Daniela Gaddi*, Franco Marozzi*, Alberto Quattrocolo*
E’ difficile rimanere imperatore in presenza di un medico;
difficile
anche conservare la propria essenza umana:
l’occhio del medico non vede
in me che un aggregato di umori,
povero amalgama di linfa e di sangue”
(Yourcenar M., Memorie di Adriano)
Sommario:
[1]. Premessa apodittica (tempestosamente agitato)
[2]. Cos’è la mediazione? (solenne e misurato, senza trascinare)
[3]. La conflittualità in ambito sanitario (preludio ad un’alba agitata)
[4]. L’esperienza degli Stati Uniti (vigorosamente mosso, ma non troppo presto)
[5]. Perché gestire i conflitti attraverso la mediazione, allora? (adagio, un poco mosso)
[6]. Infine, ancor prima che il conflitto insorga, si può ascoltare (lentamente trascinato, come un suono della natura, all’inizio molto tranquillo)
[7]. In conclusione
[H]. Home
1. Premessa apodittica (tempestosamente agitato)
Sosteniamo che vi è una parola inascoltata. E’ la quota di sofferenza
che preme per trovare spazio e non lo trova.
Sosteniamo che la mediazione può far fronte alla parola inascoltata.
Essa grida, rabbiosa, e pretende riconoscimento.
E’ il tradimento nella relazione medico-paziente. E’ l’affidamento
deluso.
Come tutte le relazioni umane, anche quella medico/paziente è intensamente
caratterizzata da movimenti emotivi e cognitivi che, laddove interrotti o complicati,
generano delusione e sofferenza.
Dal punto di vista del paziente, il medico rappresenta il portatore di un sapere
sconosciuto e inaccessibile. Simbolo della cura, è al medico che il paziente
rimette il proprio desiderio di benessere e, in ultima analisi, quello di vita.
Soltanto il medico è, per il paziente, in grado di ripristinare l’ordine
interrotto dal processo della malattia.
In più, il paziente è costretto ad esporre al medico le proprie
nudità, quelle fisiche, come quelle psicologiche, e deve rinunciare al
proprio pudore per ritrovare la salute. Egli è solo, disarmato, forzato
dalla malattia ad un vincolo di dipendenza che spesso mal tollera.
Il medico, da parte sua, è portatore di un sapere cui il paziente non ha accesso, di fronte al quale non resta che affidarsi. Egli sperimenta ogni giorno la pesante responsabilità di avere affidata la salute e la vita dei suoi pazienti. Sente tutto il carico delle aspettative del paziente. La stima di sé è affidata in gran parte al buon esercizio del potere che gli viene attribuito. E quando viene accusato di un errore, anche nel caso non lo abbia commesso, il sentimento della propria identità professionale e personale viene messo a dura prova.
Si tratta dunque di una relazione assai complessa, nella quale circolano senza
interruzione fiducia, paura, vissuti di impotenza, dolore, preoccupazione, disperazione,
aspettative, speranze.
Quando l’errore – o supposto tale - rompe l’armonia della
relazione, il contenzioso giudiziario, e l’eventuale risarcimento ottenuto,
non coprono anche quella quota di “tradimento” emotivo, che il paziente
non ha risolto, perché il giudizio non se ne fa carico, e lasciano solo
il medico a difendere, di fronte a se stesso non meno che agli altri, il proprio
operato. Quest’ultimo, infatti, spesso accusato ingiustamente, si trova
a dover affrontare la rabbia e la delusione per non essere riuscito a far fronte
all’ineluttabilità di un evento biologico – sia esso la morte
o la malattia -, dovendo constatare una volta di più che il suo sapere,
che gli altri chiamano “scienza”, non è nient’altro
che un’arte antica, in cui la somma delle incognite è generalmente
di gran lunga superiore a quella delle conoscenze acquisite in secoli di ricerca.
Addirittura, fa notare Introna, “Quando il medico disponeva di pochi mezzi
non poteva provocare danni ma poiché egli oggi può ricorrere alla
semeiotica invasiva, eseguire grandi (ed anche rischiosi) interventi chirurgici,
usare farmaci molto attivi (ma talora produttivi di effetti collaterali) è
ovvio che si può instaurare una patologia iatrogena. Nell’opinione
del profano questa «complicanza» della moderna medicina, innesca
l’idea che il peggioramento della malattia o la comparsa di una nuova
malattia accanto a quella di base, sia dovuta a colpa del medico ragionando
secondo il criterio del post hoc, ergo propter hoc”<1>. Il processo di attribuzione
della responsabilità seguirebbe insomma la seguenti fasi: “il progresso
scientifico consente risultati straordinari a vantaggio della salute e della
vita ma comporta inevitabili rischi con risultati (in alcuni casi) insufficienti
o negativi. L’opinione pubblica (ed anche quella di avvocati e magistrati)
accetta con soddisfazione i risultati positivi mentre non ammette che possano
esservi risultati insufficienti o negativi. La conseguenza è che l’insuccesso
diventa, per il profano, sinonimo di errore costitutivo di colpa”<2>.
E’ possibile sperimentare tutto questo nella pratica professionale quotidiana, solo che ci si fermi a prestare orecchio a quanto medici e pazienti vengono narrando: allora, ci si rende conto che dalle loro parole emergono sentimenti frustrati, che quasi sempre hanno a che fare con la mancanza di ascolto, con il confronto con modalità frettolose, distaccate, con l’insoddisfazione derivante dall’essere considerati un caso clinico, prima che una persona. E ancora, che il medico sovente difende, prima che il suo operato, il suo operare, la sua dignità professionale, e forse anche il diritto di essere limitato, di essere insomma uomo, e non mito di infallibilità.
IndiceEcco perché si vuole qui proporre una nuova modalità di gestione
della conflittualità in ambito sanitario: quella basata sulla filosofia
e sulle procedure di un nuovo strumento chiamato “mediazione”.
La mediazione – in ambito giudiziario - si inserisce in un complesso di
interventi aventi significato riparativo, che possono comprendere le più
svariate attività, quali il risarcimento economico, la riparazione diretta
ed indiretta, la prestazione di servizi in favore della vittima o della comunità,
purché sia ben chiaro l’intento di fondo, come bene mette in luce
Bouchard, parlando della mediazione penale: “Il senso della riparazione
indiretta va ritrovato nella connessione tra reato e attività riparatoria,
nel passaggio emotivo e logico che intercorre tra atto illecito e azione positiva,
tra il fare ciò che non andava fatto e ciò che può (…)
essere fatto”<3>.
In un senso più generale, la mediazione può essere definita come
“un processo, il più delle volte formale, attraverso il quale una
terza persona neutrale cerca, attraverso l’organizzazione di scambi tra
le parti, di permettere ad esse di confrontare i propri punti di vista e di
cercare con l’aiuto del mediatore una soluzione al conflitto che le oppone”<4>.
Oppure, secondo la definizione che ne dà Six, si tratta di: a) un’azione
portata a termine da un terzo neutrale; b) un’azione portata a termine
da persone o gruppi liberamente; c) un processo nel quale la decisione finale
compete alle parti; d) un processo dal quale devono nascere o rinascere relazioni
nuove, che devono servire a risanare le vecchie relazioni conflittuali<5>.
Le caratteristiche fondamentali sono dunque così riassumibili:
la mediazione è un processo volontario e consensuale;
nella mediazione le parti non delegano ad un terzo la soluzione del proprio
conflitto, ma se ne assumono la responsabilità e “lavorano”
per giungere da sole ad un accordo. Esse non vivono passivamente il processo,
ma ne sono componente attiva e protagonista;
ha assoluto carattere di confidenzialità: le parti, durante il processo
di mediazione, devono potersi esprimere liberamente, senza temere che le loro
dichiarazioni vengano utilizzate a fini giudiziari;
la concezione di responsabilità assume caratteristiche diverse: nella
mediazione essa non viene pronunciata da un terzo estraneo al conflitto (come
il giudice) ma nasce all’interno della relazione tra le parti, che, con
l’aiuto del mediatore, si riconoscono responsabili non “di”
qualcosa, ma “verso” qualcuno<6>.
Il mediatore deve essere inteso come un terzo neutrale, privo di ogni potere
sulle parti, il cui compito è quello di apportare non soluzioni, ma regole
al processo di mediazione<7>.
Egli diviene una sorta di catalizzatore, ossia un elemento in presenza del quale
si modifica una relazione, e che crea un nuovo “sistema”, incardinandosi
in quello del rapporto conflittuale. Suo esclusivo compito è quello di
facilitare la comunicazione e permettere alle parti di ritrovare un canale di
ascolto, senza esercitare alcun potere su di esse.
La sua funzione, dunque, non è quella di risolvere il conflitto, ma di
condurre o semplicemente accompagnare il processo in corso, facendo in modo
che le parti siano sempre attivamente impegnate: “Egli si pone in ogni
caso quale semplice catalizzatore del conflitto per rendere possibile il dialogo
alle parti. Così il mediatore dovrà incontrare i mediati senza
giudicare, senza volontà di fare alcunché, senza un progetto sugli
altri e ponendosi solamente quale facilitatore di un overlapping, di uno spazio
di coincidenza che saranno i mediati a trovare producendo un dia-logo e trovando
una distanza che permetterà loro di (ri)costruire una visione differente
della situazione attuale”<8>.
Terzietà, imparzialità, ascolto, assenza di “potere”,
mancanza di direttive precostituite non significano però passività,
inazione: il mediatore infatti non solo informa e osserva, ma prepara le parti
al confronto, aiutandole a trarre da sé gli elementi positivi e utili
alla risoluzione del conflitto, per portarli in mediazione il giorno dell’incontro.
Durante il confronto tra le parti, il mediatore ha innanzitutto il compito di
affrontare la crisi iniziale creata dal conflitto, lavorando con i sentimenti
e le fantasie negative, e introducendo nuovi elementi di riflessione per facilitare,
se necessario, un mutamento di approccio di ciascuna parte verso l’altra,
con un aumento di flessibilità delle posizioni di ciascuna delle due.
Solo in questo modo, allora, la soluzione del conflitto è il risultato
di un processo dinamico e partecipativo tra i soggetti coinvolti, che restano
i veri protagonisti della mediazione.
E’ ben vero, tuttavia, che la nostra società ha un rapporto alquanto
singolare con le emozioni, soprattutto con quelle etichettate come negative:
esse vengono per lo più ritenute scomode, qualcosa da tenere in disparte,
e ad esse si riservano pochi e ridotti spazi. Si tratta di un modo di confrontarsi
con la sfera emotiva fondato su un’impostazione per la quale il primato
del razionale è pressoché irrinunciabile, talché risulta
assai diffusa la propensione ad assimilare la sofferenza e le sue fonti ad un
problema da risolvere con gli strumenti dell’intelletto. E’ probabilmente
anche per questo motivo che la gestione dei conflitti trova spazio solo in un
contesto – quello giudiziario – in cui l’approccio al caso
è rigorosamente razionale, l’ascolto offerto alle parti è
tipicamente di ordine tecnico-giuridico, la soluzione della controversia avviene
da parte di un terzo soltanto dopo che ogni momento della vicenda, ed ogni sequenza
temporale e logica, sono stati scandagliati fin nei minimi particolari.
L’esperienza, tuttavia, insegna che la persona angosciata o arrabbiata
è assai poco recettiva rispetto ai consigli pratici (ha sempre qualcosa
da obiettare), alle ragionevoli soluzioni proposte da parte di terzi, benché
autorevoli, alle generiche rassicurazioni e alle consolazioni a buon mercato.
Anche le informazioni fornite dall’esperto, per quanto confortanti, non
sempre sortiscono l’effetto di tranquillizzare quando l’emozione
è particolarmente intensa.
Più efficace sotto molteplici punti di vista è un approccio di
tipo diverso, cioè quello dell’ascolto empatico, strumento caratteristico
di chi lavora in mediazione, e che viene utilizzato sia nelle fasi preliminari
che nell’incontro vero e proprio tra le parti, strumento che a poco a
poco viene appreso e assunto anche dai due confliggenti, consentendo un confronto
più proficuo delle rispettive posizioni.
Ascoltare, in questo senso, non significa cercare a tutti i costi una soluzione,
né tentare di “guarire” l’altro dalla sua emozione
e neppure procurargli vaghe consolazioni, bensì accogliere l’esperienza
emozionale e “trattenersi” in essa. Vuol dire insomma entrare in
risonanza con ciò che l’altro prova. Esercitare la capacità
di ascolto è la premessa non tanto per capire razionalmente quanto per
comprendere emozionalmente. La comprensione delle emozioni e dei sentimenti
del soggetto che parla non è un mero esercizio di “dietrologia”,
l’andare alla ricerca di motivazioni occulte e inconfessabili, bensì
- più semplicemente - un sentire e un riconoscere nel discorso
manifesto e concreto la trama emotiva che sottende la realtà del parlante.
Questa comprensione consente all’altro di dare un nome all’emozione.
E, nominandola, egli avrà la possibilità non solo di porla di
fronte a sé, ma anche di sentirsi autorizzato a sperimentarla consapevolmente,
permettendole di emergere e di esprimersi attraverso canali e modalità
salutari per sé e non “imbarazzanti” per gli altri. Certamente
l’origine della rabbia e dell’angoscia – laddove di questo
si tratti - non spariranno per il solo fatto di aver trovato ascolto, ma neppure
il soggetto si troverà di fronte ai consueti e frustranti inviti a fare
ricorso al buon senso o alle sbrigative rassicurazioni - del genere “vedrai
che passerà” oppure “ogni problema ha la sua soluzione”
– le quali il più delle volte generano soltanto frustrazione; la
comprensione e l’ascolto possono invece restituire fiducia e speranza
poiché riducono il sentimento di solitudine.
Ascoltare empaticamente l’altro secondo l’ottica del mediatore significa,
infatti, non eludere la sua sofferenza, ma facilitarlo nell’affrontarla,
comunicandogli la sensazione di non essere solo, e che si è disponibili
ad accettare anche le sue parti “irrazionali”, senza censurarle
né giudicarle.
Certamente soggiornare dentro il disagio altrui è difficile quasi quanto
tollerare il proprio, e ciò rende l’approccio alla dimensione emotiva
un processo faticoso – quando non addirittura insopportabile, allorché
le emozioni altrui appaiono come specialmente angosciose, o perfino importune.
Queste difficoltà si presentano amplificate in quei contesti istituzionalmente
deputati a prendersi cura del dolore nelle sue varie forme.
Da parte di molti pazienti si lamenta spesso che il personale medico o paramedico,
di fronte all’individuo angosciato, si limita a fornire informazioni tecniche,
o tutt’al più generiche rassicurazioni, manifestando così
il desiderio di eludere lo stato d’animo di quella persona, quasi fosse
un intralcio all'esercizio della professione.
Ma è vero che fermarsi a riconoscere paura e dolore nell’altro
significa compromettere l’efficienza del lavoro?
Non è possibile, senza peccare di superficialità, risolvere la
questione con un semplice “sì” o “no”.
Infatti, tra i molteplici aspetti degni di considerazione, ve n’è
almeno due di particolare rilevanza: da un lato, la condizione emotiva del paziente;
dall’altro, lo stress, le responsabilità, il bisogno (e l’istinto)
di “sopravvivenza” dell’operatore.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è agevolmente comprensibile la
problematicità della situazione del malato. In aggiunta al dolore fisico
e alle preoccupazioni per la sua salute, egli si trova infatti a dover fronteggiare
un’ampia gamma di circostanze che ne mettono seriamente alla prova la
capacità di reggere e gestire le emozioni provate: per esempio, la perdita
di una significativa quota del potere di controllare direttamente ciò
che gli accade, essendo costretto ad un’ampia delega della gestione del
proprio corpo a terzi; il disorientamento derivante dal ritrovarsi (e, a volte,
anche perdersi) in un luogo di cui si faticano a comprendere il linguaggio,
le categorie, le regole e le loro ragioni; l’inevitabile rinuncia al proprio
mondo – e cioè pudori, intimità, abitudini, riti, relazioni
e impegni - per confrontarsi con un ambiente assai poco famigliare e denso di
incognite.
Queste e altre contingenze si intrecciano con vissuti di angoscia e di confusione
che possono indurre il malato a cercare conforto e certezze, con comportamenti
anche eccessivamente richiedenti (“eccessivamente”, quantomeno rispetto
alle esigenze oggettive derivanti dal suo stato di salute). Non di rado, poi,
egli manifesta atteggiamenti sospettosi, quando non francamente ostili, verso
il personale ospedaliero: d’altra parte, la paura e la preoccupazione
possono ben assumere la forma della rabbia. Una rabbia verso la malattia, verso
il corpo che si ribella alla volontà, ma che viene indirizzata verso
gli altri.
E’ esperienza comune del personale medico e paramedico il rilevare come
la diffidenza o la scontrosità del ricoverato convivano spesso con pretese
assurde e obiettivamente impossibili da soddisfare. Il paziente diventa allora
ai loro occhi – forse legittimamente – uno “scocciatore”
incontentabile e polemico, irrazionale e sordo ad ogni appello al buon senso.
D’altra parte, tutto il personale sanitario si trova quotidianamente a
contatto con ciò che l’ammalato sperimenta solo eccezionalmente.
Non v’è giorno in cui non veda e non tocchi il dolore, non assista
al terrore, non sperimenti la consapevolezza della morte.
Obbligati dal proprio ruolo ad assumersi una responsabilità così
onerosa come quella della salute e della sopravvivenza altrui, tenuti a prendersi
cura di corpi sofferenti e costretti a manipolarli con modalità anche
intrusive, medici e infermieri vengono spesso aggrediti da domande alle quali
non ci sono risposte, da richieste impossibili da soddisfare, da angosce che
non hanno né il tempo né le energie per contenere. E ciò
con riguardo non solo ai pazienti, ma anche alle loro famiglie.
L’esito di tale dialettica è spesso l’emergere di conflitti,
i quali – questi sì - costituiscono un intralcio allo svolgimento
delle mansioni. Quando poi a tutto questo si aggiunge anche un evento lesivo
derivante da un’azione sanitaria inefficace o peggiorativa delle condizioni
del soggetto, che danneggi il paziente nel corpo, ma non meno nell’animo,
il conflitto può esplodere con modalità ancor più sconvolgenti
per tutte le parti coinvolte
E allora, esposti, denunce, querele e controquerele, richieste di risarcimenti,
sono soltanto alcuni dei mezzi abitualmente impiegati per la gestione di tali
conflitti.
La mediazione trova ormai spazio, in forme diverse, in moltissimi paesi nel
mondo.
Negli Stati Uniti essa è tuttavia pratica consolidata ormai da decenni,
anche in ambito sanitario, sebbene dal punto di vista metodologico siano molte
le differenze tra una mediazione più razionale, essenzialmente rivolta
alla risoluzione dei problemi (cioè quella tipica del mondo anglosassone),
e quella, più vicina alla nostra cultura, incentrata sulla persona e
sulla considerazione del terreno emotivo dal quale sorge il conflitto<9>.
Tuttavia, moltissimi studi anche negli U.S.A. hanno dimostrato che i sentimenti
sottesi al conflitto, come la rabbia e la confusione originata dagli accadimenti
che hanno portato al caso di malpractice, nonché il vero e proprio desiderio
di vendetta rappresentano ottimi motivi per tentare la strada della mediazione<10>.
Lo stato del North Carolina, per esempio, adottò per la prima volta,
nel 1991, un programma di mediazione in ambito civile, su diretta richiesta
dal Tribunale, per tutti i casi di malpractice che interessassero richieste
di risarcimento dell'entità superiore ai $ 10,000.
Diversamente dalle tradizionali forme di contenzioso o di arbitrato, la soluzione
non poteva essere imposta alle parti.
Il tribunale, in base all'entità del danno, proponeva la mediazione stabilendo
direttamente il nome del mediatore<11>.
Circa la durata del processo di mediazione, i tempi non venivano fissati dalle
corti, ma si cercava per lo più di rapportarli alle eventuali scadenze
processuali, mentre il procedimento avanzava in parallelo<12>.
Al tavolo della mediazione potevano essere presenti sia le parti direttamente
interessate che un rappresentante della compagnia di assicurazione del medico
accusato di malpractice. Per la conduzione della sessione di mediazione non
erano fissate altre regole se non quelle stabilite dal mediatore stesso.
Ne risultò che, su un campione di 202 casi, nel 24.8 % si arrivò
ad un accordo immediato dopo la mediazione, mentre nella restante porzione la
mediazione si fermò ad un impasse; di quest'ultimi, però, solo
il 29.6 % giunse al processo vero e proprio, mentre nella percentuale del 68.6
% si arrivò ad una compensazione monetaria<13>.
Altri studi empirici statunitensi hanno dimostrato che la motivazione predominante
nei soggetti che decidono di avviare un contenzioso per lesioni riportate nel
corso di procedure mediche non é tanto quella di ottenere una compensazione
economica, quanto piuttosto quella di assicurare che l'errore non si ripeta
in futuro<14>.
Interessante in questo senso è un’analisi degli interventi di mediazione
in casi di medical malpractice, commissionata dal Massachusetts Board of Registration
in Medicine (il locale Ordine dei Medici); il progetto aveva come principale
scopo quello di incrementare gli standard di sicurezza dei pazienti.
L’ipotesi degli autori era che la mediazione potesse risolvere le dispute
in tema di malpractice in modo più efficiente di quanto avvenga in sede
processuale, favorendo anche il processo di incremento della qualità
dei servizi sanitari.
Dei dieci casi descritti, solo 4 si conclusero con un risarcimento economico,
mentre negli altri vennero previste forme di riparazione simbolica. Per esempio,
le parti convenirono la corresponsione di una contribuzione all’American
Cancer Society, oppure il paziente si dichiarò soddisfatto delle scuse
del medico, che si era adoperato a elaborare dei rimedi per evitare il ripetersi
dell’incidente.
Un altro caso, uno dei più interessanti tra quelli descritti in letteratura,
riguardava un errore tecnico compiuto dal radioterapista, a causa del quale
25 pazienti avevano subito un eccesso di radiazioni durante il trattamento,
per un periodo di sei mesi, con il prodursi di sintomi particolarmente preoccupanti:
dolori insopportabili e costanti, infiammazione ed edema dei tessuti trattati
impedivano lo svolgersi delle normali attività, fino a determinare un
vero e proprio “ritiro” sociale<15>.
L’ospedale scelse di ammettere immediatamente la propria responsabilità
e di risarcire i danni prodotti. I casi meno complicati si risolsero con relativa
facilità, mentre i quattro pazienti più pregiudicati dal trattamento
erano decisi a dar battaglia, più per soddisfare la propria rabbia e
il proprio risentimento, che per ottenere soddisfazione economica. Fu allora
che venne loro proposto un incontro di mediazione, in cui ebbero la possibilità
di confrontarsi con il primario del reparto di oncologia e con lo stesso radioterapista.
In quell’occasione, la discussione permise loro di parlare del proprio
dolore fisico e psicologico, del cambiamento radicale del proprio ritmo di vita,
della paura della morte, della preoccupazione per i familiari. I medici, dal
canto loro, parlarono dell’angoscia provata al rendersi conto dell’errore
commesso, e del senso di colpa che li avrebbe sempre accompagnati in futuro.
Ciò consentì di giungere ad un accordo che sembrava irraggiungibile:
i pazienti conseguirono non solo una soddisfazione economica, ma anche sollievo
per la sensazione di aver ottenuto ascolto e spiegazioni ragionevoli; l’ospedale
aveva corrisposto una somma considerevole (tre milioni di dollari), ma aveva
preservato la propria immagine all’esterno e risparmiato i costi di un
giudizio lungo e complicato. La relazione medico-paziente era stata risanata,
e una paziente si dichiarò felice di poter riprendere la sua terapia
proprio nello stesso ospedale.
In generale, si tratta di operare una scelta tra un tort system, in cui prevale
la punizione del fatto riconosciuto come “dannoso” o “oggetto
di reato”, ed un sistema che si propone di migliorare la qualità
delle procedure sanitarie<16>.
Le differenze tra i due sistemi possono essere riassunti come nella tabella
seguente
Che cosa fa il 'tort system'? | Cosa fa un sistema diretto alla prevenzione dell'errore? |
Pone la domanda: chi? che cosa? | Pone la domanda: come? perché? |
Identifica e focalizza gli atti individuali | Esplora le cause dell’errore in un'analisi comprensiva dei sistemi nei quali gli individui lavorano |
Attribuisce conseguenze gravi ad eventi tipicamente infrequenti; utilizza dinamiche del tipo “vincente/perdente”, sulla base di criteri probabilistici | Accetta gli errori come indicatori delle inadeguatezze del sistema e tende a considerarli come opportunità di miglioramento |
Applicando parametri di negligenza, “accusa” i singoli di essere scesi al di sotto dei minimi standard di performance professionale | Percepisce gli errori non come fallimento ma come opportunità per comprendere il funzionamento del sistema nella sua complessità |
Risolve dispute in un modo pubblico e genera sentimenti di umiliazione nell'accusato, mettendo l’accento sull’elemento della punizione | Accantona la visione punitiva, per andare verso un’interpretazione che si concentra sulla possibilità di fronteggiare e di evitare l'errore |
Fa in modo che i difensori delle parti si oppongano in un sistema che non prevede alcun tipo di follow up | Diminuisce la sensazione del medico di essere il bersaglio di un esame esterno e lo coinvolge in processo attivo di ricerca della qualità |
Sostiene un orientamento difensivo nel quale l'accusato non fa altro che nascondere gli errori commessi | Facilita il più completo accesso all'informazione circa gli errori e le deviazioni dell’intero sistema, e una piena e libera comunicazione in relazione agli incidenti ed alle loro cause |
Il primo è quello tradizionalmente legato ad una risoluzione del contenzioso
per via giudiziaria, mentre il secondo privilegia modalità alternative
di gestione del conflitto, come la mediazione, e necessita del contributo del
paziente, e quindi del confronto reciproco tra le parti coinvolte, anche se
non sempre è facile, per il personale sanitario, confrontarsi con l’eventualità
di un errore. Tra l’altro, attraverso la via giudiziaria, si realizza
la possibilità di migliorare la qualità del servizio soltanto
attraverso un procedimento privato, limitato perciò al singolo caso,
mentre tale finalità dovrebbe avere carattere allargato e squisitamente
pubblico; invece la mediazione nei casi di malpractice offre un sistema che
disciplina l'energia e le risorse che oggi sono devolute al contenzioso, dirigendole
verso il miglioramento qualitativo generale del sistema salute.
Comunque, l'interrelazione tra le parti coinvolte é l'essenza del processo
di mediazione, nel quale, tra l’altro, il paziente stesso manifesta assai
frequentemente un interesse, più che al risarcimento monetario, alla
garanzia che la vicenda subita non si ripeta a danno di altri<17>.
E sempre a proposito delle motivazioni che portano i pazienti a privilegiare
modalità alternative alla via giudiziaria, un altro interessante studio
analizzò l’atteggiamento di alcune famiglie i cui figli avevano
subito lesioni neurologiche in seguito al parto.
Ne risultò che solo una minoranza era stata motivata dal bisogno di denaro.
In particolare:
- il 33 % fu consigliato da terzi (nella maggioranza dei casi da personale medico)
- nel 24 % dei casi, gli intervistati affermarono che il dottore non fu completamente
onesto o addirittura mentì
- il 24 % dichiarò di aver bisogno di denaro per assicurare le cure future
al bambino
- nel 20 % dei casi, vi fu una reazione d'impulso, specialmente nel rendersi
conto che il bambino non avrebbe avuto un futuro accettabile
- un altro 20 % volle soddisfare il desiderio di spiegare a qualcuno cosa fosse
realmente capitato
- il residuo 19 % intendeva soddisfare sentimenti di rabbia e vendetta, o assicurare
che la medesima cosa non capitasse ad altri.
La ricerca del Massachussets Board of Registration in Medicine, unitamente al Program for Health Care Negotiation and Conflict Resoution ad Harvard sembra confermare le motivazioni sopra esposte. In quella occasione, infatti, venne confermato l’interesse, da parte delle parti lese, al non ripetersi dell’errore.
IndiceAlla luce delle considerazioni fin qui svolte, appare dunque innegabile che
proporre l’introduzione dello strumento della mediazione per la gestione
della conflittualità all’interno del sistema sanitario significa
andare incontro ad una molteplicità di esigenze presenti presso entrambe
le fazioni del possibile conflitto.
La mediazione costituisce una modalità di governo del conflitto alternativa
e indipendente dal processo giurisdizionale. Ciò può apparire
singolare in una società e in una cultura come quella italiana in cui
si è soliti ricondurre le controversie all’esclusiva competenza
della giustizia. Tuttavia, le esperienze di gestione del conflitto attraverso
la mediazione dimostrano che assai spesso essa ha l’effetto di prevenire
il ricorso alle vie legali.
La mediazione, infatti, offre l’opportunità di ricondurre la dialettica
tra gli attori all’interno di uno spazio capace di contenere e prevenire
azioni sconsiderate, nonché di accostare il conflitto con modalità
tali da chiarire la reale dimensione e il vero significato dei bisogni in contrapposizione,
inducendo i soggetti ad uscire da una logica impostata su una distinzione predeterminata
dei ruoli, secondo la quale una parte sarebbe necessariamente la vittima e l’altra
l’aggressore e il carnefice, per accedere ad un riconoscimento reciproco.
L’esito è l’approdo ad una comune consapevolezza del peso
portato in solitudine fino a quel momento: un carico composto di dolorose decisioni
e di angosce inespresse, di schiaccianti responsabilità e di fiducia
tradita, del disagio derivante dall’impossibilità di dare risposte
sicure e dell’insopprimibile bisogno di garanzie.
Ciò che avviene in sede di mediazione è fondamentalmente il riconoscimento
da parte di ciascun attore di sentimenti feriti e di un’umanità
sofferente nell’altro. Questo percorso non ha né carattere né
finalità catartiche, ma costituisce il passaggio obbligato sia per ridefinire
le posizioni degli attori rispetto al conflitto che le contrappone, sia per
ripristinare una comunicazione che è stata interrotta o stravolta, portando
di conseguenza, quando ciò sia possibile, ad una risoluzione autentica
del conflitto stesso.
Ma, come si diceva, ad oggi la “soluzione” dei conflitti scaturiti
nelle strutture sanitarie viene ricercata per lo più in denunce-querele
in ambito penale (che creano danni e turbamenti a chi si trovi sottoposto ad
indagine) o in azioni civili con richieste di risarcimento del danno. Questa
strada - che costa, sia in termini di complessiva credibilità sia in
termini più strettamente pecuniari, assai di più alla struttura
sanitaria che al singolo medico - potrebbe ora, con l’introduzione di
un contributo unico per il pagamento delle imposte di bollo, diventare eccessivamente
gravosa per le parti economicamente più deboli, vale a dire per il paziente.
L’attuale situazione normativa, quindi, lungi dall’evitare la radicalizzazione
del conflitto potrebbe, verosimilmente, spostarlo sul piano della denuncia penale
– non soggetta ad imposte di bollo né a spese per le necessarie
consulenze medico-legali - con devastanti effetti a medio e lungo termine sotto
più di un profilo. E tra gli aspetti maggiormente rilevanti vi è
l’alta frequenza con cui dall’esito dell’azione giurisdizionale
derivano delusione e frustrazione ad entrambe le parti (anche in considerazione
dei costi sostenuti). Cosicché molto spesso il contesto giudiziario,
invece di configurarsi come il luogo in cui il conflitto trova soluzione e le
ragioni ricevono soddisfazione, si rivela incapace di dare le risposte cercate
e diventa anzi la sede in cui il conflitto si acutizza ed esaspera.
La mediazione offre la concreta possibilità di ridurre il contenzioso
giudiziario costituendo una modalità alternativa e assai meno dispendiosa
alla soluzione del conflitto. Tale via, su richiesta delle parti (personale
medico e paramedico e pazienti), può essere intrapresa, infatti, prima
che siano adite le vie legali, e quando porta ad una soluzione del conflitto
previene la manifestazione dello stesso in sede giurisdizionale. La mediazione
può rivelarsi utile anche dopo l’esperimento dell’iter legale,
quando una delle parti o entrambe si sentano insoddisfatte delle risposte ricevute
dalla giustizia.
La prevenzione del contenzioso giudiziario attraverso un percorso di mediazione
è reso possibile dai vantaggi da questa offerti. All’interno di
un contesto, in cui il mediatore, quale terzo neutrale e equidistante dalle
parti – o, se vogliamo, equi-prossimo a entrambe -, spogliato di ogni
funzione giudicante, ha come unico compito formale quello di garantire il rispetto
delle regole del contraddittorio, le parti sperimentano la possibilità
di poter esprimere ciò che in un dibattimento processuale è loro
precluso e di ottenere ascolto. Un ascolto che inizialmente è soltanto
quello del mediatore ma che finisce con l’essere anche quello della controparte.
In particolare, all’interno della mediazione il paziente avrà finalmente
la sensazione di svolgere un ruolo attivo, di sentire che il suo dolore e la
sua rabbia trovano riconoscimento e non sono giudicate, né accantonate
in quanto non costituiscono mezzi di prova; contemporaneamente, il medico avrà
l’opportunità di esporre la sua “verità”, cioè
il peso delle decisioni e delle consapevolezze, il peso connesso al potere riconosciutogli
dalla legge di violare la sfera più intima delle persone e la solitudine
di chi è costretti a fronteggiare le aspettative di onnipotenza della
medicina nutrite dal malato. Così il paziente potrà scoprire ciò
che fino a quel momento ha ignorato: cioè il rapporto del medico con
la vita e con la morte dei pazienti e la sua necessità di proteggersi
dal dolore per non esserne sommerso. Riconoscere la reciproca sofferenza costituisce
il passaggio essenziale per riportare il conflitto nella sua vera dimensione.
L’utilità della mediazione e la sua valenza preventiva rispetto
al contenzioso appaiono ancora più chiare considerando come, rispetto
alla mole delle citazioni in giudizio, siano rare le pronunce dei tribunali
che attribuiscono al medico una responsabilità per colpa. Esse dimostrano
come - sebbene il paziente che si rivolge ad un legale lamenti un danno di cui
attribuisce la colpa ad imperizia o a negligenza del medico - il conflitto scaturisca
soprattutto da un affidamento deluso, dalla percezione di un tradimento. La
relazione medico-paziente si è guastata a causa del venire meno alla
parola data (che forse non era mai stata data, sebbene vi sia una certa tendenza
in alcuni medici ad appiattirsi sulle aspettative del malato): all’interno
di questa relazione, infatti, il medico – e si vuole qui ribadirlo - è
portatore di un sapere cui il paziente non ha accesso, egli è il simbolo
della cura, l’unico in grado di ripristinare l’ordine sbaragliato
dal processo della malattia. E’ al medico che la persona rimette il proprio
desiderio di benessere e, in ultima analisi, di vita. Tale è la fiducia,
o il bisogno di avere fiducia, nel potere del medico, che il paziente accetta
di esporre le proprie nudità, fisiche e psicologiche, rinunciando al
pudore pur di ritrovare la salute. Si tratta, dunque di una relazione nella
quale circolano paura e dolore, vissuti di impotenza e preoccupazione (a volte
disperazione), ma anche aspettative e speranze. E fiducia. Quando la relazione
è spezzata dalla delusione per la propria condizione fisica dopo la cura,
resta il tradimento.
Quella fiducia tradita, che così spesso induce a chiedere in tribunale
un risarcimento che mai potrà “indennizzare” una simile ferita,
può essere accolta all’interno del percorso di mediazione e rielaborata.
L’ascolto reciproco delle parti, il confronto dei rispettivi vissuti,
in un luogo dove entrambe scoprono gradualmente di poter rinunciare alle proprie
posizioni difensive, permettono una riduzione del vissuto di vittimizzazione
per il paziente e l’acquisizione di una serie di consapevolezze decisive.
Col ridursi delle emozioni negative legate all’episodio, ad esempio, diventa
possibile concepire e vivere il “danno” non come colpa ma come eventualità.
Il paziente non sa nulla del rapporto del medico con il proprio lavoro, con
la sofferenza che incontra quotidianamente, con la vita e la morte dei suoi
ammalati. Non sa, per esempio, che spesso egli è costretto ad “esorcizzare”
e a prendere le distanze per non essere sommerso dal dolore. Il paziente sa
soltanto – e deve, se vuole sopravvivere - che il suo medico può
tutto, che può solo fare del bene, scotomizzando l’idea che egli
possa invece – essendo uomo – anche fare del “male”.
Il processo di mediazione, in questo senso, permette allora anche l’accesso
ad una verità esistenziale che la nostra cultura non è più
abituata a considerare: che la malattia e la morte, come la vita, sono processi
naturali che neppure la medicina più avanzata può interrompere.
Grazie alla rielaborazione del conflitto può poi ripristinarsi la fiducia,
e ciò consente l’avvio di procedure riparative del senso della
vicenda attraverso l’attribuzione ad essa di un significato condiviso.
Grazie all’accesso alla dimensione esistenziale dell’Altro, l’eventuale
attribuzione di responsabilità non deriva dal giudizio di un terzo estraneo,
al di sopra delle parti, ma avviene esclusivamente ad opera delle parti stesse
e nei termini da esse convenuti, superando in tal modo le ristrettezze formali
e i vincoli del recinto giudiziario. Infatti il mediatore siede tra i due confliggenti
solo per salvaguardare la fluidità del processo, per regolare lo spazio
d’azione, per garantire le regole del contraddittorio. Egli stimola le
competenze delle parti, invitandole ad assumere un ruolo costantemente attivo
nella gestione del loro conflitto, e definisce e precisa la cornice normativa
che scaturisce dal confronto reciproco, man mano che questa prende corpo. In
tal modo, i contendenti percepiscono sempre più chiaramente di “possedere”
il conflitto, anziché esserne posseduti, e riacquistano il sentimento
del proprio valore personale e/o professionale.
Una conseguenza indiscutibilmente positiva e attinente ad un piano più
generale di una mediazione riuscita è infine il ritrovamento della fiducia,
precedentemente perduta, non soltanto verso il singolo medico, ma anche nei
confronti dei servizi e delle istituzioni.
Può ragionevolmente convenirsi con quanti sostengono che molte delle critiche rivolte alle strutture o al personale sanitario circa le manchevolezze tecniche e logistiche in realtà vogliono esprimere - con un linguaggio socioeconomico o organizzativo - un disagio che è dovuto ad una carenza di ascolto, attenzione e comprensione. Probabilmente, se le organizzazioni sanitarie e di servizio, nonché gli operatori, prestassero più ascolto ai malati, le stesse carenze strutturali sarebbero più tollerate. In effetti, la relazione d’aiuto consiste non soltanto nell’agire, nel fare tecnico, ma anche e prima ancora nel sapere ascoltare e nel comprendere, nell’essere presenti e nell’accompagnare: sentirsi compresi da parte di qualcuno è un’esperienza “bonificante”, è un passo importante verso la salute.
In questo senso, forse sarebbe opportuno, per prevenire l’insorgere delle
conflittualità, che il personale delle strutture sanitarie adottasse
o incrementasse la capacità di ascoltare il paziente, evidentemente in
maniera autentica, e non strumentale o addirittura truffaldina<18>. E’ bene
ribadire infatti che la persona angosciata, più che di elusive risposte
razionali, ha bisogno di essere compresa, cioè di avvertire che l’operatore
sente la sua sofferenza e la rispetta. Va infatti ricordato che esortare la
persona incollerita o angosciata a recuperare il controllo, mentre costituisce
una efficace censura rispetto a ciò che quell’individuo sta sperimentando,
difficilmente gli permetterà di recuperare la tanto apprezzata ragionevolezza:
più probabilmente invece aumenterà sia la sua sfiducia nella possibilità
di essere compreso sia il suo senso d’impotenza e solitudine.
Ancora, si può condividere l’opinione che il successo terapeutico
dipenda non soltanto dalle capacità tecniche e dai farmaci, ma anche
dalla relazione.
Certo, non va dimenticato che anche medici e infermieri sono persone e che,
in quanto tali, hanno dei limiti. Neppure criticare l’insufficienza di
ascolto che a volte può riscontrarsi nelle strutture, così come
predicare la centralità della relazione, deve condurre a collocare il
medico fuori dai contorni e dalle proporzioni di un essere umano né a
nutrire aspettative irrealistiche nei suoi confronti. Infatti, se è vero
che per il malato è essenziale poter contare sulla qualità dei
servizi - la quale è inscindibile dalla “qualità umana”,
cioè dalla capacità di relazionarsi in modo empatico degli operatori
– e che la prevenzione della conflittualità è possibile
solo laddove si garantiscano queste buone condizioni ambientali, appare illusorio
pensare di attribuire questo compito esclusivamente al personale sanitario.
Anche per quest’ultimo si profilano delle esigenze. Sarebbe ingiusto e
illogico rilevare la necessità di un ascolto empatico per i ricoverati
ed escluderlo – o peggio affidarne in via esclusiva il gravoso incarico
- per chi la sofferenza deve maneggiarla quotidianamente, e si trova costretto
a proteggersi dal rischio di non esserne contagiato.
Il compito delle strutture non è solo quello di rispondere ai bisogni
manifesti e di fornire servizi specialistici – anche se questa funzione
è ovviamente primaria - ma è anche quello di fornire presenza,
attenzione e ascolto.
Perfezionare la qualità del servizio, assicurando buone condizioni di
relazione, significa sia rendere disponibile all’utenza un sostegno concreto,
sia prevenire la genesi di quelle frustrazioni e delusioni che innescano situazioni
conflittuali, le quali, in assenza di tavoli di mediazione, finiscono col determinare
un aggravio di preoccupazioni, tensioni e difficoltà organizzative e
gestionali, nonché di costi, in particolare di quelli derivanti dalla
tendenza a deviare ed esprimere malumori, delusioni e frustrazioni sul terreno
del contenzioso giudiziario. Ma per svolgere questo compito occorrono, in primo
luogo, operatori preparati, in secondo luogo, una progettazione e una organizzazione
dei servizi che tenga conto delle esigenze di ascolto e di attenzione e le assuma
come finalità.
Attraverso quanto fin qui esposto, ci premeva segnalare uno strumento alternativo
di appianamento o, quanto meno, di riduzione della conflittualità tra
medico e paziente.
I costi economici di simili scontri – non solo legati al risarcimento,
ma anche alla gestione giudiziaria del contenzioso – si stanno sempre
più dilatando: le coperture assicurative mostrano sempre più la
corda<19>; le parti attrici sono sempre più attive ed aggressive, ma spesso
mal motivate e consigliate; la gestione giudiziaria del conflitto è quasi
sempre ondivaga e le decisioni sono spesso superficiali, anche per la difficoltà
dei magistrati di reperire adeguati supporti tecnici per giungere a decisioni
che dipendono assai poco dal loro potere giudicante.
Per non parlare poi degli altri “costi”, rappresentati da una decisiva
alterazione del rapporto medico-paziente, che si risolve in un aumento del distacco
tra gli attori di quello che dovrebbe invece essere un legame saldo, franco,
teso alla risoluzione di un problema comune ad entrambe le parti: la sofferenza
e la morte per il paziente, e l’essenza etica stessa dell’essere
medico. Ecco allora insorgere la rabbia, l’angoscia, l’associazionismo
difensivo dei malati e, dall’altra parte, la solitudine, la chiusura,
la pratica clinica “difensiva” dei medici<20>.
La mediazione rappresenta una via, una strada aperta, la possibilità
di un dialogo in cui – senz’altra guida che quella di una gestione
“tecnica” da parte del mediatore – entrambe le parti possono
trovare sollievo guardandosi, parlandosi e riconoscendosi nella propria essenza
di uomini, affrontando insieme il dolore e l’angoscia della malattia e
della morte.
Bibliografia