Gesù di Nazareth, detto il Cristo (Figlio di Maria)

 

 

 

1. Il problema di Gesù

 

 

1. Chi è  -  o chi fu  -  Gesù di Nazareth?

Paradossalmente, proprio in un secolo come il nostro, così profondamente segnato dalla secolarizzazione, questa domanda ricorre continuamente. Gesù è un personaggio che interessa, che non lascia indifferenti; è un personaggio che suscita le più diverse reazioni, che vanno dall'ammirazione e dalla fede al disprezzo e all'irrisione. E ciò non da oggi.

Infatti, da oltre due secoli, la figura e il messaggio di Gesù sono sottoposti all'indagine forse più vasta e approfondita che la storia ricordi, tanto che sarebbe un'impresa assai ardua se si volessero anche solo catalogare gli studi pubblicati su Gesù. Ancora oggi ogni anno escono su di lui libri e articoli più che su ogni altro personaggio della storia. Eppure, nonostante l'immenso impegno profuso da teologi, filosofi, storici ed esegeti, non si è giunti ancora ad accordarsi sul significato della sua persona e del suo messaggio.

 

2. Una figura complessa

Gesù è una figura molto complessa e pertanto è alquanto difficile raggiungere un accordo nella considerazione della sua identità. Inoltre il tempo nel quale egli è vissuto, sia sotto il profilo culturale sia sotto l'aspetto religioso, era molto turbolento e non è facile giungere sempre a conclusioni sicure e storicamente inoppugnabili.

Indubbiamente la figura di Gesù è assai complessa; ma ciò si può dire di ogni grande personalità religiosa: di Buddha, per esempio, e di Maometto. E tuttavia, né attorno a Buddha né attorno a Maometto si è combattuta e si combatte la battaglia che c'è stata e c'è attorno a Gesù. Perché?

Probabilmente, la spiegazione profonda va cercata in una caratteristica esclusiva della sua figura.

 

Infatti, fra tutti i grandi personaggi religiosi della storia,

Gesù è l'unico che ha legato il destino eterno degli uomini

alla fede nella sua persona,  cosicché chi crede in lui e nella sua parola

e lo accetta come salvatore è salvo per sempre,

mentre chi non crede in lui e lo respinge è perduto eternamente.

 

Si potrebbe certo ritenere pazzesca e assurda questa pretesa di Gesù di determinare il destino eterno degli uomini e quindi respingerla senza prestarle un minimo di attenzione. Non si dà importanza a quello che dicono i pazzi, gli squilibrati e i megalomani. Ma questo - nel caso di Gesù - non sarebbe ragionevole. Gesù infatti non fu né pazzo, né squilibrato, né megalomane. Da quello di più certo che sappiamo di lui - al di là di tutte le cose fantastiche o romanzate che si sono scritte o si scrivono sulla sua persona - possiamo dire che egli fu un uomo di perfetto equilibrio spirituale. D'altra parte, l'altezza morale e religiosa della sua figura, la straordinarietà del suo messaggio, dei suoi gesti e dei suoi comportamenti, della sua vita e della sua morte, l'impressione che egli ha lasciato sui suoi discepoli, il prodigioso movimento che ha preso origine da lui e che in modo così contrario a tutte le leggi della storia dura ancora oggi, fanno intravedere in lui qualcosa che va al di là del puramente umano, diciamo pure qualcosa di divino, e quindi invitano a prendere in seria considerazione la pretesa che egli avanza - unico nella storia umana - di essere colui che determina il destino eterno degli uomini.

In altre parole, Gesù - come non ha fatto nessun altro uomo nella storia - non solo ha posto il problema del senso dell'esistenza umana, ma ha anche legato tale senso alla sua persona e al suo messaggio. Ecco perché nessun uomo che non sia chiuso al drammatico problema della ricerca del senso della vita e s'interroghi perciò sul suo destino di uomo, non può non porsi il problema di Gesù: non può cioè non chiedersi chi sia Gesù e quale valore abbia la sua pretesa, non può non rispondere a una precisa domanda che Gesù un giorno rivolse ai suoi discepoli e che lungo la storia non cessa  - in un modo o in un altro - di rivolgere a ogni uomo che viene in questo mondo: “Voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15).

 

3. Quello di Gesù non è un problema “neutro”

Gesù dunque, con la sua persona e con la sua parola, non solo solleva un problema di ordine storico di grande interesse

·  chi è stato “storicamente” Gesù di Nazareth?

 

ma pone domande “vitali”:

 

·  Gesù era proprio quello che egli ha detto di essere?

·  Il destino degli uomini dipende davvero dalla fede che si ha in lui?

·  La salvezza è legata all'accoglienza del suo messaggio?

 

Così, il problema di Gesù - in pratica, l'interrogativo: “Chi è Gesù?” - non può lasciare nessuno indifferente, almeno nessuno di coloro che, avendo raggiunto un certo grado di maturità umana e di capacità di riflessione, si pongono il problema del senso della propria vita. In realtà, la pretesa di Gesù, per quanto a prima vista possa apparire pazzesca e assurda, potrebbe essere giusta.

Ciò significa che il problema di Gesù non è un problema “neutro”: chiunque lo affronti e lo prenda in considerazione, sia pure non a fondo, sente, presto o tardi, che in esso in qualche misura sono implicati la propria persona e il proprio destino. Il problema di Gesù è, in fondo, un “suo” problema e, forse, anche “il” suo problema.


2. Le fonti della vita di Gesù

 

Quello che noi sappiamo di Gesù lo conosciamo dai Vangeli; altre fonti ci danno qualche scarsa notizia. Quali sono tali fonti? E, soprattutto, qual è il loro valore storico?

Alcuni fonti sono non cristiane; altre sono cristiane, ma sono al di fuori dei quattro Vangeli, i soli accettati dalla Chiesa come divinamente ispirati e quindi garantiti dall'autorità stessa di Dio.

 

1. Fonti non cristiane

Essendo Gesù un ebreo, nato, vissuto e morto in Palestina, ci si potrebbe attendere che i documenti ebraici contemporanei o di poco posteriori parlino di lui; invece dalle fonti ebraiche non si ricava quasi nulla di storicamente valido circa la persona, l’insegnamento, la vita e la morte di Gesù. Certo nel Talmud (IV - V secolo d. C.) si parla di Gesù, ma si tratta di tradizioni tardive e non autonome, dipendenti dagli scritti canonici o apocrifi cristiani. Gesù è presentato - in polemica con i cristiani - come figlio di un soldato chiamato Pandera, che avrebbe messo incinta sua madre Maria, una parrucchiera, e come mago e seduttore del popolo: egli, per aver indotto il popolo all'idolatria, sarebbe stato lapidato e poi appeso a un palo nella città di Lidda alla vigilia della Pasqua. Probabilmente, nella tradizione si trattava di un giudeo dedito alla magia a cui il Talmud avrebbe dato il nome di Gesù ha-nozri.

 

Una testimonianza proveniente dal mondo ebraico è quella dello storico Giuseppe Flavio, nato verso il 37 - 38 d. C. in Palestina, fariseo e organizzatore della resistenza antiromana in Galilea nel 66, ma passato ai romani dopo le vittorie di Vespasiano e di Tito, dai quali prese il nome gentilizio di Flavio. Nella sua opera Antichità giudaiche egli parla due volte di Gesù. Nel primo testo riferisce che il sommo sacerdote Anano, al tempo della successione del procuratore romano della Giudea, Albino, alla morte di Festo, approfittò dell'assenza del governatore romano per un colpo di mano: convocò infatti il Sinedrio e fece comparire dinanzi ad esso “il fratello di Gesù, chiamato Cristo, il cui nome era Giacomo e alcuni altri come trasgressori della Legge e li fece lapidare”  (Antichità giudaiche, XX, 9, 1, par. 200).

Il secondo testo è molto più ampio e dà numerose notizie su Gesù; ma sembra che copisti cristiani lo abbiano interpolato per renderlo favorevole al cristianesimo. Ad ogni modo, come scrive un autorevole esegeta, quello che di sicuro si ricava da questi due testi è che

“Giuseppe Flavio menziona Gesù come fratello di Giacomo e lo distingue da altri personaggi chiamati con lo stesso nome, riferendo l'appellativo e la credenza: chiamato o considerato "Cristo"; di lui conosce l'attività d'insegnamento e miracolistica; riguardo al processo e alla condanna di Gesù alla morte di croce menziona l'iniziativa giudaica e l'intervento decisivo di Pilato; sa anche dell'esistenza di un movimento di discepoli di origine giudaica e greca che si richiamano alla sua persona e alla convinzione di averlo visto vivo dopo la morte” .

(R. Fabris, Gesù di Nazareth, p. 46)

 

Una seconda testimonianza proviene dal mondo romano: lo storico Tacito, che scrive gli Annales negli anni 115-117 d. C., descrivendo l'incendio di Roma (luglio del 64 d.C.), osserva che Nerone, per stornare da sé l'accusa di aver provocato l'incendio, “fece passare per colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti coloro che il volgo chiamava cristiani e odiava per le loro azioni nefande. Cristo, il fondatore della setta, dal quale avevano preso il nome, era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Ma la rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo non solo per la Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche per Roma, dove confluiscono e trovano seguito tutte le atrocità e le vergogne del mondo” (C. Tacito, Annales XV, 44).

Questa notizia è assai importante, perché proviene da uno storico serio e molto informato, fortemente contrario al cristianesimo, che egli considera una “rovinosa superstizione”: egli conosce il fondatore della setta cristiana, Cristo, e sa che è stato condannato alla pena capitale dal procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Tutto ciò concorda perfettamente con quanto affermano i Vangeli circa il titolo attribuito a Gesù - Cristo - e circa la morte di Gesù. Specialmente la notizia del supplizio inflitto da Pilato a Gesù rende vane e ridicole le leggende secondo le quali la morte di Gesù sarebbe stata apparente oppure un altro sarebbe morto al suo posto, cosicché Gesù, scampato alla morte, sarebbe fuggito in India, dove sarebbe morto alla bella età di oltre 80 anni: leggende che ritornano anche sulla stampa italiana nel tempo di Pasqua!

Accenni a Cristo e ai cristiani si trovano anche in Svetonio e in Plinio il Giovane, ma sono accenni piuttosto vaghi. Ad ogni modo, servono a smentire la supposizione, davvero peregrina, di alcuni studiosi (pochissimi in verità) secondo i quali Gesù non sarebbe mai esistito e la sua storia sarebbe un'invenzione dei cristiani. Infatti non sono soltanto le fonti cristiane a parlare di Gesù, ma anche fonti ebraiche e pagane

 

2. I Vangeli apocrifi

Perciò, per conoscere chi è Gesù bisogna interrogare soprattutto le fonti cristiane. Esse si possono dividere in due categorie: i Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento. Questi ultimi sono scritti occasionali, che rispondono a precisi problemi e a concrete esigenze delle comunità cristiane. Essi non trattano direttamente della vita e dell'insegnamento di Gesù, ma suppongono già la catechesi su di lui, sulla sua persona, sul suo insegnamento, sui suoi miracoli, sulla sua morte e sulla sua risurrezione; perciò si contentano di richiami storici, talvolta di semplici accenni a quanto coloro a cui gli scritti sono diretti già conoscono della tradizione che riguarda Gesù. Così non ci si deve aspettare di trovare molto in tali scritti per quanto concerne la sua figura. Per esempio, dalle Lettere di san Paolo si ricava che Gesù, ebreo della stirpe di Davide, è vissuto soprattutto in Giudea e Galilea, ha raccolto un gruppo di discepoli (i “Dodici”), tra i quali emergono Cefa - Pietro e Giovanni; alla vigilia della sua morte ha celebrato con i suoi discepoli la Cena, nella quale ha istituito l'Eucaristia; è stato messo a morte col supplizio della crocifissione, è stato sepolto, è risorto da morte ed è apparso vivente a molti testimoni. Si tratta certamente di notizie essenziali sulla figura di Gesù, ma non tali da farlo conoscere con una certa compiutezza.

Perciò i testi più importanti per la conoscenza di Gesù sono i Vangeli. Tra di essi bisogna distinguere quelli apocrifi e quelli canonici. I Vangeli “apocrifi”, cioè “segreti”, sono quelli attribuiti ad alcuni Apostoli, ma non accolti dalla Chiesa nel Canone, cioè non riconosciuti come ispirati da Dio. Sono opere che vanno dal 100 - 150 d. C. al V - VI secolo. Sono quindi tutti posteriori ai Vangeli canonici. Ma alcuni sono più vicini a questi ultimi, come il Vangelo degli Ebrei, il Vangelo degli Egiziani, il Vangelo degli Ebioniti, il Vangelo di Pietro, che risalgono agli anni 100 - 150 e di cui si possiedono solo frammenti: questi Vangeli sono di origine giudaico - cristiana ed è probabile che contenessero anche qualche tradizione o qualche parola autentica di Gesù, che non si trova nei Vangeli canonici.

Più tardivi sono il Protovangelo di Giacomo (verso il 150 - 200 d. C.) e altri Vangeli dell'infanzia di Gesù, che furono scritti per soddisfare la curiosità dei fedeli su punti che i Vangeli canonici avevano appena sfiorato: perciò si dilungano, in forma romanzata, sulla nascita e la giovinezza di Maria, la madre di Gesù; sulla nascita e sull'infanzia di Gesù, con intenti apologetici (per esempio, difendere la verginità di Maria) o edificanti. Talvolta mancano di buon gusto o presentano Gesù come un piccolo mago, che fabbrica uccelli di creta in giorno di sabato e in risposta alle critiche che gli sono rivolte dà ad essi la vita e li fa volare; o come un ragazzino cattivo che fa morire i compagni che lo deridono (salvo poi a risuscitarne alcuni poco dopo).

Ci sono poi i Vangeli gnostici, il più noto dei quali è il Vangelo di Tommaso scritto verso il 200 - 250, che riporta 114 “detti” di Gesù: alcuni detti sono identici o molto vicini a quelli dei Vangeli canonici, ma la maggior parte sono manipolati in senso gnostico oppure sono formulazioni propriamente gnostiche. Il Vangelo di Tommaso ha in realtà lo scopo di mettere sotto l'autorità di Gesù le dottrine dello gnosticismo, un sistema di pensiero radicalmente anticristiano e vivacemente combattuto dalla Chiesa.

In conclusione, dai Vangeli apocrifi non si può ricavare quasi nulla, per quanto riguarda la storia di Gesù, perché la maggior parte di essi contengono leggende inventate di sana pianta per motivi di edificazione o per motivi apologetici, e alcuni di essi sono redatti per giustificare dottrine eretiche. Cosicché “il loro valore storico diretto, generalmente parlando, è assai tenue e il più delle volte nullo”.

 

3. I vangeli Canonici

Per conoscere chi è Gesù non si può che affidarsi ai Vangeli canonici.

Essi sono quattro: il vangelo secondo Matteo, il vangelo secondo Marco, il vangelo secondo Luca e il vangelo secondo Giovanni. I primi tre si chiamano “sinottici” perché, essendo in buona parte concordanti, se sono disposti su tre colonne parallele, si possono leggere insieme, formando una “sinossi” (da synopsis, visione d'insieme).

Parlando di Vangeli, è necessario chiarire il terminevangelo”. Esso viene dal greco euaggellion (latino: Evangelium) e significa la “Buona Notizia” o il “Lieto Messaggio” di salvezza che Gesù annuncia, predicando la venuta del Regno di Dio, che si attua nella sua persona. Questo messaggio di salvezza ha perciò come suo contenuto essenziale la persona di Cristo, il suo insegnamento, la sua morte e la sua risurrezione: per cui questi quattro piccoli libri si possono considerare un unico Vangelo. Perciò i termini “vangelo” ed “evangelizzare” nella predicazione apostolica designano, l’uno la predicazione su Gesù Cristo  e sulla salvezza da lui attuata, e l’altro l’azione di annunciare Cristo e il suo messaggio. Ma questa predicazione s’intende, nel Nuovo Testamento, sempre come trasmissione orale, fatta a viva voce non per iscritto. Colui che annunzia oralmente il messaggio di Gesù è chiamato evangelista. Solo agli inizi del secondo secolo (dal 100 d.C.) si comincia a usare il termine “vangelo” per indicare lo scritto che contiene il messaggio di Gesù e il termine “evangelista” per designare l’autore di tale scritto.

 

Quanto alla lingua, noi oggi li possediamo solo in greco; quanto al testo, non possediamo più gli originali, ma solo copie, che sono però antichissime: alcune frammentarie, come quelle dei papiri provenienti dall'Egitto (dove si poterono conservare a causa del clima secco), altre complete, come quelle dei codici in pergamena. I papiri sono molto antichi: uno - il p52 - risale addirittura alla prima metà del secondo secolo (circa il 120 - 130) e riporta un brano del Vangelo di Giovanni.

I codici, che contengono i quattro Vangeli - alcuni dei quali risalgono al IV secolo, come il Codice Vaticano (detto B) scritto verso il 350 d.C. - sono circa 270. Dagli studi di critica testuale compiuti con estrema accuratezza durante un secolo si rileva che il testo attuale dei Vangeli è criticamente sicuro e corrisponde sostanzialmente al testo originale. Siamo quindi sicuri di possedere i Vangeli quali sono stati redatti dai loro autori.

 

4. Autori, data e lingua dei Vangeli

Chi sono gli autori dei quattro Vangeli? La tradizione della Chiesa che risale ai primi tempi del cristianesimo parla di quattro autori: Matteo, Marco, Luca e Giovanni. In realtà, i Vangeli si presentano senza il nome dei loro autori. Così, la dicitura “Vangelo secondo Marco” non fa parte del Vangelo, che comincia con le parole: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo” (Mc 1,1).

Circa la data di composizione ci sono due opinioni divergenti. L'opinione oggi più comune, sostenuta dalla maggioranza degli esegeti, colloca la composizione dei tre Sinottici tra gli anni 65-70 e 75-80 e la composizione del Vangelo di Giovanni tra gli anni 90-100.

Il Vangelo di Matteo, secondo alcuni, sarebbe stato composto poco dopo il 70 e, secondo altri, tra l'80 e l'85. Marco avrebbe scritto il suo Vangelo negli anni tra la morte di san Pietro (64 d.C.) e la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). Luca avrebbe scritto il suo Vangelo intorno al 70, né molto prima né molto dopo. Secondo altri studiosi, che sono oggi una minoranza, tuttavia molto qualificata, i Vangeli dovrebbero essere retrodatati di alcuni decenni.

Ci sono divergenze anche per quanto riguarda la lingua originale in cui i Vangeli furono scritti. La maggior parte degli esegeti sostiene che furono scritti in greco; una minoranza ritiene che furono scritti in una lingua semitica (aramaico o più probabilmente ebraico) e poi tradotti in greco, a causa dei numerosissimi semitismi che non si spiegherebbero se la lingua originale fosse stata la greca. Ad ogni modo, i Vangeli che oggi possediamo sono in greco.


3. La storicità dei vangeli

 

 

1. Il genere letterario dei Vangeli

Quale scopo hanno avuto gli autori dei Vangeli nel redigerli?

Gli evangelisti sono credenti in Gesù di Nazareth che scrivono su di lui, raccontando quello che egli ha operato e riportando i suoi insegnamenti, per destare e consolidare la fede dei discepoli di Gesù. Scrive, infatti, Giovanni a chiusura del suo Vangelo:

“Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31). A sua volta Luca inizia il suo Vangelo dicendo che lo scrive perché il cristiano Teofilo “si possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto” (Lc 1,4). Anche di Marco si può affermare che scrive il suo Vangelo per “condurre il lettore a riconoscere in Gesù di Nazareth il Figlio di Dio, Colui che ci ha salvati trionfando del demonio”.

 

I Vangeli appartengono perciò a un genere letterario particolare: sono opere di catechesi, con finalità di evangelizzazione. Appartengono cioè al genere catechetico, non al genere storico. Non sono vite di Gesù: l'interesse cronologico è assente, tanto che, attenendosi ai dati dei Vangeli, non si può stabilire con certezza neppure la durata della vita pubblica di Gesù né sapere con precisione in quale anno Gesù sia nato e sia morto.

Scrive a questo proposito Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica Fides et ratio:

Quanto ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevanza di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista. Questi testi al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato nella e per la storia della salvezza.

 

A questo punto si pone un problema: poiché i Vangeli sono stati redatti alcuni decenni dopo la morte di Gesù e poiché sono opere non storiche, ma catechetiche, possiamo attraverso di essi conoscere chi è stato realmente Gesù di Nazareth?

In altre parole, qual è il valore storico dei Vangeli? Il loro genere letterario e la loro distanza dagli avvenimenti che narrano non costituiscono un impedimento alla conoscenza storica di Gesù?

 

2. Il valore storico dei Vangeli

Da quanto finora detto emerge la necessità di passare attraverso i vangeli per conoscere Gesù di Nazareth. Ma qui subito si impone un’altra questione: possiamo essere sicuri che prima gli Apostoli, poi la Chiesa primitiva, poi coloro che per primi hanno messo per iscritto le tradizioni e insieme i quattro evangelisti che hanno redatto i Vangeli quali noi li possediamo, interpretando la figura e il messaggio di Gesù, non li abbiano alterati o deformati? In altre parole, possiamo essere sicuri che, attraverso questa lunga catena di “testimoni”, giungiamo a conoscere Gesù di Nazareth?

È possibile o no stabilire il volto vero di Gesù, di quell’uomo che visse la sua breve storia in Palestina circa venti secoli or sono? Oppure la sua distanza da noi - nel tempo, nella cultura, nella mentalità - è così grande da consentirci di intravedere soltanto un’immagine molto sbiadita, che poi la nostra fantasia e i nostri pregiudizi colorano a piacimento, facendone una figura simbolica o mitica, proiezione dei nostri ideali?

È questa la cosiddetta questione del Gesù storico.

·  Chi veramente fu Gesù?

·  E prima ancora, quali furono i suoi gesti e le sue parole?

·  Quale fu lo svolgimento della sua vita?

·  Che cosa accadde esattamente di tanto importante un paio di millenni fa, da lasciare un segno profondo in tutta la storia successiva?

 

Vale la pena di allontanare subito un equivoco. Anche se si giunge a ricostruire con esattezza o almeno con grande approssimazione gli avvenimenti della vita di Gesù, non si ha automaticamente la risposta all’interrogativo: chi è costui? Quelli che incontrarono Gesù su questa terra - per i quali, evidentemente, il problema del Gesù storico non esisteva - si divisero di fronte a quella domanda. La sua identità non poteva che essere riconosciuta a prezzo di una scelta libera e compromettente, carica di conseguenze per la vita. La risposta alla domanda: “chi è costui?”, non veniva semplicemente dai fatti, ma soprattutto dall’atteggiamento personale che ciascuno prendeva. Tanto meno potrà oggi venire la risposta da un’indagine storica “neutrale” sui fatti.

Il risultato massimo che si può sperare di raggiungere con la ricerca sul Gesù storico sarà quello di trovarsi, come i contemporanei, di fronte ad una pietra di inciampo, ad una spada tagliente, ad un ultimatum: o con me o contro di me.

Il problema è comunque essenziale, perché il cristianesimo si fonda non su una dottrina, una “conoscenza”, per quanto elevata possa essere, ma si fonda sull'evento storico di Gesù di Nazareth, sulla sua “persona”, cioè su quello che egli storicamente è stato, sulle parole che egli ha detto e sulle azioni che egli ha compiuto, sulla sua vita, sulla sua morte in croce e sulla sua risurrezione dalla morte. Solo se è in continuità vivente con Gesù di Nazareth, il cristianesimo sta solidamente in piedi e non si riduce a fatto mitico e leggendario, senza reale consistenza.

 

3. La storia della “critica” ai Vangeli

Come, storicamente, è stato affrontato questo problema? Fino al Settecento, il problema del valore storico dei Vangeli non si è posto.

La questione dei Gesù storico fu introdotta brutalmente da un incredulo “illuminato” tedesco, H.S. Reimarus (1694-1768).

C’erano una volta dodici uomini che si lasciarono sedurre da uno pseudo-profeta fanatico, abbandonarono i loro umili lavori per dedicarsi all’impresa grandiosa da costui predicata. Ma il profeta fanatico finì sulla croce, e i dodici, non volendo riconoscere di essersi ingannati e illusi, ne nascosero il cadavere e inventarono la storia della sua risurrezione. Il nuovo inganno durò molto più del primo.

 

Questa ricostruzione “critica” dei vangeli è significativa. In che consiste la sua pretesa di criticità? Nel ridurre la storia inquietante e incredibile dei vangeli alle dimensioni di una faccenda plausibile, dove tutti i personaggi hanno la statura degli uomini che conosciamo. Il tentativo di Reimarus si potrebbe così tradurre: state tranquilli, uomini moderni, duemila anni fa in Galilea non è successo nulla d’insolito, nulla che vi debba inquietare!

La strada aperta da Reimarus venne percorsa da parecchi altri tra cui D. F. Strauss con la sua Vita di Gesù (1837). Essi espressero nei confronti dei Vangeli uno scetticismo totale. Secondo Strauss, il Cristo dei Vangeli, confessato dai cristiani come il Dio incarnato, è un Gesù “mitizzato” e quindi c'è un fossato invalicabile tra Gesù di Nazareth e il Cristo dei Vangeli.

 

Al contrario di Strauss, la scuola liberale protestante, rappresentata tra gli altri da H. J. Holtzmann, A. Harnack ed E. Renan, ritenne che fosse possibile scoprire l'uomo Gesù servendosi di fonti “storicamente pure”, quali si ritenevano il Vangelo di Marco e una raccolta di parole di Gesù, detta fonte Q (dal tedesco Quelle fonte). Ma nel 1906 A. Schweitzer mostrò che il tentativo della scuola liberale era fallito, non essendo possibile scrivere una vita di Gesù. In verità il tentativo della Scuola liberale di ricostruire la verità storica della vita di Gesù è viziato da una pregiudiziale di fondo. Quella appunto di voler ritrovare a tutti i costi in Gesù i tratti della loro immagine “moderno” di religiosità. Questa immagine suppone una visione “romantica” dell’uomo, della quale i tratti dominanti sono il sentimento mistico-religioso della vicinanza di Dio e il sentimento di fraternità universale. I teologi liberali non hanno grande difficoltà a trovare qualche testo evangelico capace di confermare la convinzione che il Gesù della storia corrisponda effettivamente a questi tratti del loro uomo ideale.

In base alla loro visione del mondo, questi studiosi liberali dichiarano pregiudizialmente impossibili alcune cose: i miracoli, innanzi tutto, ma anche le affermazioni di Gesù incomprensibili sulla bocca di un uomo, come ad esempio: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Tutte queste cose sono eliminate dalla storia di Gesù e attribuite al “mito” che la fede primitiva avrebbe creato quale espressione della propria ammirazione per lui.

 

Negli stessi anni M. Kahler, distinguendo il “Gesù storico” e il “Cristo del kerygma”, affermò che quello che a noi oggi interessa è il “Cristo predicato”, che è il Gesù “reale”. Quanto al “cosiddetto Gesù storico”, sappiamo assai poco; ma questo è senza importanza.

Colui che ha dato a queste idee un carattere radicale è stato però R. Bultmann (1884 - 1976). Egli afferma anzitutto che noi non possiamo sapere praticamente niente della vita e della personalità di Gesù, perché le fonti cristiane in nostro possesso, assai frammentarie e invase dalla leggenda, non hanno manifestato nessun interesse su questo punto. Gesù è certamente esistito, ha esercitato il suo ministero di rabbì giudaico ed è morto sotto Ponzio Pilato. Ma oltre questo non possiamo saper nulla di lui, perché i Vangeli sono professioni di fede e il Gesù che essi presentano è in buona parte un Gesù “mitizzato” dalla primitiva comunità cristiana, la quale, con la sua forte capacità “creativa”, del Gesù storico ha fatto il Figlio di Dio incarnato nel seno della Vergine, gli ha attribuito miracoli, lo ha fatto risorgere dalla morte. Dunque il Gesù dei Vangeli è una figura creata dalla primitiva comunità cristiana. Del vero Gesù storico possiamo sapere soltanto che è esistito, ha predicato ed è morto crocifisso. Ma questo fatto non ha oggi per noi importanza alcuna, perché la fede autentica non si fonda sulla storia; anzi, trova in questa un impedimento. La fede si fonda sul kerygma, cioè sul “Cristo predicato” dalla Chiesa e consiste nella decisione di rimettersi totalmente a Dio che ci interpella nel kerygma. Secondo Bultmann, il Gesù della storia non sarebbe raggiungibile alla nostra indagine, perché le fonti cristiane - i vangeli in primo luogo - non lo consentirebbero. Esse sono preoccupate non di informarci sugli avvenimenti della sua vita, ma di proporre una visione della nostra vita ispirandosi alla sua predicazione.

 

Scettici sul valore storico dei Vangeli si dichiararono anche gli esegeti K. L. Schmidt, M. Dibelius, G. Bertram, M. Albertz, che, come R. Bultmann, si dedicarono allo studio delle tradizioni che sono alla base dei Vangeli, con lo scopo di fare la “storia delle forme” (Formgeschichte) in cui tali tradizioni si espressero, a cominciare dalle più antiche, cioè da quelle orali, per passare a mano a mano alle tradizioni scritte. Essi posero l'accento sul potere creativo della comunità primitiva, per cui le tradizioni sarebbero creazioni di questa e quindi prive di ogni valore storico.

 

A questo scetticismo di Bultmann e degli altri esegeti della Formgeschichte reagirono non soltanto esegeti protestanti “conservatori”, come J. Jeremias, ma anche gli stessi discepoli di Bultmann, come E. Kasemann e G. Bornkamm.

I Vangeli - scriveva quest'ultimo nel 1956 - non autorizzano affatto “lo scetticismo”. Essi ci rivelano invece con immediata potenza la figura storica di Gesù, sia pure in maniera diversa dalle cronache e dalle descrizioni storiche. In maniera molto evidente, ciò che i Vangeli riportano del messaggio di Gesù, delle sue opere e della sua storia, è ancor sempre contrassegnato da un'autenticità, una freschezza e una originalità per nulla offuscate dalla fede pasquale della Chiesa, tratti questi che ci riconducono direttamente alla figura terrena di Gesù”

 

La reazione contro il radicalismo di Bultmann è proseguita tanto negli esegeti e nei teologi protestanti, quanto negli esegeti e nei teologi cattolici, cosicché dopo due secoli il cerchio si è chiuso.

La critica storica, partita dallo scetticismo di Reimarus, per raggiungere il suo culmine in Bultmann, è giunta oggi ad affermare che noi attraverso i Vangeli possiamo conoscere veramente Gesù di Nazareth, quello che egli è stato, quello che egli ha insegnato e ha fatto. Solo che oggi l'affermazione del valore e della solidità storica dei Vangeli non è acritica, come poteva essere quella dei secoli passati, ma è criticamente fondata, essendo passata attraverso un vaglio estremamente severo. Così noi, oggi, abbiamo la sicurezza morale del valore storico dei Vangeli.

 

4. Quale storicità nei Vangeli?

La storicità che dobbiamo chiedere ai Vangeli non è però la registrazione dei fatti nella loro materialità, cioè “come sono realmente avvenuti”, dunque allo stato bruto, al di fuori di ogni interpretazione. In realtà lo storico è colui che coglie il fatto, non nella sua materialità oggettiva, come potrebbe farlo una macchina fotografica o un magnetofono, ma nel suo senso e nella sua intenzionalità.

In questo senso i Vangeli sono storici. Gli evangelisti, infatti, riportano i fatti e i detti di Gesù, e dunque la sua esistenza terrena, ma nel senso che Gesù ha dato ad essi e con la comprensione che ha avuto di essi la primitiva comunità cristiana.

I Vangeli sono storici perché riportano “avvenimenti significanti”, carichi di un senso che non è ad essi aggiunto dall'esterno, ma che è ad essi “interiore”, e che è venuto a mano a mano manifestandosi, quando i fatti e i detti di Gesù sono stati “vissuti” nella primitiva comunità apostolica. Bisogna infine notare, sempre a proposito della storicità dei Vangeli, da una parte che si tratta di “storicità globale” e, dall'altra, che possono esserci diversi livelli di storicità: così il racconto della passione ha un livello di storicità più alto dei racconti dell'infanzia.

 

5. Come sono nati i Vangeli

Come risulta dalla “storia della redazione”, i Vangeli, da una parte sono stati redatti dopo alcuni decenni dalla morte di Gesù e, dall'altra, utilizzano tradizioni scritte e orali che giungono agli evangelisti dalla primitiva comunità cristiana. Si pone allora il problema: che cosa è avvenuto nell'intervallo tra la morte di Gesù e la redazione dei Vangeli? È precisamente il tempo in cui si sono formate le tradizioni orali e scritte su Gesù, poi raccolte e ordinate dai quattro evangelisti. Essi infatti come appare chiaramente dalla critica interna dei testi evangelici, sono veri e propri autori e non semplicemente compilatori; ma il materiale che hanno elaborato, imprimendovi un marchio personale non è un prodotto della loro fantasia, bensì proviene dalla tradizione.

Lo stesso evangelista Luca spiega questo processo nell’introduzione del suo Vangelo

1Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, 3così ho deciso anch`io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, 4perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. (Lc 1,1-4)

 

All’indomani della morte di Gesù, la prima preoccupazione dei discepoli, con ogni probabilità, non fu quella di raccontare ai giudei increduli la sua vita, ma annunciare la notizia della sua risurrezione e quindi proclamare che lui era il Messia atteso da Israele.

Sia ai giudei sia ai cristiani, gli apostoli predicavano inizialmente non per informare ma piuttosto per ricordare, interpretare e chiarire il senso della vita di Gesù e della sua morte nella luce nuova dischiusa dalla risurrezione.

Furono le occasioni concrete della vita delle comunità primitive a rendere “attuale” il ricordo di questo o di quell’altro insegnamento di Gesù. L’annuncio ai pagani (ad essi occorreva anche raccontare i fatti), la difesa contro i giudei, l’istruzione di coloro che già s’erano convertiti, la celebrazione del battesimo o dell’eucaristia, inducevano gli apostoli e i loro collaboratori a ricordare, secondo le occasioni, questa o quella parola di Gesù, capace di illuminare il senso del momento presente. Il ricordo era sempre anche una rilettura del passato alla luce della risurrezione e in riferimento alla situazione concreta.

 

Si distinguono tre momenti fondamentali attraversati dalla tradizione evangelica prima di giungere alla sua formulazione definitiva.

1.      Il primo momento è quello della predicazione e dell’opera di Gesù anteriore alla Pasqua: di esse furono testimoni oculari i discepoli scelti da Gesù stesso; egli riservò a loro un’istruzione particolare e si preoccupò attivamente della comprensione che essi avevano del suo messaggio.

2.      Il secondo momento è quello della predicazione apostolica, alimentata per un verso dalla memoria dei detti e dei fatti di Gesù, e per altro verso dalla luce nuova ad essi procurata dall’esperienza pasquale; tale predicazione teneva presenti le esigenze dei vari uditori e dei diversi contesti concreti della missione della Chiesa.

3.      Il terzo momento finalmente è quello della redazione scritta della predicazione apostolica; anche questa redazione scritta attraversa fasi successive, delle quali i vangeli che noi possediamo sono il documento ultimo ed insuperabile. Prima si formarono varie raccolte relative alla figura di Gesù. Erano di diversa estensione: alcune molto brevi, altre più ampie; alcune narravano i fatti della vita di Gesù, soprattutto la sua passione e i suoi miracoli; altre riportavano le sue parole, i suoi insegnamenti, le sue polemiche con gli scribi e i farisei. Così, insieme con le tradizioni orali, che continuarono a sussistere, si ebbero delle collezioni scritte.

 

La distinzione di questi tre momenti della tradizione dei vangeli è sostanzialmente accolta come principio generale per la lettura di essi anche in autorevoli documenti del magistero della Chiesa.

Qui sorge comunque un’altra questione: le primitive comunità cristiane, nelle loro tradizioni orali e scritte, hanno conservato e riferito fedelmente quello che Gesù ha fatto e ha detto, oppure hanno “creato” di sana pianta, per i loro bisogni liturgici e catechetici, detti e fatti, attribuendoli a Gesù per dare ad essi maggiore autorità? È la comunità primitiva che ha “creato” il “mito” Gesù, come pretende R. Bultmann?

 

6. Continuità tra Gesù e Chiesa primitiva

Che la comunità cristiana primitiva sia stata “creatrice” - e non, invece, “tradizionale” - è cosa storicamente non verosimile. Che cos'era, infatti, la comunità primitiva? Dalla storia sappiamo che era la comunità dei credenti in Gesù di Nazareth, il Messia Figlio di Dio, crocifisso e risorto, riunita attorno ai “Dodici”, cioè attorno a coloro che erano vissuti con Gesù dal battesimo di Giovanni fino alla sua ascensione al cielo, oppure attorno a persone da essi designate per essere come loro, “testimoni” di Gesù, della sua vita, della sua morte e, soprattutto, della sua risurrezione. Nella comunità di Gerusalemme i “Dodici” e nelle altre comunità i “testimoni” da essi designati esercitavano (Lc 1,2) “il ministero della parola”, cioè trasmettevano quello che essi avevano visto e udito da Gesù stesso. In realtà le primitive comunità cristiane non erano raccolte di liberi pensatori, intenti a creare storie leggendarie su Gesù, ma erano comunità ben strutturate, assidue - come è detto della primissima comunità di Gerusalemme - “nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).

Così le primitive comunità cristiane vivevano dell'insegnamento degli Apostoli. Ora è chiaro che questi, legati a Gesù da un affetto profondo e insieme da una profonda fede nella sua qualità di Signore risorto, parlando di Gesù non potevano dire se non quello che avevano visto con i propri occhi e udito con le proprie orecchie. Il contrario sarebbe stato psicologicamente impossibile. Solo dopo aver visto Gesù risorto ed essere stati per molto tempo con lui, e soprattutto dopo che erano stati istruiti da Gesù risorto sul suo destino e sul modo di comprendere le Sacre Scritture, i loro occhi si erano aperti sul suo mistero. Così, alla luce di questo mistero, vedevano in una luce nuova i fatti e i detti del Gesù storico. Proiettavano cioè sulla vita terrena di Gesù la luce della risurrezione, che faceva loro vedere e capire Gesù in maniera assai più profonda e dunque assai più vera.

Si formarono così, all'interno delle comunità, alcune tradizioni su Gesù, che risalivano agli Apostoli e ai loro discepoli e che le comunità si trasmettevano fedelmente, poiché l'atteggiamento delle comunità primitive era quello della fedeltà nel “trasmettere” ciò che avevano “ricevuto”, della fedeltà alla “tradizione”.

San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto nel 53 - 54 d. C., diceva: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto [...]. Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch'io ho ricevuto” (1 Cor 15,1.3). Cioè, san Paolo ha “ricevuto” dalla primitiva comunità cristiana già verso il 35 d. C. (cioè circa cinque anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù) ciò che egli ora “trasmette” ai Corinzi: che Gesù è morto, è stato sepolto ed è risuscitato il terzo giorno; che è apparso a Cefa (Pietro) e quindi ai Dodici, poi a più di 500 fratelli, la maggior parte dei quali vive ancora, poi a Giacomo e a tutti gli apostoli.

Perciò nelle comunità tutto si reggeva sulla “trasmissione” delle “tradizioni”.

Esiste dunque una continuità tra il Gesù terreno e la Chiesa primitiva postpasquale: tale continuità è assicurata dai “testimoni” di Gesù, cioè in primo luogo dai Dodici e poi da quelli che erano stati testimoni oculari di quanto Gesù aveva compiuto. Si va quindi dai Vangeli, quali oggi li possediamo, alle comunità primitive, mediante le tradizioni orali e scritte da queste tramandate; dalle comunità primitive a Gesù di Nazareth mediante la testimonianza apostolica.

 

7. Gli Apostoli testimoni fedeli

Nasce a questo punto la domanda: i Dodici e gli altri testimoni sono stati fedeli nel trasmettere quello che hanno visto e udito da Gesù? Tutto va nel senso di una risposta positiva. Gli Apostoli sono vissuti per oltre due anni con Gesù giorno e notte: hanno avuto dunque il tempo di entrare in un contatto profondo e familiare con lui. È vero che non sempre riuscivano a capirlo, tanto che Gesù talvolta ha dovuto rimproverarli per la loro lentezza a comprendere; ma ciò non impediva che quanto Gesù faceva e diceva s'imprimesse fortemente nel loro spirito. Erano persone semplici, ma spesso, come nel caso di Pietro e Giovanni, d'intelligenza vivace. Appartenendo a una “civiltà orale”, in cui la memoria era molto sviluppata, erano in grado di ritenere le parole e i gesti di Gesù. D'altra parte, Gesù nel suo parlare o ricorreva a parabole oppure usava frasi brevi e incisive che si imprimevano facilmente nella memoria degli ascoltatori. Tutti questi motivi fanno pensare che gli Apostoli, nel riferire le opere e le parole di Gesù, siano stati sostanzialmente fedeli.

Del resto non si vede quale motivo avrebbero avuto per non esserlo, tanto più che essi non solo erano profondamente affezionati a Gesù, ma erano colpiti dal fatto che parlasse con autorità, cosicché le sue parole godevano presso di loro di un altissimo prestigio. Non potevano dunque essere tentati di cambiarne le parole, nelle quali vedevano non semplici parole umane, ma una “rivelazione” di Dio, che andava accolta con rispetto e alla quale non si poteva aggiungere o togliere nulla.

In conclusione, per mezzo della testimonianza degli Apostoli possiamo giungere fino a Gesù, possiamo cioè conoscere quello che egli realmente ha compiuto e ha detto. Naturalmente spesso non possiamo conoscere le parole di Gesù nella loro esattezza materiale, perché i detti e le parabole di Gesù sono stati elaborati, attualizzati e applicati alle situazioni concrete sia dalla Chiesa primitiva, sia dagli evangelisti nella loro qualità di autori dei Vangeli, di teologi e di maestri delle comunità per le quali scrivevano; ma almeno in certi casi siamo sicuri di ascoltare le parole di Gesù come egli le ha pronunziate. Il caso più importante è quello della parola Abbà, usata da Gesù per rivolgersi al Padre: parola che rappresenta il vertice della rivelazione cristiana, perché con essa, da una parte, Gesù si rivela come Figlio di Dio e, dall'altra, rivela Dio come Padre affettuoso e misericordioso degli uomini.

 

8. Dagli Apostoli ai Vangeli

Siamo così all'ultima domanda: i Vangeli, quali oggi li possediamo, sono stati fedeli nel riportare la testimonianza degli Apostoli consegnata alla Chiesa primitiva o l'hanno alterata e deformata nel loro sforzo d'interpretare e attualizzare il messaggio di Gesù e di applicarlo alle necessità concrete della loro comunità?

Alcuni fatti obbligano a rispondere che i Vangeli riportano fedelmente la tradizione apostolica.

·        Così, quando gli evangelisti scrivono il loro Vangelo, Gesù è adorato come Signore e Figlio di Dio; eppure i Vangeli riferiscono fatti che potevano sembrare in contrasto con la divinità di Gesù: che Gesù si è fatto battezzare da Giovanni e si è collocato in tal modo tra i peccatori, è stato tentato da Satana, nell'Orto degli Ulivi ha avuto paura di fronte alla morte e sulla croce ha sentito l'abbandono di Dio, ha detto di non conoscere l'ora della fine del mondo. Evidentemente, non avrebbero potuto inventare tali fatti.

·        Inoltre, quando gli evangelisti scrivono, la fede cristiana si è diffusa nel mondo pagano; eppure nei Vangeli si riporta l'ordine di Gesù agli Apostoli di non predicare ai samaritani e ai pagani.

·        Quando sono redatti i Vangeli, gli Apostoli sono venerati come le colonne della Chiesa e i testimoni privilegiati di Gesù; eppure i Vangeli in molti passi riportano fatti che non fanno loro onore e li mettono in cattiva luce: così, sottolineano la loro incomprensione, i loro difetti, i rimproveri che Gesù loro rivolge, la loro pusillanimità, il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro.

·        Quando sono composti i Vangeli, il mondo palestinese in cui Gesù è vissuto è del tutto scomparso, con la distruzione di Gerusalemme; eppure i Vangeli danno un quadro di quel mondo estremamente esatto e preciso, che essi non potevano conoscere se non attraverso antiche testimonianze.

·        Infine, al tempo della redazione dei Vangeli, la teologia, soprattutto per merito di san Paolo, si è molto sviluppata e termini come “Regno dei cieli”, “Regno di Dio” e “Figlio dell'uomo” non sono più usati; invece nei Vangeli Gesù parla continuamente del “Regno di Dio” e abitualmente chiama se stesso “il Figlio dell'uomo”.

Questi fatti inducono a concludere che i Vangeli, benché siano stati redatti definitivamente alcuni decenni dopo la morte di Gesù, ne presentano fedelmente la figura e l'insegnamento. Essi non si possono spiegare altrimenti se non con la chiara intenzione degli evangelisti di far conoscere ai lettori nella loro autenticità storica la figura e l'insegnamento di Gesù. Così si chiude il cerchio: dai Vangeli attuali si va alla Chiesa primitiva; da questa agli Apostoli; dagli Apostoli a Gesù. Possiamo allora concludere che i Vangeli, nonostante il loro carattere catechetico e la loro relativa distanza dagli avvenimenti che narrano, hanno un innegabile e documentato valore storico. Attraverso di essi noi abbiamo sicuro accesso a Gesù di Nazareth. Pertanto nessuno - se non qualche superficiale, rimasto su posizioni di retroguardia - osa avanzare il dubbio che i vangeli siano prodotto della fantasia religiosa popolare, senza reali collegamenti con l’opera e la parola di Gesù. Nessuno osa avanzare addirittura il dubbio che Gesù non sia mai esistito.

 

9. Conclusioni

L’uomo cerca tra le parole del mondo una parola diversa, capace di dare speranza, di promettere e dare salvezza. Gesù ha la pretesa di dare, di essere questa parola. É una pretesa che ci riguarda, ci impone il confronto.

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.

(cfr. 1 Lettera di Giovanni 1,1 e 3-4)

Apriamo il vangelo. Leggiamolo con attenzione e pazienza. Soprattutto misuriamo la nostra vita con le sue parole perché la nostra lettura non si trasformi nella soddisfazione di una semplice curiosità. Cerchiamo anche di pregare, così come via via ne saremo capaci.

E Colui, i cui pensieri sono più grandi dei nostri pensieri, la cui fedeltà è più grande della nostra incostanza, il cui amore supera ogni nostra immaginazione, accompagnerà il nostro cammino.

 


4. Gesù nella storia

 

 

1. I dati biografici

Gesù è un personaggio storico, non un mito atemporale, perduto in un'epoca lontana. Egli è vissuto in Palestina al tempo degli imperatori romani Augusto e Tiberio ed è morto sotto Ponzio Pilato nella città di Gerusalemme. Tuttavia i dati biografici che possediamo su di lui sono di diverso valore storico: alcuni sono assolutamente sicuri, altri sono storicamente più incerti e soggetti a discussione. Ciò dipende dal fatto che gli autori dei quattro Vangeli, che costituiscono per noi la fonte più importante per la conoscenza di Gesù, sono interessati non tanto alla sua biografia quanto al suo messaggio. Essi non intendono propriamente scrivere una "vita dì Gesù" e quindi realizzare libri di storia, ma vogliono compiere opera di annuncio e di catechesi. Ciò che soprattutto interessa loro è quello che Gesù ha fatto e ha detto: il "quando", il "come", il "dove" hanno ai loro occhi minore importanza.

È necessario tenere presente questo fatto per non lasciarsi impressionare dalla scarsità dei dati biografici su Gesù: non sappiamo, per esempio, in quale anno egli sia nato e in quale anno e giorno preciso sia morto. Neppure dobbiamo scandalizzarci per le divergenze che su alcuni punti della vita di Gesù troviamo nei Vangeli: le fonti e le tradizioni diverse a cui gli evangelisti hanno attinto possono spiegarle nella maggior parte dei casi. Soprattutto non dobbiamo scandalizzarci se nei Vangeli troviamo qualche imprecisione storica.

 

Un esempio.

Così, per fare un esempio, il Vangelo di Luca (2,2) parla di un censimento fatto al tempo in cui Quirinio era governatore della Siria: censimento che sarebbe stato il motivo per cui Giuseppe, sposo di Maria, che era incinta di Gesù, si recò insieme a lei a Betlemme per farsi registrare. Ora, un censimento si svolse in Palestina, ma esso avvenne, secondo quanto riferisce lo storico Giuseppe Flavio, nel 6-7 d.C., perché allora Quirinio diventò governatore della Siria: fu compiuto, quindi, circa 12 anni dopo la nascita di Gesù. Sono state avanzate numerose proposte interpretative per giustificare l'esattezza storica di quanto scrive Luca. A tutt'oggi però non si può dire che sia stata trovata una spiegazione pienamente soddisfacente, anche se le soluzioni del problema presentate dai vari studiosi, pur non raccogliendo il consenso generale degli storici, non mancano di forti probabilità: il fatto, per esempio, che Giuseppe Flavio parli di un censimento eseguito da Quirinio nel 6-7 dopo Cristo non esclude che lo stesso Quirinio abbia fatto un censimento nella Palestina 14 anni prima (l'intervallo tra un censimento e l'altro era di 14 anni), cioè tra il 12 e l'8 avanti Cristo, e dunque nel tempo della nascita di Gesù, avvenuta nel 6-5 avanti Cristo (tra l'annuncio del censimento e il suo svolgimento effettivo passava parecchio tempo). Perciò anche se l'indicazione storica di Luca, secondo la quale Giuseppe e Maria sarebbero andati da Nazaret a Betlemme a motivo del censimento, non può essere storicamente provata con certezza, non può neppure essere respinta come falsa: se ha alcuni argomenti contro di sé, ne ha altri a suo favore.

Ma anche nel caso che tale indicazione non fosse esatta, nel senso che Giuseppe e Maria non si sarebbero recati a Betlemme a causa del censimento, ma per altri motivi che noi non conosciamo e che quindi Luca, che ha scritto il suo Vangelo 70-8o anni dopo gli avvenimenti, avendo saputo che al tempo di Gesù c'era stato un censimento, abbia fatto di esso il motivo per cui Giuseppe e Maria si recarono a Betlemme, incorrendo in tal modo in una imprecisione storica, non ci si dovrebbe né meravigliare né scandalizzare, e tanto meno si dovrebbe mettere in dubbio la storicità dei Vangeli.

 

In altre parole, questa e altre imprecisioni storiche che si possono trovare nei Vangeli non devono scandalizzare i lettori fino a far concludere che, poiché alcuni fatti della vita di Gesù, narrati dagli evangelisti, sono storicamente poco precisi o poco esatti, non possiamo essere certi di nulla oppure possiamo dubitate di tutto quello che riguarda Gesù. La storia di Gesù è simile a quella di ogni uomo. Il fatto che egli sia il Figlio di Dio fatto uomo non cambia la sua condizione umana, storica: la condizione cioè di un uomo la cui vita contiene fatti storicamente sicuri e fatti storicamente non accertabili o della cui storicità sì può dubitare. La fede cristiana è fondata sulla storia, cioè su fatti storici realmente avvenuti, come la nascita di Gesù, l'annuncio del Vangelo da lui fatto, i miracoli da lui compiuti, la sua morte sulla croce e la sua risurrezione dalla morte; ma la credibilità della fede cristiana non comporta che tutto, nella vita di Gesù, debba essere storicamente certo o accertabile. In realtà, quella su cui si fonda la fede cristiana è una storicità globale. Essa, cioè, riguarda i fatti nella loro sostanza, non la precisione di tutti i dettagli degli avvenimenti.

Bisogna poi rilevare che il fatto che i Vangeli siano libri divinamente ispirati non comporta l'assenza in essi di eventuali imprecisioni e inesattezze per quanto riguarda la storia, la geografia, le scienze: ciò che l'ispirazione divina garantisce assolutamente è la verità religiosa, la verità che riguarda Dio e quello che Dio rivela agli uomini perché si possano salvare, non l'esattezza storica dei fatti narrati, l'esattezza della loro collocazione geografica e tanto meno l'esattezza delle informazioni scientifiche. I Vangeli non sono libri di storia o di scienza, ma sono libri che riportano la rivelazione delle verità religiose che Dio ha rivelato per mezzo di Gesù Cristo in vista della salvezza degli uomini e delle donne.

 

2. Il luogo e la data della nascita di Gesù

"Dove" e "quando" è nato Gesù?

Circa il "dove", tanto Matteo (2,1) quanto Luca (2,6-7), pur attingendo a fonti diverse, concordano nel dire che Gesù è nato a Betlemme di Giudea, una cittadina distante pochi chilometri da Gerusalemme. Betlemme era il luogo di origine della famiglia di Davide: era giusto perciò che nascesse nella città di Davide il Messia promesso da Dio al popolo d'Israele, che sarebbe dovuto essere di discendenza davidica.

Che il Messia dovesse nascere a Betlemme era convinzione comune, tanto che Giovanni la riporta come un'obiezione contro la messianicità di Gesù, il quale era conosciuto come galileo e di cui si ignorava la nascita a Betlemme: “Il Cristo [il Messia] viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” (Gv 7,41-42).

 

Circa il "quando" è nato Gesù, i Vangeli si accontentano di dire:

“Al tempo di Erode, re della Giudea” (Lc 1,5);

“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode” (Mt 2,1).

Questo re, di origine idumea, e perciò mezzo giudeo e mezzo pagano e amico dei romani, regnò dal 37 al 4 a.C. Durante il suo regno, con l'aiuto dei romani, ingrandì i suoi territori e ricostruì con grande sfarzo il Tempio di Gerusalemme, ma fu odiato dal popolo, sia per la sua origine, sia per la sua crudeltà. Infatti fece assassinare nel 35 Aristobulo III, nel 34 il cognato Giuseppe, nel 30 Ircano II, nel 79 la moglie Mariamme, nel 28 Alessandra, nel 27 il cognato Costobaro e i figli di Babas, nel 7 i suoi figli Alessandro e Aristobulo; e nel 4, cinque giorni prima di morire, fece giustiziare suo figlio Antipatro.

Sotto questo tiranno sanguinario dunque nacque Gesù, e non meraviglia che un simile uomo desse l'ordine di uccidere i bambini di Betlemme per colpire Gesù, nel quale poteva vedere un pretendente al trono.

 

Circa l'anno della nascita di Gesù, il monaco scita Dionigi il Piccolo, morto prima del 556, la collocò nell'anno 753 dalla fondazione di Roma; ma sbagliò i suoi calcoli, cosicché la data tradizionale della nascita di Gesù - 25 dicembre del 753 ab Urbe condita - è errata.

Non è esatto il giorno, perché l'assegnazione della nascita di Gesù al 25 dicembre - che risale al III-IV secolo - fu dovuta, da una parte, a considerazioni simboliche (il 25 dicembre in quel tempo era ritenuto il solstizio d'inverno e la luce cominciava a crescere e poteva dunque ben significare Cristo-Luce, che nasce e cresce) e, dall'altra, a considerazioni storiche. Nel 276 l'imperatore Aureliano aveva istituito per il 25 dicembre la festa del Sol invictus in onore di Mitra; ora, il vero Sol invictus era Gesù, e dunque quel giorno poteva giustamente essere dedicato a ricordarne la nascita.

Non è esatto l'anno, perché Gesù nacque "al tempo del re Erode". Ora Erode morì nel 750 dalla fondazione di Roma, dunque tre anni prima della data in cui Dionigi fa nascere Gesù. Ma poiché Erode fece uccidere i bambini di Betlemme "dai due anni in giù" (Mt 2,16), la nascita di Gesù va collocata almeno due-tre anni prima della morte del tiranno, cioè verso l'anno 748-747 dalla fondazione di Roma, dunque nel 6-5 avanti Cristo. In altre parole, Gesù probabilmente è nato circa sei anni prima della data tradizionale.

 

Ma, se Matteo e Luca sono piuttosto vaghi circa la data di nascita di Gesù, sono invece espliciti e precisi nel dire "come" è nato. Essi infatti affermano che Gesù è stato concepito senza intervento di uomo, ma "per opera dello Spirito Santo", cioè attraverso un intervento "creatore" di Dio, che non è assolutamente di natura sessuale, come invece avviene nei racconti della nascita dei semidèi ad opera di un dio che si unisce sessualmente a una donna. Perciò Giuseppe è lo sposo di Maria, ma non è il padre naturale di Gesù, bensì solo quello legale, capace quindi di trasmettergli la prerogativa della discendenza davidica. Evidentemente questo fatto non può essere storicamente dimostrato, ma è rivelato da Dio e appartiene al nucleo essenziale della fede cristiana.

É importante rilevare che la concezione verginale di Gesù è un fatto reale, non semplicemente un simbolo, è il "segno divino" dell'avvenimento più straordinario della storia umana: l'incarnazione del Figlio di Dio, l'entrata di Dio nella storia umana.

 

3. La vita di Gesù a Nazaret

Fin dalla sua infanzia Gesù ha abitato a Nazaret, una cittadina della Galilea, patria di Giuseppe e di Maria, sua madre.

Quale lingua - o quali lingue - imparò a parlare Gesù?

Al suo tempo la lingua ebraica, in cui era scritta la massima parte della Sacra Scrittura, non era più né parlata né compresa dalla popolazione: essa restava come "lingua sacra" ed era coltivata particolarmente dagli "scribi", il cui compito era di studiare la Sacra Scrittura e di farla conoscere al popolo. La lingua che questo usava era, invece, l'aramaico: una lingua semitica, al pari dell'ebraico e abbastanza simile ad esso, ma non del tutto, cosicché, quando la Sacra Scrittura veniva letta al popolo, per renderla comprensibile, gli scribi vi aggiungevano la traduzione in aramaico o la parafrasavano in questa lingua: di qui l'origine dei Targum. Così, la lingua parlata da Gesù abitualmente nella sua predicazione al popolo era l'aramaico, come appare da alcune parole aramaiche che i Vangeli ci hanno conservato.

Ma Gesù doveva conoscere anche l'ebraico. Lo mostra un episodio narrato dal Vangelo di Luca: un giorno Gesù entra nella sinagoga di Nazaret ed è invitato a leggere un brano della Sacra Scrittura. Egli legge senza difficoltà un brano del profeta Isaia, scritto in ebraico (Lc 4,16-19). Lo mostra anche il fatto che egli è chiamato rabbì, cioè "maestro", non solo dai suoi discepoli, ma dal popolo e dagli stessi scribi: ora questo titolo era attribuito a coloro che nelle sinagoghe leggevano, traducevano e commentavano la Sacra Scrittura.

Oltre all'aramaico e all'ebraico, Gesù conosceva anche il greco?

È possibile, poiché la Galilea, sua patria, confinava con regioni in cui si parlava il greco, era di popolazione mista ed era attraversata da strade di comunicazione internazionali: si trattava perciò di un Paese in cui il greco era abbastanza diffuso.

In ogni caso, la lingua materna di Gesù era l'aramaico, che egli doveva parlare con la particolare inflessione usata dai galilei e con certe sfumature dialettali che distinguevano subito un galileo da un abitante della Giudea.

A Nazaret, Gesù imparò da Giuseppe il mestiere di carpentiere e lo praticò fino all'inizio della sua vita pubblica. Quest'attività artigianale era apprezzata nell'ambiente ebraico del tempo. Il lavoro manuale era sacro, tanto che i rabbini e i sacerdoti, oltre al loro ministero, dovevano esercitare un mestiere. Quest'attività artigianale garantiva a Gesù un'autonomia sociale ed economica e non lo faceva appartenere alla categoria dei più poveri del suo popolo.

 

Gesù dunque era ben inserito nel suo ambiente e nulla faceva sospettare in lui qualcosa di straordinario. Questo spiega lo stupore con cui al suo paese ne fu accolta la predicazione:

«“Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. E si scandalizzavano di lui» (Mc 6,2-3).

 

Su un punto soltanto Gesù si discostava dal suo ambiente: per la sua scelta di non sposarsi. Una scelta che non trovava un'immediata giustificazione nel giudaismo tradizionale e che fa pensare a Geremia, il quale scelse il celibato come un segno per i suoi contemporanei (cfr Ger 16,1-13): per Gesù era il segno del tempo nuovo inaugurato dall'irruzione del regno di Dio nella storia umana. In realtà, anche se nulla appariva all'esterno, la vita interiore di Gesù negli anni che passò a Nazaret dovette essere singolarmente profonda.

 

4. La "famiglia" di Gesù

Gesù ha avuto fratelli e sorelle o era figlio unico? La questione è stata nel passato ed è ancora oggi dibattuta. Gli esegeti razionalisti non credenti e molti esegeti protestanti ritengono che Gesù abbia avuto fratelli e sorelle nati prima e dopo di lui da Giuseppe e da Maria.

In realtà, i Vangeli parlano di "fratelli" e di "sorelle" di Gesù: come fratelli sono nominati Giacomo, Giuseppe (o Joses), Simone e Giuda.

Ma questi erano fratelli carnali di Gesù oppure cugini o parenti stretti? Per risolvere la questione, bisogna fare attenzione ad alcuni fatti:

 

1)     nella lingua greca per designare il "fratello" e il "cugino" si usano due termini differenti: adelphos (fratello) e anepsios (cugino); invece nella lingua ebraica il termine "fratello" indica tanto il fratello carnale quanto il cugino e il termine "sorella" tanto la sorella carnale quanto la cugina, oppure indica un parente stretto. Gli evangelisti Marco e Matteo hanno scritto in greco, ma per indicare i cugini e i parenti stretti di Gesù hanno usato il termine "fratello", che era quello corrente negli ambienti di lingua aramaica, com'era la Galilea al tempo di Gesù. Sarebbe strano se avessero usato il termine "cugino", che non era in uso nell'ambiente in cui visse Gesù.

2)     I "fratelli" di Gesù non sono mai chiamati figli di Maria. Così Gesù è chiamato "il figlio di Maria", ma Giacomo e gli altri sono soltanto suoi "fratelli". In realtà, come appare da Mc 15,40, almeno due di essi, Giacomo e Joses, sono figli di Maria, che non è la madre di Gesù, ma è una sua "sorella", cioè una sua "cugina", che sta accanto a lei sotto la croce di Gesù (Gv 19,25). Che questa Maria, madre di Giacomo e di Joses, fosse in realtà non sorella carnale della madre di Gesù, ma sua "cugina" o parente stretta, appare dal fatto che in una stessa famiglia non ci potevano essere due sorelle con lo stesso nome.

3)     Se Maria, la madre di Gesù, avesse avuto altri figli, non si spiegherebbe il fatto che Gesù, sulla croce, affida sua madre al "discepolo che egli amava", il quale "da quel momento la prese nella sua casa" (Gv 19,26-27). È evidente, infatti, che, se Maria avesse avuto altri figli grandi, sarebbe spettato ad essi prendersi cura di lei, e non a un estraneo.

 

Si può, dunque, concludere con certezza che Gesù era figlio unico di Maria e non aveva fratelli e sorelle carnali, ma soltanto una numerosa schiera di cugini e di cugine.

 

5. Gesù annuncia il regno di Dio

All'età di circa 34 anni, nel 28 d. C., Gesù improvvisamente lasciò Nazaret e la sua famiglia per recarsi in Perea - a Betania, al di là del fiume Giordano - e in quel luogo sottoporsi al battesimo, cioè al rito d'immersione nell'acqua corrente del fiume, proposto alle folle da Giovanni il Battista come simbolo e impegno di conversione in vista del giudizio imminente di Dio. Nella vita di Gesù il battesimo ricevuto da Giovanni fu un momento decisivo: con la discesa dello Spirito Santo su di lui, egli fu rivelato come Figlio di Dio e fu investito della missione di annunciare il regno di Dio. La vita di Gesù ricevette un indirizzo nuovo: d'ora in poi egli non sarebbe stato più il carpentiere di Nazaret, ma il predicatore itinerante, annunziatore del regno di Dio.

Giovanni il Battista è visto dagli evangelisti come il “precursore” di Gesù, la cui missione si compie quando Gesù inizia la sua: infatti Gesù comincia a predicare dopo che Giovanni è stato imprigionato dal tetrarca Erode Antipa e rinchiuso nella fortezza di Macheronte, dove sarà decapitato qualche tempo dopo. Tuttavia, nella sua predicazione Gesù segue una via diversa da quella del suo precursore. Non predica come Giovanni l'imminenza del giudizio punitivo di Dio, ma, mentre chiama gli uomini alla conversione, annuncia che il regno di Dio si è fatto vicino e si offre come dono di salvezza per tutti, a cominciare dai poveri e dai peccatori. In realtà, Giovanni il Battista è l'ultimo dei grandi profeti dell'Antico Testamento, che annuncia il castigo imminente di Dio e chiama i peccatori alla penitenza. Gesù si ricollega a questo richiamo profetico alla conversione, ma lo supera, annunciando che il regno di Dio entra con la sua persona nella storia umana come offerta misericordiosa e gratuita di salvezza per tutti.

Gesù si presenta come un rabbì, un "maestro": egli normalmente insegna nelle sinagoghe oppure all'aperto e, quando si trova a Gerusalemme, nell'area del Tempio, dove parla e discute con gli studiosi della Torah ("scribi"), appartenenti al partito dei farisei, la cui caratteristica essenziale è un particolare rigore nell'interpretazione e nell'osservanza della Legge. Il suo insegnamento ha subito un successo straordinario: folle sempre più numerose accorrono per ascoltarlo. Esse sono impressionate dall'autorità con cui parla: infatti non si appella nel suo insegnamento agli antichi rabbì, come fanno gli scribi, ma parla come “uno che ha autorità” (Mc 1,22).

Nei suoi spostamenti è seguito da un gruppo di discepoli che egli si è scelto: essi condividono la sua vita itinerante, dopo aver lasciato le loro famiglie, e lo aiutano nel ministero apostolico. Sono i "Dodici", il primo dei quali è Simone, chiamato da Gesù Kefas ("pietra": di qui il nome Pietro), e l'ultimo è Giuda Iscariota, “quello che poi lo tradì” (Mc 3,10): si tratta di uomini provenienti da un ceto modesto, “senza istruzione e popolani”; nessuno di essi è fariseo; anzi i farisei li disprezzano perché non conoscono la Legge; alcuni sono sposati, come Simone, di cui si ricorda la suocera guarita da Gesù. Nel gruppo dei "Dodici" emerge Simone-Pietro: uomo di temperamento forte, vivace, impulsivo, talvolta irriflessivo, ma, come tutti gli altri, animato da un ardente amore e da una totale devozione verso Gesù.

Con i "Dodici" lo seguono stabilmente alcune donne, che lo assistono con i loro beni (cfr Lc 8,2-3).

Per annunciare il suo messaggio Gesù percorre in lungo e in largo la Palestina, spingendosi per brevi periodi anche oltre i suoi confini, a nord nella Fenicia e ad est nella Decapoli. Ma i luoghi principali del suo ministero sono la Galilea, in particolare le cittadine attorno al lago di Tiberiade e, tra queste, Cafarnao, e la Giudea, particolarmente Gerusalemme, dove, secondo quanto afferma l'evangelista Giovanni; Gesù si è recato varie volte per la festa di Pasqua e per le altre feste, soggiornandovi frequentemente. È vero che i Sinottici parlano di una sola Pasqua celebrata da Gesù a Gerusalemme: la Pasqua della morte. Ma è risaputo che essi hanno organizzato i loro Vangeli sullo schema di un viaggio compiuto da Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, in Giudea, passando per la Samaria: uno schema quindi artificiale, che serve a dare unità ai loro Vangeli, ma che non corrisponde alla realtà storica.

 

6. Lo scontro con i capi religiosi e politici di Israele

Alla sua attività di annunciatore del regno di Dio, Gesù associa un'intensa attività di guaritore e di esorcista: egli infatti è il “profeta potente in opere e parole” (Lc 24,19), che, mentre svolge un'incessante attività d'insegnamento, accoglie le folle palestinesi, che gli portano i loro malati perché li guarisca. E difatti, con la sola forza di una sua parola o con un semplice gesto delle mani, egli guarisce le più diverse malattie e libera gli indemoniati dal potere di Satana, che ha riconosciuto in lui il “Santo di Dio” (Mc 1,24). Queste guarigioni di ammalati e liberazioni di indemoniati accrescono enormemente la popolarità di Gesù; ma nello stesso tempo suscitano gelosia e preoccupazione nei capi religiosi e politici del popolo d'Israele, in pratica, nelle classi sacerdotali e dell'aristocrazia, appartenenti al partito dei sadducei (dal sacerdote Sadoq), strenui avversari dei farisei (rigidi osservanti della Torah), ma loro alleati nella lotta contro Gesù.

Così, Gesù si trova di fronte una doppia serie di avversari: da una parte, i sacerdoti e gli anziani del popolo, di tendenza sadducea; dall'altra, i dottori della Legge (gli scribi), di tendenza farisaica. Il contrasto non è dovuto soltanto alla gelosia per il successo di Gesù presso il popolo; molto più profondamente è dovuto al fatto che, col suo insegnamento, Gesù sovverte da cima a fondo la religione tradizionale, quale si era venuta costituendo a opera dei sacerdoti e degli scribi d'Israele e le cui istituzioni principali erano la Torah e il Tempio. Di fatto, lo scontro di Gesù con gli scribi-farisei avviene sulla Torah, mentre lo scontro con i sacerdoti-sadducei avviene sul Tempio. Questo doppio scontro si concluderà con la morte di Gesù sulla croce.

 

Lo scontro sulla Torah avviene, anzitutto, a proposito del riposo sabbatico, che per gli scribi-farisci è assoluto, mentre per Gesù è relativo alle necessità dell'uomo, perché "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Mc 2,27): perciò Gesù guarisce anche di sabato e permette ai suoi discepoli, che hanno fame, di raccogliere le spighe in quel giorno e mangiarle. Lo scontro avviene, poi, sulla purità rituale. Gesù rigetta ogni formalismo nella ricerca e nella tutela della purità rituale, dicendo ai farisei: "Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità" (Lc 1,39). Questo formalismo legalista è per lui ipocrisia. Quello che vale per Gesù è l'impegno per la purità interiore, del cuore, per una religiosità non formalistica, ma autentica e per un rapporto di giustizia e di carità verso il prossimo.

 

Lo scontro sul Tempio avviene per il fatto che questo, invece di essere un luogo di preghiera, è diventato un luogo di mercato e una "spelonca di ladri" (Lc 19,46): di qui il gesto audace e provocatorio della cacciata dei mercanti dal Tempio. Un gesto che decide la sorte di Gesù. Tanto più che Gesù giunge a predire la distruzione del Tempio e quindi ad affermare il superamento dell'istituzione templare e del culto che vi è connesso, e dunque la nascita di una religione nuova, al cui centro non ci sarebbe stato più il Tempio di Gerusalemme.

 

La predicazione di Gesù - che dunque minava le basi della religione ebraica, come era vissuta dai sacerdoti-sudducei e dagli scribi-farisei, e che perciò poneva Gesù fuori di essa - non poteva che concludersi tragicamente.

Se ora ci chiediamo quanto è durata la sua vita pubblica, dobbiamo rispondere che non lo sappiamo con precisione. Secondo lo schema adottato dai Sinottici, l'attività di Gesù - predicazione in Galilea, viaggio a Gerusalemme, attività in questa città conclusasi con la crocifissione - sarebbe durata da sei mesi a un anno. Ma lo schema dei Sinottici è chiaramente artificiale. Perciò è più attendibile storicamente il Vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù sarebbe stato a Gerusalemme per tre Pasque successive: ciò significa che la sua vita pubblica è durata da due anni a due anni e mezzo.

 

7. La morte di Gesù

La vita di Gesù si conclude in un arco di tempo estremamente breve con una morte atroce. Infatti, dopo appena due anni/due anni e mezzo di predicazione, egli è stato condannato e messo a morte con il supplizio della crocifissione a Gerusalemme, capitale religiosa della Giudea, sotto il procuratore romano Ponzio Pilato. Il fatto è assolutamente certo. Della morte di Gesù non parlano soltanto i quattro Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento, bensì anche fonti non cristiane. Ne parla lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Ne parla lo storico romano C. Tacito nei suoi Annales, scritti intorno al 115 d. C.

 

Della morte di Gesù non conosciamo la data precisa. Sappiamo soltanto che essa avvenne nel pomeriggio di un venerdì, vigilia di Pasqua. In quale anno e in quale giorno? Non possiamo dirlo con certezza.

Circa l'anno, poiché è assai probabile che Gesù abbia cominciato la sua predicazione all'inizio del 28 e che il suo ministero sia durato poco più di due anni, la data più verosimile della sua morte è l'anno 30. Circa il giorno, gli evangelisti non sono concordi. I Sinottici dicono che Gesù celebrò la cena pasquale il giovedì sera. Ora la legge ebraica fissava per questo pasto la sera del 14 Nisan. La morte di Gesù sarebbe quindi avvenuta il giorno dopo, verso le tre del 15 Nisan. Invece il Vangelo di Giovanni afferma che Gesù fu crocifisso il giorno in cui gli ebrei, di sera, celebravano la cena pasquale, dunque il 14 Nisan.

Quale delle due date - il 14 o il 15 Nisan - è da preferire?

Gli esegeti sono incerti, perché per l'una e per l'altra ci sono argomenti a favore e argomenti contro. I più si orientano per il 14 Nisan. Poiché, tra il 28 e il 34 d. C., il 14 Nisan è caduto di venerdì solo due volte, e precisamente nell'anno 30 (7 aprile) e nell'anno 33 (3 aprile), e poiché l'anno 33 sarebbe troppo tardivo, perché la vita pubblica di Gesù, cominciata nell'anno 28, sarebbe durata troppo a lungo (cinque anni, invece di due/due e mezzo circa), la data più probabile della morte di Gesù è il 7 aprile dell'anno 30.

Se, invece, si segue la cronologia dei Sinottici, secondo i quali Gesù sarebbe morto il 15 Nisan, giorno di Pasqua, sempre di venerdì, la data della sua morte sarebbe il 27 aprile del 31 d.C.

 

Il destino di Gesù si compie in poco tempo: cinque giorni prima della sua morte, egli entra in Gerusalemme come messia a dorso di un asino, cioè umile e mansueto, come aveva profetato Zaccaria (9,9) e, giunto nel Tempio, ne scaccia con un gesto clamoroso i venditori degli animali che dovevano servire per il sacrificio pasquale, rovesciando i banchi dei cambiavalute. Questo gesto spinge i sacerdoti e gli anziani del popolo, già irritati per le sue prese di posizione sul Tempio, ad arrestarlo; ma non lo fanno subito, temendo di scatenare un tumulto tra la folla, composta in buona parte di galilei, che ha acclamato Gesù come messia. Così, dopo che uno dei "Dodici", Giuda Iscariota, si è offerto di consegnare Gesù nelle loro mani, lo arrestano di notte nell'Orto degli Ulivi, dove Gesù era solito recarsi a pregare, dopo che ha celebrato la cena pasquale con i suoi discepoli e dopo che, durante e dopo la cena, ha compiuto un gesto straordinario - ha dato da mangiare ai suoi discepoli il suo corpo sotto il segno del pane e da bere il suo sangue sotto il segno del vino - e ha detto loro di rinnovarlo in sua memoria.

Tradotto in catene nel palazzo del sommo sacerdote Caifa, dov'è radunato il Sinedrio - massimo organo giudaico di governo e suprema corte di giustizia, di cui facevano parte sommi sacerdoti, sadducei e farisei -, Gesù viene interrogato e giudicato reo di morte come bestemmiatore e falso messia. La mattina del venerdì, giorno di Pasqua secondo i Sinottici oppure vigilia di Pasqua secondo Giovanni, Gesù viene consegnato al procuratore romano Ponzio Pilato con l'accusa di essere un sedizioso e un ribelle al potere romano. Pilato, dopo aver tentato di liberarlo avendolo riconosciuto innocente, per paura di essere accusato presso l'imperatore, lo condanna a morire crocifisso: supplizio, quello della crocifissione, riservato agli schiavi e ai ribelli. Dopo essere stato flagellato e dileggiato dai soldati romani, Gesù è condotto al supplizio e costretto a portare la trave trasversale (patibulum) fino al luogo dell'esecuzione, dove si trovava già infisso in terra il tronco verticale della croce (stipes). Nel luogo detto Golgotha (il "Cranio"), appena fuori di Gerusalemme, Gesù viene inchiodato al patibulum ed elevato sullo stipes tra sofferenze atroci. Muore verso le tre del pomeriggio, dopo aver emesso un grande grido.

 

Deposto dalla croce e portato frettolosamente in un sepolcro vicino al luogo del supplizio, il suo corpo non viene trovato dalle donne che avevano assistito alla sua morte e alla sua sepoltura e che la mattina dopo il sabato, cioè una quarantina di ore dopo la morte, sono tornate al sepolcro per rendere a Gesù gli onori funebri che non avevano potuto essergli resi la sera del venerdì, per la fretta con cui si era proceduto alla sepoltura. Fretta dovuta al fatto che era imminente il giorno festivo - il sabato - in cui ogni lavoro, ma soprattutto la cura dei morti, era proibito. Invece del cadavere di Gesù, le donne si trovano di fronte a esseri misteriosi (angeli), i quali dicono loro che Gesù è risorto e che vadano ad annunciarlo ai discepoli. La constatazione che il sepolcro è vuoto la fanno anche due discepoli - Simone e Giovanni -, ma la prova che le donne hanno detto la verità è data da Gesù stesso, il quale appare varie volte ai suoi discepoli, si fa riconoscere da essi perché ha ancora i segni - nelle mani, nei piedi e nel costato - della crocifissione, parla e mangia con loro e li istruisce sulla loro futura missione. Essi infatti dovranno essere in tutto il mondo i testimoni della sua risurrezione e dovranno annunciare a tutti gli uomini quello che Gesù ha detto e ha compiuto, affinché credano in lui e si salvino.

Così la vita di Gesù non si chiude - come quella di tutti gli uomini - con la morte, ma si prolunga con la risurrezione. Da questa infatti ha origine la grande avventura cristiana, che rappresenta una svolta nella storia del mondo e continua ancora oggi dopo 20 secoli di grandezze e di miserie, di successi e di sconfitte: 20 secoli segnati dalla persona di Gesù di Nazaret, morto sotto Ponzio Pilato e risorto, che ora è vivente presso il Padre, come il Signore della storia, ma nello stesso tempo è con i suoi discepoli sino alla fine del mondo.


5. Gesù una personalità sconcertante

 

I Vangeli non ci danno un ritratto di Gesù di Nazaret né fisico, né morale; anzi, non paiono interessati a tratteggiarne la figura, preoccupati soprattutto di trasmettere il suo messaggio e narrare quanto egli ha compiuto. Tuttavia è possibile, scorrendo i Vangeli, venire a contatto con la personalità di Gesù, tanto essa è straordinaria e capace di rivelarsi attraverso quello che egli dice e fa.

 

1. La persona di Gesù

Non sappiamo nulla della sua figura fisica; ma dalla sua persona doveva emanare un fascino particolare, come mostra l'entusiasmo delle folle che lo seguivano. Luca ricorda l'esclamazione di una donna: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (Lc 11,27).

Neppure sappiamo qualcosa della costituzione fisica di Gesù; ma da quello che i Vangeli dicono della sua attività, si può presumere che essa dovette essere sana e molto robusta: se non fosse stata tale, non avrebbe potuto sostenere l'enorme mole di lavoro a cui Gesù si sottopose nei due-tre anni di vita pubblica e i disagi che gli imponeva la vita randagia di predicatore itinerante.

 

2. I sentimenti di Gesù

Quello che più colpisce in Gesù è la bontà. Non può vedere un dolore senza sentirsi mosso a porgere aiuto: tutti i miracoli che si narrano di lui sono compiuti per bontà, per lenire una sofferenza o prevenire un pericolo. Tutte le forme del dolore umano hanno nel suo cuore una risonanza profonda: si commuove dinanzi al pianto della vedova di Nain (Lc 7,13) e scoppia a piangere dinanzi al sepolcro dell'amico Lazzaro (Gv 11,35).

Ma la sua non è una compassione superficiale e passeggera, poiché dietro la sofferenza fisica egli vede profilarsi l'ombra del peccato e il potere di una forza maligna di cui il peccato rende schiavo l'uomo: egli ha perciò pietà dell'uomo, irretito nel peccato e in balìa di Satana, suo mortale nemico. Proprio questa pietà lo fa scendere alla radice del male e gli fa togliere, prendendoli su di sé, i peccati degli uomini: nello stesso tempo in cui guarisce i corpi dalle malattie, libera le anime dal peccato e dal potere di Satana. Perciò, al paralitico che hanno calato dal tetto dinanzi a lui perché lo guarisca, Gesù dice per prima cosa: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,5). In realtà, le guarigioni corporali che Gesù opera non sono se non l'aspetto esterno della lotta che egli ha ingaggiato col male e con Satana, la conseguenza visibile di una lotta invisibile e spaventosa che egli conduce contro il peccato e di cui la sua morte sulla croce sarà il punto culminante e decisivo.

 

Verso gli apostoli poi, suoi compagni di vita e suoi amici più cari, Gesù mostra affetto e premura nelle loro fatiche, pazienza nell'istruirli e dolcezza nel correggerli. Eppure essi sono tanto inferiori a lui per intelligenza, sensibilità e nobiltà d'animo: sono spesso gretti, litigiosi, invidiosi; non comprendono quello che egli dice loro o capiscono una cosa per un'altra; soprattutto, sanno così poco elevarsi all'altezza del loro maestro, la cui grandezza incute loro timore e rispetto. E tuttavia Gesù non li ama meno per questo; piuttosto si mette al loro livello, li interroga, discute con loro e si consulta con essi.

 

3. Le “preferenze” per bambini, malati, peccatori e poveri

Tuttavia, la bontà di Gesù si rivela particolarmente verso i poveri, gli ammalati, i bambini, i peccatori. Le folle che lo seguono sono formate in gran parte da povera gente, oppressa dai potenti, sempre in lotta con la miseria e la malattia, spesso affamata. Di queste moltitudini Gesù ha una profonda compassione.

Per gli ammalati Gesù ha un amore particolare: li guarisce dalle loro malattie anche in giorno di sabato, attirandosi l'ostilità dei farisei e dei dottori della Legge, secondo i quali nel giorno consacrato al Signore non è permesso neppure operare guarigioni. Ha una cura particolare dei lebbrosi, proprio perché essi - costretti a vivere lontano dagli altri, in stato di totale abbandono - sono i più miseri. Egli, sfidando la Legge, la quale proibiva di avvicinare i lebbrosi, li fa avvicinare a sé, li tocca con le sue mani e li guarisce.

Una particolare predilezione Gesù mostra per i bambini. Quando le mamme glieli presentano perché li benedica, Gesù li prende tra le sue braccia e li benedice con affetto e commozione intensi; anzi, rimprovera i suoi discepoli, che, con l'intento di evitargli un fastidio, cercano di mandarli via.

Ha poi pietà e misericordia per i peccatori, li tratta con dolcezza, anche a costo di scandalizzare coloro che si ritengono giusti e onesti e trovano disdicevole che Gesù tratti con simili persone: così, scandalizzando il fariseo Simone che lo ha invitato a tavola, lascia che una prostituta gli bagni i piedi di lacrime e glieli asciughi con i propri capelli, li baci e li cosparga di olio profumato, affermando che essa è migliore del fariseo, perché è capace di amare più di lui (Lc 7,36-50); libera dal furore ipocrita dei farisei un'adultera sorpresa in flagrante, dicendo che chi è senza peccato scagli la prima pietra (Gv 8,3-11).

Per Gesù i peccatori non devono essere evitati e disprezzati - come fanno i farisei - perché non osservano la Legge, ma devono essere amati, perché sono poveri malati che hanno bisogno del medico. Il peccato è segno di una profonda miseria spirituale. Il peccatore non va punito, ma aiutato a redimersi; non va allontanato da Dio, ma avvicinato a Lui; non va disprezzato e trattato con durezza e intransigenza, ma amato e trattato con indulgenza, finché c'è in lui una scintilla di speranza di conversione. Ecco perché Gesù va in cerca dei peccatori, non spezza la canna infranta e non spegne il lucignolo ancora fumigante.

 

Ma c'è un motivo più profondo che spinge Gesù ad amare i poveri, gli ammalati, i bambini e i peccatori: è il particolare amore che Dio ha per loro e il fatto che abbia destinato proprio a loro il suo regno. In realtà, i poveri, gli umili, i piccoli, i peccatori, per la loro condizione, sono, più di altri, vicini al regno di Dio, disposti a entrarvi, aperti a riceverlo. Poiché le condizioni per entrarvi sono la povertà, l'umiltà, il sentimento della propria miseria, la semplicità e la purezza di cuore. Perciò, mentre chiama "beati" i poveri, perché loro è il regno dei cieli, mentre afferma che chi non diventa come un bambino e non accoglie il regno di Dio con la semplicità del bambino non potrà entrarvi, Gesù lancia in faccia ai "giusti" soddisfatti della propria perfezione: "In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio" (Mt 21,31).

 

4. Il rapporto con il Padre

Gesù sente profondamente la trascendenza di Dio, la sua grandezza unica. Nessuno si può paragonare a Lui. Di fronte a Lui nessuno è buono.

Solo Dio è grande e solo la sua volontà conta: perciò bisogna pregare che il suo nome sia santificato, che il suo regno venga e che la sua volontà sia fatta dagli uomini sulla Terra come è fatta dagli spiriti celesti; bisogna temere solo Dio, non i potenti, che possono solo uccidere il corpo, ma non possono mandare l'anima nella Geenna, come può fare Dio; bisogna adorare Dio solo, non gli idoli del denaro e del potere; bisogna amare solo Dio "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutto lo spirito" (Mt 22,36). Solo Lui infatti merita tutto l'amore dell'uomo. Perciò non bisogna amare, ponendola sullo stesso piano di Dio o accanto a Lui, nessun'altra creatura; non bisogna servire nessun altro padrone:

 

5. Gesù uomo “libero”

Questo rapporto filiale con Dio fa di Gesù un uomo audacemente libero. Libero da ogni interesse terreno, libero dalla famiglia, ma soprattutto da ogni legge umana, che pretenda d'imprigionare l'uomo in osservanze puramente esteriori. Di qui la sua lotta contro le leggi della purità rituale e le tradizioni degli antichi, che riducono la religione a mera precettistica esteriore, a un culto senz'anima: non è il mangiare senza lavarsi le mani che rende immondo l'uomo, ma il male che esce dal suo cuore.

Anzi, egli è libero di fronte alla stessa Legge morale mosaica, che ha l'audacia di cambiare, non per abolirla, ma per perfezionarla. In particolare è libero dagli interessi politici. Rifiuta perciò di farsi coinvolgere nel movimento degli zeloti, che combattono per la liberazione della Palestina dal giogo romano.

E se Gesù è sovranamente libero di fronte agli uomini, è pienamente assoggettato alla volontà del Padre, fa sempre le cose che sono gradite a Lui.

Questa volontà del Padre, che Gesù vuol seguire fino in fondo, gli dà il coraggio di andare avanti nel compimento della sua missione, fino alla morte. Questa incombe su di lui fin dal principio. Infatti, dopo i primi successi della sua predicazione in Galilea, Gesù sente che una opposizione, sorda ma tenace, nasce e si organizza contro di lui: farisei e scribi, anziani e sommi sacerdoti, pur nemici tra di loro, sono uniti contro di lui e ben presto pensano di eliminarlo, vedendo in lui un gravissimo pericolo per la religione ebraica e per la stessa nazione.

 


6. L’insegnamento di Gesù

 

1. Una dottrina nuova insegnata con autorità

Gesù di Nazaret è sconcertante e straordinario non solo per la sua personalità, ma anche per il suo insegnamento e per il modo in cui egli ha insegnato.

Quello che ha maggiormente colpito gli uditori di Gesù è il fatto che egli insegnava “come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Questi, in quanto teologi e dottori della Legge (Torah), ritenuta definitiva e immutabile, si limitavano a illustrarne e a discuterne i precetti e ad esporre l'interpretazione tradizionale con richiami a quanto avevano detto e insegnato i più famosi scribi. Così si inserivano nella lunga tradizione ininterrotta che da Mosè giungeva fino a loro attraverso i grandi maestri dei passato. Nella forma esterna, l'insegnamento di Gesù non si distingueva molto da quello degli scribi del suo tempo. Anch'egli traeva dalla Scrittura lo spunto della sua predicazione. Anch'egli, al pari degli scribi, usava frasi brevi e incisive e ricorreva a immagini, similitudini ed esempi, prendendoli dalla vita del popolo e dalla natura.

Certamente, le sue parabole e i suoi detti avevano una forza penetrante, una bellezza poetica e una profondità di pensiero che non trovavano riscontro nell'insegnamento degli scribi. Tuttavia, non era questo ciò che distingueva Gesù da loro e che lasciava “stupiti del suo insegnamento” (Mc 1,22) coloro che lo ascoltavano. Era invece il fatto che egli parlava “come uno che ha autorità”. Quale “autorità”? Non solo quella di esporre e spiegare la Sacra Scrittura, ossia l'Antico Testamento, che Gesù riconosce come rivelazione di Dio, ma l'autorità d'interpretarla autenticamente, mostrando quello che Dio ha inteso rivelare realmente, di liberarla dalle incrostazioni delle tradizioni umane non rispondenti al pensiero di Dio (cfr Mt 15,3-6), di portarla a compimento (cfr Mt 5,17) dichiarando decaduti precetti e leggi - come la possibilità del divorzio - che Dio, tenendo conto della debolezza dell'essere umano e della sua “durezza di cuore” (Mt 19,8), aveva dato per mezzo di Mosè.

Il fatto più stupefacente era che Gesù fondava la sua autorità su se stesso, sulla sua persona. In realtà, i suoi ascoltatori non potevano non essere colpiti da parole come queste: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere. Ma io vi dico(Mt 5,21-22)

 

2. Gesù e la legge

Nella Legge di Mosè una particolarissima importanza aveva il riposo nel giorno di sabato. La sua osservanza era concepita in modo assai rigido: era infatti proibito accendere il fuoco, raccogliere la legna, preparare i cibi. Per “santificare” il sabato ci si riuniva nella sinagoga, si pregava in comune e si faceva una lettura commentata della Sacra Scrittura.

Gesù non abroga la legge del sabato; anzi, in quel giorno egli frequenta la sinagoga. Tuttavia afferma che il precetto dell'amore è più importante di quello del sabato e che, perciò, se c'è da fare del bene a chi è nel bisogno, lo si deve fare anche a costo di violare il sabato. Così egli compie guarigioni miracolose in giorno di sabato, affermando che “il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato”. Perciò, a coloro che lo accusano di guarire in giorno di sabato rimprovera con indignazione e tristezza “la durezza dei loro cuori”. Ma c'è di più: non solo Gesù spiega in che senso dev'essere inteso - in conformità col volere di Dio - il riposo sabbatico, ma si attribuisce un potere anche sul sabato.

Con la stessa libertà Gesù si comporta nei riguardi delle leggi di purità legale prescritte dal Levitico e rese più rigide dai farisei del suo tempo con l'imposizione di abluzioni ripetute e di lavaggi minuziosi. Non solo egli si “contamina” col toccare un lebbroso e col toccare un cadavere prendendo la mano di una bambina morta, ma rigetta in teoria e in pratica tali norme, dichiarando in tal modo invalida gran parte della Legge mosaica. Quella che conta per Gesù non è la purezza rituale, esteriore, ma la purezza del cuore, interiore. Infatti, l'unica purezza è quella interiore.

 

3. Gesù e il regno di Dio

Gesù, dunque, ha insegnato in un modo che ha destato stupore nei suoi ascoltatori per il fatto che si è attribuito un'“autorità” assolutamente impensabile sulla Legge di Mosè. Ma stupore assai più grande ha suscitato la sua dottrina.

Il nucleo centrale di questa “dottrina nuova”, e quindi della predicazione di Gesù nei pochi anni della sua vita pubblica, è il “Vangelo del regno”, cioè il lieto annunzio che il regno di Dio viene, si è fatto vicino e, anzi, irrompe già nella storia umana nella persona e nella parola di Gesù: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”».

Con l'espressione “regno di Dio”, Gesù indica la manifestazione potente e gloriosa e la presenza salvifica di Dio. Proclamando che “è vicino” il “regno di Dio”, egli afferma la volontà di Dio di porre fine al presente ordine ingiusto e di liberare dai loro mali coloro che soffrono; afferma la decisione misericordiosa di Dio di voler regnare nel mondo facendosi carico delle ingiustizie e delle sofferenze umane, quindi distruggendo il regno del male e il potere di colui che è il principe di questo regno, Satana. Il tempo dell'attesa del regno di Dio è terminato - annunzia Gesù - e Dio vuole regnare nel mondo prendendosi cura dei poveri, dei piccoli, degli umili, dei disprezzati, dei malati, dei peccatori. Egli offre il suo regno gratuitamente e misericordiosamente a tutti gli uomini, ma in primo luogo ai poveri, agli infelici, ai diseredati, a coloro che non hanno nessun titolo di benemerenza. Infatti, il regno di Dio non si merita con le opere buone né si conquista con la propria volontà e il proprio impegno: esso è grazia, cioè un dono gratuito di Dio che dev'essere accolto con apertura di cuore e riconoscenza umile e gioiosa.

È importante notare che il regno di Dio di cui parla Gesù non è di ordine politico: non è cioè la restaurazione del regno di Davide, come era sognata dal nazionalismo ebraico del suo tempo. Esso è una realtà misteriosa di cui solo Gesù può far conoscere la natura. Infatti egli, conformandosi all'agire del Padre, non la rivela se non ai piccoli e agli umili, non ai potenti e ai sapienti del mondo. Il mezzo con cui Gesù rivela la natura e le esigenze del regno di Dio sono soprattutto le parabole.

Così, il regno di Dio è simile al seme seminato in un campo, che produce frutto abbondante se cade nella terra buona, cioè se è accolto con cuore buono e aperto, se la parola di Dio è ascoltata e compresa. Il regno di Dio cresce e si sviluppa per virtù propria: “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (Mc 4,26-28). Esso si svilupperà, come il lievito messo nella pasta. Inizia umilmente, poiché è piccolo come un granello di senape, ma è destinato a divenire un grande albero in cui faranno i loro nidi gli uccelli del cielo: infatti è destinato a tutti i popoli, non essendo legato a nessuno in particolare, neppure al popolo ebraico.

 

Il regno di Dio si attua in due tempi.

Per un verso esso è già venuto: con Gesù il regno di Dio “si è fatto vicino” (Mt 1,15), è qui. Dopo Giovanni Battista, l'era del regno di Dio è aperta (Mt 11,12-13). La liberazione degli indemoniati compiuta da Gesù con la potenza della sua parola è il segno dell'irruzione del regno di Dio nella storia umana. Per un altro verso il regno di Dio verrà. Gesù, con la sua parola lo annunzia e con la sua azione lo rende presente. Ma è solo l'inizio: nella sua pienezza il regno di Dio verrà alla fine dei tempi. Ora esso è nel mondo e cresce tra le difficoltà e le opposizioni dei nemici: di Satana e di coloro che si mettono dalla sua parte; ma alla fine del mondo apparirà in tutta la sua potenza e gloria e in tutta la sua dimensione salvifica. Quello che gli uomini devono fare ora è anzitutto pregare che esso venga presto: “Padre, venga il tuo regno”. Poi, disporsi a entrarvi, per non restare esclusi dal regno di Dio, quando alla fine dei tempi la zizzania sarà separata dal buon grano e legata in fastelli per essere bruciata (Mt 13,30) e i pesci cattivi separati da quelli buoni e gettati via. In realtà, il regno di Dio è un dono del suo amore misericordioso per tutti, ma è anche un valore essenziale, anzi “il” valore, il tesoro, la perla preziosa che bisogna acquistare a prezzo di tutto ciò che si possiede.

Per ricevere tale dono, gli uomini devono adempiere alcune condizioni. Anzitutto, devono divenire poveri in spirito, cioè farsi un'anima di povero, diventare umili; poi assumere un atteggiamento di bambino, acquistando la semplicità del cuore e la fiducia filiale in Dio. Poi, ancora, è necessario cercare attivamente il regno di Dio e la sua giustizia, avere una perfezione più grande di quella degli scribi e dei farisei. In una parola, non contentarsi di dire: “Signore, Signore”, ma compiere la volontà del Padre e fare opere di carità verso i fratelli più bisognosi: gli affamati, gli assetati, i carcerati, gli ignudi, i pellegrini, i malati. Poiché tutti sono chiamati al regno di Dio, ma non tutti saranno eletti.

 

4. I destinatari del Regno

Dio, perciò, dona il suo regno: ma chi ne sono i destinatari più diretti e immediati? Lo sono tre ordini di persone. In primo luogo i poveri, gli affamati, gli afflitti e i perseguitati: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli” (Lc 6,20-23). Tutta la storia biblica è percorsa dal favore di Dio per i poveri, dalla speranza che Dio li libererà dalla loro condizione. La novità del “Vangelo” di Gesù sta nel fatto che, rivolgendosi ai poveri che lo attorniano, egli annunzia loro che la loro attesa di un intervento liberatore di Dio comincia a essere esaudita fin d'ora: Dio comincia a rendere giustizia agli oppressi e a difendere i deboli e in tal modo si rivela come sovrano giusto e potente; Dio comincia a prendere a cuore la sorte dei poveri, non perché abbiano titoli o qualità particolari che li raccomandino a Lui, ma perché Egli è giusto e buono, e quindi libera e salva quelli che sono nel bisogno.

Destinatari privilegiati del regno di Dio sono in secondo luogo i “piccoli”, vale a dire tutti coloro che, sia per l'età, come i bambini, sia per la loro condizione sociale sono privi di diritti e di dignità a tutti i livelli. Di questi esseri deboli e indifesi Dio si prende cura, in quanto è il signore e il sovrano che rende giustizia e si schiera perciò dalla parte di coloro a cui tra gli uomini essa non è resa. I potenti, i forti, i ricchi si fanno giustizia da sé e non hanno perciò bisogno dell'intervento di Dio. Ai “piccoli” appartengono i discepoli che si stringono attorno a Gesù: non solo essi sono poveri, ma per la loro condizione modesta non hanno prestigio sociale e per la loro scarsa cultura e osservanza religiosa appartengono al “popolo della terra” che gli scribi e i farisei, conoscitori e osservanti della Legge, disprezzano. Proprio a loro Dio ha dato il suo regno. Nulla, dunque, dà diritto al regno di Dio: né il prestigio sociale, né l'osservanza religiosa, né le qualità morali sono titolo di merito. In tal modo Gesù afferma la totale gratuità del regno.

Infine, destinatari privilegiati di questo sono i peccatori e tutti coloro che la mentalità ebraica corrente considera peccatori perché lontani da Dio ed esclusi dal popolo eletto. Nel pensiero di Gesù, Dio non è solo colui che è giusto e benefico; è anche colui che ha misericordia per i peccatori, li perdona e li salva. I “peccatori” sono tutti coloro che non sono in regola con le norme morali e con le prescrizioni rituali della Legge. Così, sono peccatori i “pubblicani”, cioè gli esattori di imposte locali, sia perché sono sospettati di essere disonesti, sia perché frequentano ambienti pagani e sono noncuranti delle norme di purità legale; sono “peccatrici” le prostitute. Eppure, agli scandalizzati farisei Gesù dichiara: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Insieme con i peccatori Dio chiama nel suo regno i pagani, che le correnti contemporanee del giudaismo escludono dalle promesse di Dio fatte ad Abramo, salvo che non diventino “proseliti” e in tal modo partecipino alla comunità d'Israele. Così, il regno di Dio non è un privilegio nazionale, dovuto all'appartenenza al popolo d'Israele; anzi, dichiara Gesù, molti pagani parteciperanno con Abramo e gli altri patriarchi al banchetto del regno di Dio, mentre ne saranno esclusi gli ebrei increduli.

 

5. Il volto nuovo di Dio

Se l'annunzio del regno di Dio, che è venuto e verrà, forma il nucleo centrale del messaggio di Gesù, la nuova immagine di Dio che egli dà ne forma il cuore. Per Gesù, Dio è “un Dio per gli altri”; ma è soprattutto il “Padre”. Questo appellativo, applicato a Dio, non è nuovo, perché nella tradizione biblica Dio, in quanto ha cura d'Israele per l'alleanza che ha contratto con esso, è chiamato “padre”: Perciò, anche se usato con una certa riserva, il nome di “padre” applicato a Dio si trova già nella Bibbia.

In realtà, Gesù non si rivolge a Dio se non chiamandolo “Padre”: così, in tutte le preghiere di Gesù, Dio è invocato sempre come “Padre”, a eccezione del suo grido sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, che è però l'inizio del Salmo 22, il quale non poteva essere recitato da Gesù se non nella sua forma propria. Tuttavia, la novità più straordinaria è che, da Gesù, Dio è chiamato abbà che in aramaico significa “Padre mio”, cioè papà. Nell'ambiente religioso palestinese del 1 secolo era assolutamente impensabile che ci si potesse rivolgere a Dio con tale espressione, la quale serviva a designare nei rapporti familiari il padre terreno: essa sarebbe sembrata irrispettosa verso Dio. Il fatto che Gesù l'abbia usata nella sua preghiera denota da un lato la profonda intimità che egli aveva con Dio e dall'altro la sua assoluta confidenza in Lui.

Così, per Gesù, il volto nuovo di Dio è quello della paternità. Anzitutto, questa paternità non riguarda soltanto Israele, ma si estende a tutti gli uomini. In particolare sono figli di Dio i poveri, i piccoli, gli umili, i peccatori, i discepoli di Gesù, che includono i giudei e i pagani che compiono la volontà di Dio, e in tal modo formano la nuova comunità di Dio.

Dio è Padre e perciò ha cura e provvidenza per i suoi, non facendo mancare loro il necessario, se essi cercano prima di tutto il suo regno: “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani: il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”

Proprio perché Padre, Dio è misericordioso e pronto a perdonare e a salvare ciò che era perduto: quando il giovane prodigo, che ha abbandonato il padre per andare a dissipare i suoi beni vivendo nella dissolutezza, torna alla casa paterna, il padre gli corre incontro, lo abbraccia e lo reintegra nella sua dignità di figlio, facendo festa per il suo ritorno (Lc 15,11-24). Così agisce Dio con i peccatori che tornano da Lui. Questo agire del Padre verso i peccatori spiega il modo di comportarsi di Gesù nei loro riguardi: se egli è buono e misericordioso nei loro confronti è perché Dio si comporta così. Lo stesso vale per i poveri, per i piccoli, per i malati e i bisognosi di ogni sorta: se Gesù li circonda di un amore particolare, lo fa perché essi sono i prediletti del Padre, i destinatari privilegiati del regno di Dio.

 

6. L’insegnamento morale

Anche le norme morali che Gesù dà ai suoi discepoli non rappresentano una novità assoluta. Al giovane ricco, che gli chiede che cosa deve fare per entrare nella vita eterna, Gesù propone l'osservanza del Decalogo. Allo scriba, che gli chiede qual è il più grande comandamento della Legge, Gesù risponde citando le Scritture: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso”.

La novità dell'insegnamento morale di Gesù sta nel fatto che esso è connesso con l'annunzio del regno e con la rivelazione della paternità di Dio. Se il regno di Dio è venuto, bisogna accoglierlo come i bambini, con umiltà e semplicità di cuore, bisogna accettarne le esigenze per non essere esclusi da esso: ciò significa vivere nello spirito delle beatitudini, poiché il regno di Dio è destinato ai poveri in spirito, ai miti, ai sofferenti, ai misericordiosi, ai pacifici, ai puri di cuore, ai perseguitati per la causa di Dio e del Vangelo; significa praticare una “giustizia” più grande di quella degli scribi e dei farisei, cioè non perdersi nel legalismo e nel formalismo farisaico, ma essere interiormente retti e puri e praticare la giustizia e la misericordia, e in tal modo sforzarsi di essere perfetti come è perfetto il Padre celeste. Se Dio è il Padre buono e misericordioso verso tutti i suoi figli, anche cattivi e peccatori, gli uomini devono imitarlo, amando con amore gratuito e incondizionato tutti, anche i cattivi, anzi anche i propri nemici.

Così, quello che è nuovo nell'insegnamento morale di Gesù è, in primo luogo, che tutte le esigenze etiche sono condensate nell'amore, cioè nel duplice precetto dell'amore di Dio con tutto il cuore e dell'amore del prossimo come se stesso; è, poi, che il prossimo non è soltanto chi appartiene alla propria famiglia, al proprio clan, alla propria nazione, alla propria religione, ma abbraccia lo straniero, il diverso, il nemico personale o della propria nazione e della propria religione; è, infine, che non basta astenersi dal far del male al prossimo, ma bisogna positivamente fargli del bene: “Tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Anche nelle situazioni d'ingiustizia, non bisogna rispondere con l'ingiustizia: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da' a chiunque ti chiede e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Lc 6,29-30). Questo, non per una scelta ideale di pacifismo non-violento, ma per essere figli di Dio, Padre misericordioso.

 


7. «Rendete a Cesare quello che è di Cesare»

 

 

1. Gesù e i problemi politici del suo tempo

Quale atteggiamento ha assunto Gesù di fronte ai problemi politici del suo tempo e della sua patria? Per comprenderne il senso e l'originalità, si deve ricordare che egli è vissuto in un'epoca politicamente assai agitata, anzi di vera e propria rivoluzione politica contro l'occupazione della Palestina da parte dei romani. Al tempo di Gesù, infatti, la Palestina, già soggiogata nel 63 a.C. da Pompeo, il rivale di Cesare, era diventata provincia romana nel 6 a.C., quando l'imperatore Augusto aveva deposto il figlio di Erode il Grande, Archelao, in seguito alle lamentele dei samaritani per la sua cattiva amministrazione.

Questa caduta della Palestina sotto il dominio straniero diede origine a violente insurrezioni. Nacque per tale motivo il movimento zelota, fondato da Giuda il Galileo e dal fariseo Sadoq che fu attivo durante tutta la vita di Gesù e dopo la sua morte. Dopo aver condotto sporadiche azioni di guerriglia, che avevano le loro basi di partenza nel deserto di Giuda, nel 66 d.C. gli zeloti diedero inizio, con la conquista della cittadella di Massada da parte di Menalien, figlio o nipote di Giuda il Galileo, alla grande sollevazione contro i romani, che doveva portare nel 70 alla distruzione di Gerusalemme.

Contro il movimento zelota, che reclutava i suoi adepti tra i giovani e nella popolazione rurale più povera delle province di frontiera, come la Galilea, l'Idumea e la Perea, si accanirono i procuratori romani. Di particolare crudeltà diede prova Ponzio Pilato.

Se gli zeloti rappresentano il partito avverso agli occupanti romani, questi trovano appoggio nell'aristocrazia sacerdotale e laica, che forma il nucleo essenziale della setta dei sadducei.

 

Il realismo politico - grandi proprietari terrieri e capi del popolo, essi avrebbero tutto da perdere schierandosi contro Roma - consiglia ai sadducei un atteggiamento di lealismo opportunistico verso la potenza occupante, che si manifesta anche con un sacrificio offerto ogni giorno nel Tempio, a nome dell'imperatore di Roma, come ricordano Giuseppe Flavio e Filone di Alessandria. Per tale motivo tra zeloti e sadducei c'è una forte inimicizia.

Anche gli esseni, ma per motivi diversi da quelli dei sadducei, sono lealisti verso il potere romano. Essi ritengono che “è sempre per la volontà di Dio che il potere va in mano a un uomo” (Giuseppe Flavio). Non hanno, certo, simpatia per i pagani, ma attendono, per poterli sterminare, l'intervento escatologico di Dio; nel frattempo, vogliono vivere in pace, ritirati nel deserto.

Invece i farisei sono divisi. Alcuni sono vicini agli zeloti; ma la grande maggioranza è contraria all'azione violenta contro l'impero romano: nell'attesa che Dio liberi il suo popolo dal giogo romano, suscitando “il re figlio di Davide affinché egli regni su Israele e purifichi Gerusalemme dai pagani che la calpestano” (Salmi di Salomone, 17,2 3-2 5), essi si sottomettono a JHWH che ha imposto loro il dominio di Roma.

In conclusione, la situazione della Palestina al tempo di Gesù era, sotto il profilo politico, quella di un Paese soggetto a una potenza straniera, nel quale, però, covava, alimentato dal movimento zelota, un forte fermento rivoluzionarlo che si esprimeva in azioni di guerriglia.

In questa situazione, quale atteggiamento assume Gesù?

 

2. Gesù e gli zeloti

Gli zeloti costituivano un forte e popolare movimento politico-religioso di liberazione nazionale e di restaurazione teocratica. Esso affondava le sue radici nell'Antico Testamento, in quanto si ispirava allo “zelo per la Legge”, cioè alla determinazione di uccidere chiunque violasse la Legge, senza aver riguardo alla propria vita, per conservare puro Israele.

Il problema che ora si pone è il seguente: in quali rapporti fu Gesù con il movimento zelota? Fu egli stesso uno zelota o almeno simpatizzò con gli zeloti? Che Gesù fosse stato un rivoluzionario sociale e politico è una vecchia tesi che risale a Reimarus, ma non è storicamente accettabile: essa è contraddetta dalla più antica e più sicura tradizione evangelica.

Ciò, però, non significa che Gesù non abbia avuto a che fare con gli zeloti o che non abbia detto parole e compiuto gesti che potevano essere interpretati come parole e gesti di zelotismo. In realtà, Gesù nella sua vita pubblica si è subito trovato di fronte al problema zelota e ha dovuto prendere posizione assai presto. Molto probabilmente le tentazioni, che i Sinottici pongono all'inizio del suo ministero, devono essere interpretate anche come il rifiuto di Gesù di seguire la via degli zeloti.

Gesù vede nello zelotismo qualcosa di satanico, che si oppone radicalmente al disegno di Dio, che egli ha la missione di compiere.

Pur rifiutando radicalmente lo zelotismo, Gesù ha esercitato un certo fascino sugli zeloti. Infatti alcuni suoi discepoli hanno fatto parte del movimento zelota. La cosa è certa per l'apostolo Simone, come risulta dal soprannome che gli danno gli Atti e i Vangeli. Per altri discepoli di Gesù, alcuni indizi farebbero pensare a una loro passata appartenenza al movimento zelota. Così, il termine Iskariot, con cui si indica Giuda il traditore, potrebbe essere la trascrizione semitica della parola sicarius. Se così fosse, si spiegherebbe meglio il tradimento di Giuda. Anche Pietro potrebbe aver fatto parte del movimento zelota: certi suoi atteggiamenti - vuole dissuadere Gesù dal seguire la via della croce; nell'Orto degli Ulivi porta una spada e colpisce con essa Malco – sono di marca zelota.

Ma ci sono, soprattutto, alcune parole e alcuni gesti di Gesù che potevano essere interpretati come ispirati allo zelotismo: le sue parole sulla “spada”, il suo ingresso a Gerusalemme, la cacciata dei mercanti dal Tempio. Infatti Gesù è stato condannato a morte dai romani come zelota ribelle e come pretendente al trono regale d'Israele. È quanto mostra il “titolo” (cioè il motivo della crocifissione) fatto porre da Pilato sulla croce di Cristo: Gesù il Nazareno il re dei Giudei.

In conclusione, possiamo dire che, se Gesù non fu uno zelota, fu tuttavia per forza di cose in costante contatto con lo zelotismo; anzi, egli stesso fu condannato a morte come zelota.

 

3. Gesù respinge lo zelotismo

Nonostante questi contatti col movimento zelota, Gesù respinge radicalmente il messianismo politico-religioso degli zeloti, ritenendolo “satanico”; in particolare respinge il loro ricorso alla violenza, alla “guerra santa” per instaurare il regno di Dio sulla Terra.

Anzitutto, Gesù non ha voluto essere un Messia politico. Secondo la concezione comune del suo tempo, il Messia avrebbe dovuto essere un grande re, discendente di Davide, che si sarebbe messo a capo di un esercito di liberazione.

Gesù non vuol essere un Messia di questo tipo. Per tale motivo egli non si attribuisce mai il titolo di “Messia” (lo fa una sola volta, quando Caifa lo interroga ufficialmente dinanzi al Sinedrio: Mc 14,62); e quando Pietro gli dice: “Tu sei il Messia”, ordina severamente ai discepoli che non ne parlino con nessuno. Egli teme infatti che, proclamandosi Messia, il popolo lo creda il Messia-Re da esso atteso. Anzi, affinché anche i suoi discepoli, che condividono le aspettative messianiche comuni, capiscano che egli non è il Messia re e guerriero che essi attendono, appena Pie­tro fa tale affermazione, Gesù comincia a insegnare “apertamente” che egli dovrà soffrire e morire, tanto che Pietro se ne scandalizza e vuol correggere Gesù, pensando che egli si sbagli. Ma Gesù insiste e rimprovera duramente Pietro, dicendogli: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

Questo è anche il motivo per cui Gesù non si dice mai esplicitamente “figlio di Davide”, anche se implicitamente si attribuisce la discendenza davidica. Poiché il Messia-Re, atteso dal popolo, doveva essere “figlio di Davide”, se Gesù si fosse attribuito questo titolo avrebbe confermato le aspettative messianiche popolari.

Se Gesù non ha voluto essere il Messia politico atteso dal popolo, non ha però rifiutato ogni titolo messianico. Egli, infatti, aveva la coscienza di essere Figlio di Dio e Messia, ma un Messia diverso da quello che il popolo giudaico attendeva. Per esprimere tale diversità, egli non si è detto Messia, ma “Figlio dell'uomo”.

Quale significato Gesù ha dato alle parole “Figlio dell'uomo”?

Non è stato Gesù a coniare questo titolo: esso era già noto nell'ambiente palestinese dov'egli viveva. Infatti è presente nell'apocalittica giudaica antica. Nel libro di Daniele (7,13) compare per la prima volta l'espressione “figlio dell'uomo”, applicata a un personaggio che viene sulle nubi del cielo e a cui l'Antico dei giorni (Dio) dà dominio, onore e regno. Ne parla poi il libro di Enoch etiopico, scritto nel 1 secolo avanti Cristo e negli stessi toni il IV libro di Esdra, che però è del 94 dopo Cristo; esso afferma che il Figlio dell'uomo sorge dai flutti del mare, cioè dall'aldilà, e si eleva sulle nubi come un Salvatore.

Perciò, delle due concezioni messianiche, presenti nell'ambiente in cui viveva - quella politica e nazionalistica del Messia-Re, discendente di Davide, che era comune alla grande massa del popolo giudaico, e quella trascendente e sovranazionalistica del Figlio dell'uomo, “luce dei popoli” e salva­tore di tutto il mondo, che era ristretta ad alcuni circoli apocalittici - Gesù fa propria la concezione messianica del Figlio dell'uomo, mettendo da parte così il messianismo di stampo politico e nazionalistico.

Chiamandosi Figlio dell’uomo, però, Gesù si attribuisce, da una parte, la funzione di giudice e di salvatore escatologico: alla fine dei tempi, quando la persecuzione della comunità da lui stabilita avrà raggiunto il parossismo, egli verrà sulle nubi del cielo, circondato da schiere di angeli, che invierà a radunare dai quattro venti tutti gli uomini per il giudizio finale, nel quale salverà i suoi eletti e li farà partecipare alla sua gloria, e condannerà coloro che lo hanno respinto nella persona dei poveri e dei sofferenti; dall'altra, si attribuisce la funzione reden­trice del Servo di JHWH umiliato e sofferente, di cui parla il Deuteroisaia.

Gesù, cioè, fa un passo avanti rispetto alla concezione esclusivamente apocalittica del Figlio dell'uomo. Per lui il Figlio dell'uomo non verrà soltanto alla fine dei tempi, ma è già venuto. Certo, la funzione essenziale del Figlio dell'uomo è il giudizio escatologico; ma il giudizio che egli pronuncerà sugli uomini alla fine dei tempi comincia a delinearsi fin da adesso: gli uomini, infatti, saranno giudicati secondo l'atteggiamento che essi assumono fin d'ora nei suoi riguardi e nei riguardi di coloro - i poveri e i sofferenti - nei quali egli è presente. Solo che, mentre alla fine dei tempi il Figlio dell'uomo apparirà nella sua gloria, ora egli appare nell'umiltà e nel nascondimento: il futuro Giudice escatologico è ora il “Servo di JHWH”, che soffre e muore per salvare uomini e donne.

Ecco perché nei Vangeli ci sono due serie di parole che riguardano il Figlio dell'uomo: una fa riferimento alla sua fu­tura condizione gloriosa di giudice escatologico, l'altra alla sua condizione terrena di umiliazione e di sofferenza, di Servo di JHWH sofferente.

Evidentemente, identificandosi, nella sua condizione terrena, col Servo di JHWH, Gesù si pone al polo opposto della concezione del Messia-Re guerriero e vittorioso: egli salverà gli uomini, ma non con la lotta politica e militare, bensì con la sua sofferenza e la sua morte. Non poteva, così facendo, respingere in maniera più radicale il messianismo politico-religioso degli zeloti.

 

4. Gesù respinge la violenza rivoluzionaria

Gesù non soltanto non ha voluto essere il Messia-Re, liberatore d'Israele dal giogo dei romani con la lotta armata, ma ha respinto ogni idea di violenza rivoluzionaria.

Anzitutto Gesù rinuncia coscientemente all'uso della violenza, poiché predica la non-violenza e l'amore per i nemici.

Gesù è poi assolutamente estraneo a ogni idea di “guerra santa” contro i romani oppressori. Già egli è contrario all'idea che l'uomo possa “forzare” con la sua azione la venuta del regno di Dio: questo verrà come un “dono” in maniera inattesa. Ma quello che più conta è che Gesù riconosce l'autorità dell'imperatore di Roma sulla Palestina e non solo non intende opporsi ad essa, ma afferma che si deve pagarle il tributo che ha imposto: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). In tal maniera Gesù si stacca tanto dagli zeloti quanto dai collaborazionisti, per porsi sulla linea dei profeti: per ora Dio ha dato a Cesare il potere e bisogna ubbidirgli. Se, però, si deve ubbidire a Cesare, c'è in tale sottomissione un limite invalicabile: Cesare può pretendere quello che è suo, può richiedere quello che è necessario all'esistenza dello Stato; ma il suo diritto non va oltre. Egli non può chiedere e pretendere di avere quello che appartiene a Dio; se lo facesse, bisognerebbe resistergli e disubbidirgli.

In tal modo, nei confronti dello Stato romano, Gesù prende le distanze dall'atteggiamento degli zeloti, perché afferma che si deve pagare l'imposta e perché non ritiene che ciò sia un atto di idolatria. Nello stesso tempo prende le distanze dai collaborazionisti, tentati di vedere nell'imperatore un “dio” e di prestargli, perciò, ubbidienza assoluta. Infatti egli afferma che, sopra l'imperatore romano e sopra lo Stato e i suoi diritti, c'è Dio e ci sono i diritti di Dio e del suo regno: quindi, primato di Dio su Cesare, primato del regno di Dio su quello di Cesare.

 

5. Gesti politici di Gesù

Ci sono, tuttavia, nella vita di Gesù, alcuni gesti che hanno tutta l'aria di essere “politici”: cioè “messianici”, ma del messianismo politico-religioso proprio degli zeloti.

Essi sono l'entrata trionfale in Gerusalemme e la cacciata dei venditori dal Tempio. Che fossero gesti che potevano essere interpretati come atti di zelotismo appare evidente dal fatto che essi formarono la base dell'accusa che i sommi sacerdoti e i capi del popolo presentarono a Pilato per chiedere la condanna a morte di Gesù come ribelle.

Entrando in Gerusalemme a dorso di un puledro, Gesù ha voluto manifestarsi al popolo come Messia; nello stesso tempo, però, ha evitato tutto ciò che potesse dare alla sua manifestazione messianica un carattere politico e guerriero, anche se il popolo lo acclama “Figlio di Davide” e “Re d'Israele”, attribuendogli i titoli di Messia-Re, guerriero e liberatore d'Israele. Infatti, Gesù non entra in Gerusalemme su un cavallo da guerra, ma, come è scritto nel libro di Zaccaria, su un puledro preso in prestito, come un principe di pace, e in atteggiamento povero e “umile”. Quanto alla cacciata dei mercanti dal Tempio, essa non fu affatto un assalto al Tempio da parte di Gesù e dei suoi seguaci, e neppure riguardò tutto il Tempio; fu, invece, un gesto compiuto dal solo Gesù nell'atrio dei gentili alla maniera degli antichi profeti, per esprimere la sua riprovazione per lo stato di profanazione in cui le autorità competenti avevano ridotto il Tempio, che secondo l'insegnamento dei profeti doveva essere “casa di preghiera”, non “spelonca di ladri”.

 

6. La riserva escatologica di Gesù

Quali conclusioni si devono trarre da quanto abbiamo detto sin qui? La prima è questa: si commette un madornale errore storico quando si vuol fare di Gesù un rivoluzionario o almeno un fautore del ricorso alla violenza rivoluzionaria allo scopo di liberare un popolo dall'oppressione politica, militare ed economica. Gesù ha rifiutato la violenza - ogni violenza - e, piuttosto che farla subire agli altri, l'ha subita lui stesso. Non solo, ma ha predicato e praticato l'amore per tutti, anche per i nemici, e nel suo agire non ha fatto distinzioni e non ha discriminato nessuno a motivo delle sue idee politiche: così, tra i suoi discepoli c'erano lo zelota Simone e il pubblicano Matteo, pur essendo zeloti e pubblicani nemici mortali.

Certo, Gesù non fu un fautore dell'ordine stabilito: egli ruppe con l'orgogliosa sicurezza degli ebrei di essere il popolo eletto; ruppe con l'ideologia farisaica, affermando che i pubblicani e le prostitute (i peccatori) avrebbero preceduto i farisei (i giusti) nel regno dei cieli (Mt 21,31); soprattutto ruppe su certi punti con la stessa Torah, per riproporre le esigenze originali di Dio. Gesù non fu, dunque, un conservatore, ma un innovatore e un rivoluzionario così radicale e pericoloso per l'ordine stabilito che i custodi di questo, consapevoli del rischio che egli faceva correre all'ebraismo, decisero di toglierlo di mezzo e, per raggiungere tale scopo, non trovarono via migliore e più facile di quella di accusarlo presso Pilato come ribelle all'autorità romana.

Tuttavia la rivoluzione di Gesù fu di carattere religioso e spirituale, non politico e sociale. Evidentemente questa rivoluzione religiosa e spirituale, per la sua profondità e radicalità, non poteva non avere conseguenze rivoluzionarie per l'ordine sociale e politico; ma non era questo lo scopo primo che Gesù si prefiggeva, bensì l'annuncio della venuta del regno di Dio e l'entrata degli uomini e delle donne nel regno escatologico del Padre.

La seconda conclusione è la seguente: di fronte alla politica Gesù assume un atteggiamento di “riserva escatologica”; non nel senso che egli condanni o disprezzi la politica, anche se si mostra fortemente critico nei suoi riguardi, ma nel senso che, confrontata col regno di Dio, la politica, come realtà di questo mondo che passa, non ha molta importanza o almeno non ha l'importanza primaria che taluni le attribuiscono. Gesù accetta le diverse situazioni politiche come dati di fatto, che vanno accettati come appartenenti a un mondo di peccato destinato a perire, e perciò di secondaria importanza: per tale motivo, egli riconosce l'autorità romana e afferma che essa ha diritto al tributo; non predica la rivoluzione contro Roma, anzi condanna chi nella lotta armata contro l'occupante romano vede un mezzo per affrettare la venuta del regno di Dio; non chiama gli schiavi a sollevarsi contro i loro padroni, come avevano fatto Spartaco e altri.

La vera libertà che conta per Gesù non è la libertà politica, ma la libertà dal peccato, perché solo tale libertà interiore consente di partecipare già fin d'ora al regno escatologico che Gesù ha portato nel mondo con la sua persona.

La terza conclusione completa la seconda: la “riserva escatologica” che Gesù ha nei confronti della politica non lo porta al deserto, come gli esseni e Giovanni Battista. Gesù infatti vive nel mondo, tra gli uomini, e si trova a dover affrontare continuamente problemi di ogni genere, anche problemi politici. Egli non li evita, ma dà ad essi una soluzione: non, certo, una soluzione “politica”, ma religiosa. In tal modo, egli, pur tenendosi lontano dalla politica propriamente detta, predicando la giustizia, la non-violenza, chiamando gli uomini all'amore universale e al servizio dei poveri e mostrando che l'autorità dev'essere non dominazione ma servizio, agisce profondamente sulla vita politica.

In altre parole, la sua “riserva escatologica” nei riguardi della politica non è per Gesù un alibi che lo dispensa dall'agire in questo mondo e per questo mondo; l'attesa del regno futuro non gli fa trascurare questo mondo che passa. Solo che l'azione “politica” di Gesù in questo mondo e per questo mondo non riguarda direttamente e primariamente il mutamento e la riforma delle strutture politiche e sociali, ma la conversione del cuore.


8. “Guai a voi ricchi”

Gesù e il problema sociale della ricchezza

 

 

1. La situazione sociale al tempo di Gesù

Qual era la situazione sociale della Palestina al tempo di Gesù?

Dalle testimonianze bibliche ed extrabibliche si deduce che, al tempo di Gesù, la condizione delle grandi masse popolari era di povertà e spesso di miseria.

La grande maggioranza del popolo palestinese era formata da gente di condizione modesta e, spesso, povera: proprietari di piccoli appezzamenti di terreno che coltivavano in proprio, piccoli commercianti, artigiani, pescatori, salariati e lavoratori a giornata, pastori. Costoro erano “poveri” sotto il profilo sia sociale sia economico: non solo, infatti, avevano pochi beni materiali, ma, a causa della scarsa conoscenza che avevano della Torah e della poca osservanza di tutte le sue prescrizioni, erano disprezzati dai dottori e conoscitori della Legge (gli scribi) e dagli “osservanti” (i farisei). Questi li chiamavano con frase dispregiativa “il popolo della terra”.

Questo “popolo della terra” era sottoposto a pesanti tasse da parte degli “esattori” delle imposte dirette, i quali ne subappaltavano la riscossione ai “pubblicani”. Costoro, approfittando del fatto che il pubblico ignorava le tariffe doganali, si abbandonavano a ogni sorta di soprusi, riscuotendo dalla gente assai oltre il dovuto. Per tale motivo erano considerati imbroglioni e pubblici peccatori, ed erano odiati profondamente dal popolo, che essi sfruttavano senza ritegno; l'odio e il disprezzo per i pubblicani erano accresciuti dal fatto che essi, oltre che imbroglioni, venivano considerati traditori della patria, perché riscuotevano le tasse per conto degli occupanti romani.

In conclusione, al tempo di Gesù, la situazione della Palestina era, sotto il profilo politico, quella di un Paese occupato militarmente da una potenza straniera, la quale lo sfruttava economicamente nell'unica maniera possibile, cioè con l'imposizione di gravosi tributi; e, sotto il profilo sociale ed economico, quella di un Paese che oggi chiameremmo sottosviluppato, con un'economia di semplice sussistenza, in cui a una piccola aristocrazia del denaro, del potere e della cultura, formata dalle grandi famiglie sacerdotali, dai sadducei, dagli scribi e dai farisei, si opponeva, senza tuttavia formare una “classe” omogenea, la grande massa del “popolo della terra”, disprezzato dagli aristocratici e taglieggiato dai pubblicani. La vita del popolo palestinese era, perciò, abbastanza misera. In peggiori condizioni si trovavano quelli che, non possedendo in proprio, erano costretti a lavorare alle dipendenze altrui, come i salariati e i lavoratori a giornata, che lavoravano nelle grandi proprietà terriere con salari molto modesti, i pastori, che pascolavano greggi altrui, e infine gli schiavi.

 

2. Gesù e la rivoluzione sociale

La situazione della Palestina al tempo di Gesù era esplosiva non solo - come si è visto - sotto l'aspetto politico, ma anche sotto il profilo sociale. Infatti la lotta che gli zeloti conducevano contro i romani non intendeva solo la liberazione politica del Paese dal giogo straniero, ma anche la sua liberazione sociale ed economica: comportava, cioè, non solo l'indipendenza del Paese, ma anche l'abolizione del pagamento delle imposte, la distribuzione della grande proprietà fondiaria e la liberazione degli schiavi.

 

In questa situazione quale atteggiamento assume Gesù?

 

Da una parte, Gesù, di fronte ai problemi sociali del lavoro e della proprietà, assume un atteggiamento di distacco: si tratta di realtà di questo mondo che passa e perciò sono di poco conto quando vengono poste a confronto con la realtà vera e suprema, che è il regno di Dio; dall'altra, egli stigmatizza con forza l'ingiustizia sociale di questo mondo.

 

Così, per quanto riguarda il problema del lavoro, Gesù, lavoratore egli stesso, mostra stima e amore per quelli che lavorano, specialmente per quelli che fanno i lavori più umili: agricoltori, pescatori, vignaioli, casalinghe, tanto che ne fa i protagonisti delle sue parabole; ma non oppone questi lavoratori a coloro che esercitano professioni, diremmo noi oggi, liberali. E lontano da Gesù ogni giudizio di valore sul lavoro manuale e sulle altre professioni: non ne fa un problema né economico, né sociale e neppure religioso. Il lavoro per lui è una realtà di questo mondo. Il suo messaggio escatologico non lo porta a deprezzarlo, ma neppure a esaltarlo. Vuole soltanto che i suoi discepoli, i quali hanno avuto da lui la missione di predicatori del Vangelo e di “pescatori di uomini”, lascino ogni altro lavoro per potersi dedicare interamente alla predicazione. come, del resto, ha fatto egli stesso, abbandonando il suo lavoro di “carpentiere” .

 

Circa il problema della proprietà privata e della divisione tra ricchi e poveri, Gesù, da una parte, mantiene una sorta di distacco, come se questi problemi non lo interessassero. Non solo constata che nel mondo ci sono ricchi e poveri, ma sembra accettarlo come un dato di fatto purtroppo ineliminabile: “I poveri li avrete sempre con voi”, egli dichiara (Mc 14,7). Personalmente, poi, egli non si sente chiamato a risolvere problemi di ordine economico.

Sente, infatti, che la sua missione è di un altro ordine. Non deve occuparsi delle cose di questo mondo né proporsi il miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli uomini del suo tempo, ma deve occuparsi soltanto della predicazione del regno di Dio.

 

D'altra parte, però, Gesù condanna con vigore l'ingiustizia sociale. Che ci siano ricchi i quali possono banchettare “tutti i giorni lautamente” (come il ricco epulone che “vestiva di porpora e di bisso”) e ci siano, invece, poveri che non possono mangiare ogni giorno a sufficienza come il “mendicante Lazzaro” che “giaceva alla porta” del ricco, “coperto di piaghe” e impossibilitato a “sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco”. Dio interviene a correggere l'attuale ingiusta situazione, del mondo, ribaltando la condizione dei ricchi e dei poveri. È importante, però, osservare che, se Gesù condanna l'ingiustizia sociale di questo mondo, non invita tuttavia gli uomini a rovesciare l'attuale ordine ingiusto: questo sarà compito di Dio, quando stabilirà il suo regno escatologico e porrà fine alle attuali ingiustizie. Perciò Gesù, pur riconoscendo che l'ordine attuale del mondo è radicalmente e profondamente ingiusto, non predica una rivoluzione sociale.

Gesù, dunque, non si fa promotore di una riforma delle istituzioni per una migliore ripartizione della ricchezza. Significa questo che egli accetti, sia pure a malincuore, l'ordine attuale ingiusto e lasci che i ricchi si godano le loro ricchezze e i poveri soffrano senza speranza? No, certamente. Se Gesù non formula un programma rivoluzionario di riforma delle istituzioni sociali, perché sarà Dio a giudicarle e a sovvertirle con l'instaurazione del suo regno, chiama i ricchi a convertirsi a Dio e a condividere con i poveri le loro ricchezze e annuncia ai poveri che Dio sta per porre fine alle loro angustie. In altre parole, Gesù non si presenta come un riformatore delle istituzioni sociali, ma come un riformatore delle coscienze individuali.

 

Ecco ciò che distingue la rivoluzione di Gesù dalle altre rivoluzioni sociali: queste mirano alla riforma delle istituzioni, Gesù mira alla riforma interiore, alla conversione del cuore. Le rivoluzioni sociali si basano sulla forza e sulla violenza, in quanto oppongono forza a forza e violenza a violenza, la rivoluzione di Gesù si basa sulla legge dell'amore. Le rivoluzioni sociali danno la priorità alla riforma delle istituzioni, garantendo che, una volta mutate in meglio le istituzioni, anche gli uomini saranno migliori; Gesù dà la priorità alla conversione del cuore, al cambiamento individuale, sapendo che i mali e le ingiustizie sociali sono frutto dell'egoismo, dell'ingiustizia, dell'avidità, della volontà di dominio e di potenza degli esseri umani. Il suo messaggio tende a migliorare l'individuo e per tale strada a riformare i rapporti sociali: per Gesù, chi non è convertito a Dio, chi è schiavo del denaro, non può amare il prossimo, non può avere con lui rapporti che siano di giustizia e di carità.

Per tale motivo, la predicazione di Gesù sulla ricchezza non ha di per sé un carattere sociale, ma primariamente un carattere religioso, anche se con riflessi sociali. Egli cioè mira alla conversione dei ricchi a Dio; è chiaro, però, che tale conversione a Dio non può non significare conversione ai poveri. Così, per esempio, la conversione a Dio del pubblicano Zaccheo lo porta a dare metà dei suoi beni ai poveri e a dare il quadruplo a quelli che egli ha frodato nella sua professione di pubblicano. Così, la ricchezza è vista da Gesù essenzialmente in rapporto a Dio e al suo regno: essa può essere un grave impedimento all'entrata nel regno di Dio; bisogna, condividerla coi poveri.

 

3. Gesù e la richezza

Quando Gesù pronuncia la tremenda parola: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione” (Lc 6,24), che cosa vuol dire? È una condanna dei ricchi per il solo fatto di essere ricchi? È una condanna dei ricchi in quanto classe sociale opposta alla classe dei poveri?

Osserviamo che Gesù non ha condannato i ricchi in quanto tali. Se lo avesse fatto, si sarebbe posto in contraddizione con se stesso. Egli infatti ha avuto spesso a che fare con i ricchi: si è lasciato invitare a tavola dal ricco Simone e da “uno dei capi dei farisei”, è stato ospite di famiglie agiate, come quella di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, ha ricevuto l'aiuto di persone facoltose e ha annoverato tra i suoi amici persone ricche, come Nicodemo, Giuseppe di Arimatea e Zaccheo, “capo dei pubblicani”.

 

Chi sono, perciò, i ricchi contro i quali si scaglia Gesù?

Sono quelli che fanno della ricchezza il loro dio, che pongono la loro fiducia nella ricchezza e trovano in essa la loro consolazione; sono quelli che non sanno privarsi delle loro ricchezze per condividerle con i poveri; sono quelli a cui la ricchezza chiude il cuore a Dio e all'attesa del suo regno. Gesù perciò non condanna tutti i ricchi indiscriminatamente, ma soltanto coloro che cedono alle insidie della ricchezza, ai pericoli che la ricchezza porta con sé. Per comprendere in che cosa consistano tali insidie e pericoli, bisogna riflettere sul fatto che per Gesù il bene supremo dell'uomo è la partecipazione al regno di Dio: questo è la perla preziosa per comprare la quale l'essere umano deve vendere tutto. Ora, che cosa, tra l'altro, impedisce all'uomo di rispondere all'appello di Dio, il quale, per mezzo di Cristo, lo invita a partecipare al suo regno? La ricchezza.

Non che essa sia un male in se stessa; ma, a motivo della forza di attrazione che esercita sul cuore dell'uomo, costituisce per lui un pericolo e un'insidia spirituale e può allontanarlo dal regno di Dio. Infatti la ricchezza tende a conquistare talmente tutto l'essere umano da rendergli molto difficile il servizio e l'amore di Dio e quindi l'accettazione del suo dono: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24).

La ricchezza poi fa sì che l'uomo ponga in essa la sua fiducia e attenda tutto da essa, invece di porre la sua fiducia in Dio e attendere da Lui il dono della salvezza. In tal modo viene a mancare nell'uomo la disposizione essenziale per ricevere il dono di Dio, che è di sentirne il bisogno e quindi di attenderlo umilmente. Perciò Gesù afferma che è praticamente impossibile che un ricco entri nel regno di Dio: “E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19,24). Infine la ricchezza ha il triste potere di soffocare la parola di Dio e d'impedirle di fruttificare nel cuore dell'uomo: “Sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto” (Mc 4,19).

 

Come appare chiaro da queste parole di Gesù, egli è contro la ricchezza non per motivi sociali, ma per un motivo religioso: la ricchezza costituisce un impedimento per l'uomo ad accedere al regno di Dio. Essa è un laccio, un “inganno” al quale l'uomo non può sfuggire senza l'aiuto di Dio; è un padrone spietato di cui l'uomo diviene schiavo, fino al punto di odiare e disprezzare Dio. Chi perciò cerca di accumulare ricchezze è un insensato, uno “stolto” che non si rende conto della vanità della ricchezza e della sua incapacità di conservargli la vita.

 

Che cosa deve fare, allora, il ricco per entrare nel regno di Dio?

Deve, dice Gesù, rinunciare a quello che possiede e darlo ai poveri in elemosina: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina” (Lc 12,33). Perché dare le proprie ricchezze ai poveri? Per un motivo di giustizia sociale? Questa prospettiva non è assente in Gesù; tuttavia non è preminente: per lui si tratta di farci “amici” che al momento della morte ci accolgano nel regno di Dio. Questi “amici” non possono essere se non i “poveri”, perché essi sono gli amici di Dio e i destinatari naturali del suo regno.

Ma come farsi amici i poveri? Dando loro “la iniqua ricchezza”: “Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la iniqua ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Per Gesù, la ricchezza è “mammona d'ingiustizia”, perché è spesso accumulata con la disonestà e l'ingiustizia e facilmente porta chi la possiede a essere disonesto e ingiusto, e perché allontana gli uomini dal regno di Dio: l'unico uso buono e onesto che se ne può fare è quello di condividerla coi poveri.

 

Non manca però, anche nell'Antico Testamento, una corrente di pensiero che mette in forte risalto sia la malvagità dei ricchi, sia i pericoli della ricchezza. Così i profeti sanno che non ogni ricchezza è dono e segno della benedizione di Dio.

A questa corrente profetica si ricollega Gesù, in maniera però assai originale, nella sua visione della ricchezza. Anche i discepoli di Gesù avranno presenti le invettive degli antichi profeti contro i ricchi.

 

4. La ricchezza ieri e oggi

Quello che il Vangelo condanna non è il possesso della ricchezza in se stesso, ma l'uso che se ne fa. Chi infatti pur possedendo la ricchezza, se ne serve per il bene degli altri, creando lavoro e benessere a beneficio della comunità e particolarmente dei più poveri, non cade sotto la condanna di Gesù; è invece condannato chi non pone la sua ricchezza a servizio degli altri, ma se la gode egoisticamente oppure la reinveste unicamente a scopi egoistici o per sfruttare gli altri, badando esclusivamente al maggiore profitto personale.

Questo significa che l'elemosina oggi non è l'unica maniera di usare bene la ricchezza. Ciò detto, però, tutte le altre parti dell'insegnamento di Gesù sulla ricchezza conservano ancora la loro validità. Così, anche oggi il Vangelo condanna l'avidità della ricchezza, la ricerca affannosa di essa; condanna coloro che nella ricchezza pongono tutta la loro fiducia e tutte le speranze, dimenticando Dio e il suo regno; condanna coloro che si aggrappano con tutte le forze ai beni della Terra, dimenticando la vita eterna; condanna coloro che si servono della ricchezza per opprimere e sfruttare gli altri o per accrescere il loro potere. Anche oggi conserva valore quanto Gesù dice sui pericoli e sulle insidie della ricchezza. Il richiamo alla povertà volontaria, anche in una società consumistica come la nostra, non ha perduto la sua validità.

Così l'insegnamento di Gesù sulla ricchezza, nonostante i radicali cambiamenti avvenuti nella struttura sociale ed economica del nostro tempo, rispetto a quella della Palestina del 1 secolo, resta del tutto valido ancora oggi, non solo nel suo spirito profondo, ma anche nelle sue determinazioni particolari.


9. La morte di Gesù sulla croce

 

 

Il nucleo essenziale del “mistero” di Gesù sta nella sua morte e nella sua risurrezione dalla morte. Si tratta in realtà di un solo mistero in due tempi.

Affrontiamo il mistero della morte di Gesù, come e perché Gesù è morto sulla croce.

 

1. Gli annunci della propria morte da parte di Gesù

La morte di Gesù non è avvenuta per caso o per un insieme di circostanze avverse e sfortunate. Essa è stata prevista e preannunciata da lui stesso. Il Vangelo di Marco afferma che per tre volte Gesù ha annunciato la sua morte per mano delle supreme autorità del popolo ebraico e dei pagani, come un evento voluto da Dio.

La prima volta Gesù annunciò esplicitamente la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione dopo che Pietro, nei dintorni di Cesarea di Filippo, a nord della Galilea, aveva riconosciuto che egli era il Messia:

“E incominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo [Gesù] doveva soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”

(Mc 8,3 1).

 

Gli avversari che lo avrebbero messo a morte erano i membri del Sinedrio di Gerusalemme: gli “anziani” rappresentavano il patriziato privilegiato di Gerusalemme ed erano seguaci della tendenza sacerdotale sadducea; i “sommi sacerdoti”, o capi dei sacerdoti, erano i titolari delle più alte cariche sacerdotali e nel Sinedrio rappresentavano il gruppo nel quale veniva scelto il “sommo sacerdote”, che doveva presiederlo: essi, di tendenza sadducea, erano la forza politica dominante in Gerusalemme. Gli “scribi” erano i dottori della Legge e nel Sinedrio rap­presentavano prevalentemente il partito dei farisei.

Questo primo annuncio di morte, la quale doveva essere preceduta dal “rigetto” da parte dei capi del popolo ebraico, fu accolto male dai discepoli di Gesù, i quali avevano del Messia la concezione comune agli ebrei del loro tempo: il Messia sarebbe stato un personaggio glorioso, che avrebbe liberato il popolo ebraico dal giogo politico dei romani e avrebbe fatto d'lsraele un popolo libero, grande e felice. Perciò - narra Marco - “Pietro lo [Gesù] prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i disce­poli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,37b-33). Pietro non vuole che Gesù soffra e muoia e perciò “rimprovera” Gesù, volendo distoglierlo dalla soffe­renza. Ma Gesù lo richiama all'ordine e lo ammonisce, con le parole “Lungi da me”, a restare al suo posto, nella sequela di colui che esprime il pensiero e la volontà di Dio. Pietro, in realtà, in quel momento è un “satana”, cioè un avversario, un oppositore e un tentatore di Gesù, perché lo vuol distogliere dal cammino che Dio gli ha assegnato. Infatti Pietro non pensa “secondo Dio”, ma “secondo gli uomini”, cioè non sostiene la causa di Dio, ma quella degli uomini, la cui ragione si ribella alla sofferenza del Messia, che invece è voluta da Dio, poiché il Figlio dell'uomo “deve molto soffrire”.

 

Il secondo annuncio della sua morte Gesù lo diede attra­versando la Galilea, quando ormai aveva smesso di dedicarsi all'istruzione del popolo e aveva iniziato il viaggio verso Gerusalemme, dove si sarebbe compiuto il suo destino. Anche in questo caso i discepoli non capiscono e hanno paura di chiedere spiegazioni a Gesù, per timore di essere rimproverati, come era successo a Pietro nei dintorni di Cesarea.

 

Il terzo annunzio della morte Gesù lo diede mentre, con i suoi discepoli e con un gruppo di pellegrini, era in viaggio per “salire” a Gerusalemme: Gesù camminava avanti con risolu­tezza, quasi per affrettare il passo verso il compimento del suo destino di morte, tanto che i suoi discepoli ne erano sbigottiti e gli altri pellegrini erano pieni di timore. A un certo punto egli prese in disparte i Dodici e cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto:

“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà” (Mc 10,33).

 

Questo terzo annunzio della morte di Gesù rispetto ai due precedenti è molto più preciso: si parla del luogo della morte, Gerusalemme; della “consegna” di Gesù ai capi dei sacerdoti, della sequenza: condanna a morte-conse­gna a Pilato-derisione di Gesù-flagellazione-uccisione-risurrezione.

 

Gesù dunque ha previsto e preannunziato la sua morte in maniera assai chiara. Indubbiamente, egli poteva pensare che la sua predicazione e il suo comportamento nei confronti della legge ebraica, in particolare dell'osservanza del sabato e delle prescrizioni rituali circa gli alimenti, costituissero un pericolo per la sua vita. Così non doveva ignorare che, dopo che ebbe guarito nella sinagoga di Cafarnao, in giorno di sabato, un uo­mo che aveva la mano inaridita, “i farisei uscirono subito con gli erodiani [dalla sinagoga] e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (Mc 3,6). Tuttavia, ragionando umanamente, non poteva avere la certezza di andare incontro a una morte violenta. Invece Gesù ha avuto tale certezza e l'ha comunicata ai suoi discepoli in maniera sempre più esplicita.

 

2. Gesù non sfugge davanti al conflitto con i suoi nemici

Gesù non ha soltanto preannunziato la sua morte e le soffe­renze che l'avrebbero preceduta, nonché la risurrezione che l'avrebbe seguita, ma, dinanzi alla prospettiva di essa e, dunque, al fallimento della sua missione, non si è tirato indietro. Egli ha proseguito nel suo cammino, pur essendo pienamente consapevole che esso portava alla morte. Così non fugge dinanzi ai pericoli che potrebbero essergli fatali. Infatti attacca frontalmente e instancabilmente il modo in cui i farisei e gli scribi interpretano la legge mosaica, suscitando in essi un odio mortale nei suoi riguardi. Non si cura della grave insidia che potrebbe tendergli Erode Antipa, che aveva già fatto uccidere Giovanni il Battista

 

Una volta giunto nelle vicinanze di Gerusalemme, Gesù compie alcuni gesti provocatori, che lo mettono contro la potente classe dominante della città, composta dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, che decidono la sua morte. Anzitutto egli entra in Gerusalemme come Messia: lo fa in maniera estremamente modesta, a dorso di un asinello, per si­gnificare che egli non è il Messia politico, venuto a restaurare il regno d'Israele. Ma la folla, probabilmente non grande, che lo precede e lo segue entusiasta, proclamando: “Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc 11,10), lo esalta come Messia, e ciò non può non irritare e preoccupare i capi dei sacerdoti sadducei, che temono per le sorti d'Israele e per il loro potere. Infatti, dinanzi a una sollevazione popo­lare provocata da un sedicente Messia, i romani non potreb­bero non intervenire duramente, facendo pesare ancora di più il loro già inflessibile giogo sulla nazione ebraica.

 

D'altra parte, Gesù, con la parabola dei vignaioli omicidi, che uccidono il figlio del padrone inviato a riscuotere i frutti della vigna, non solo smaschera le intenzioni omicide dei suoi avversari nei suoi riguardi, ma annunzia loro che Dio li castigherà e darà ad altri la sua vigna: porta così il conflitto con i capi del popolo ebraico al suo più alto e drammatico li­vello, tanto che questi vorrebbero catturarlo subito, ma non lo fanno solo per paura della folla. In tal modo Gesù sfida i suoi avversari in maniera così dichiarata che questi non pos­sono pensare se non a farlo morire (cfr Mc 12,1-12.).

Ma il punto più alto della sua provocazione è la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme: si tratta infatti di “un'azione simbolica che condanna in modo dimostrativo il vecchio ordine cultuale” perché rivendica il Tempio intero come luogo di preghiera, di adorazione a Dio per tutti i popo­li. In realtà, l’iniziativa di Gesù contro i mercanti, che erano autorizzati dalle autorità giudaiche, e certo ancor più la sua implicita minaccia contro il Tempio, rendono comprensibile la reazione dei sacerdoti e degli scribi. Essi cercano di renderlo innocuo, perché temono lui e le più vaste azioni dei suoi soste­nitori che possono venir provocate dal suo gesto”.

 

3. Gesù procede nel suo cammino che lo condurrà alla morte

Gesù dunque sa che questo suo comportamento lo condu­ce alla morte, e tuttavia va avanti con estrema decisione. Per­ché?

A prima vista parrebbe che egli abbia il gusto della sfi­da, della lotta, al punto che quanto più questa rischia di dive­nire mortale per lui, tanto più egli si sente attirato a combattere per la purezza della religione ebraica. Si spiegherebbe così perché non lo facciano desistere dalla sua lotta né la cre­scente avversione degli scribi e dei farisei, che lo tallonano continuamente, pronti a coglierlo in fallo per poterlo accusa­re, né la diminuzione del favore e dell'entusiasmo delle folle, che a poco a poco lo abbandonano perché egli non intende essere il Messia politico che esse desiderano, né l'abbandono di alcuni suoi discepoli, né i gravi sospetti che si accumulano su di lui negli ambienti sacerdotali di Gerusalemme. Questi, infatti, vedono in lui un pericolo per la religione ebraica, di cui egli combatte le principali istituzioni - la Legge, il Tem­pio e il Sabato - e soprattutto un pericolo per l'esistenza stessa d'Israele, poiché i romani, dinanzi a un movimento rivoluzionario come quello di Gesù, interverrebbero pesantemente, privando la nazione ebraica di quel poco di libertà e autonomia di cui gode ancora, almeno in campo religioso.

E tuttavia non c'è in Gesù il gusto della lotta e tanto meno quello della sfida. Egli non è contro nessuno: né contro gli scribi, i farisei e i capi dei sacerdoti, né contro la Legge e il Tempio, né contro gli occupanti romani, ai quali riconosce perfino il diritto di riscuotere il tributo (Mc 12,17). La sua missione è predicare la venuta del regno di Dio e la conver­sione d'Israele; portare a compimento la Legge ebraica; ma­nifestare l'amore di Dio verso i peccatori, i poveri e i piccoli e predicare la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza me­diante la fede nel suo Inviato - Gesù - e mediante la prati­ca di una religione più interiore, e dunque non formalistica e preoccupata delle pratiche esteriori, ma attenta a vivere l'amore di Dio “sopra ogni cosa” e del prossimo “come se stesso”. Se talvolta usa parole dure e sferzanti, lo fa con soffe­renza interiore e solo quando incontra la malafede, l'ipocri­sia, la cecità volontaria, il rifiuto preconcetto della sua paro­la, l'accusa che egli non è l'inviato di Dio, ma un invasato di Satana. Perciò la dura lotta con i suoi av­versari non è voluta da lui, ma gli è imposta dalla malvagità umana. Gesù è vittima dell'odio degli uomini e la sua morte non è che l'atto finale di una congiura delle forze del male.

Questa tragica situazione, in cui è posto dai suoi nemici, Gesù non solo non la rifiuta e non la sfugge, ma l'accetta: non però passivamente, ma assumendola attivamente con coraggio e senza esitazione. Perché? Il motivo profondo di questo comportamento, che può apparire strano, è la convinzione che nel­la sua vita e nella sua morte si attui un disegno di Dio: che cioè, attraverso le orribili vicende di cui sono protagonisti re­sponsabili e attori colpevoli gli uomini - i quali, nella loro libertà e sotto l'impulso delle loro passioni, lo calunniano, lo odiano, gli tendono insidie mortali e infine lo uccidono -, si compia la volontà di Dio su di lui. Non che Dio voglia il male che i suoi nemici commettono a suo danno, poiché gli uomini non sono marionette nelle sue mani, ma conservano la loro li­bertà e sono dunque responsabili del male che compiono. Egli però si serve anche del male commesso liberamente dagli uo­mini per realizzare la loro salvezza, poiché nel misterioso pia­no di Dio il sangue del giusto innocente, sparso colpevolmen­te dai suoi nemici, è versato per salvarli. E Gesù è precisamen­te il Giusto innocente che, soffrendo e morendo per mano de­gli empi, è l'artefice della loro salvezza.

Gesù legge questo suo destino di sofferenza e di morte nel­la Sacra Scrittura, che esprime la volontà e il disegno di Dio. Dice infatti dopo la sua risurrezione ai suoi discepoli riuniti nel Cenacolo:

“Sono queste parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e dis­se: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dal morti il terzo giorno"” (Lc 24,44-46).

 

In particolare Gesù legge il suo destino nella figura del “Servo di Jahvè”, sul quale Dio “fece ricadere l'iniquità di noi tutti” e che “per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte” (Is 53,6-8).

Così, Gesù non solo assunse attivamente il proprio desti­no, ma diede alla sua morte il senso di “espiazione” e di “riscatto” per i peccati. “Il Figlio dell'uomo - egli disse una volta ai suoi discepoli che si disputavano i pri­mi posti nel suo futuro regno messianico, deludendoli amara­mente - non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

 

Ma fu soprattutto alla vigilia della sua morte, nella cena di addio, che Gesù diede un signi­ficato salvifico alla sua morte imminente, parlando del suo sangue come del “sangue dell'alleanza, versato per molti(Mc 14,24).

 

4. I racconti della passione

Il dramma della morte di Gesù si è svolto in un arco di tempo assai breve. Il resoconto che ne abbiamo - tutti e quattro i Vangeli parlano lungamente della passione e della morte di Gesù - è molto circostanziato, con un'insolita ab­bondanza di particolari sui luoghi e sulle date.

Quanto alla storicità dei racconti evangelici riguardanti la passione e la morte di Gesù, si deve certo riconoscere che sono influenzati dal desiderio di dimo­strare l'avverarsi delle profezie dell'Antico Testamento, ma non si può affermare che tale desiderio abbia determinato la narrazione dei fatti. Se gli evangelisti avessero voluto fare opera apologetica, di difesa della fede nel Cristo risorto, non avrebbero riportato il grido di Gesù sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34), né avrebbero narrato che, la notte precedente la sua morte, nel­l'Orto degli Ulivi, aveva sentito “paura e angoscia” (Mc 14,33) e aveva pregato il Padre che, se fosse possibile, allontanasse da lui il “calice” della sofferenza e della morte: due fatti “scandalosi” per chi credeva che Gesù era il Figlio di Dio.

D'altra parte, se avessero voluto fare opera di edificazione, avrebbero abbondato in racconti edificanti oppure nella de­scrizione delle sofferenze di Gesù, facendone risaltare il coraggio nel sopportarle. Invece gli evangelisti narrano fatti che compromettono il buon nome dei discepoli di Gesù, che al tempo della composizione dei Vangeli erano venerati dalla Chiesa. Così parlano del tradimento di Giuda, del triplice rinnegamento di Pietro, della fuga vergognosa dei discepoli, i quali, nonostante le promesse di seguirlo fino a morire con lui, lo abbandonano al suo destino. Per quanto riguarda le sofferenze di Gesù, essi sono di una sobrietà estrema, limitandosi a dire che Pilato fece “flagellare Gesù” (Mc 15,15) e che i soldati “lo crocifissero” (Mc 15,24). Quando si pensa alle sofferenze spaventose che comportavano la flagellazione e la crocifissione, non si può non riconoscere che gli evangeli­sti, con la loro concisione e la loro fred­dezza, non hanno voluto edificare e commuovere il lettore, ma solo narrare, nella loro nuda crudezza, fatti storici.

 

Si deve ammettere che c'è, nei racconti della passione di Gesù, la tendenza a sottolineare con forza la responsabilità degli ebrei nella morte di Gesù e a sminuire il più possibile quella dei romani. Di tale tendenza si deve tener conto nella ricostruzione delle vicende della passione. Ciò non significa tuttavia che bisogna ritenere non storici i fatti che mostrano la responsabilità degli ebrei (non di tutti gli ebrei del tempo di Gesù evidentemente, e tanto meno degli ebrei di oggi, ma dei capi del popolo ebraico che parteciparono alla condanna di Gesù e lo consegnarono a Pilato, e della folla di Gerusa­lemme che ne chiese la crocifissione); significa soltanto che certi fatti e certe parole, troppo sfavorevoli agli ebrei, vanno letti in maniera più benevola. In realtà la responsabilità della morte di Gesù fu tanto degli ebrei quanto dei romani: infatti il sinedrio ebraico giudicò Gesù, lo condannò ingiustamente a morte come bestemmiatore e lo consegnò a Pilato come ri­belle all'autorità romana. Pilato, pur rendendosi conto del­l'innocenza di Gesù, sotto la pressione della folla che ne chiedeva la crocifissione e per paura di essere accusato presso l'imperatore di aver lasciato in vita un ribelle all'autorità ro­mana, dopo aver fatto flagellare Gesù allo scopo di ammansi­re la folla, lo consegnò ai suoi soldati perché lo crocifiggesse­ro come “re dei giudei”, quindi come un ribelle a Roma, fa­cendo scrivere sulla sua croce: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”.

 

5. Le tappe della passione

La passione di Gesù inizia nell'Orto degli Ulivi, dove Gesù - dopo la cena di addio, nella quale, per dare un esempio di carità e di servizio fraterno, ha lavato i piedi ai suoi discepoli e ha comandato loro di celebrare in sua memoria il rito della Cena - si è recato, come faceva abitualmente, per pregare, men­tre i suoi discepoli riposavano. Qui infatti egli è preso da un'an­goscia mortale, di fronte alla prospettiva della morte, tanto da pregare il Padre di evitargliela. Ma, facendo uno sforzo supremo di adesione alla volontà del Padre, dice: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Intanto giunge, guidato da Giuda, il tradi­tore che si era accordato con i sommi sacerdoti per consegnare loro Gesù quando non ci fosse pericolo di una sollevazione del­la folla, un distaccamento mandato dal Sinedrio: al segnale con­venuto - Giuda avrebbe baciato Gesù - le guardie lo arresta­no. Pietro allora, per difendere Gesù, con una spada recide l'orecchio destro a un certo Malco, servo del sommo sacerdote Caifa. Gesù si lamenta che siano venuti a prenderlo di notte co­me un brigante, ma non oppone resistenza.

Dopo l'arresto, Gesù viene portato davanti ad Anna, che aveva esercitato l'ufficio di sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C., e che perciò non è più sommo sacerdote in carica, ma tut­tavia gode di un enorme prestigio nella casta sacerdotale.

Sommo sacerdote in quel momento è suo genero, Giuseppe Caifa (di cui è stata recentemente trovata la tomba), e a lui compete presiedere il Sinedrio al quale spetta giudicare Gesù. Perciò l'interrogatorio a cui Anna sottopone Gesù, chieden­dogli conto del suo insegnamento e dei suoi discepoli, non ha carattere ufficiale. Probabilmente Anna vuol raccogliere qualche confessione da parte di Gesù che possa servire nel processo che dovrà tra breve svolgersi dinanzi al Sinedrio, che si sta radunando. Ma Gesù lo delude, affermando il carat­tere pubblico della sua attività: egli non ha nulla di segreto e di nascosto da rivelare, perché ha parlato sempre in pubblico. Questa serena dignità di Gesù nel rispondere sembra irrive­rente e ingiuriosa a una guardia, che lo schiaffeggia.

Dopo l'inutile interrogatorio, Anna invia Gesù da Caifa, presso il quale si è riunito il Sinedrio, composto da “tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi” (Mc 14,53).

Si inizia il processo con la chiamata dei testimoni a carico, che fungono da accusatori, perché la giurisprudenza ebraica non conosce un pubblico accusatore. Ma i testimoni si rivelano inutili, perché le loro testimonianze non sono concor­di, a parte due che accusano Gesù di aver parlato di voler di­struggere il Tempio: accusa che è certamente grave, perché ha un suono messianico, ma non tale da meritare la condanna a morte che si ha intenzione d'infliggere a Gesù. Così Caifa si assume l'incarico d'interrogare l'imputato, per chiedergli se ri­conosce la fondatezza delle accuse perché in tal caso la discor­danza tra di esse sarebbe neutralizzata e si potrebbe procedere contro di lui. Ma Gesù non risponde e in tal modo toglie al Si­nedrio la possibilità di ricavare qualche cosa dalla deposizione dei testimoni. A questo punto Caifa chiede a Gesù, per metterlo alle strette, se egli si ritiene il Messia. “Io lo sono!”, rispon­de Gesù (Mc 14,62). Questa sua affermazione è interpretata co­me bestemmia, ed egli è dichiarato reo di morte, perché la legge mosaica prevedeva per la bestemmia la morte mediante la­pidazione (Lv 24,16). La sentenza diventava immediatamente esecutiva, ma il Sinedrio non aveva più lo ius gladii (cioè il di­ritto di far eseguire una sentenza di morte): questo appartene­va solo al procuratore romano. Così il Sinedrio decide di rimettere Gesù a Pilato con un atto di accusa. La seduta ha ter­mine al sorgere del sole.

 

Mentre avviene l'interrogatorio di Gesù presso Anna e presso il Sinedrio, Pietro, che si trova nel cortile del palazzo dov'è riunito il Sinedrio a scaldarsi con i servitori, per tre vol­te nega di conoscerlo e solo quando un gallo canta per la seconda volta si ricorda che Gesù gli ha predetto il suo rinnega­mento, si rende conto di quanto ha fatto e, piangendo amara­mente, esce dal palazzo. Al mattino Gesù viene consegnato a Pilato con l'accusa - non religiosa, ma politica - di essere un sobillatore del popolo contro i romani, d'impedire di paga­re il tributo all'imperatore e di essere il Messia re. Pilato chie­de a Gesù se egli è il “re dei Giudei”. Risponde Gesù: “Tu lo dici”, una maniera per affermare che egli è il Messia re, ma an­che per negare di esserlo come lo intendono i suoi avversari, cioè in senso politico. Come spiegherà più tardi a Pilato, nel colloquio faccia a faccia col procuratore, egli è re, ma il suo re­gno non è di questo mondo e la sua regalità riguarda la verità che è venuto a testimoniare nel mondo. Così Pilato si rende conto che Gesù non è il pericoloso ribelle e pretendente al tro­no che i capi del Sinedrio vogliono fargli credere. Per lui Gesù è un sognatore innocuo e degno di compassione, ma non col­pevole di alto tradimento. Perciò dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa”.

Convinto dell'innocenza di Gesù, Pilato avrebbe dovuto ri­lasciarlo; ma non lo fa e a questo punto inizia la sua responsabilità. Vuole liberare Gesù, ma per vie traverse, le quali l'una dopo l'altra si rivelano impraticabili, finché, sia pure di mala­voglia, è costretto dalla sua stessa indecisione a condannarlo a morte. Infatti, prima invia Gesù da Erode, sperando che que­sti avochi a sé il processo; ma Erode, che non si è mai interes­sato sul serio di Gesù sotto il profilo politico-religioso, ma so­lo dei fatti meravigliosi che a lui vengono attribuiti - e ora spera di vederne qualcuno -, deluso da Gesù, il quale neppure risponde alla sua frivola richiesta, glielo rimanda indietro, vestito per spregio da re da burla, mostrando in tal modo che lo ritiene più ridicolo ch pericoloso. Fallito il tentativo di far risolvere a Erode quel caso spinoso, Pilato tenta un'altra stra­da: far chiedere alla folla che assiste al processo la liberazione di Gesù. Ma la folla, istigata dai sommi sacerdoti, chiede che venga liberato Barabba e crocifisso Gesù.

Infine Pilato tenta di salvare Gesù dalla crocifissione fa­cendolo flagellare, nella certezza che la folla, ormai inferoci­ta, si accontenti di questa terribile pena. All'orribile flagella­zione, i soldati aggiungono di loro lo scherno di gettargli ad­dosso un mantello regale e di mettergli sul capo una corona di spine e nelle mani, come scettro, una canna. In questa caricatura, Pilato presenta Gesù alla folla - “Ecco l'uomo” (Gv 19,5) -, aspettandosi che essa rida sulla pretesa regale di Gesù e, vedendolo ridotto a uno straccio - la flagellazione romana era il più delle volte mortale oppure lasciava segni gravissimi se si riusciva a so­pravvivere -, non ne pretenda l'ulteriore crocifissione. Ma la folla, ancora più eccitata a quella vista, riprende a gri­dare: “Crocifiggilo, crocifiggilo!” (Gv 19,6). Pilato, irritato per questo terzo insuccesso, replica agli ebrei che egli ritiene Gesù innocente e che, se vogliono, siano essi a crocifiggerlo (ciò che non possono fare), intendendo in tal modo ribadire il suo rifiuto. Ma cede quando gli viene fatto notate che Gesù deve morire perché, proclamandosi figlio di Dio, ha violato la legge ebraica e, facendosi re, si è posto contro l'autorità di Cesare: se dunque Pilato non lo condanna a morte, “non è amico di Cesare” e, come tale, può essere denunciato a Roma. Dinanzi a tale prospettiva, Pilato condanna a morte Gesù e lo consegna ai soldati perché sia crocifisso.

La crocifissione avviene poco fuori di Gerusalemme, su una piccola altura detta Golgota o luogo del Cranio: qui Gesù che, aiutato da Simone di Cirene, ha portato sulle sue spalle il patibu­lum, cioè il palo trasversale, vi è inchiodato sopra con le mani e poi innalzato sul palo verticale al quale vengono inchiodati i piedi. Egli è crocifisso tra due delinquenti comuni verso le 12 e la sua agonia dura circa tre ore. Muore verso le tre del pomerig­gio, dopo aver perdonato i suoi nemici, dopo aver espresso la sua angoscia con le parole del Salmo 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e dopo aver ribadito la sua fiducia in Dio: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Il centurione romano che assiste alla scena esclama: “Veramente quest'uomo era giusto” (Lc 23,47).

 

6. La morte di Gesù

La morte di Gesù sulla croce è sconcertante.

Lo è, anzitutto, per il fatto che Gesù è condannato e muore come innocente, vitti­ma dell'odio e della malvagità dei suoi nemici giudei e della debolezza colpevole del procuratore romano. Non è certo la prima volta che un innocente è messo a morte. Ma quella di Gesù è l'innocenza di un uomo che ha predicato l'amore pa­terno di Dio per gli uomini, ha detto che gli esseri umani so no fratelli e devono amarsi, servirsi e perdonarsi a vicenda; è l'innocenza di un uomo che nella sua vita ha compiuto opere meravigliose a beneficio dei malati e dei sofferenti nel corpo e nello spirito, ha liberato persone schiave del peccato e del male, ha avuto una particolare predilezione per i poveri, i piccoli e gli esclusi dalla società umana; è l'innocenza di un uomo che non ha fatto mai alcun male a nessuno e, se ha combattuto l'ipocrisia, la malafede, gli abusi religiosi, lo ha fatto per amore, per la salvezza di coloro che erano irretiti dal male e non ne avevano coscienza. Quello che, perciò, scon­certa nella morte di Gesù non è il fatto che sia condannato un innocente, ma che quell'innocente sia Gesù di Nazaret, la figura più alta e più pura che l'umanità abbia prodotto. Perché tanto e così feroce accanimento contro di lui, come se si trattasse di un pericoloso e crudele assassino?

La morte di Gesù sulla croce sconcerta poi per la nobiltà e la dignità del suo comportamento durante la sua passione; per la pazienza e la dolcezza con cui sopporta le pene più atroci, quali la flagellazione e le tre ore di agonia sulla croce, gli insulti e gli scherni dei suoi nemici, la derisione di Erode e dei soldati romani, il grido terribile della folla che ne chiede la crocifissione; per il silenzio che oppone alle accuse, alle calunnie e alle grida che si levano contro di lui; e, infine, per il perdono che egli, dall'alto della croce, dà ai suoi nemici, cercando anche di scusarli, “perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Ne è sconcertato perfino il centurione romano, che pure è abituato a vedere uomini crocifissi, al punto da fargli dichiarare che Gesù è un “uomo giusto”.

Chi dunque legge il racconto della passione e della morte di Gesù non può non chiedersi chi sia questo Gesù che soffre pur essendo innocente e santo - un martirio così atroce e così umiliante, poiché la morte sulla croce era riservata agli schiavi e ai briganti. Tanto più che Gesù ha predetto la sua morte, l'ha accettata e l'ha assunta come compimento della sua missione, cioè come voluta da Dio per la salvezza dei peccatori. Bisogna chiedersi, infatti, come Gesù ha potuto dare il significato di espiazione per i peccati degli altri alla sua morte sulla croce. In altre parole, quale mistero si cela dietro la morte di Gesù?

Forse con la sua morte così atroce, Gesù è l'Innocente che prende su di sé ed espia i peccati del mondo, per liberare gli uomini dal destino di morte a cui il peccato conduce?


10. Il senso della morte di Gesù

 

1. Interrogativi dinanzi alla croce

Chi legge nel Vangeli il racconto della passione e della morte di Gesù sulla croce non può non chiedersi quale senso abbia una tale morte. Infatti, nella vicenda storica di Gesù di Nazaret, la sua passione e la sua morte presentano aspetti strani e sconcertanti. Anzitutto, la morte non giunge per Gesù inaspettata e improvvisa. Essa non è l'interruzione traumatica della sua attività di predicatore, un tragico incidente di percorso, anche se accettato con coraggio, ma è il punto verso cui tende tutta la sua vita. Non soltanto egli prevede di poter andare incontro a una morte violenta per mano dei suoi avversari, a causa del progressivo abbandono delle folle, deluse nelle loro aspettative messianiche, e dell'odio crescente dei capi spirituali e relìgiosi del popolo, sempre più consapevoli del pericolo che Gesù rappresenta per la sopravvivenza della religione e della nazione ebraica; ma egli sa, e lo afferma varie volte, di andare a Gerusalemme per essere «consegnato nelle mani degli uomini», che lo faranno soffrire e lo metteranno a morte. Anzi, non solo Gesù è consapevole che sarà così, ma aggiunge che «è necessario» che egli sia messo a morte. Perché questa «necessità» di essere «consegnato» nelle mani degli uomini?

Gesù va, dunque, incontro alla morte consapevolmente; ma quando questa è ormai imminente, egli ha paura e, in preda a un'angoscia mortale, supplica il Padre che allontani da lui il calice della morte. Perché questa paura e quest'angoscia?

Dopo aver superato la lotta interiore e aver detto il suo «si» al Padre, Gesù si lascia arrestare, giudicare, condannare e crocifiggere, senza opporre resistenza; risponde a coloro che lo interrogano, protesta per essere arrestato come un bandito e per lo schiaffo del servo di Anna, ma poi si chiude nel silenzio, non rispondendo né alle accuse del Sinedrio, né a una richiesta di Pilato. Perché questo silenzio?

Contro Gesù si scatena un odio furibondo che, partendo dai capi degli ebrei, investe il popolo che ne chiede la condanna alla crocifissione, la coorte romana che lo deride crudelmente, Erode che lo tratta da pazzo, Pilato che lo fa crocifiggere. Che cosa c'è dietro quest'odio che non si placa neppure con la morte?

Gesù muore condannato ingiustamente. Come ha potuto Dio volere o permettere un'ingiustizia così scandalosa senza intervenire?

Infine, Gesù muore nel fallimento e nella desolazione totale, gridando al Padre il suo abbandono: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Perché questo fallimento e questo abbandono?

 

2. Lo «scandalo» della croce

In realtà, il problema della morte di Gesù si pone per il fatto che egli è il Figlio di Dio fatto uomo che non è soggetto alla morte, è il Messia davidico destinato a regnare sui popoli, è l'Innocente e il Giusto nel quale non c'è peccato, è il Taumaturgo dinanzi al quale neppure la morte resiste. Ora, se si comprende che cos'è la morte e che cosa può giustificarla ‑ il peccato, la colpa, il male ‑ ci si rende subito conto che Gesù, in quanto Figlio di Dio, e perciò padrone e autore della vita, e in quanto Innocente, e perciò senza peccato, non doveva morire. Perché, dunque, è morto, anzi, ha «dovuto morire»?

Non è tutto. Infatti se per qualche motivo ciò fosse dovuto avvenire, la morte di Gesù non sarebbe dovuta essere quella che è stata. La morte è sempre una tragedia. Ma c'è la morte gloriosa ed eroica, come quella di chi muore per una grande causa, compiendo un gesto eroico e sacrificando coraggiosamente la vita; c'è anche la morte serena, affrontata con coraggio, come quella di Socrate. Il grande filosofo ateniese, condannato a bere la cicuta, muore conversando con i suoi discepoli, confortandoli e ricordando loro di sacrificare un gallo a Esculapio per averlo liberato dalla «malattia della vita». Invece la morte di Gesù non ha nulla di glorioso e di eroico, poiché egli muore crocifisso come uno schiavo, tra due ladroni, irriso dagli avversari, abbandonato dai discepoli e, quasi a segnare il fallimento della sua opera, muore nell'angoscia e lanciando «un alto grido». Non è dunque né la morte di un eroe, né quella di un saggio. È una morte misera, come quella di uno schiavo o di un malfattore. Perché, dunque, la «morte» di Gesù? Perché «quella» morte?

Siamo di fronte allo «scandalo della croce». Bisogna sentirlo in tutta la gravità, perché la morte di Gesù sembra mettere sotto accusa la santità e la giustizia di Dio ed è uno scoglio umanamente insuperabile per la fede in Gesù Cristo. Infatti, se Dio è santo e giusto, come ha potuto permettere che Gesù cadesse nelle mani dei suoi nemici e fosse messo a morte, nonostante che egli si fosse rivolto a Lui nella sua angoscia? Se Gesù è il Figlio di Dio, come ha potuto morire, e morire di una morte così obbrobriosa? Come si può ragionevolmente credere in un Dio crocifisso?

 

3. Una morte per amore

 
3.1. L’amore di Dio per gli uomini

È possibile superare lo scandalo che rappresenta per la ragione umana la morte di Gesù a una sola condizione: che si creda che essa è opera d'amore. Soltanto l'amore infatti può dare senso e nobiltà a un fatto così assurdo come la morte, poiché, voluta e accettata per amore, essa diviene dono della vita. Ora, questo è l'insegnamento della fede cristiana: la morte di Gesù è un gesto d'amore. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Questo amore di Dio per gli uomini consiste nel fatto che «è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).

La morte di Cristo fa comprendere, da una parte, la grandezza dell'amore che Dio, per pura misericordia e nonostante la nostra indegnità, ha avuto per l'umanità peccatrice, tanto che san Paolo afferma che, donandoci il suo Figlio, ci ha donato tutto e non potrebbe donarci di più; dall'altra, fa misurare la gravità del peccato, che soltanto alla luce della morte di Cristo si svela come mysterium iniquitatis: infatti è stato necessario che Cristo morisse perché esso fosse abolito e vinto. In realtà c'è nel peccato una sorta d'infinità di male che solo l'infinità dell'amore di Cristo per il Padre ha potuto esaurire e distruggere.

 

3.2. L’amore di Cristo per il Padre

A questo amore del Padre per tutti gli uomini ha risposto l'amore di Gesù. Egli, infatti, ha voluto morire «per noi», «empi» e «peccatori».

Cristo, dunque, è morto per amore. Per amore del Padre, anzitutto. La morte di Gesù è stata voluta dal Padre, nel senso che il Padre ha voluto che il disegno di amore e di salvezza da lui concepito per l'umanità peccatrice si compisse per mezzo della morte del suo Figlio fatto uomo. Per questo «bisognava» che Cristo patisse e morisse. Non si trattava, certo, di una fatalità o di un destino. Era questa la volontà del Padre.

Gesù lo sapeva e, pur sentendo «fino a morirne» la tristezza e l'angoscia della sofferenza e della morte, ha accettato tale volontà: «Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). In tal modo, si è fatto «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Quindi, alla base di quest'accettazione c'è l'amore per il Padre, che gli ha «comandato» di offrire la sua vita per gli uomini.

L'amore per il Padre ha spinto Gesù a dargli l'onore e l'amore che gli uomini gli avevano tolto e negato con i loro peccati. Perciò alla disobbedienza dell'uomo Gesù ha opposto l'obbedienza al Padre, spinta fino ad accettare la morte e la morte di croce; all'orgoglio dell'uomo, che ha preteso di essere come Dio, ha opposto la sua kenosis il suo spogliamento, che ha trovato la sua forma più dolorosa e umiliante nella crocifissione e nella morte.

Certamente sono stati gli uomini che nella loro malvagità hanno inflitto a Gesù una morte così umiliante, togliendogli non solo la vita, ma anche l'onore facendolo apparire come un malfattore, un bestemmiatore e un brigante. Tuttavia, dietro la volontà malvagia degli uomini c'è la volontà di Cristo che - liberamente - va incontro a una simile morte, dandole il significato di un gesto di amore e di obbedienza al Padre.

 

3.3. L’amore di Cristo per gli uomini

In secondo luogo, Gesù è morto per amore degli uomini. Un amore tanto più grande, quanto più indegni di esso erano gli uomini. «A stento ‑ scrive san Paolo ‑ si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma [...] mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7‑8). Così, Cristo è morto per salvare gli uomini: per ottenere ad essi il perdono dei peccati e renderli partecipi della vita divina, figli adottivi di Dio e suoi eredi. La sua è stata «una morte per la salvezza».

È stato Gesù stesso a porre la sua morte in rapporto con la salvezza degli uomini, affermando che «il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Gesù, dunque, «è venuto» nel mondo per morire «in riscatto» per tutti gli uomini. Egli, cioè, ha visto nella sua morte il prezzo da pagare per il «riscatto» dell'umanità.

L'amore per gli uomini ha spinto Gesù a prendere su di sé i loro peccati, a sostituirsi ad essi e quindi a subire nella sua persona le conseguenze che il peccato si trascina dietro. In realtà, il peccato è rovina e morte: c'è in esso un potere di autodistruzione, per cui si castiga da sé dandosi e dando la morte. Così, il peccato che Gesù aveva preso su di sé, per mano dei peccatori a cui era stato «consegnato», gli ha dato la morte.

Gesù ha preso così su di sé i peccati del mondo in tutta la loro gravità e malizia, in tutto il loro terribile peso. Ha dovuto perciò scendere nell'abisso del male, sperimentare nella sua carne e nel suo spirito il tradimento e la paura dei suoi, la violenza omicida dell'odio e della menzogna, l'indurimento del cuore umano che si acceca volontariamente dinanzi alla luce e sprofonda nelle tenebre della negazione e del rifiuto di Dio. Per questo, nell'orto degli ulivi, egli ha sperimentato un'angoscia mortale. Per questo, anche, l'invocazione rivolta al Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» non è un grido di disperazione, perché la fiducia di Gesù nel Padre, nelle cui mani consegna il suo spirito, non è venuta mai meno; ma è il grido di un'angoscia senza limiti, come se, per liberare gli uomini dalla dannazione eterna, Gesù avesse voluto sperimentare qualcosa dell'Inferno, cioè l'abbandono di Dio, che costituisce il tormento più terribile per i dannati.

 

4. Il grande mistero della croce

Ecco, dunque, perché è «morto» Gesù e perché è morto «in quel modo». Siamo di fronte a un grande mistero che si può comprendere in pieno - nella fede - solo alla luce della Risurrezione. Il Venerdì Santo senza la Domenica di Pasqua non avrebbe senso.

Tuttavia la croce di Cristo, più e prima che un mistero da scrutare, è un mistero da adorare. E quanto hanno fatto le generazioni cristiane, in particolare i poveri, i semplici e i piccoli che, pur non conoscendo la teologia, nella croce di Cristo hanno letto l'amore di Dio per gli uomini, la gravità del peccato e la grandezza del perdono. Perciò hanno fatto della croce - strumento di supplizio e di vergogna - il segno del cristiano e, più ancora, il segno della salvezza redentrice che l'amore di Dio ha operato in Cristo per tutti gli uomini.


11. La risurrezione di Gesù

 

1. Il fatto: Gesù «è veramente risorto»

Gesù morì sulla croce verso le tre del pomeriggio del venerdì 14 di Nisan, vigilia della Pasqua dell'anno 30 (7 aprile).

Il cadavere di Gesù avrebbe dovuto essere tolto dalla croce e gettato nella fossa comune. Invece Giuseppe di Arimatea ‑ un personaggio ragguardevole, membro del Sinedrio, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto ‑ si presentò a Pilato e gli chiese di poterlo seppellire. Pilato, dopo essersi informato e aver saputo dal centurione con sua meraviglia che Gesù era già morto, glielo concesse. Insieme con Nicodemo, anch'egli discepolo di Gesù, Giuseppe calò il cadavere dalla croce, lo avvolse in bende, dopo averlo spalmato di oli aromatici, e lo depose in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia, che si trovava in un giardino vicino al luogo della crocifissione. Tutto fu fatto in gran fretta, perché col tramonto iniziava il giorno di Pasqua, nel quale era proibito prendersi cura dei cadaveri. L'entrata del sepolcro venne chiusa con una grossa pietra.

Alcune donne, che avevano seguito Gesù fin sul Calvario senza poter far nulla per lui, tennero bene a mente il luogo del sepolcro, poiché avevano intenzione di tornare il giorno dopo il sabato per rendere al cadavere di Gesù quegli onori che non era stato possibile rendergli al momento della sepoltura, a motivo del poco tempo disponibile. E difatti, il giorno dopo il sabato, di prima mattina tornarono dov'era il sepolcro di Gesù, ma lo trovarono vuoto. Che cosa era avvenuto? La pietra posta all'entrata era stata ribaltata e il cadavere di Gesù era scomparso, ma le bende che lo avvolgevano e il sudario, cioè il panno che gli ricopriva il capo, erano al loro posto. E allora? Alle donne impaurite per l'accaduto, all'interno del sepolcro un misterioso giovane disse: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui» (M 16,6).

 

2. La risurrezione di Gesù, avvenimento storico e verità di Dio

«Gesù Nazareno, il crocifisso, è risorto». Questa piccola frase contiene l'annunzio del fatto più incredibile della storia umana: la risurrezione di Gesù di Nazaret, la sua vittoria sulla morte, in virtù della quale Gesù oggi è «vivente». Fatto incredibile, perché se c'è una cosa di cui siamo assolutamente sicuri è che dalla morte non si ritorna alla vita, salvo un miracolo ‑ evento assolutamente eccezionale ‑ da parte di Dio. E tuttavia, per quanto incredibile, il fatto della risurrezione è affermato a proposito di Gesù: proprio su di esso da 20 secoli poggia il cristianesimo, al punto che, se Cristo non è risorto, tutta la fede cristiana crolla. Dobbiamo allora chiederci: quale fondamento ha il fatto della risurrezione da morte di Gesù dì Nazaret? Ci sono argomenti seri ‑ e quali ‑ per affermare, come fa la fede cristiana, che Gesù è veramente risorto?

 

Innanzi tutto si deve fare una distinzione importante tra la risurrezione come avvenimento storico e la risurrezione come verità di fede. Come avvenimento storico, la risurrezione di Gesù dev'essere dimostrata con i metodi e gli strumenti con i quali si provano gli altri avvenimenti storici e va accettata nella misura della validità delle sue prove. Come verità di fede, la risurrezione di Gesù è creduta in base alla testimonianza dei suoi discepoli, i quali dopo la sua morte lo hanno visto di nuovo vivo, hanno parlato e mangiato con lui: testimonianza esteriore, accompagnata e sostenuta dalla testimonianza interiore di Dio che invita l'uomo a credere in Cristo risorto.

 

3. La fede nella risurrezione

L'unica testimonianza storica che abbiamo della risurrezione di Cristo è quella del Nuovo Testamento (NT): tutti i libri neotestamentari ne parlano, e non come uno dei tanti fatti riguardanti Gesù, ma come del fatto centrale e costitutivo della fede cristiana, come del cuore dell'esperienza cristiana, perciò con entusiasmo e con gioia profonda. Alcuni testi sono più recenti ed elaborati, ma altri sono assai antichi e primitivi. La testimonianza più antica che abbiamo della risurrezione è contenuta nella Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi:

«Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. lo infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (1 Cor 15,1‑11).

 

Paolo riporta una notizia ‑ quella della risurrezione di Gesù ‑ che egli ha appreso in una data che dista pochi anni dalla morte di Gesù, e in cui il suo ricordo è ancora vivissimo.

Ora, che cosa ha «ricevuto» san Paolo dalla comunità cristiana primitiva? Un brevissimo riassunto della fede cristiana in quattro punti:

1.      Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture

2.      Cristo fu sepolto

3.      Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture

4.      Cristo è apparso a Cefa (=Pietro) e quindi ai Dodici.

 

3.1. «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture»

San Paolo aggiunge due affermazioni importanti circa la morte e la passione di Gesù. Egli dice anzitutto che Cristo è morto «per i nostri peccati». Questa è un'affermazione di fede, che sottolinea il valore salvifico della morte di Gesù, in quanto è in forza della morte che Cristo ha sofferto «per noi», cioè in nostro favore, che noi otteniamo il perdono di Dio e la riconciliazione con Lui. Tuttavia quest'affermazione di fede poggia sulla Sacra Scrittura, è «secondo le Scritture», sia in senso stretto, in quanto Gesù ha realizzato la profezia d'Isaia del «Servo di JHWH», sul quale «il Signore fece ricadere [...] l'iniquità di noi tutti», sia in senso più ampio, in quanto tutta la Scrittura, per il suo carattere profetico, annunzia che in Cristo morto e risorto si realizza il disegno di salvezza che Dio ha concepito per tutti gli uomini.

In particolare, l'affermazione «è morto per i nostri peccati» poggia su una parola di Gesù: «Il Figlio dell'uomo [...] è venuto [...] per [...] dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Gesù afferma qui, in modo esplicito, il valore di liberazione dal peccato che ha la sua morte.

 

3.2. Gesù «fu sepolto»

Il secondo punto del primitivo «Credo» cristiano è: Gesù «fu sepolto». Questa espressione indica la definitività della morte di Gesù. La sua non è stata una morte apparente, da cui avrebbe potuto riprendersi. Non solo egli, mentre pendeva già morto dalla croce, ha ricevuto da un soldato un colpo di lancia che gli ha trafitto il cuore, ma è stato calato dalla croce e, dopo che è stato legato con bende e il suo corpo avvolto nel sudario, è stato deposto in un sepolcro: un sepolcro «nuovo», perché il cadavere di un giustiziato altrimenti avrebbe contaminato quelli degli altri defunti.

La sepoltura del cadavere esprime la definitività della morte, nel senso che con essa si perde anche l'ultimo legame – il cadavere ‑ che unisce il defunto al mondo dei viventi. Con la sepoltura l'uomo non c'è più, neppure in quella «cosa» fredda e inanimata che non è più il suo «corpo», ma che tuttavia lo ricorda e lo raffigura: egli è veramente e definitivamente morto. Quest'affermazione di san Paolo ‑ Gesù fu sepolto ‑ è storicamente certa: essa infatti è affermata da tutti e quattro i Vangeli con abbondanza di particolari assai precisi e discordanti solo in qualche punto di scarsa importanza.

 

3.3. «Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture»

Il terzo punto del primissimo «Credo» cristiano: «Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture».

«Risurrezione» significa risveglio dal sonno della morte e ritorno alla vita. Perciò, affermando che Gesù è risorto, si vuol dire che, dopo essere realmente morto, il suo corpo rimasto nel sepolcro è stato rivivificato per l'azione onnipotente di Dio: in forza di tale azione assolutamente unica di Dio, Gesù ha vinto la morte ed è tornato alla vita. Ma di quale vita si tratta? Non della vita precedente alla sua morte, e dunque della vita di prima. Gesù non è risorto come Lazzaro, che egli richiamò alla vita, o come il figlio della vedova di Nain e la figlioletta del capo della sinagoga. Queste persone infatti furono risuscitate, cioè riportate alla vita di prima.

Gesù invece, con la risurrezione, è entrato in una condizione di vita assolutamente unica: egli è entrato nella pienezza della vita divina, e il suo corpo è sì reale, è il corpo di Gesù di Nazaret che ha subito la crocifissione, ma è un «corpo di gloria», un corpo «spirituale», sottratto alle condizioni terrestri di spazio e di tempo, di sofferenza e di morte, cosicché Gesù non può più morire e la morte non ha più potere su di lui.

 

4. La risurrezione di Gesù è un fatto storico?

Qui si pone il problema capitale: la Chiesa primitiva ha affermato ‑ e lo afferma ancora la Chiesa di oggi ‑ che Gesù è risuscitato da morte nel senso ora spiegato. Ma in base a quali elementi ha fatto tale affermazione? In base a un atto di fede oppure in base a fatti storici, a esperienze storicamente documentabili? In altre parole, la risurrezione di Gesù è un fatto storico?

La storicità qui non riguarda il «modo» della risurrezione, che resta assolutamente misterioso e inattingibile, ma il «fatto», l'avvenimento storico in se stesso. Precisiamo ancora che, parlando di «fatto» storico, intendiamo dire che Gesù è risorto obiettivamente, nella realtà, e non solo nella coscienza di coloro che hanno creduto nella sua risurrezione; che qualcosa di obiettivo e di reale è avvenuto nella persona di Gesù, per cui dalla condizione di morto sulla croce e deposto nel sepolcro è passato alla condizione di Vivente e di Signore della storia, «esaltato alla destra del Padre».

Per rispondere alla domanda dobbiamo distinguere tra ciò che è storico e direttamente verificato, e ciò che è storico anche se non direttamente verificato. È storico e direttamente verificato ciò che è collocabile nell'ambito dell'esperienza e della verificabilità umana, ciò che è attingibile e conoscibile in se stesso mediante i metodi propri della ricerca storica. È invece storico, anche se non direttamente verificato, ciò che, pur non attingibile in se stesso direttamente, lo è però solo indirettamente, mediante la riflessione su fatti storicamente accaduti che sono in relazione con esso. Ora, la risurrezione di Gesù è un fatto storico, anche se non direttamente verificato. E ciò per il fatto che essa, anche se è avvenuta in questo mondo, non è un avvenimento di questo mondo, perché Gesù non è tornato alla vita di prima; la sua risurrezione non si è realizzata nelle coordinate di spazio e di tempo proprie di un avvenimento «storico», ma è un avvenimento «escatologico», definitivo, perché è l'entrata di Gesù nella vita eterna e definitiva di Dio. Perciò, non può essere posto semplicemente sullo stesso livello di tutti gli altri avvenimenti storici direttamente verificati, che, appunto perché tali, sono di questo mondo e dunque non «escatologici», definitivi, bensì passeggeri. Ma dire che la risurrezione di Gesù è un fatto storico non direttamente verificato non significa che non sia un fatto «oggettivo» e «reale». Infatti Gesù è realmente risorto, anche se, mediante i metodi propri della ricerca storica, non possiamo attingere il fatto reale della risurrezione direttamente in se stesso: in questo senso, la risurrezione si pone al di sopra delle categorie della storia umana: è «metastorica» e «trans­storica».

Si deve quindi affermare che la risurrezione è un fatto storico, anche se non direttamente verificato. Infatti, riflettendo sui fatti storici del sepolcro trovato vuoto, delle apparizioni di Gesù ai suoi discepoli, del mutamento avvenuto in questi rispetto a ciò che erano stati durante la vita di Gesù e, soprattutto, durante e dopo la sua passione e la sua morte, della nascita e dell'espansione della Chiesa primitiva, noi possiamo avere la certezza morale del fatto storico della risurrezione. Cioè questa ha lasciato nella nostra storia «tracce», «segni», riflettendo sui quali noi possiamo avere la certezza morale, e quindi storica, che Gesù è realmente risorto.

 

5. Le «tracce» della risurrezione

Esaminare i «segni» e le «tracce» della risurrezione significa esaminare i racconti che i Vangeli ci hanno lasciato circa la risurrezione di Gesù.

 

5.1. Il sepolcro vuoto

La prima «traccia» della risurrezione è la scoperta del sepolcro vuoto.

La sua storicità non può essere negata per i seguenti motivi:

1.      stando alla narrazione della sepoltura di Gesù, la sua tomba era conosciuta e corrispondeva all'uso di quel tempo che le donne visitassero la tomba di un defunto: non si può dunque negare che alcune donne siano andate al sepolcro di Gesù che esse conoscevano bene;

2.      la scoperta del sepolcro vuoto da parte delle donne non può essere fatta risalire a una «trovata» apologetica della Chiesa primitiva per avere una testimonianza della risurrezione di Gesù, perché le donne a quel tempo non erano ritenute testimoni attendibili e perciò la loro testimonianza sarebbe stata inutile;

3.      i nemici di Gesù non negarono il fatto che la sua tomba fosse vuota, ma lo giustificarono sostenendo che i suoi discepoli erano venuti di notte e avevano trafugato il cadavere.

 

Il ritrovamento della tomba vuota è dunque un fatto storico ben fondato: non ci sono motivi seri per negarlo. Ma qual è il suo significato? Esso non è una prova storica della risurrezione di Gesù, perché si potrebbe sempre pensare, sia pure a torto, che la scomparsa del cadavere di Gesù fosse dovuta ad altre cause; è tuttavia una «traccia», un «segno» che, pur ambiguo in se stesso, «orienta» verso la risurrezione. Esso dice, infatti, che qualcosa di misterioso è avvenuto a Gesù, il cui cadavere è sparito senza lasciare nessuna traccia se non quella delle bende e del sudario in cui era avvolto. Che cosa è avvenuto? Il sepolcro vuoto non lo dice, ma induce a pensare che Dio abbia risuscitato Gesù dalla morte, riportandolo alla vita non solo nello spirito, ma anche nel corpo; induce anche a pensare che il Risorto sia colui che Pilato ha fatto crocifiggere e che perciò Gesù risorto sia lo stesso Gesù che morì sulla croce: ora che è risorto, egli possiede lo stesso corpo, anche se si tratta di un corpo «spirituale», rivestito della «gloria» di Dio e investito dalla «potenza divinizzatrice» dello Spirito Santo. Così, la tomba vuota ci mette sulla via della risurrezione, è come un «segnale stradale» che indica un cammino.

 

5.2. Le «apparizioni» di Gesù

Ma il «segno» storico più importante, più chiaro e più evidente che la risurrezione di Gesù ha lasciato nella storia è costituito dalle sue «apparizioni». Se infatti nessuno ha visto risorgere Gesù, i suoi discepoli lo hanno visto risorto. In realtà, Gesù è apparso ai suoi discepoli molte volte, in circostanze diverse e in luoghi diversi.

Delle apparizioni di Gesù parla anzitutto san Paolo nel testo sopra citato della Prima Lettera ai Corinzi (cap. 15). Ne parlano i Vangeli, i quali narrano che Gesù si è fatto vedere molte volte dai suoi discepoli. Ci sono molte differenze tra i racconti; ma tutti convengono nel fatto che Gesù si è fatto vedere dai suoi discepoli, ha parlato e perfino mangiato con loro per convincerli della realtà della sua risurrezione. Ecco un racconto estremamente «realista»:

«Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: "Pace a voi". Stupiti e spaventati [i discepoli] credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24,36‑43).

 

Per quanto i racconti delle apparizioni siano diversi, in tutti si possono rilevare due elementi essenziali e costanti.

 

5.3. La «trasformazione» degli Apostoli

Il terzo «segno» che la risurrezione di Gesù ha lasciato nella storia è la radicale trasformazione avvenuta nei suoi discepoli immediatamente dopo la risurrezione. Durante la vita di Gesù essi appaiono meschini e interessati; durante la passione hanno paura di condividere il destino di Gesù e lo abbandonano, fuggendo; Pietro, che lo segue fin nel palazzo di Caifa, per ben tre volte nega di conoscerlo; nessuno di essi è presente sul Calvario, a parte il «discepolo che Gesù amava»; nei giorni che seguono la morte di Gesù, restano chiusi in una casa «per timore dei giudei», tanto che a deporre Gesù dalla croce e a seppellirlo non sono i Dodici, ma Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, due discepoli di Gesù ma non conosciuti come tali. Immediatamente dopo la risurrezione, avviene nei discepoli un inspiegabile mutamento. Anzitutto, contro tutto il loro passato, accettano l'idea, per loro assolutamente inconcepibile e anzi assurda, di un Messia crocifisso; poi accettano l'idea, che per ebrei rigidamente monoteisti era una bestemmia, che Gesù è il «Signore», innalzato alla destra di Dio, e il Giudice dei vivi e dei morti; e ancora, si mettono a predicare Gesù come colui che i giudei hanno crocifisso, ma che Dio ha risuscitato da morte e ha costituto Signore e Salvatore degli uomini, dandogli ogni potere in cielo e in Terra, e lo fanno con estremo coraggio, affrontando i capi del popolo d'Israele, subendo torture e prigionie e avendo l'ardire di uscire dalla Palestina per portare a tutto il mondo il Vangelo di Gesù.

Come si spiega questo mutamento dei discepoli di Gesù, che ha portato alla nascita della Chiesa e alla rapida diffusione del cristianesimo in tutto il mondo allora conosciuto? L'unica spiegazione possibile è che essi hanno fatto l'esperienza sconvolgente e trasformante della risurrezione di Gesù. Quel Gesù che avevano visto crocifisso, lo hanno visto risorto, e questo fatto ha trasformato la loro esistenza e ha dato loro il coraggio di annunziare Cristo risorto al mondo intero e di farsi garanti e «testimoni» della sua risurrezione.


 

Appendice


Gesù di Nazareth

vero uomo e… vero Dio!

 

1. Un interesse vitale

Gesù non è una figura neutra, nel senso che il suo interesse non è solo storico, non si esaurisce cioè nella semplice conoscenza. Indubbiamente la persona di Gesù ha una grande rilevanza storica: è talmente straordinaria, sia in se stessa, sia per il movimento religioso - il cristianesimo - a cui ha dato origine, che chiunque abbia un interesse culturale, anche modesto, a quanto è avvenuto nel passato e avviene oggi attorno a lui, non può ignorarla.

Non è indispensabile essere storici di mestiere e neppure cristiani e religiosi: basta essere desiderosi di conoscere le grandi figure storiche che hanno inciso sul destino dell'umanità. E Gesù di Nazaret  è certamente il personaggio che più di ogni altro ha influito sul corso della storia umana in campo religioso, morale, culturale, sociale e politico.

Tuttavia la figura di Gesù non ha solo un interesse storico e culturale; ha anche - e soprattutto - un interesse “vitale”. Essa fa sorgere cioè una domanda, un interrogativo posto a chiunque le si accosti. Gesù, infatti, da 20 secoli “interpella” gli uomini, li “provoca” a una risposta. Già la sua persona, a motivo di quanto ha detto e compiuto nella sua vicenda terrena e a causa della sua morte e della sua risurrezione, pone per se stessa l'interrogativo: “Chi è Gesù di Nazaret?”.

 

E se da parte di un non credente la persona di Gesù stimola a prendere in seria considerazione la fede cristiana, dal punto di vista del cristiano invece la sua statura morale e la sua santità sono tanto eccezionali da costituire un motivo se non il motivo fondamentale della possibilità e ammissibilità  del suo credere. In altre parole l’eccezionalità della figura di Gesù di Nazaret garantisce ai credenti che la loro fede è ragionevole, non è un «moto cieco dello spirito», un affidarsi a una rivelazione incomprensibile e oscura.

 

2. Che mistero si nasconde?

C'è nella persona di Gesù, nel suo messaggio, nelle opere che egli compie, nel suo tragico destino di morte, in quello che egli ha rappresentato per la storia umana, qualcosa che supera l'umano e fa sospettare la presenza di un mistero.

Indubbiamente Gesù è stato un grande personaggio della storia umana, ma non è stato l'unico: altri personaggi significativi si collocano accanto a lui. Restando nel campo religioso e morale che è il suo, accanto a Gesù si collocano fondatori di religioni come Buddha, Zoroastro, Maometto, e maestri di morale come Confucio, Lao-Tse, Socrate. E tuttavia, a confronto di questi grandi personaggi, Gesù presenta molti caratteri che ne fanno un personaggio a parte, diverso da tutti. In realtà, l'uno o l'altro dei tratti caratteristici di Gesù si trova anche nei personaggi ricordati; ma è l'insieme dei caratteri di Gesù che lo rendono diverso dagli altri e che pongono la domanda circa la sua identità.

 

3. La ricchezza umana

Infatti quello che anzitutto impressiona in Gesù è la sua ricchezza umana.

Egli ha una sensibilità fine e squisita: sente il fascino della bellezza che scopre nelle cose più ordinarie. Così, per lui il giglio del campo è più splendidamente vestito di Salomone.

Ha una capacità di osservazione delle realtà umane, che, trasfusa nelle parabole, ne fa dei capolavori letterari di grande profondità psicologica.

Ha un'intelligenza viva e intuitiva, per cui coglie subito il nucleo delle questioni e vede con folgoranti intuizioni quello che gli altri conquistano a fatica e a poco a poco. Sembra infatti che alla sua intelligenza nulla opponga resistenza: non c'è in lui ombra di sforzo, ma idee e parole fluiscono da lui con naturalezza e immediatezza, anche quando dice cose mai udite prima di lui. In particolare, ha la capacità di leggere «dentro» la realtà e, soprattutto, «dentro» il cuore umano.

Discute e polemizza con i dottori e i maestri del suo tempo circa delicati problemi d'interpretazione della Legge ebraica (Torà); eppure non è stato alla scuola di un rabbì ma ha frequentato soltanto la scuola annessa alla sinagoga di Nazaret e ascoltato la lettura e il commento che ogni sabato si facevano della Sacra Scrittura nella stessa sinagoga. Tanto che i suoi compaesani, che lo conoscono come «il figlio del carpentiere» Giuseppe, si chiedono quando lo sentono predicare: «Da dove mai viene a costui questa sapienza?» (Mt 13,54).

 

4. La bontà

Tuttavia, più che l'intelligenza colpisce in Gesù la bontà in tutte le sue forme.

Egli partecipa intensamente alla sofferenza umana: così si commuove dinanzi al pianto della vedova di Nain (Lc 7,13) e scoppia a piangere dinanzi al sepolcro dell'amico Lazzaro (Gv 11,35). Egli non può vedere un dolore senza sentirsi mosso a porgere aiuto. Così, la maggior parte dei miracoli che si narrano di lui sono compiuti a favore di malati, di persone affamate o in pericolo, di persone assoggettate al potere distruttore di Satana.

Ma la sua compassione non si limita a guarire le forme esteriori del male: dietro la sofferenza fisica e psichica, Gesù vede la presenza di una forza malvagia che tiene schiavo l'uomo. Perciò, nel momento stesso in cui guarisce le malattie, libera le persone dal potere di Satana. Per questo, l'opera di guarigione dalle malattie che egli compie va di pari passo con la liberazione degli ossessi. In tal modo egli dà l'impressione di portare avanti una misteriosa lotta contro il Male, che lascia sconcertati i suoi avversari, i quali lo accusano di essere al servizio di Satana e di liberare gli ossessi col potere che questi gli conferisce, ma che Gesù interpreta come il segno che il regno di Dio è venuto nella storia umana (cfr Mt 12,24-28).

Ma la bontà di Gesù risplende soprattutto nel suo modo di trattare i poveri, i bambini, la gente umile, i «peccatori», cioè le persone che non osservano tutte le prescrizioni della Torà, scritta e orale. Soprattutto per queste persone egli ha pietà e misericordia e le tratta con dolcezza, anche a costo di scandalizzare coloro che si ritengono giusti e osservanti della Legge e perciò disprezzano i peccatori. Tuttavia, non è solo un sentimento di bontà che spinge Gesù a trattare con dolcezza e misericordia queste persone. Egli sa che proprio i poveri, i piccoli, gli umili, i peccatori sono i prediletti di Dio e perciò il suo amore per tali persone è un riflesso dell'amore che Dio ha per esse. Egli sa; ma come può saperlo? Non è un arrogarsi, da parte sua, di conoscere il mistero di Dio che nessuna creatura umana può penetrare?

 

5. Dio, un Padre buono

E a questo punto che Gesù si distacca da tutti i grandi personaggi sopra ricordati. Egli non solo afferma di conoscere il mistero di Dio, la sua volontà, le sue predilezioni, i suoi disegni, ma è con Dio in un rapporto di amore e di vicinanza tanto profondo da chiamare Dio col termine affettuoso di Abba (Padre mio). Egli non è, come, tutti gli altri uomini, anche i più grandi, «servo» di Dio, ma «figlio»: perciò, si attribuisce il potere di perfezionare, portandola a compimento, la Legge che Dio ha dato a Mosè, sia col dichiarare non più lecite cose permesse dalla Torà, come il divorzio, sia con l'aggiungere precetti nuovi - come l'amore per i nemici e la proibizione della vendetta col perdono delle offese -, che rendono l'uomo imitatore e figlio di Dio.

Egli sente fortemente il male del peccato che grava su tutti gli uomini, portandoli alla rovina: perciò afferma di essere venuto a chiamare tutti alla conversione, dichiarando che, dinanzi a Dio, tutti sono peccatori e, se non si convertono, periranno. Egli solo non ha bisogno di conversione, perché è senza peccato. E infatti, mentre insegna ai suoi discepoli a chiedere a Dio «la remissione dei propri debiti», cioè il perdono dei propri peccati, egli non chiede mai perdono. Eppure ha un senso profondo della santità di Dio e dell'abisso che il peccato scava tra Dio e l'uomo!

In realtà, tutto in lui è sconcertante.

 

6. Tutto in lui è sconcertante

_          È sconcertante il suo insegnamento, perché egli fonda quello che insegna sulla sua autorità: «Io vi dico».

_          È sconcertante il fatto che egli lega alla fede in lui e all'amore preferenziale per lui il destino eterno degli uomini.

_          È sconcertante il suo agire, a motivo dei miracoli che egli compie con la sola forza di una sua parola.

_          È sconcertante il fatto che egli perdona i peccati, attribuendosi una prerogativa che è di Dio soltanto.

_          Soprattutto è sconcertante il fatto che dopo che i suoi nemici con false accuse gli hanno inflitto l'orrendo e ignominioso supplizio della crocifissione, i suoi discepoli lo abbiano visto vivo, risorto dalla morte a un nuovo e sovrumano genere di vita.

_          Ed è sconcertante il fatto che dal fallimento della croce abbia preso le mosse un movimento religioso - il cristianesimo - che ha segnato in maniera profonda due millenni di storia e che oggi ancora conserva una sorprendente vitalità.

 

7. Un «fatto» unico

Quando si riflette sul «fatto di Gesù» (cioè l'avvenimento storico costituito da Gesù di Nazaret: quindi la sua figura, il suo messaggio, le sue opere, la sua morte, la sua risurrezione, la sua presenza nella storia nei 20 secoli che sono seguiti alla sua morte), la prima cosa che colpisce è la sua «unicità»: nella storia umana non c'è stato - o almeno non si conosce - un «fatto» che sia anche lontanamente simile o paragonabile al «fatto di Gesù», preso nel suo complesso.

Come si è detto, singoli elementi possono trovarsi in altri grandi personaggi della storia, ma in nessuno si trovano tutti insieme; soprattutto, in nessuno si trovano quelli più caratteristici, quali

_          il suo rapporto intimo e filiale con Dio,

_          la sua “pretesa” di essere, in maniera del tutto particolare, il Figlio di Dio e di rivelare in maniera assoluta la volontà di Dio sugli uomini nella pienezza delle sue esigenze,

_          di essere egli stesso senza peccato,

_          di fare della sua persona, della sua parola, dei miracoli che egli compie, della sua morte e della sua risurrezione il segno che il regno di Dio è venuto tra gli uomini, sia pure non ancora nella sua pienezza:

_          di essere dunque il Messia promesso da Dio a Israele.

 

Quello che meraviglia in lui è che avanza queste «pretese» con dolcezza e umiltà profonda, rifuggendo da ogni ricerca di gloria personale, di successo e di potere mondano: ma nello stesso tempo le avanza con coraggio, senza curarsi dell'opposizione che incontra tra i suoi nemici, dell'abbandono dei suoi seguaci, dei tremendi pericoli a cui va incontro: il rifiuto del suo popolo, la condanna a morte come bestemmiatore, profanatore delle istituzioni più sacre d'Israele - la Torá, il Sabato, il Tempio - e come falso Messia. Egli è deciso a compiere la missione che Dio gli ha assegnato fino alla morte. E infatti la sua vita si conclude con una morte atroce.

 

8. La storicità

Dinanzi a una figura così sconcertante nella sua «unicità», la prima reazione che si presenta allo spirito umano è quella di negarne la storicità: è possibile che un certo Gesù di Nazaret sia esistito, ma non è possibile che le cose dette di lui nei Vangeli siano vere: o quello che si racconta di lui è inventato di sana pianta, oppure i suoi discepoli, presi da entusiasmo per lui, hanno ingrandito certi fatti comuni di poco conto, gli hanno attribuito opere meravigliose e miracolose, gli hanno fatto dire, a proposito della Torà, cose che un pio ebreo com'era Gesù non si sarebbe mai sognato di dire, lo hanno fatto morire sulla croce per colpa del Sinedrio giudaico, mentre potrebbe essere stato fatto crocifiggere da Pilato per chi sa quali motivi politici, probabilmente per ribellione. Ma una simile reazione di fronte al «fatto di Gesù» non sarebbe storicamente giustificata. Sarebbe infatti storicamente disonesto, perché contrario all'evidenza storica, negare che Gesù sia esistito. Basterebbe ricordare la testimonianza dello storico pagano Tacito che, scrivendo i suoi Annales nel 115-117 d.C., afferma che «Cristo [...] era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato, sotto Tiberio» (Annales XV, 44).

 

Quanto al valore storico dei Vangeli, dopo gli infiniti studi compiuti su di essi da tre secoli, si può affermare con sicurezza e certezza «morale» che i Vangeli, pur non essendo libri di storia nel senso oggi inteso, ma fondamentalmente libri di catechesi, poggiano su un fondamento storico estremamente solido, cosicché la loro testimonianza può e dev'essere accettata. Indubbiamente gli evangelisti - e la tradizione scritta e orale che è dietro di essi - hanno ripensato la vita, la persona, le parole e le opere di Gesù alla luce che proiettava su di essi la risurrezione; ma ciò è servito loro non a cambiare i fatti e le opere di Gesù o a crearne altri di sana pianta, ma a vedere nella vera luce quello che era avvenuto con Gesù, a svelarne il «Mistero». Del resto è quanto avviene per ogni uomo che abbia una notevole profondità umana: è la morte che rivela chi egli «veramente» è stato, cosicché soltanto dopo la sua morte egli svela il suo mistero.

 

Dunque la figura che di Gesù tratteggiano i Vangeli è la sua «vera» figura, e noi possiamo essere certi di incontrare nei Vangeli quello che Gesù storicamente è stato.

Se si volesse negare questa evidenza, si incorrerebbe in una difficoltà storicamente insolubile. La figura di Gesù quale appare dai Vangeli è talmente singolare e unica, supera talmente ogni misura umana, è così straordinariamente ricca e complessa che, se non è realmente esistita quale ce la dipingono i Vangeli, soltanto un grandissimo genio, almeno pari al genio di Gesù, ha potuto crearla. Ma chi è stato questo genio così straordinario? Non certo qualcuno dei discepoli di Gesù, che i capi del popolo ebraico qualificano come persone «senza istruzione e popolani» (At 4,13). Neppure qualcuno della comunità primitiva cristiana, e tanto meno gli evangelisti, persone di buona cultura, ma certamente non geniali. D'altra parte è impensabile che un ebreo mettesse in bocca a Gesù affermazioni che sembravano mettere in pericolo il monoteismo, così fortemente affermato dalla Sacra Scrittura, e ponevano perlomeno in crisi le istituzioni più sacre dell'ebraismo, quali erano la Legge, l'osservanza del Sabato e il Tempio.

Non può quindi esserci alcun dubbio ragionevole che Gesù non sia stato storicamente quale appare dai Vangeli e che sia invece una creazione della primitiva comunità cristiana, e soprattutto che non sia stato Gesù a parlare e ad agire come i Vangeli ci dicono che egli ha parlato e agito. Resterebbe infine un enigma la sua morte sulla croce: se egli non si fosse proclamato Messia, perché il Sinedrio lo avrebbe condannato a morte come bestemmiatore? E se non fosse stato accusato dai capi ebraici di ribellione all'autorità romana, perché Pilato lo avrebbe fatto crocifiggere, infliggendogli la pena che si soleva irrogare ai ribelli?

Un’unica conclusione ragionevole che si deve trarre è che Gesù è stato quale i Vangeli ce lo descrivono: ha realmente detto e fatto quello che i Vangeli gli attribuiscono.

 

9. Gesù non fu un visionario

Ma, di fronte alla persona di Gesù, a quello che egli ha compiuto e, soprattutto, a quanto egli ha detto di sé e del suo rapporto con Dio, è possibile un'altra reazione: non potrebbe Gesù essere stato un megalomane oppure un allucinato, un visionario, come ce ne sono sempre stati in campo religioso (che è il campo preferito per manifestazioni anormali di natura psicotica)? L’obiezione è seria, perché la storia delle religioni è piena di visionari, di persone affette da megalomania religiosa, di persone che si spacciano per profeti, per confidenti della divinità che comunica loro i suoi segreti con la missione di divulgarli e di farli mettere in pratica sotto pena di tremendi castighi.

Gesù dunque potrebbe essere stato un megalomane e un esaltato?

Non c'è nei Vangeli alcun indizio, né diretto né indiretto, che possa far dubitare della perfetta sanità mentale di Gesù (e, del resto, nessuno di coloro che hanno scritto opere serie - e non fantastiche - su Gesù ha mai espresso dubbi in proposito). Si hanno invece indizi indiretti che portano a concludere che Gesù ha goduto di una perfetta sanità mentale. Anzitutto manca in lui ogni segno di esaltazione religiosa. Nel vivere la sua religiosità egli è estremamente riservato: ama, per esempio, pregare di notte, lontano dagli sguardi di tutti. Non si notano in lui fenomeni mistici, come rapimenti, estasi, visioni di Dio o di esseri soprannaturali. Soltanto due volte si parla di «visioni» di Gesù: quando è battezzato da Giovanni nel Giordano (cfr Mt 3,16-17) e quando i discepoli tornano dalla missione a cui li ha inviati (cfr Lc 10,18); ma più che di visioni esteriori, si tratta di esperienze interiori che attengono, la prima, alla sua natura di Figlio di Dio, e la seconda, alla sua missione di liberazione degli uomini dal potere di Satana.

Ma ciò che meglio dimostra la sanità mentale di Gesù e l'assenza di forme di megalomania è il suo realismo. Gesù infatti non è un sognatore: non si fa illusioni né sul successo della sua predicazione, né sulle persone che gli sono vicino, né soprattutto sul tragico destino di morte, a cui va incontro consapevolmente e senza far nulla per sottrarvisi, pur sentendo una profonda angoscia, che manifesta talvolta soltanto ai suoi discepoli più intimi.

 

10. Gesù il Messia, il Figlio di Dio

Chi dunque riflette, senza prevenzioni e senza pregiudizi, sul «fatto di Gesù», non può non essere affascinato dalla grandezza unica della sua persona, dall'elevatezza del suo insegnamento religioso e morale, dalla sua bontà verso gli umili e dalla purezza e santità della sua vita; nello stesso tempo, non può non interrogarsi sulla natura di Gesù e sul valore delle affermazioni che egli ha fatto su Dio e sulla sua persona, sulla sua missione e sul fatto che il destino eterno degli uomini è legato alla fede in lui, cioè all'accettazione o al rifiuto della sua persona e del suo messaggio. Gesù infatti ha affermato di essere il Messia e il Figlio di Dio, di essere il Rivelatore definitivo del mistero di Dio, di portare nel mondo, nella sua persona e nelle sue opere prodigiose, il regno di Dio, di essere il Salvatore degli uomini col dare la sua vita in riscatto per essi.

Queste affermazioni sono vere?  Sono affermazioni «credibili», tali cioè che una persona onesta e di buon senso possa accettarle ragionevolmente, avendo motivi convincenti e razionalmente validi per farlo?

La nostra risposta è: sì.

Ci sono ragioni valide per credere a quello che ha detto Gesù.

 

La grandezza umana e religiosa

La più importante e decisiva è Gesù stesso: la grandezza unica della sua figura, per cui nessun altro grande personaggio della storia religiosa può mettersi accanto a lui.

_          L'aver proclamato che il valore più alto della religione è l'amore di Dio sopra ogni cosa e l'amore e il servizio del prossimo bisognoso, non limitato al proprio popolo o alla propria nazione, ma esteso a tutti coloro che sono nella sofferenza e nel bisogno;

_          l'aver proclamato che la salvezza eterna è legata anche all'amore dei nemici e al perdono delle offese;

_          l'aver proclamato che le istituzioni religiose, come il sabato, sono a servizio dell'uomo e non viceversa;

_          l'aver detto che Dio dev'essere adorato in spirito e verità;

_          l'aver affermato che il regno di Dio è dei poveri, dei piccoli, degli umili e dei peccatori, e non dei potenti e dei sapienti;

_          l'aver insegnato che Dio è padre degli uomini e ha cura di loro e che essi devono rivolgersi a lui chiamandolo «Padre»:

 

… sono tutte cose che mostrano che Gesù è il fondatore della religione più alta e più pura dell'umanità e che è di una elevatezza spirituale e religiosa che nessuno ha potuto uguagliare. Questa grandezza e questa elevatezza spirituale e religiosa di Gesù depongono a favore della verità di quanto egli dice su Dio e su se stesso.

 

La santità

C'è poi la santità di Gesù che rende credibile il suo messaggio.

Una santità fatta di distacco dalle ricchezze e dal potere mondano, di dolcezza, di bontà, di pazienza, di accoglienza dei poveri e degli umili, di vita interiore profonda e di intensa preghiera, di dedizione a una vita apostolica logorante, di purezza, di obbedienza alla volontà del Padre fino a fargli affrontare una morte orrenda.

Com'è possibile che un uomo così santo, così umile, così unito a Dio, abbia potuto fare affermazioni che, se non fossero vere, sarebbero segno di un orgoglio diabolico, come il dichiararsi Messia e Figlio di Dio, unico rivelatore del mistero di Dio e unico salvatore degli uomini?

 

La sincerità

La santità di Gesù è dunque un segno forte di credibilità del suo messaggio.

Tale segno di credibilità diviene ancora più forte se alla santità di Gesù si aggiunge la sua sincerità. Durante tutto il suo ministero, ciò che Gesù ha maggiormente combattuto è stata l'ipocrisia e la menzogna. Quanto a lui, anche i suoi avversari hanno riconosciuto la sua sincerità: «Maestro - gli dicono alcuni farisei ed erodiani - sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc 12,14). È dunque impensabile che egli sia caduto in ciò che egli così duramente condanna: che perciò sia stato insincero e ipocrita, facendo affermazioni che egli riteneva false. Del resto, è proprio la sua sincerità nell'affermare di essere il Messia che ha provocato la sua condanna a morte.

 

Che cosa concludere da quanto si è detto sin qui? Una cosa soltanto: che l'unica spiegazione ragionevole del «fatto di Gesù» è che nelle sue affermazioni e nel suo operato si deve riconoscere la presenza e la potenza di Dio. Ogni altra ipotesi non spiegherebbe in maniera logica e ragionevole quello che possiamo ben chiamare il «mistero» di Gesù. Ciò significa che l'argomento più solido, più forte e più convincente della credibilità del cristianesimo è la persona di Gesù.

 

La risurrezione

Quanto questo sia vero è confermato dalla risurrezione. C'è nella vicenda di Gesù di Nazaret un fatto assolutamente unico nella storia umana, che parrebbe assolutamente incredibile, ma della cui esistenza tuttavia si hanno prove inconfutabili: tre giorni dopo la sua morte sulla croce, Gesù è risorto ed è apparso molte volte e in molti luoghi e circostanze diverse ai suoi discepoli, che hanno stentato a credere e non si sono convinti che egli fosse realmente risorto se non dopo prove innegabili.

Ora qual è il significato della risurrezione di Gesù?

Egli era stato condannato a morte e crocifisso come bestemmiatore, falso Messia, profanatore della Legge e ribelle all'autorità romana. Questa condanna era stata giusta e meritata, e dunque Gesù era un falso profeta e un falso Messia?

In realtà, se la vicenda di Gesù si fosse conclusa con la morte sulla croce, si poteva pensare che i suoi nemici avessero avuto ragione a condannarlo. Ma la vicenda di Gesù non si è conclusa con la morte in croce, poiché Dio lo ha fatto risorgere dalla morte. Con questo gesto Dio ha voluto rendere giustizia a Gesù e mostrare ai suoi nemici che essi avevano condannato e fatto morire Gesù ingiustamente, perché quello che aveva detto era vero e quello che aveva fatto era ciò che Dio aveva voluto da lui. Facendo risorgere Gesù da morte e introducendolo nella sua gloria, cioè, Dio ha voluto testimoniare a favore di Gesù, della verità delle sue parole e della santità della sua vita. Così, con la sua grandezza unica, la santità e la sincerità della sua vita, con l'ingiustizia di una morte orrenda, ma accettata con eroica obbedienza alla volontà di Dio, con la sua risurrezione, con la quale Dio ha testimoniato a suo favore, Gesù è un segno - anzi, il segno incomparabile - della credibilità della fede cristiana.

 

11. La risposta

Chi è allora Gesù di Nazareth?

 

Un uomo

Certo un uomo! Vero uomo. E un uomo straordinario, eccezionale, unico: così singolare da superare le nostre misure, le nostre categorie, ogni possibile definizione. Si è mai visto un uomo parlare con le parole di Gesù, operare i miracoli, perdonare, lasciarsi crocifiggere nonostante la propria innocenza… risorgere?

 

Un profeta

Certo un profeta. Chi mai ha parlato di Dio con le parole di Gesù, chi mai lo ha chiamato tanto teneramente con il termine Abbà, chi mai ha raccontato una storia come la storia di quel padre che aspetta il figlio che lo ha lasciato e al suo ritorno lo perdona e tutto per darci la misura incommensurabile e inimmaginabile dell’amore di Dio?

 

Un saggio

Certamente un saggio, di una sapienza e di una intelligenza insuperabili. Comandamenti come l’amore e il perdono dei nemici, pagine come quella sulla provvidenza del Padre, parabole ad un tempo di una semplicità e di una profondità sconcertate come quelle evangeliche hanno comunque il medesimo autore…

 

 

Il Figlio di Dio

Eppure non solo, il mistero quando pare svelarsi si infittisce.

La risposta sta nelle sue parole:

Gesù è il Figlio di Dio, Figlio Unigenito del Padre, la Parola fatta carne, la Via la Verità, la Vita, il Buon Pastore che ama le sue pecore, la Luce, la Risurrezione. A noi credere alle sue parole e così trovare ogni giorno in forza della sua presenza e della sua promessa senso, verità e luce.

Scarica il documento in formato word (ac7.doc)

(a cura di Giuseppe Mensi)

Link:

Documenti - Catechesi - Parrochia di Caionvico

 


Torna alla Home Page