese, ricordando all’improvviso tutti i gli anni passati a giocare sotto l’albero, così gentile e generoso.

         «Me lo hanno detto i passeri »rispose la Quercia, tentando di scuotere i rami irrigiditi; ma era uno sforzo vano, e anche la sua voce sembrava più flebile di quella che il giovane ricordava dall’infanzia «E so anche perché non tornerà: perché non vuole tornare; i passeri mi hanno raccontato la storia e si sa che i passeri non mentono ».

         «Potresti raccontarla anche a me »esclamò il violinista, poiché si era accorto che in casa non era più caldo che nel giardino e qui almeno aveva compagnia.

         «la Primavera non tornerà »esordì la Quercia, con un tremito nella voce «perché è rimasta con il Vento del sud, che se ne era innamorato. Un giorno l’aveva vista riposarsi sulla sponda del Nilo e da allora non era riuscito più a pensar altro che a lei. I suoi capelli erano biondi, più biondi dell’oro che il Vento aveva mai incontrato nel suo peregrinare per il mondo, nel cuore delle montagne africane o sulle rive del Reno; la sua pelle era simile ai petali delle rose che il suo arrivo faceva sbocciare, lieve e candida sul collo e d’un rosa tenero sulle gote. La sua bocca rossa, come i petali dei fiori di melograno, o i tulipani che il Vento aveva sfiorato un giorno sulle spiagge del mare del Nord, a lui proibito; il suo vestito era di tenere foglie verdi, appena sbocciate, leggero e adagiato con delicatezza sul suo corpo addormentato.

         Il Vento era rimasto incantato nel rimirarla, dimenticandosi di soffiare via verso un’altra meta, ed aveva indugiato nella sua corsa, lasciando le navi ferme sul mare greco. Null’altro aveva per lui importanza, se non quella creatura meravigliosa che mai aveva visto prima e che ora poteva ammirare in silenzio, non visto, fino a quando essa si sarebbe svegliata; poi, aveva deciso, l’avrebbe baciata e portata via con sé, nei suoi folli viaggi sopra il mondo. Le si posò accanto e rimase ad osservare le linee perfette dei suoi occhi e della sua bocca, mentre uno strano dolore sottile lo prendeva; non poteva fare a meno di sfiorare quelle labbra dischiuse, ed allungò una mano.

         La Primavera si svegliò di colpo, e vide il Vento dai capelli scarmigliati proteso verso di lei; i suoi occhi selvaggi la colpirono, ed iniziò a provare un malessere leggero, vicino al cuore. I due si baciarono e da allora non si separano più, sempre insieme nella terra del grande fiume. E così »concluse la Quercia con un tremito «la Primavera non tornerà, se tu non farai qualcosa ».

         Il violinista si strofinò le mani e batté i piedi sul terreno; iniziava a sentire davvero freddo.

         «Ma cosa c’entro io? »chiese stupito, battendo i denti e ancora estraniato dalla storia che la Quercia gli aveva raccontato «Non so proprio cosa potrei fare».

         «Ma lo so io »disse l’albero, mentre un altro ricamo di ghiaccio si aggiungeva sul ramo più alto «tu puoi fare molto, e anzi sei l’unico che può fare qualcosa perché la Primavera ritorni ». La voce della Quercia si fece sognante, poco più di un sussurro, e il giovane si dovette avvicinare per essere sicuro di sentirla bene. «Tu devi suonare il tuo violino, suonare e suonare per tutto il giorno e la notte, e ancora all’alba della nuova giornata; devi suonare qui, nel giardino, perché la musica si senta ovunque e faccia passare l’inverno e sbocciare i fiori. La Primavera ne sentirà il profumo, dal suo rifugio sul Nilo ne vedrà i colori, e si ricorderà di quanto non ha fatto e allora piangerà; le sue lacrime calde scioglieranno la terra dal gelo, ma tu non devi smettere di suonare, perché la Primavera deve lasciare l’Egitto e tornare qui. Dovrai creare le arie più dolci e più struggenti, così che non possa fare a meno di venire per ascoltarti; e solo quando il melograno fiorirà tu potrai smettere la tua musica, poiché allora il Vento del sud avrà altre labbra rosse della sua Primavera da baciare, e passando su questo giardino si chinerà un istante sui fiori del melograno ».

         «Ma io non posso »ribatté il giovane con una certa nota di tristezza nella voce «Devo lavorare tutto il giorno al concerto, o per domani non sarà finito e non saprò di che vivere. Mi dispiace ».

         «Ma la Primavera è più importante di un concerto ».

         «Ma se morirò la Primavera non mi servirà più a nulla »e dicendo questo se ne andò lontano dalla Quercia, dove non poteva sentire la sua debole voce né vedere il ghiaccio che ne inghirlandava i rami. Però era triste quel freddo, e quell’immobilità esasperante; mentre in casa giaceva il concerto incompiuto, il violinista si accorse di non avere nuove idee per completarlo. Accanto al suo piede il troncone di una rosa parve quasi rabbrividire e il freddo si fece più intenso. Vagò ancora per qualche tempo nel suo giardino di ghiaccio, sentendosi ad ogni passo un po’ più sconsolato ed egoista; fu solo dopo parecchio tempo che vide il melograno. Era nell’angolo più lontano, vicino al basso muretto che segnava il confine con un campo, e i suoi rami sottili si disegnavano nel cielo come esili dita in cerca di calore ma ormai vicine alla morte. Il giovane ricordò qual era l’aspetto del melograno fiorito e quale l’intensità del rosso dei suoi fiori; sentì gli occhi umidi, improvvisamente, ed asciugò una lacrima con rabbia. Non poteva abbandonarsi a quei sentimentalismi, o il concerto sarebbe rimasto incompiuto. Un soffio di vento gelido gli scompigliò i capelli, facendolo rabbrividire fin nelle ossa.

         «Violinista! » disse una voce ovattata, risuonante d’echi come i rumori portati dal vento «Violinista, suona per noi, suona per la Primavera! »Il giovane si guardò nuovamente intorno alla ricerca di un altro albero, ma l’unico che sembrava vicino era il melograno, ed esso era davvero troppo serrato nella morsa del gelo per dare ancora segni di vita.

         «Sono il Vento del nord: ascoltami! »esclamò la voce dopo pochi istanti «ascolta le voci che porto! »e vorticando intorno al violinista fece giungere alle sue orecchie strani suoni. Sembrava il rumore di una risacca, il battere e ribattere di onde infinite su una scogliera, e frammisti al rumore del mare c’erano suoni di pianti e lamenti e nomi di uomini gridati contro la tempesta; sembravano voci di donne, stanche per il lungo aspettare in piedi sulla spiaggia, ormai senza speranza.

         «Le senti? »sussurrò il Vento «le senti? »chiese con voce più forte «Sono le donne dei marinai salpati per il sud quando io li portavo; sono giunti fino in paesi strani, dove il sole splende sempre, ma ora non possono tornare a casa. Non possono perché il Vento del sud non soffia più e le vele ricadono molli dai pennoni, mentre i marinai ripensano alle loro donne lontane e siedono sulle banchine del porto ad osservare l’incresparsi dell’acqua. Suona per loro, giovane artista, non puoi rifiutare! ».

         Il violinista abbassò lo sguardo, messo a disagio da quel nuovo racconto e dal ripetersi di questa preghiera; ma non gli era possibile lasciare il suo lavoro.

         «Non posso, mi dispiace »rispose senza alzare lo sguardo «Non posso abbandonare il mio lavoro, o non avrò più di che mangiare ». E dicendo questo si accorse che in effetti non stava facendo nulla per il proprio concerto, se continuava a restare lì fuori. Il Vento non disse più nulla, ma con un ultimo soffio rabbioso sembrò essersene andato.

         Il giovane riprese a girovagare per il giardino, chiedendosi ad ogni passo se stava facendo la cosa giusta; per tutta la durata del suo cammino silenzioso nuove voci si aggiunsero alla preghiera della Quercia e del Vento, aumentando sempre più di intensità, fino a quando sembrò che tutto il giardino fosse in ginocchio a pregarlo, con uno scricchiolio di voci gelate e flebili, sul punto di spegnersi.

         «E va bene! »esclamò infine il giovane, quando ormai i suoi occhi erano pieni di lacrime; non poteva permettere che tutto restasse per sempre così, in quell’immota perfezione che aveva già il sapore tagliente della morte. «Va bene, suonerò per voi »ripeté con voce piena di rabbia e al contempo di tristezza e amore; «suonerò e suonerò, fino a quando non morirò per questo freddo che non se ne andrà. Ma almeno non sentirò più i vostri lamenti, almeno morrete felici! ». E detto questo attraversò il giardino di corsa, stringendo gli occhi e i pugni per non sentire e non vedere le piante intorno a lui, per non dover ascoltare i loro flebili ringraziamenti, simili a quelli dei morenti. Con furia entrò in casa e prese il violino, senza lasciarsi il tempo per riflettere o per comprendere che faceva tutto quello proprio per tutti quegli esseri che stavano là fuori e che erano stati anni prima i suoi unici compagni di gioco. Già la casa vuota era triste e troppo vasta; se lo fosse diventato anche il giardino, quanto lo circondava non sarebbe stato altro che una landa desolata, e neppure il compenso di cento concerti avrebbe risvegliato la vita.

         Con il violino fra le mani uscì fuori e si asciugò le lacrime con i guanti ruvidi, che subito si tolse con fastidio. Lo strumento era stranamente concreto al tatto, al contrario di tutta quella bellezza sfuggevole e effimera nonostante le sue promesse di eternità. Il legno lucido non era gelido come il resto e le corde trasmettevano sicurezza come solo i ricordi di bei tempi passati sanno fare. Il giovane rallentò il passo lungo il vialetto, mentre si allontanava da casa, e mano a mano che si avvicinava alla sua vecchia e debole Quercia una profonda calma si impadroniva di lui e delle sue dita, una determinazione vasta come il mare al di là del quale riposava la Primavera.

         «Lo sapevo che non ci avresti abbandonati »gli bisbigliò l’albero quando il giovane gli si fermò accanto; sentì una stretta al cuore: ora la voce della Quercia era poco più di un soffio, il suono di mille scagliette di ghiaccio che si incrinano al tocco del vento.

         E allora il violinista imbracciò il suo strumento, deciso a non perdere più neppure un istante, e con esitazione mosse l’archetto per creare le prime note, deboli, insicure, quasi ancora sonnolente. Fecero capolino timide, un po’ infreddolite da tutto quel gelo e messe a disagio dal grave silenzio che regnava nel giardino; ma poco alla volta acquistarono vigore, iniziarono a schierarsi in danze perfette di pura armonia. L’intensità crebbe, battuta dopo battuta il violinista si accorse di creare musica quale non aveva mai scritto prima in alcuno studio polveroso; suonava come guidato da una mano invisibile e più grande eppure si rendeva contemporaneamente conto che sì, quella musica era sua, e c’era sempre stata in fondo al suo animo, in un recesso che aveva più volte intuito ma mai raggiunto. Era il canto della sua vita, delle sue passioni, tenere o travolgenti, era l’espressione di quella parte di divino che era in lui, e in tutto quanto lo circondava, anche nella tenacia con cui quegli esseri restavano aggrappati alla vita, a costo di tormentarlo per ore con quel poco di forza che rimaneva loro.

         Il freddo a poco a poco si sciolse dalle dita del violinista alla luce e al calore di quel sole che era la sua musica; il loro movimento si fece più veloce, più sicuro, molto più preciso di quanto fosse mai stato al conservatorio e in ogni altro luogo. Quanto circondava il giovane sfumò, si fece indistinto e al contempo molto più vivido, non in forme e colori, ma in percezione; non vedeva più gli alberi, il ghiaccio, i cespugli stentati; li sentiva. Sentiva la loro presenza nella presenza più grande che era il mondo intorno a lui; i suoi sensi si erano come dilatati e gli pareva possibile, e anzi naturale, sentire come parte sua anche quanto non era in lui, come se fosse sempre stato un minuscolo frammento di un’unità infinitamente maggiore e solo in quel momento ne prendesse coscienza. Eppure in questo stato di elevazione e, un po’, anche di esaltazione, continuava a percepire un certo dolore, come una fitta in mezzo al petto, che gli ricordava che aveva un compito da svolgere, che quella musica aveva un fine. Non doveva dimenticarlo ma, contemporaneamente, non doveva permettere che diventasse il suo pensiero dominante.

         Le dita scivolavano sulle corde percorrendo tutte le sfumature della vita e raccontando in musica ogni dolore, ogni attesa, ogni gioia che ricordassero e che forse intuissero solo in quell’istante nella loro pienezza; a tratti la melodia rallentava, descrivendo lo sbocciare di un fiore, accompagnando passo passo il movimento dei petali che si schiudevano, indugiando sui loro bordi come una carezza. Raccontava la nascita della vita, il ritorno di quella Primavera che in quel momento non tornava, lontana e senza pensieri; subito dopo però la musica andava in crescendo, danzando in un allegretto sulla punta delle foglie novelle e descrivendo il sole che a poco a poco ne intensificava il colore e ne rafforzava la struttura. E ancora il ritmo cresceva e cresceva, sempre gioioso, per sfociare in un accenno di marcia, col soffio scarmigliato del Vento vagabondo. E l’idea del Vento ne evocò subito un’altra, che ancora tornava perché ormai era la nota dominante di quell’inverno senza fine. Con uno strano dolore e chiedendosi se sarebbe stato all’altezza del compito - se mai qualcuno poté o potrà esserne all’altezza - il violinista si accorse che si accingeva a cantare l’amore. Ma quell’amore non visto dal suo lato oscuro, dalla distruzione che portava per il perdurare dell’inverno; cantò la dolcezza del primo incontro, l’arrestarsi della corsa del Vento alla vista di lei, così sfolgorante nella sua bellezza da non sembrare neppure possibile. Descrisse con gli accenti del proprio cuore il tocco delle loro mani, il primo tocco, e la sua dolcezza infinita, lo sciogliersi e mescolarsi l’uno all’altro senza che poi si riesca più a distinguere fra di essi, forse perché in fondo non c’è mai stata differenza.

         E il violinista stava indugiando su una risata, con gli occhi chiusi, del tutto assorbito da quella musica che non era mai riuscito a descrivere prima, quando sentì una goccia cadergli sulla fronte, una goccia fredda, come... alzò lo sguardo, lasciando che le dita continuassero da sole. E vide quanto non aveva osato sperare, quanto sembrava impossibile ad ognuno, primo fra tutti lui. Vide che il ghiaccio sui rami della Quercia si stava sciogliendo; non del tutto, ma qua e là il legno scuro appariva lucido e bagnato, ormai libero. Il giovane si accorse di avere il viso bagnato, ma sapeva che quelle erano le sue lacrime, non acqua caduta dai rami. Si illuminò in un ampio sorriso, e già stava dimenticando di suonare, quando la voce della Quercia si fece sentire, ora più forte e tonante, quasi quella di un tempo.

          «Non smettere, giovane artista, non smettere! Suona ancora, fino a domani! »e il violinista obbedì, anche perché ora era quello il suo desiderio. Non aveva mai tratto simile musica dal suo strumento, non aveva mai neppure osato sognarlo; e in quel giardino spoglio, al freddo, si accorse di sentirsi per la prima volta davvero felice.

         Richiuse gli occhi, lentamente, e si lasciò trasportare dalla dolcezza della propria melodia, scivolando su terzine e riprese, insistendo ora sulla tonica ora sulla dominante in pazze corse lungo le sponde del Nilo. Passò a descrivere amori agresti, ma ognuno sembrava rimandare solo a quello del Vento e della Primavera, somma di tutti e loro annullamento, simbolo - solo ora il violinista se ne rendeva conto - dell’amore perfetto che ogni artista cerca e a cui giunge sempre vicino, a volte sfiorandolo, senza riuscire mai a farlo suo.

         Intorno a lui il ghiaccio si stava sciogliendo, non c’erano più dubbi, e il sole asciugava tutta quell’acqua dai tronchi, dagli steli, lasciando umida la terra e scaldandola per far germogliare gli innumerevoli semi che da lungo tempo ormai vi dormivano. Un brusio si aggiunse alla musica, ma il violinista sembrò non sentirlo, rapito dalla sua estasi; a poco a poco comparvero le prime gemme sui rami, i primi ciuffi verdi, e pian piano si schiusero in foglie tenere, mentre la luce del sole declinava verso occidente. Tutto il giardino si rivestì di verde, chiaro, chiarissimo, e pareva percorso da un tremito, non più di freddo ma quasi, si potrebbe dire, di piacere. Il violinista continuava a suonare, sempre con gli occhi chiusi, scorrendo la scia di amori perduti nel tempo.

         «Guarda! »lo riscosse la voce della Quercia, ora ricoperta di tenere gemme già quasi del tutto aperte «Guardati intorno, ragazzo! »

         Il giovane aprì gli occhi, ricordandosi questa volta di continuare a suonare senza interruzioni, e si guardò intorno estasiato, colpito dal fulgore di tutto quel verde, dal profumo di terra bagnata scaldata dal sole. Non ricordava così bello il suo giardino, così multiforme e vivo; il verde, che lo circondava e avvolgeva in tutte le sue tonalità e sfumature, sembrava dipinto dagli dei stessi e reso vivo dal bacio del sole. Fra tutto quello splendore di forme e colori perfetti il violinista si convinse che lì, e finalmente nella sua musica, esultava l’Arte, l’Arte che prende ogni forma e in ogni sembianza si insinua, l’Arte agognata, non contenibile in un’unica tela o in un solo sonetto. E ancora sparse lacrime, sempre più felice. Poi volse gli occhi ad occidente ed il tramonto gli riempì l’animo, parendo quasi traboccare dalla conca delle montagne. Prima di un giallo aranciato, quando il sole toccò l’orizzonte tutto si incendiò di rosso, tutto parve bruciare come l’amore appassionato che ora il violinista cantava; poi il colore si incupì, come gli occhi di chi sta per lasciare la vita, e l’ultimo raggio fu l’ultimo bacio dell’amore che si deve dividere e non sa darsi pace, ed indugia ancora un istante mentre il cielo si tinge di violetto; cantò poi la limpidezza di cristallo della notte che si avvicina e le striature d’azzurro e di verde dove prima c’era il sole, e il dolore della prima lontananza.

         E quando dal cielo scomparvero le ultime tracce del giorno passato e le stelle iniziarono a sbocciare ad una ad una lassù come i primi fiori intorno a lui, narrò la storia di ognuna, le meraviglie che nascondevano nei loro cuori di ghiaccio e di fuoco. Allo stesso modo accompagnò lo schiudersi dei bianchi petali dei fiori che intorno ai suoi piedi si aprivano, questa volta non descrivendo un desiderio come aveva fatto al mattino, ma rallegrandosi per un fatto reale, finalmente accaduto. Poi, quando tutte le stelle ebbero preso il proprio posto nel cielo dando inizio alla loro danza, fece la sua apparizione lei, la luna, e riversò sul giardino in fiore la sua luce di cristallo, portatrice di arcani ricordi e di strane promesse, rendendo irreale le figure che da laggiù la guardavano estasiate.

         Il violinista iniziò allora a narrare il moto degli astri nella sua perfezione, per poi passare a cantare la nostalgia dell’amore diviso e la sua malinconia; le note si innalzarono componendo un notturno dalla straziante dolcezza e per udirlo altre gemme si aprirono, altri fiori sbocciarono intorno alla casa silenziosa, mentre le ore della notte gocciolavano via ad una ad una. Il giovane non sentiva più la stanchezza, perso in qualcosa di più grande di lui, nella musica che finalmente era sua; e quando l’alba iniziò a scolorire il manto della notte quasi non se ne accorse, se non dopo aver già iniziato a celebrarla con il ritorno della speranza, del rinnovarsi dell’amore perduto.

         Il nuovo giorno scacciò l’oscurità con colori non meno belli del tramonto, volti però alla nascita, non al declino. E quando il sole gettò il primo raggio nel giardino, guardandosi nuovamente intorno il violinista si rese conto che erano sbocciati fiori d’ogni genere e colore, simili ad una cascata d’arcobaleni, e la sua musica riprese brio e allegria, nella vita di quella primavera tutta sua. Nuovamente si lanciò in scale maggiori, su e giù per il pentagramma, rincorrendo una nuvoletta rosa o una goccia di rugiada che scivolava lungo una foglia; il sole scaldava l’aria ed i suoi abiti pesanti non erano più adatti, ma ora questo non era importante, il violinista sentiva che avrebbe potuto continuare la sua musica per sempre, e che ad ogni momento nuove note sarebbero nate, nuove melodie, senza lasciarlo mai in silenzio per mancanza di idee.

         «Sta tornando, giovane artista! »esclamò una voce tonante sopra di lui; la sua Quercia era ritornata maestosa e verde come se la ricordava un tempo, frusciante di nuove foglie e con la chioma piena di ospiti, che pur storditi dall’improvviso cambiamento non tardavano a metter su casa.

         «Ora va’, va’ vicino al melograno, »continuò l’albero, e pareva quasi cantare sulle note del violinista «e suona per lui, fino a quando sbocceranno i suoi fiori; non ci vorrà più molto ». Il giovane ubbidì e si mosse lungo il vialetto di ghiaia ora cedevole al passo, senza smettere di suonare. Quando giunse davanti al grande cespuglio coperto di foglie d’un verde scuro e brillante, allungate, iniziò a cantare la gioia dell’amore riunito, dopo una lunga separazione. Il melograno sembrò fremere alle sue note, distendendo le sue esili dita in qualcosa che poteva essere felicità o anche tristezza, comunque non più raggrinzito e rattrappito su se stesso come il giorno prima, quando il gelo rendeva il giardino del tutto diverso da quanto era ora. Le foglie si curvarono intorno alla venatura centrale e presero una forma simile a quella di un gabbiano in volo, si fecero più sicure, più forti, anche un po’ più scure. E dopo poco il violinista si accorse che fra le foglie spuntava qualcosa di un rosso cupo e opaco, qualcosa simile a dei duri baccelli tozzi, segnati da scanalature; la musica si fece più appassionata e più elevata, prona a cantare l’amore perfetto che trova un lieto fine. Diventò più allegra perché sapeva che cos’erano quei baccelli.

         E infine uno si crepò, poi un altro, e un altro ancora, e dalla ruvida scorza uscirono dei delicatissimi petali, raggrinziti come le ali di una farfalla che esce dal bozzolo e della stessa consistenza; ma quanto scosse il cuore del giovane era il colore dei fiori, colore che mai lo aveva avvinto così anche se più volte lo aveva osservato e giudicato molto bello. Erano rossi, di un rosso divino che pareva quasi splendere di luce propria; era il rosso perfetto, perché un poco più chiaro sarebbe parso arancione, e più scuro sarebbe stato cupo, colore del sangue versato con violenza. Se mai un colore avesse potuto entrare fra le idee immortali, certo sarebbe stato questo.

         Dopo pochi attimi tutto il cespuglio fu ricoperto di quegli strani fiori rossi, che sembravano venuti da un altro mondo, più alto, e con un’ultima nota anche la musica del violinista si spense, quasi senza che egli se ne rendesse conto, come se la sua fonte si fosse versata del tutto nel giardino e avesse esaurito la sua ultima goccia. Rimase sbigottito, stordito da quell’improvviso silenzio, ed anche il giardino tutto per un attimo rimase immobile, smise di stormire, cinguettare e fiorire. Con gli occhi fissi sul melograno, mentre il primo raggio di sole ne sfiorava la cima, il giovane abbassò il suo strumento con un lento movimento, senza posarvi sopra gli occhi, e infine abbassò anche lo sguardo. Quando mosse il primo passo verso la casa, pensando che non c’era più motivo di stare lì fuori, il giardino sembrò esplodere; voci e voci si levarono verso di lui, voci ora gioiose, forti, fiorite come la Primavera che era tornata. Ma il violinista non le sentì quasi, anche se una parte di lui ne fu contenta ed orgogliosa. Fra tutta quella felicità, era triste. Triste perché aveva sperimentato la musica degli dei, assaggiato un pezzetto d’immortalità, ed ora ne era di nuovo privato. Si diceva che mai avrebbe saputo creare di nuovo note simili. E doveva finire il concerto.

         «Perché sei triste? »chiese la Quercia, quando le passò accanto. «La Primavera è tornata, il melograno è fiorito, siamo ancora vivi, e questo grazie a te. Perché non sei felice? ». Il giovane scosse la testa.

         «Non avevo mai suonato così, non avevo mai trovato me stesso. Ed ora che è tutto finito non saprò più trovare simili note. E devo finire il concerto. »

         «Vedi »disse la Quercia scuotendo le fronde, «un giorno un uomo disse: “É preferibile l’aver amato e aver perduto l’amore al non aver amato affatto”. Lo potrei dire alla Primavera, ma posso dirlo anche a te; hai suonato la tua vera musica, anche se per un giorno solo, e questo è molto più di quanto possano dire quasi tutti gli altri, fossero pure i grandi del passato. Fosse stata anche una sola nota, è più di quello che essi hanno avuto. E se poi vorrai di nuovo suonare per noi, la tua musica sarà ancora come questa; non l’hai perduta, sarà sempre qui, quando la verrai a cercare. Quanto al concerto »aggiunse poi, con voce più allegra, «vai in casa a vedere».

         Il violinista obbedì, chiedendosi cosa mai ci fosse ancora da fare, ed entrò nella vecchia casa. Ma quando vide la sua scrivania, trattenne a stento un grido. Posato il suo strumento, si precipitò ad osservare i fogli che c’erano sul ripiano e vide che erano ricoperti fittamente di note, non scritte da lui, come tracciate da sottili fuscelli o, forse, zampette. E quando li esaminò meglio si accorse che quello era quanto aveva suonato nel giardino, nota per nota, acciacco per acciacco, crescendo per crescendo... pochi ritocchi e il concerto era fatto. Non gli pareva possibile.

         Corse fuori, si guardò intorno; solo ora si poteva accorgere appieno di quanto fosse splendente quella nuova primavera. E quando si avvicinò al melograno, un soffio di vento passò sul cespuglio, scompigliandone per un istante i rami; e gli sembrò che il vento si attardasse su un fiore e sì, esso parve farsi più rosso dopo un momento, quasi arrossisse per un bacio.

Tiziana A. E. Tosco