PRIMO PREMIO PROSA LICEO ANNO 1999-2000

L’appuntamento

 

La luce dorata del sole pioveva a fiotti dalla grande vetrata dello studio, colorando con un tocco di miele le sedie dalla linea antiquata, i cavalletti coperti negligentemente di stracci e tele macchiate, il grande divano damascato e le scatole, gli scaffali, i volumi, le caraffe sparse un po’ ovunque. Era quello uno dei momenti che egli amava di più, quando il mondo, sotto la cascata d’oro del sole che si incamminava al tramonto, sembra farsi più pieno, più soddisfatto di sé, con le colline dolcemente adagiate sulla pelle del mondo e le case, le vie, i campi, gli uomini stessi, che paiono essere in un’armonia perfetta con il tutto, senza sbavature.

In un angolo vi era un cavalletto più grande, con una tela ancora bianca per la maggior parte, dove si scorgeva la figura di una donna appoggiata al divano, con i tratti del viso appena accennati e una fiammeggiante cascata di capelli rossi. Il pittore era seduto davanti alla tela, un po’ discosto, con le braccia incrociate e le gambe stese; appoggiato allo schienale della sedia, teneva una sigaretta spenta fra le labbra e guardava il quadro con espressione soddisfatta. Si passò una mano fra i capelli, dicendosi che quella era stata una buona giornata; aveva concluso quel piccolo quadro con le barche a vela che aveva promesso tempo prima ad un amico, ed ora lo aveva posto vicino alla finestra ad asciugare; due settimane, e avrebbe potuto venire a prenderlo.

Chiuse gli occhi, assaporando l’odore dei colori ad olio, degli stracci bagnati gettati sulla creta che attendeva, poco più in là, che egli ritrovasse l’ispirazione giusta. Era sempre questione di ispirazione, tornava a ripetere di tanto in tanto a qualche giovane pittore alle prime armi, o ai conoscenti che si ostinavano a parlare d’arte tutte le volte che si incontravano. L’ispirazione è il fulcro, il nodo da cui si dipanano tutte le matasse della vita di un artista; se lei non viene, è tutto inutile. Non puoi andare a cercarla, non puoi trascinarla a te con forzature; se non c’è lei si può anche provare a dipingere, per avere di che vivere, ma quello che ne viene fuori vale solo il denaro che se ne ricava, e spesso neanche quello; è solamente tecnica, per quanto raffinata, e non aggiunge nulla allo spirito di chi l’ha prodotta. L’ispirazione va attesa con pazienza, amorevolmente, e quando giunge bisogna lasciarsi trascinare senza resistenza, dolcemente, restando ad ascoltare.

Più di una volta aveva avuto accese discussioni con accademici colleghi che lo guardavano un po’ come un eccentrico bislacco, inguaribilmente romantico, legato a idee che vanno bene per i ragazzi quando sono nuovi all’arte e si sentono il fuoco addosso, ma che i maturi artisti di professione non devono considerare più delle favole. Li aveva sempre guardati sorridendo, senza rispondere, e dopo un po’ loro lasciavano correre, e cambiavano argomento. In fondo era un vecchio, soltanto un vecchio, che si ostinava a conservare i modi di un giovane rifiutando di accettare che il mondo intorno a lui cambiava. Ma forse erano loro ad essere rimasti indietro, si diceva lui mentre sorrideva, e ad aver camminato a ritroso credendo di andare avanti. Alla fine però, quando lo coglievano questi pensieri, si stringeva nelle spalle e li scacciava con un gesto della mano. Non erano la cosa più importante, i pensieri.

Quel mattino era venuta a trovarlo Silvia, una giovane studentessa dell’Accademia che aveva conosciuto qualche mese prima in un caffè. Lui se ne stava in un angolo, assorto, con in blocco degli schizzi davanti, a copiare distrattamente i volti dei passanti e della gente seduta ai tavolini, alla ricerca di un viso che gli trasmettesse qualcosa. Poi la sua matita era incappata in lei, e si era reso conto che era quello il volto che cercava. Silvia però, a differenza degli altri, se n’era accorta, e gli aveva sorriso. Gli aveva detto che anche lei disegnava, che stava ancora studiando ma sperava di trovarsi un posto nel mondo multiforme dell’arte, e a quel punto lui aveva riso. Contrariata, gliene aveva chiesto la ragione.

«Non devi trovarti un posto», le aveva risposto,«devi costruirtelo. Non accettare le tane già pronte: sono quelle che si rivelano prima o poi troppo strette».

La sua risposta era piaciuta alla ragazza; avevano stretto amicizia. Da allora andava spesso a trovarlo nel suo studio, all’ultimo piano di una vecchia casa, da dove si poteva osservare la città senza essere costretti a farne parte. Giovanni, il pittore, le insegnava qualcosa, le dava consigli, e in cambio le chiedeva a volte di posare per lui; Silvia si divertiva, si impegnava, ma prima o poi scoppiava a ridere e non riusciva mai a stare ferma.

Quel mattino era corsa da lui, raggiante, perché aveva appena finito un quadro; era stata sveglia tutta la notte ed aveva le mani ancora macchiate di colore. Non l’aveva mai vista così felice. Giovanni sorrise nel ricordare il suo volto, le sue parole; guardandola, gli sembrava di rivedere se stesso, molto tempo addietro, e gli tornavano alla memoria fatti e sensazioni che credeva dimenticati per sempre. Di solito i giovani studenti che gli capitava di conoscere, incontrati per caso nella vita di tutti i giorni o nei corridoi dell’Accademia, dove a volte si recava ancora, erano diversi, qualcuno preso dalla smania di rivoltare sottosopra l’arte e il mondo e qualcun altro raccolto nella sacra venerazione del Bello, giunto in quel tempio per adorarlo. Di solito i primi diventavano delle fiammate che si esaurivano subito, i secondi invece si trasformavano in mediocri insegnanti pedanti, oppure fuggivano delusi il prima possibile e andavano ad alimentare gli infiniti impiegatucci frustrati. Ma Silvia era diversa; in fondo ai suoi occhi brillava un fuoco limpido, che non l’avrebbe consumata ma neppure si sarebbe estinto.

Il suono del campanello lo distrasse da questi pensieri, ricordandogli perentoriamente che quella sera attendeva visite. Aspettò accanto alla porta chiusa contando il tempo che l’ospite avrebbe impiegato per salire le scale; quando pensò di vederlo spuntare dall’ultimo pianerottolo aprì la porta e si affacciò. Aveva sbagliato di poco; un istante dopo comparve un giovane piuttosto trafelato, con la giacca sul braccio e il colletto della camicia sbottonato.

«Ben arrivato», gli si rivolse il pittore.

«Avresti potuto scegliere uno studio al piano rialzato», fu la risposta del giovane, seguita da un sorriso. «Sono in ritardo?»

«No, non preoccuparti. Non è ancora arrivato nessuno».

Entrarono nella stanza e si chiusero la porta alle spalle.

«Vuoi qualcosa da bere?», chiese Giovanni, vedendo l’altro accaldato. «Voi giovani non avete più la tempra di una volta».

«Detto da te suona inquietante», rispose il giovane attendendo il bicchiere. «Posso prendermi una sedia?».

«Se la trovi...», rispose il pittore. «C’è un tale disordine qui dentro, che avremo dei problemi a trovare posto per tutti».

«Ma è proprio questo il bello di questo posto».

«Tu credi, Andrea?». Il vecchio, dando le spalle alla vetrata, rimase per un certo tempo immobile a guardare l’amico che scostava gli stracci per sedersi sopra un vecchia sedia imbottita, con il bicchiere in mano. Qualche tempo prima era riuscito a convincerlo a farsi fare un ritratto, dopo anni di inutili tentativi. Sapeva ancor prima di iniziare che non sarebbe stato semplice rendere l’espressione del suo volto un po’ beffardo, ombreggiato da poca barba, affilato e insieme sornione, con gli occhi che vagavano pacati sulle cose e ad un tratto si accendevano di luce improvvisa. Era l’anima del giornalista che affiorava in superficie.

«Qualche nuovo pettegolezzo dal mondo della politica?», gli chiese, sapendo di farlo andare su tutte le furie.

«Lo sai che non mi devo più occupare di quelle sciocchezze», fu la risposta seccata.

«Già. Adesso sei alle vette della cronaca nera».

Andrea si strinse nelle spalle, cercando di fissare l’amico controluce.

«Bisogna pur cominciare da qualche parte. Anche tu all’inizio non avrai dipinto quello che volevi».

A questo punto suonò di nuovo il campanello e poco dopo comparvero dalle scale due signori piuttosto attempati, con vestiti eleganti ma un po’ antiquati.

«Buonasera!», esclamò il pittore accogliendoli nello studio. I due salutarono il giovane e cercarono due sedie da avvicinare a quella del giornalista.

«Oh, hai finito il mio quadro!», esclamò l’uomo più anziano e più alto dei due, avendo scorto vicino alla finestra la tela dove le barche a vela luccicavano ai raggi dell’ultimo sole. «Posso portarlo a casa già adesso?».

«Se vuoi sporcare di colore tutta la gente che incontrerai per strada, prego», gli rispose Giovanni mentre prendeva anch’egli una sedia ed accendeva le luci, per non doversi alzare di nuovo poco dopo.

«Non te la prendere con lui», intervenne l’altro uomo rivolgendosi al pittore, conciliante; «gli piacciono tanto i quadri, ma non riuscirà mai a capirne granché».

«Voi pittori avete il pessimo vizio di considerarvi i migliori su questa terra», sbottò il vecchio signore.

«E a voi scrittori questo non piace perché pensate di esserlo voi», ribatté Giovanni con un sorriso ironico.

«Suvvia», intervenne il giovane, «non vorrete iniziare una lite... Avete ormai una certa età, queste cose non vi fanno bene»; e con una risata riuscì a chiudere l’argomento.

Parlarono del più e del meno per parecchio tempo, a tratti ridendo, a tratti accalorandosi nella discussione su argomenti che stavano loro particolarmente a cuore. Giovanni era più gioviale del solito, più accomodante, più brillante. Il giovane giornalista convinse i due pittori e lo scrittore a raccontare una parte del loro passato; più tardi, rendendosi conto di aver dato via libera a un fiume in piena, quasi si pentì di aver toccato quell’argomento, sommerso dai ricordi di tre vite tanto più estese della sua. Gli parlarono della loro giovinezza, degli anni passati a Parigi, gli uni a dipingere, l’altro a scrivere. Quella città era stata per loro la favola che tutti raccontano ma poi, dopo averla provata, delusi, smentiscono. Per loro era stato diverso; la favola si era rivelata vera. Quei tre vecchi intellettuali un po’ fuori moda avevano infinite cose da insegnargli, nonostante la loro aria noncurante e il loro desiderio di essere lasciati in pace dal mondo, troppo burrascoso e petulante per loro.

«Eravamo a Parigi, se non sbaglio», osservò ad un certo punto lo scrittore, rivolgendosi a Giovanni, «quando tu hai iniziato quel vecchio quadro», ed indicò la tela che il pittore stava osservando prima del loro arrivo, quella con la bella donna dai capelli rossi con i tratti del volto appena accennati. «Saranno quasi quarant’anni», continuò. «Perché non l’hai mai finita?»

«É finita», rispose Giovanni, fattosi all’improvviso più serio, «almeno per quel che può fare un uomo. Rappresenta la vita, e alla vita non puoi dare contorni precisi, non puoi darle un volto». E dopo questo non volle più aggiungere nulla.

Continuarono a parlare ancora per un po’ di tempo, mentre fuori la città aveva acceso tutte le sue luci ed ora incominciava a spegnerle ad una ad una. Ma la conversazione non era più quella di prima, il vecchio pittore si era chiuso in un silenzio quasi totale, ed una profonda ruga gli solcava la fronte. Quando iniziò a farsi tardi, i tre ospiti si alzarono per tornare a casa. Salutandoli, il pittore strinse loro la mano un po’ più a lungo del solito, e nel suo sguardo vi era un’intensità strana, che lasciò loro una vaga inquietudine. Dopo aver chiuso la porta alle loro spalle, rimase in ascolto fin quando sentì il rumore dei passi morire in fondo alle scale. Allora si avvicinò al tavolino rotondo, accese la lampada e spense poi le luci più forti; lo studio rimase avvolto nella penombra. Rimise a posto le quattro sedie, disponendole vicino ai cavalletti in modo meno caotico di prima; portò via i bicchieri vuoti e ne prese altri due puliti. Poi scelse una bottiglia di liquore più forte e la posò sul tavolino accanto ai bicchieri. Ora poteva aspettare, in poltrona.

Non dovette attendere molto, perché dopo qualche tempo si sentirono dei leggeri colpi alla porta. Il pittore fece un mezzo sorriso, alzandosi; chi era arrivato non aveva bisogno di suonare al portone. Si accostò alla porta e rimase un attimo in silenzio, ma dall’altra parte non proveniva alcun suono. Aprì. Si trovò davanti una donna alta, straordinariamente bella, dal viso diafano e luminoso incorniciato da una cascata di capelli neri. Anche il vestito da sera, lungo e sinuoso, era nero.

«Ben arrivata», disse il pittore, piano. «Vuoi entrare?», chiese poi, vedendo che la donna non accennava a muoversi. Quella oltrepassò la soglia e si fermò in mezzo allo studio, voltandosi verso il vecchio.

«Mi stavi aspettando?», gli domandò.

«Sapevo che saresti venuta», rispose lui, fattosi serio. «A Parigi mi avevi detto che saresti venuta a cercarmi in una sera come questa».

«É vero. Sai chi sono?», chiese la donna. La sua voce era morbida, quasi un soffio, dolcemente attraente eppure con una nota di gelo.

«Sì».

«Di’ il mio nome».

«Tu sei la Morte».

La donna annuì con un sorriso. Poi si guardò intorno e scorse il divano damascato sul fondo dello studio; si diresse in quella direzione e vi si sedette, osservando gli oggetti che si trovavano intorno a lei. Il pittore versò da bere nei due bicchieri e la raggiunse, sedendosi accanto a lei dopo averle porto il liquore. Rimasero in silenzio per qualche istante, guardando entrambi altrove.

«Siete strani, voi pittori», disse la Morte dopo un poco; «strani quasi quanto i grandi statisti. Come loro, di solito non ve la prendete con me  e non strepitate né supplicate, ma mi accogliete con classe ed eleganza. L’unico difetto è che, in questo, siete un po’ troppo prevedibili. Dopo un po’ ci si annoia».

Il pittore non disse nulla, ma sorrise.

«Credo che per noi sia ora di andare», riprese la donna inaspettatamente. «Non ho altro lavoro per questa sera, ma è meglio non indugiare».

Giovanni continuò a sorridere, e si voltò verso di lei.

«Ho una proposta da farti», le disse all’improvviso, posando il bicchiere.

 

La luce del mattino vagava, ancora incerta, nello studio del pittore, esplorando a poco a poco gli stracci sporchi di colore, gli oggetti strani e polverosi, i cavalletti vuoti. Sul tavolo basso di fianco al divano damascato stavano due bicchieri vuoti, e poco più in là una bottiglia di liquore piena a metà. Nell’aria si sentiva aleggiare ancora l’odore acre dei colori ad olio e vicino alla finestra due tele stavano asciugando.

Il primo raggio di sole colse il pittore mentre era intento a ripulire i pennelli; sul suo volto continuava ad aleggiare l’ombra di un sorriso, rimastagli dalla sera prima. Si era rimboccato le maniche del camice pieno di macchie e immergeva ad uno ad uno i pennelli nell’acquaragia, guardando il colore rappreso sciogliersi in lunghi fili fluttuanti. Quella notte non aveva dormito, ma non sentiva la stanchezza, anzi gli sembrava di essere tornato giovane. Ripensava a quanto era accaduto quella notte, e si diceva soddisfatto che era stata una gran notte; di tanto in tanto gettava uno sguardo alla nuova tela posta vicino alla finestra e vi indugiava con soddisfazione; guardava poi distrattamente nell’angolo opposto dello studio e vi vedeva il grande cavalletto vuoto, privato di quel quadro che vi era rimasto per quarant’anni. Ma era stato un buono scambio.

Mentre parlava, la sera prima, non era certo che la Morte avrebbe accettato. Ma conosceva la sua curiosità per l’imprevisto, e tentare non gli sarebbe costato nulla. Le aveva proposto uno scambio: al posto della propria vita, il quadro della donna dai capelli rossi. Era venuta per avere una vita, ma non aveva detto quale; quel quadro rappresentava la vita, per lei sarebbe stato lo stesso. La Morte aveva riso, e la sua era una risata davvero deliziosa, anche se inquietante. La proposta era affascinante, non se la sarebbe aspettata da un pittore. Ma non era sufficiente. Era venuta per prendere una vita, e lasciare una morte. Gli occhi del vecchio si erano illuminati e l’aveva guardata con maggiore intensità.

Ora accanto alla finestra stava una tela non grande, dai forti contrasti chiari e scuri. Vi spiccava la figura flessuosa della Morte adagiata sul divano e da essa emanava un fascino che il pittore non ricordava di aver visto prima. Aveva lavorato tutta la notte, fino all’alba, percorrendo quella figura morbida e inquietante con una sicurezza che non aveva mai avuto. Così, alla fine, la Morte se n’era andata divertita e soddisfatta: aveva preso una vecchia vita, e lasciato una nuova morte.

Il pittore si volse nuovamente a contemplare la sua opera, inondata adesso dalla luce del sole. Non aveva mai dipinto un quadro tanto in fretta; non ne aveva mai dipinto uno così bello.

Tiziana A. E. Tosco