Gian Galeazzo
Ciano
Ministro degli Esteri
Livorno 1903 - Verona 1944
Galeazzo Ciano era nato a Livorno il 18 marzo 1903. Figlio d'arte:
suo padre, Costanzo, conte di Cortellazzo, era un eroe della Grande Guerra e
fascista della primissima ora, intimo di Mussolini. Il giovane Galeazzo si
laurea in giurisprudenza a 22 anni ed entra in carriera diplomatica; addetto
all'ambasciata di Rio de Janeiro, poi a Pechino, quindi a Buenos Aires e infine
nell'ambasciata presso la Santa Sede, scala velocemente i gradini della
gerarchia, divenendo primo segretario d'ambasciata a soli ventisei anni.
Naturalmente a una carriera così veloce non poteva essere estranea l'illustre
ascendenza, anche se il giovanotto era comunque brillante e preparatissimo,
nonché fascistissimo. Ma la frequentazione tra la famiglia Ciano e la famiglia
Mussolini costituì il trampolino di lancio per traguardi ben maggiori: Galeazzo
iniziò a corteggiare Edda, la figlia primogenita del Duce. I due giovani
si sposarono il 24 aprile 1930; Edda non aveva che vent'anni, ma aveva già non
poca influenza sul padre, che ne ammirava il carattere forte e l'intelligenza.
Il genero del Duce fece ancora tre anni di servizio diplomatico in Cina,
divenendo ministro plenipotenziario in quella nazione. Nel 1933,
rientrato in Italia, Galeazzo Ciano inizia un'ascesa eccezionale. Mussolini lo
vuole accanto a sé e il brillante giovanotto viene nominato capo ufficio stampa
del Duce, e successivamente ministro per la stampa e la propaganda. Nel
1935 entra nel Gran Consiglio del Fascismo e ottiene anche la promozione al
grado di ambasciatore; parte volontario per la guerra d'Etiopia, comandando,
insieme al suo grande amico Pavolini, la squadriglia La Disperata del 4° stormo
da bombardamento. Rientra in Italia col petto ornato da due medaglie d'argento,
e il 9 giugno del 1936 tocca il traguardo più alto della sua carriera:
ministro degli esteri. Mussolini non accettava certamente che un ministro
elaborasse una propria linea, e del resto, proprio in materia di politica
estera, aveva già avuto come ministro un altro dei giovanotti brillanti del
fascismo, Dino Grandi, che gli aveva dato non pochi grattacapi. Bolognese,
avvocato, combattente eroico nella Grande Guerra, capo di Stato Maggiore del
Quadrunvirato della Marcia su Roma, anch'egli divenuto ministro giovanissimo (a
34 anni, nel 1929), era stato destituito tre anni dopo e spedito a fare
l'ambasciatore a Londra proprio perché si era mostrato troppo indipendente,
cercando di instaurare rapporti di collaborazione con le democrazie e con la
Società delle Nazioni, mostrando un volto morbido del fascismo, e rischiando
quindi di far compiere all'Italia delle scelte di campo ben precise, in
contrasto con le intenzioni del Duce, che, in un'Europa tutt'altro che
stabilizzata, voleva mantenersi libero per sfruttare le sue indubbie doti di
grande opportunista. La nomina di Galeazzo Ciano a ministro degli esteri poteva
quindi apparire come la quadratura del cerchio. Il dittatore, assegnando
la titolarità del dicastero al genero dava a quest'ultimo (e quindi alla figlia
Edda) la soddisfazione di una posizione di enorme prestigio, con la sicurezza,
nel contempo, di non avere un elemento centrifugo alla direzione della politica
estera. E in effetti Ciano fu un fedele esecutore delle direttive mussoliniane,
fintanto che queste ebbero una certa coerenza. Ma ebbe anche l'intelligenza e la
lucidità per capire che l'alleanza col nazismo spingeva l'Italia in un'avventura
senza ritorno, proprio quando Mussolini si mostrava sempre più smarrito e
confuso di fronte all'incalzare della piovra tedesca. E la dichiarazione di
quella strana cosa all'italiana, la non belligeranza, che non era neutralità,
non era appoggio militare, ma che comunque aveva l'effetto di mantenere l'Italia
fuori dalla guerra, fu, come dicevamo sopra, in gran parte frutto dell'azione di
Ciano. Si trattò, come sappiamo, di un'illusione che sarebbe durata
pochi mesi. Ma per poter meglio capire come si arrivò a quella non belligeranza,
cerchiamo di rivedere rapidamente la situazione in Europa e in Italia negli anni
immediatamente precedenti. L'ascesa al potere di Hitler in Germania non aveva
suscitato particolare interesse nel nostro paese. L'omino coi baffi era
diventato cancelliere il 30 gennaio del 33, era riuscito a ottenere dal
Reichstag i pieni poteri il 24 maggio, e aveva definitivamente consolidato la
sua posizione di Führer il 12 dicembre con un plebiscito trionfale (92% di
consensi). Aldilà del fatto che entrambi i regimi erano dittatoriali, tra
nazismo e fascismo la distanza era grande, anche se, a livello non ufficiale,
esistevano contatti tra i due partiti. L'esistenza anche in Austria di un forte
gruppo nazista, che si muoveva esplicitamente per l'annessione della giovane
repubblica alla Germania, faceva piuttosto temere a Mussolini di avere, in caso
di realizzazione dell' Anschluss, l'esercito tedesco alle porte di casa, al
Brennero. E infatti quando finalmente....HITLER , ormai cancelliere, riuscì a ottenere
un incontro col Duce, da lui ammirato come un maestro, questi pose subito sul
tappeto la questione dell'Austria. Era il 14 giugno del 34 e nei
colloqui, che si svolsero a Venezia, Hitler assicurò che rinunciava ai piani di
espansione verso Vienna, ma che pretendeva la sostituzione del Cancelliere
Dollfuss, che aveva dichiarato illegale il partito nazionalsocialista austriaco.
Quanto il dittatore tedesco fosse affidabile, lo si vide dopo poche settimane,
il 25 luglio, quando i nazisti tentarono un colpo di stato a Vienna, sventato
dalle forze dell'ordine austriache, che non riuscirono però ad impedire
l'assassinio del Cancelliere Dollfuss. La reazione di Mussolini fu
immediata, attestando quattro divisioni sulla linea di confine. Non accadde
nulla di irreparabile; i nazisti si fermarono; Mussolini aumentò la sua
popolarità in Europa, dove Hitler non suscitava simpatia in alcun paese, e in
Italia, dove tornavano a galla i mai sopiti sentimenti antitedeschi. D'altra
parte il Duce aveva bisogno di tener buone Francia e Inghilterra per avere mano
libera nel progetto che più gli stava a cuore al momento, ossia la conquista
dell'Etiopia. E infatti la conquista di questo paese e la successiva
proclamazione dell'Impero non conobbero ostacoli seri, neanche con le inique
sanzioni, aggirate in mille modi e che, tra l'altro, non comprendevano il
divieto di commerciare con l'Italia i prodotti petroliferi. Hitler,
ancora isolato in Europa, ma con dei piani espansivi già ben chiari, non
rinunciava a cercar di attirare l'Italia nella sua orbita; e l'occasione fu
offerta dalla guerra civile spagnola, dove italiani e tedeschi si trovarono a
dare un aiuto decisivo alle truppe franchiste. Quello che poteva apparire come
un problema interno della Spagna divenne di fatto lo scontro tra le due Europe,
quella delle dittature e quella delle democrazie. Ma il massiccio contributo
comunista alla causa dei repubblicani spagnoli (a cui partecipò, come inviato di
Mosca, un uomo di eccezionali qualità, Palmiro Togliatti) permise di configurare
definitivamente il conflitto spagnolo come la guerra contro il bolscevismo che
minacciava l'Europa: questo nemico comune consentiva finalmente a Hitler di
trovare dei punti di contatto diretti con Mussolini. Il 23 settembre del
36 giunse a Roma il ministro tedesco senza portafoglio Hans Frank, latore di un
invito in Germania sia per il Duce che per il ministro degli esteri, nonché di
rassicurazioni da parte di Hitler: il Führer non aveva mire territoriali sulla
Spagna, alla quale prestava aiuto per motivi di solidarietà politica, e inoltre
considerava sistemata la questione austriaca, dopo che gli accordi con il
cancelliere Schuschnigg avevano cancellato le misure antinaziste di Dollfuss.
Mussolini rispose che accettava con piacere gli inviti, e infatti Ciano si recò
in Germania dal 20 al 24 ottobre di quell'anno. Questa data, 20 ottobre
1936, si può considerare come l'inizio di una politica avventurista condotta
dall'Italia, con l'illusione di poter mantenere rapporti corretti con Gran
Bretagna e Francia, di poter contemporaneamente flirtare con il nazismo,
diffidandone però, e viaggiando insomma come un marinaio che, anziché seguire
una rotta prestabilita, sposti via via il timone a seconda delle variazioni del
mare. Mussolini aveva in quel momento un interesse precipuo, che era il
riconoscimento dell'Impero, e per questo non poteva prescindere dai buoni
rapporti con gli inglesi, ai quali però giocò un colpo basso, portando a
conoscenza di Hitler, tramite Ciano, un documento riservato stilato da Eden,
ministro degli esteri inglese, in cui si trattava del "pericolo tedesco", e in
cui il Führer stesso e il suo governo venivano bollati come "una banda di
avventurieri". Contro tutti, contro nessuno, in attesa di scegliere quale
fosse il nemico e quale l'amico: questo comportamento aveva permesso all'uomo di
Predappio di scalare il potere in Italia senza aver mai avuto, a ben guardare,
altra linea politica che non fosse la conquista e il consolidamento del potere
stesso. Lo stesso stile si applicava ora, con grave illusione, in politica
estera. Hitler iniziò le conversazioni con Ciano tessendo una lode
eccezionale per il Duce ("autore di un'opera immane per il suo paese"),
ricordando come la Germania non fosse stata tra le nazioni sanzioniste ed
esprimendo il convincimento che un'unione italo-tedesca in funzione
antibolscevica avrebbe portato, per forza di cose, molti paesi, timorosi del
pangermanismo o dell'imperialismo italiano, a schierarsi con le due dittature,
proprio perché ancora più intimoriti dal pericolo del
bolscevismo. L'incontro di Berlino fu poi consacrato da Mussolini che, in
lungo discorso tenuto a Milano in piazza Duomo, domenica 1° novembre 36, coniò
la parola "Asse". Peraltro il 2 gennaio del 37 Italia e Gran Bretagna firmarono
l'accordo (gentlemen's agreement) con cui garantivano reciprocamente la libertà
di circolazione nel Mediterraneo e la sovranità nazionale di tutti gli stati
affacciati sul quel bacino. Pochi giorni dopo, il 13 gennaio, giunse in
visita in Italia Hermann Goering, allora presidente del Reichstag e primo
ministro della Prussia, che si andava affermando come uno dei più importanti
collaboratori di Hitler, e fu rassicurato sulla solidità dell'amicizia
italo-tedesca e sul fatto che, al momento, l'interesse precipuo dell'Italia era
la conclusione vittoriosa del conflitto in Spagna e la prosecuzione della
politica antibolscevica in Europa. L'Italia insomma era in piena frenesia
diplomatica e il giovane ministro degli esteri si mostrava, come era nei voti di
Mussolini, un ottimo e brillante esecutore di ordini. Il Duce si sentiva sempre
più portato a un ruolo di grande mediatore in Europa, ma nel contempo si sentiva
attratto dalla potenza della Germania: durante la sua visita in quel paese, tra
il 25 e il 29 settembre del 37, una sapiente regia aveva saputo dare al Duce sia
la sensazione della cordialità popolare, con manifestazioni spontanee di
accoglienza, sia la dimostrazione di potenza, con un'eccezionale parata
militare. Hitler non era più l'uomo "risibile", era viceversa l'uomo che
stava attuando un riarmo massiccio; le posizioni si andavano pericolosamente
invertendo tra maestro e discepolo e Mussolini iniziava a maturare il timore di
restare indietro rispetto alla frenesia nazista. E questa pericolosa frenesia
aveva da tempo un primo obiettivo, l'annessione dell'Austria, più volte
espressamente esclusa da Hitler e intanto scrupolosamente preparata con
l'organizzazione del partito nazista austriaco che, agendo all'interno della
piccola repubblica preparava quei disordini che avrebbe costretto il cancelliere
Schuschnigg a chiedere il fraterno aiuto della Germania. Ciano annotava
tutto nei suoi Diari e proprio le vicende dell'Austria iniziarono a suscitare i
primi dubbi sull'affidabilità di Hitler, che il 20 febbraio del 38 aveva tenuto
al Reichstag un discorso che fu un capolavoro di ipocrisia, parlando di "più
profonda intesa raggiunta con una nazione che ci è molto vicina...
". Ciano annotò: "L'Austria è considerata entità nazionale e non
provincia germanica. Almeno per ora". Il 12 marzo l'Austria cessava di esistere
come stato indipendente, invasa dalle truppe tedesche, e diveniva "parte
integrante del Reich" con un referendum - farsa, conclusosi col 99,3% di "sì"
all'annessione. Tutta l'operazione era stata condotta senza consultazioni
preventive con l'Italia e ora il Duce si trovava in una situazione ben più
critica di quella di quattro anni prima, quando i nazisti avevano fallito il
loro disegno. Allora il Duce aveva inviato quattro divisioni al
Brennero. Ora si limitò a prendere atto del fatto compiuto. Poteva essere
l'occasione per sciogliersi dall'abbraccio mortale col nazismo e fu invece
l'inizio di una gara di emulazione che portò alla rovina il paese. Nel
frattempo in Germania il ministro degli esteri Von Neurath era stato sostituito
e al suo posto, il 4 febbraio di quel 1938, si era insediato un uomo che agì in
perfetta sintonia col suo Führer: JAOCHIM VON RIBBENTROP, già rappresentante di
vini e spumanti e genero dell'industriale dei vini Henkell. La fiducia che
Hitler gli accordava era ben riposta; ribbentrop orchestrò i successivi
colpi della politica nazista. Liquidato il problema dell'Austria, ora bisognava
dedicarsi alla Cecoslovacchia, dove tre milioni e mezzo di sudeti (così erano
chiamati i tedeschi residenti in quel paese) servivano a Hitler come pretesto
per una nuova conquista. Un ultimatum di Hitler alla Cecoslovacchia, che
equivaleva ad una rinuncia da parte di questa alla propria indipendenza, svegliò
finalmente le sopite democrazie, che avevano guardato l'Anschluss quasi con
indifferenza. La Gran Bretagna dichiarò lo stato di emergenza e il primo
ministro Chamberlain preparò il suo popolo al peggio in un discorso alla radio.
L'aggressività tedesca non poteva essere più tollerata, Hitler andava fermato
finché si era in tempo... ma fu proprio Hitler, con un colpo magistrale, a
invitare Chamberlain a mediare "per indurre i cecoslovacchi alla
ragione". Il dittatore tedesco proponeva una Conferenza dei Quattro
Grandi, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, per discutere il problema dei
sudeti. Chamberlain non chiedeva di meglio che una trattativa, Mussolini non
poteva certo rifiutare un invito del sempre più pressante alleato, la Francia
andava a rimorchio del Regno Unito. Il 29 settembre del 38, a Monaco, la
Cecoslovacchia del 1918 cessava di esistere, con la cessione alla Germania dei
territori occupati per oltre il 50% da tedeschi. La conferenza aveva dato
l'occasione a Mussolini per presentarsi come grande mediatore: le clausole del
patto erano quelle da lui stesso presentate. Hitler si mostrò soddisfatto; la
preparazione militare per eliminare del tutto quanto restava della
Cecoslovacchia continuava imperterrita. Il presidente ceco Benes il 30 settembre
annunciò l'accettazione di un accordo "preso senza di noi e contro di noi". Ma
illudersi è bello; Chamberlain e Daladier, primo ministro francese, lasciarono
Monaco con la convinzione di aver tranquillizzato Hitler e di aver quindi aperto
le porte ad un lungo periodo di pace. Mussolini fu celebrato dalla stampa
fascista come l'uomo che "aveva salvato la pace nella giustizia". Il 1938 si
chiudeva così su un'illusione di pace, e il 39 si apriva con la ormai quasi
completa vittoria delle forze nazionaliste in Spagna e con nuove pretese di
Hitler nei confronti di ciò che restava della Cecoslovacchia, col consueto
pretesto di "maltrattamenti ai tedeschi colà ancora residenti". Il 15
marzo di quell'anno Hitler pose al nuovo presidente cecoslovacco Hàcha
un'alternativa implacabile: o accettava il protettorato tedesco su Boemia e
Moravia, o il paese sarebbe stato invaso da quattordici divisioni germaniche.
Hàcha non poteva scegliere per il massacro del suo popolo, e
capitolò. Mussolini andò su tutte le furie per la nuova mossa
dell'alleato che si mostrava sempre più aggressivo e che ora minacciava di
attentare anche all'integrità territoriale della Jugoslavia, sulla quale invece
l'Italia aveva già ben precise mire, sostenendo in segreto il movimento
separatista di Vladimir Macek: Ciano tornò alla carica col suocero e per la
prima volta fu esplicito nell'invito a rompere l'alleanza con la Germania. Ma
bastò la rassicurazione da parte di Ribbentrop sul fatto che la Germania non
aveva alcuna aspirazione ad affacciarsi sul Mediterraneo, perché la momentanea
furia anti - tedesca di Mussolini si affievolisse. Ciano riporta nei
suoi diari che il Duce liquidò la faccenda dicendo: "Noi non possiamo cambiare
politica perché non siamo delle puttane!". L'Italia restava legata alla
Germania e quest'ultima premeva sempre più perché l'alleanza divenisse più
esplicitamente un patto militare. Mussolini e Ciano tiravano in lungo, il primo
perché comunque dubbioso sulla possibilità dell'Italia di assumersi un impegno
militare serio, con le forze armate efficienti al 40%, secondo le dichiarazioni
degli Stati Maggiori, il secondo perché sempre più anti tedesco. Ma il Duce
comunque, ormai avviluppato in quello strano rapporto di amore - odio -
emulazione con il Führer, volle prendersi anche lui la soddisfazione di una
conquista autonoma: e il paese dovette assistere alla poco onorevole invasione
dell'Albania, consumata minacciando la scialba figura di Re Zog, e che diede
l'occasione a Ciano di inebriarsi per alcuni giorni di potere, comportandosi da
viceré, alla conquista di uno stato che non interessava a nessuno e che non
offriva alcuna risorsa. Il mondo occidentale però iniziò a muoversi; la
vittoria nazionalista in Spagna e l'occupazione italiana dell'Albania spinsero
Francia e Gran Bretagna a prestare garanzia ai governi della Grecia e della
Romania "contro chiunque realizzasse una politica di dominio dell'Europa",
creando altresì una organizzazione di mutua assistenza con la Polonia e l'Unione
Sovietica. Hitler sentiva pesare su di sé questi atteggiamenti, che
erano difensivi ma venivano da lui vissuti come tentativi di accerchiamento
della Germania, e accelerò i preparativi per la successiva impresa a cui si
predisponeva, l'invasione della Polonia, "per riportare Danzica nel suo naturale
ambito tedesco" e per costituire quel corridoio che doveva congiungere la
Prussia Orientale col resto della Germania. L'imminenza di un'azione
tedesca contro la Polonia spinse Ciano a sollecitare un incontro con Ribbentrop,
che si tenne a Milano il 6 e 7 maggio (siamo nel 1939). Sia il Duce che il
ministro degli esteri escludevano ancora la firma di un trattato militare con la
Germania e Mussolini, seppur considerasse ormai inevitabile una guerra europea,
escludeva la possibilità per l'Italia di essere pronta prima del 1943. Era
quanto bastava a Ciano che, contrario in assoluto all'alleanza, partì abbastanza
tranquillo per Milano. I colloqui col ministro degli esteri tedesco toccarono
inizialmente temi generali, e Ribbentrop negò che la soluzione militare fosse
l'unico mezzo per risolvere la crisi con la Polonia, pur tornando sull'argomento
caro ai tedeschi: le democrazie si apprestavano ad assediare gli stati
totalitari, era quindi necessario che Italia e Germania stipulassero un'alleanza
militare. Ciano nicchiava e prendeva tempo, ma nel secondo giorno di colloqui
arrivò il colpo di scena: Mussolini ordinò telefonicamente al suo ministro degli
esteri di aderire alle richieste tedesche di alleanza. Nei suoi Diari,
Ciano svelerà che il Duce, adirato per aver letto su un giornale francese che
Milano aveva accolto con ostilità Ribbentrop, e che questo fatto provava il
diminuito prestigio personale di Mussolini, aveva voluto mostrare che invece
l'Italia marciava compatta con l'alleato. E il 22 maggio a Berlino fu firmato il
Patto d'Acciaio. Ciano riaffermò, nelle conversazioni con Hitler e Ribbentrop,
"l'interesse di entrambi gli alleati a un ulteriore mantenimento della pace per
almeno tre anni". I tedeschi assentirono; cosa costava loro dire di sì, quando
già sapevano cosa volevano fare? Il giorno successivo alla firma dell'alleanza
Hitler convocò i capi militari, ai quali impartì le direttive: "Danzica non è il
nostro scopo; l'invasione del Belgio e dell'Olanda ci servirà per un affondo non
già verso Parigi, ma verso le coste della Manica... ". I tedeschi
assentivano e proseguivano per la loro strada. Il patto d'acciaio voleva dire
soprattutto una garanzia a Sud; la garanzia a Est se la stavano creando con
trattative segrete che avrebbero condotto, il 23 agosto, al patto di non
aggressione con l'Unione Sovietica. Tra l'11 e il 13 agosto, sollecitati
dall'Italia, si tennero ancora a Salisburgo dei colloqui tra i due alleati; ma
si era ormai al dialogo tra sordi. Da una parte Ribbentrop ammetteva con
naturalezza che "Danzica e il corridoio non interessano più al Führer. Adesso
vogliamo la guerra". Hitler, alle domande incalzanti di Ciano, che ricordava
l'impegno a non prendere iniziative militari per almeno un triennio, rispondeva
con un'analisi della situazione internazionale, escludendo che Francia e Gran
Bretagna, data la loro scarsa preparazione militare, fossero realmente in grado
di intervenire in caso di invasione della Polonia, peraltro ritenuta ormai
inevitabile. Al ritorno da questo incontro, Ciano annotò sui Diari:
"Torno a Roma disgustato della Germania, dei suoi capi, del loro modo di agire.
Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in un'avventura che non
abbiamo voluta e che può compromettere il regime e il paese. Il popolo italiano
fremerà di orrore quando conoscerà l'aggressione contro la Polonia e , caso mai,
vorrà prendere le armi contro i tedeschi. Non so se augurare all'Italia una
vittoria o una sconfitta germanica". Il 23 agosto venne reso noto
il patto tra Ribbentrop e Molotov, ministro degli esteri sovietico. Il 25 agosto
Polonia e Gran Bretagna firmarono un trattato in base al quale un attacco
tedesco avrebbe provocato automaticamente l'intervento inglese. Hitler fremeva,
con le divisioni già pronte a dilagare in Polonia. Ciano, coadiuvato
dall'ambasciatore Attolico, stava in quei giorni pressando Mussolini perché si
addivenisse addirittura ad una denuncia del patto d'acciaio. Frasi del tipo: "Si
può essere più porci di Ribbentrop?", "Ci hanno sempre ingannato, trattandoci da
servi e non da alleati", "Stracciate il patto, Duce, gettatelo in faccia a
Hitler e l'Europa riconoscerà in voi il capo naturale della crociata
antigermanica!" punteggiarono colloqui, come ci narra Attolico, in cui Ciano
diede definitivamente sfogo al livore accumulato a Salisburgo. In effetti il
ministro degli esteri aveva ragione. L'azione militare contro la Polonia avrebbe
dovuto essere concordata tra i firmatari del patto d'acciaio, così come
l'accordo con l'Unione Sovietica. Mussolini ebbe un momento di incertezza
e autorizzò il ministro degli esteri a sollecitare un nuovo incontro con
Ribbentrop, in cui "chiarire definitivamente e senza dubbi la posizione
italiana". Ma Ribbentrop, molto semplicemente, non si rese disponibile, perché
troppo impegnato. Hitler aveva fissato l'invasione della Polonia per il 26
agosto, ma purtroppo il risultato dei colloqui di Ciano e Mussolini fu la
classica soluzione all'italiana, che non servì che a ritardare di qualche giorno
le operazioni militari tedesche e a portare alla dichiarazione di non
belligeranza con cui abbiamo aperto questo studio. Infatti il 25 agosto
Mussolini fece pervenire al Führer una lettera in cui gli spiegava che l'Italia
non poteva in ogni caso intervenire a fianco della Germania, perché troppo
sprovvista di mezzi bellici e di materie prime. Era mancato il coraggio per lo
sganciamento, e di fatto si rimandava il problema. Hitler chiese immediatamente
al governo italiano di specificare le sue necessità di approvvigionamenti e il
26 agosto Mussolini riunì a Palazzo Venezia i capi militari, ai quali Ciano
rivolse un caldo invito a non fare "del criminoso ottimismo". Da quella riunione
ne venne fuori una lista di richieste alla Germania che avrebbe avuto del
comico, se la situazione avesse permesso di ridere. In sostanza, l'Italia
denunciava carenze di materie prime ed armamenti per un quantitativo equivalente
a 17.000 (diciassettemila!) treni merci. Mussolini aveva optato per la furbata.
Hitler non era certamente in grado di garantire all'Italia un tale flusso di
rifornimenti, e continuò per la sua strada. La Polonia fu stritolata in
pochi giorni, mentre nell'opinione pubblica italiana, e anche tra le stesse
migliori intelligenze del fascismo - Grandi, Balbo, Bottai - la neutralità
diveniva sempre più popolare e iniziavano a serpeggiare le voci che volevano
Ciano come successore naturale di un Duce stanco e scosso da mille dubbi. Ma
Mussolini, che aveva potuto accettare le umiliazioni inflitte dall'alleato, non
poteva sopportare che venisse messo in discussione il suo potere, e in occasione
dell'incontro con le gerarchie del fascismo bolognese (la cosiddetta Decime
Legio) fu esplicito: "In questo momento burrascoso per l'Europa e per il mondo
intero, è bene che il pilota non sia disturbato, chiedendogli ogni momento
notizie sulla rotta che sta seguendo... Se e quando apparirò al balcone e
convocherò il popolo italiano ad ascoltarmi, non sarà per prospettargli esami
della situazione, ma per annunciargli decisioni, dico decisioni, di portata
storica...". Purtroppo, il pilota portò l'Italia al 10 giugno 1940, alla
catastrofe. Ciano vide da quel momento il suo potere estremamente ridotto,
tornando al ruolo di ministro - esecutore. Aveva visto chiaro, ma non aveva
potere sufficiente; del resto, gli mancò anche il coraggio di fare l'unico gesto
che avrebbe potuto dargli una statura maggiore di quella del Duce: presentare le
dimissioni, dissociarsi da una politica da suicidio. La terribile catarsi
dell'avventura di Ciano, fucilato il 10 gennaio del 1944 con gli altri traditori
del 25 luglio, stende un velo pietoso su tutta la vita di un uomo che fu senza
dubbio un arrivista, che nell'avventura dell'Albania fu cinico, ma che nel
contrasto col mostro nazista seppe avere più lucidità del Duce e più dignità del
Re.