Gli Uomini del Duce

Gian Galeazzo Ciano

Ministro degli Esteri
Livorno 1903 - Verona 1944

Galeazzo Ciano era nato a Livorno il 18 marzo 1903. Figlio d'arte: suo padre, Costanzo, conte di Cortellazzo, era un eroe della Grande Guerra e fascista della primissima ora, intimo di Mussolini. Il giovane Galeazzo si laurea in giurisprudenza a 22 anni ed entra in carriera diplomatica; addetto all'ambasciata di Rio de Janeiro, poi a Pechino, quindi a Buenos Aires e infine nell'ambasciata presso la Santa Sede, scala velocemente i gradini della gerarchia, divenendo primo segretario d'ambasciata a soli ventisei anni. Naturalmente a una carriera così veloce non poteva essere estranea l'illustre ascendenza, anche se il giovanotto era comunque brillante e preparatissimo, nonché fascistissimo. Ma la frequentazione tra la famiglia Ciano e la famiglia Mussolini costituì il trampolino di lancio per traguardi ben maggiori: Galeazzo iniziò a corteggiare Edda, la figlia primogenita del Duce.
I due giovani si sposarono il 24 aprile 1930; Edda non aveva che vent'anni, ma aveva già non poca influenza sul padre, che ne ammirava il carattere forte e l'intelligenza. Il genero del Duce fece ancora tre anni di servizio diplomatico in Cina, divenendo ministro plenipotenziario in quella nazione. 
Nel 1933, rientrato in Italia, Galeazzo Ciano inizia un'ascesa eccezionale. Mussolini lo vuole accanto a sé e il brillante giovanotto viene nominato capo ufficio stampa del Duce, e successivamente ministro per la stampa e la propaganda. 
Nel 1935 entra nel Gran Consiglio del Fascismo e ottiene anche la promozione al grado di ambasciatore; parte volontario per la guerra d'Etiopia, comandando, insieme al suo grande amico Pavolini, la squadriglia La Disperata del 4° stormo da bombardamento. Rientra in Italia col petto ornato da due medaglie d'argento, e il 9 giugno 
del 1936 tocca il traguardo più alto della sua carriera: ministro degli esteri. Mussolini non accettava certamente che un ministro elaborasse una propria linea, e del resto, proprio in materia di politica estera, aveva già avuto come ministro un altro dei giovanotti brillanti del fascismo, Dino Grandi, che gli aveva dato non pochi grattacapi. Bolognese, avvocato, combattente eroico nella Grande Guerra, capo di Stato Maggiore del Quadrunvirato della Marcia su Roma, anch'egli divenuto ministro giovanissimo (a 34 anni, nel 1929), era stato destituito tre anni dopo e spedito a fare l'ambasciatore a Londra proprio perché si era mostrato troppo indipendente, cercando di instaurare rapporti di collaborazione con le democrazie e con la Società delle Nazioni, mostrando un volto morbido del fascismo, e rischiando quindi di far compiere all'Italia delle scelte di campo ben precise, in contrasto con le intenzioni del Duce, che, in un'Europa tutt'altro che stabilizzata, voleva mantenersi libero per sfruttare le sue indubbie doti di grande opportunista. La nomina di Galeazzo Ciano a ministro degli esteri poteva quindi apparire come la quadratura del cerchio.
Il dittatore, assegnando la titolarità del dicastero al genero dava a quest'ultimo (e quindi alla figlia Edda) la soddisfazione di una posizione di enorme prestigio, con la sicurezza, nel contempo, di non avere un elemento centrifugo alla direzione della politica estera. E in effetti Ciano fu un fedele esecutore delle direttive mussoliniane, fintanto che queste ebbero una certa coerenza. Ma ebbe anche l'intelligenza e la lucidità per capire che l'alleanza col nazismo spingeva l'Italia in un'avventura senza ritorno, proprio quando Mussolini si mostrava sempre più smarrito e confuso di fronte all'incalzare della piovra tedesca. E la dichiarazione di quella strana cosa all'italiana, la non belligeranza, che non era neutralità, non era appoggio militare, ma che comunque aveva l'effetto di mantenere l'Italia fuori dalla guerra, fu, come dicevamo sopra, in gran parte frutto dell'azione di Ciano. 
Si trattò, come sappiamo, di un'illusione che sarebbe durata pochi mesi. Ma per poter meglio capire come si arrivò a quella non belligeranza, cerchiamo di rivedere rapidamente la situazione in Europa e in Italia negli anni immediatamente precedenti. L'ascesa al potere di Hitler in Germania non aveva suscitato particolare interesse nel nostro paese. L'omino coi baffi era diventato cancelliere il 30 gennaio del 33, era riuscito a ottenere dal Reichstag i pieni poteri il 24 maggio, e aveva definitivamente consolidato la sua posizione di Führer il 12 dicembre con un plebiscito trionfale (92% di consensi).
Aldilà del fatto che entrambi i regimi erano dittatoriali, tra nazismo e fascismo la distanza era grande, anche se, a livello non ufficiale, esistevano contatti tra i due partiti. L'esistenza anche in Austria di un forte gruppo nazista, che si muoveva esplicitamente per l'annessione della giovane repubblica alla Germania, faceva piuttosto temere a Mussolini di avere, in caso di realizzazione dell' Anschluss, l'esercito tedesco alle porte di casa, al Brennero. E infatti quando finalmente....HITLER , ormai cancelliere, riuscì a ottenere un incontro col Duce, da lui ammirato come un maestro, questi pose subito sul tappeto la questione dell'Austria. 
Era il 14 giugno del 34 e nei colloqui, che si svolsero a Venezia, Hitler assicurò che rinunciava ai piani di espansione verso Vienna, ma che pretendeva la sostituzione del Cancelliere Dollfuss, che aveva dichiarato illegale il partito nazionalsocialista austriaco. Quanto il dittatore tedesco fosse affidabile, lo si vide dopo poche settimane, il 25 luglio, quando i nazisti tentarono un colpo di stato a Vienna, sventato dalle forze dell'ordine austriache, che non riuscirono però ad impedire l'assassinio del Cancelliere Dollfuss.
 La reazione di Mussolini fu immediata, attestando quattro divisioni sulla linea di confine. Non accadde nulla di irreparabile; i nazisti si fermarono; Mussolini aumentò la sua popolarità in Europa, dove Hitler non suscitava simpatia in alcun paese, e in Italia, dove tornavano a galla i mai sopiti sentimenti antitedeschi. D'altra parte il Duce aveva bisogno di tener buone Francia e Inghilterra per avere mano libera nel progetto che più gli stava a cuore al momento, ossia la conquista dell'Etiopia. E infatti la conquista di questo paese e la successiva proclamazione dell'Impero non conobbero ostacoli seri, neanche con le inique sanzioni, aggirate in mille modi e che, tra l'altro, non comprendevano il divieto di commerciare con l'Italia i prodotti petroliferi.
 Hitler, ancora isolato in Europa, ma con dei piani espansivi già ben chiari, non rinunciava a cercar di attirare l'Italia nella sua orbita; e l'occasione fu offerta dalla guerra civile spagnola, dove italiani e tedeschi si trovarono a dare un aiuto decisivo alle truppe franchiste. Quello che poteva apparire come un problema interno della Spagna divenne di fatto lo scontro tra le due Europe, quella delle dittature e quella delle democrazie. Ma il massiccio contributo comunista alla causa dei repubblicani spagnoli (a cui partecipò, come inviato di Mosca, un uomo di eccezionali qualità, Palmiro Togliatti) permise di configurare definitivamente il conflitto spagnolo come la guerra contro il bolscevismo che minacciava l'Europa: questo nemico comune consentiva finalmente a Hitler di trovare dei punti di contatto diretti con Mussolini.
Il 23 settembre del 36 giunse a Roma il ministro tedesco senza portafoglio Hans Frank, latore di un invito in Germania sia per il Duce che per il ministro degli esteri, nonché di rassicurazioni da parte di Hitler: il Führer non aveva mire territoriali sulla Spagna, alla quale prestava aiuto per motivi di solidarietà politica, e inoltre considerava sistemata la questione austriaca, dopo che gli accordi con il cancelliere Schuschnigg avevano cancellato le misure antinaziste di Dollfuss. Mussolini rispose che accettava con piacere gli inviti, e infatti Ciano si recò in Germania dal 20 al 24 ottobre di quell'anno.
Questa data, 20 ottobre 1936, si può considerare come l'inizio di una politica avventurista condotta dall'Italia, con l'illusione di poter mantenere rapporti corretti con Gran Bretagna e Francia, di poter contemporaneamente flirtare con il nazismo, diffidandone però, e viaggiando insomma come un marinaio che, anziché seguire una rotta prestabilita, sposti via via il timone a seconda delle variazioni del mare. Mussolini aveva in quel momento un interesse precipuo, che era il riconoscimento dell'Impero, e per questo non poteva prescindere dai buoni rapporti con gli inglesi, ai quali però giocò un colpo basso, portando a conoscenza di Hitler, tramite Ciano, un documento riservato stilato da Eden, ministro degli esteri inglese, in cui si trattava del "pericolo tedesco", e in cui il Führer stesso e il suo governo venivano bollati come "una banda di avventurieri".
Contro tutti, contro nessuno, in attesa di scegliere quale fosse il nemico e quale l'amico: questo comportamento aveva permesso all'uomo di Predappio di scalare il potere in Italia senza aver mai avuto, a ben guardare, altra linea politica che non fosse la conquista e il consolidamento del potere stesso. Lo stesso stile si applicava ora, con grave illusione, in politica estera. 
Hitler iniziò le conversazioni con Ciano tessendo una lode eccezionale per il Duce ("autore di un'opera immane per il suo paese"), ricordando come la Germania non fosse stata tra le nazioni sanzioniste ed esprimendo il convincimento che un'unione italo-tedesca in funzione antibolscevica avrebbe portato, per forza di cose, molti paesi, timorosi del pangermanismo o dell'imperialismo italiano, a schierarsi con le due dittature, proprio perché ancora più intimoriti dal pericolo del bolscevismo.
L'incontro di Berlino fu poi consacrato da Mussolini che, in lungo discorso tenuto a Milano in piazza Duomo, domenica 1° novembre 36, coniò la parola "Asse". Peraltro il 2 gennaio del 37 Italia e Gran Bretagna firmarono l'accordo (gentlemen's agreement) con cui garantivano reciprocamente la libertà di circolazione nel Mediterraneo e la sovranità nazionale di tutti gli stati affacciati sul quel bacino. 
Pochi giorni dopo, il 13 gennaio, giunse in visita in Italia Hermann Goering, allora presidente del Reichstag e primo ministro della Prussia, che si andava affermando come uno dei più importanti collaboratori di Hitler, e fu rassicurato sulla solidità dell'amicizia italo-tedesca e sul fatto che, al momento, l'interesse precipuo dell'Italia era la conclusione vittoriosa del conflitto in Spagna e la prosecuzione della politica antibolscevica in Europa.
L'Italia insomma era in piena frenesia diplomatica e il giovane ministro degli esteri si mostrava, come era nei voti di Mussolini, un ottimo e brillante esecutore di ordini. Il Duce si sentiva sempre più portato a un ruolo di grande mediatore in Europa, ma nel contempo si sentiva attratto dalla potenza della Germania: durante la sua visita in quel paese, tra il 25 e il 29 settembre del 37, una sapiente regia aveva saputo dare al Duce sia la sensazione della cordialità popolare, con manifestazioni spontanee di accoglienza, sia la dimostrazione di potenza, con un'eccezionale parata militare.
Hitler non era più l'uomo "risibile", era viceversa l'uomo che stava attuando un riarmo massiccio; le posizioni si andavano pericolosamente invertendo tra maestro e discepolo e Mussolini iniziava a maturare il timore di restare indietro rispetto alla frenesia nazista. E questa pericolosa frenesia aveva da tempo un primo obiettivo, l'annessione dell'Austria, più volte espressamente esclusa da Hitler e intanto scrupolosamente preparata con l'organizzazione del partito nazista austriaco che, agendo all'interno della piccola repubblica preparava quei disordini che avrebbe costretto il cancelliere Schuschnigg a chiedere il fraterno aiuto della Germania. 
Ciano annotava tutto nei suoi Diari e proprio le vicende dell'Austria iniziarono a suscitare i primi dubbi sull'affidabilità di Hitler, che il 20 febbraio del 38 aveva tenuto al Reichstag un discorso che fu un capolavoro di ipocrisia, parlando di "più profonda intesa raggiunta con una nazione che ci è molto vicina... ".
Ciano annotò: "L'Austria è considerata entità nazionale e non provincia germanica. Almeno per ora". Il 12 marzo l'Austria cessava di esistere come stato indipendente, invasa dalle truppe tedesche, e diveniva "parte integrante del Reich" con un referendum - farsa, conclusosi col 99,3% di "sì" all'annessione. Tutta l'operazione era stata condotta senza consultazioni preventive con l'Italia e ora il Duce si trovava in una situazione ben più critica di quella di quattro anni prima, quando i nazisti avevano fallito il loro disegno. 
Allora il Duce aveva inviato quattro divisioni al Brennero. Ora si limitò a prendere atto del fatto compiuto. Poteva essere l'occasione per sciogliersi dall'abbraccio mortale col nazismo e fu invece l'inizio di una gara di emulazione che portò alla rovina il paese.
Nel frattempo in Germania il ministro degli esteri Von Neurath era stato sostituito e al suo posto, il 4 febbraio di quel 1938, si era insediato un uomo che agì in perfetta sintonia col suo Führer: JAOCHIM VON RIBBENTROP, già rappresentante di vini e spumanti e genero dell'industriale dei vini Henkell. La fiducia che Hitler gli accordava era ben riposta; ribbentrop  orchestrò i successivi colpi della politica nazista. Liquidato il problema dell'Austria, ora bisognava dedicarsi alla Cecoslovacchia, dove tre milioni e mezzo di sudeti (così erano chiamati i tedeschi residenti in quel paese) servivano a Hitler come pretesto per una nuova conquista. Un ultimatum di Hitler alla Cecoslovacchia, che equivaleva ad una rinuncia da parte di questa alla propria indipendenza, svegliò finalmente le sopite democrazie, che avevano guardato l'Anschluss quasi con indifferenza. La Gran Bretagna dichiarò lo stato di emergenza e il primo ministro Chamberlain preparò il suo popolo al peggio in un discorso alla radio. L'aggressività tedesca non poteva essere più tollerata, Hitler andava fermato finché si era in tempo... ma fu proprio Hitler, con un colpo magistrale, a invitare Chamberlain a mediare "per indurre i cecoslovacchi alla ragione".
Il dittatore tedesco proponeva una Conferenza dei Quattro Grandi, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, per discutere il problema dei sudeti. Chamberlain non chiedeva di meglio che una trattativa, Mussolini non poteva certo rifiutare un invito del sempre più pressante alleato, la Francia andava a rimorchio del Regno Unito. Il 29 settembre del 38, a Monaco, la Cecoslovacchia del 1918 cessava di esistere, con la cessione alla Germania dei territori occupati per oltre il 50% da tedeschi. La conferenza aveva dato l'occasione a Mussolini per presentarsi come grande mediatore: le clausole del patto erano quelle da lui stesso presentate. Hitler si mostrò soddisfatto; la preparazione militare per eliminare del tutto quanto restava della Cecoslovacchia continuava imperterrita. Il presidente ceco Benes il 30 settembre annunciò l'accettazione di un accordo "preso senza di noi e contro di noi". Ma illudersi è bello; Chamberlain e Daladier, primo ministro francese, lasciarono Monaco con la convinzione di aver tranquillizzato Hitler e di aver quindi aperto le porte ad un lungo periodo di pace. Mussolini fu celebrato dalla stampa fascista come l'uomo che "aveva salvato la pace nella giustizia". Il 1938 si chiudeva così su un'illusione di pace, e il 39 si apriva con la ormai quasi completa vittoria delle forze nazionaliste in Spagna e con nuove pretese di Hitler nei confronti di ciò che restava della Cecoslovacchia, col consueto pretesto di "maltrattamenti ai tedeschi colà ancora residenti".
Il 15 marzo di quell'anno Hitler pose al nuovo presidente cecoslovacco Hàcha un'alternativa implacabile: o accettava il protettorato tedesco su Boemia e Moravia, o il paese sarebbe stato invaso da quattordici divisioni germaniche. Hàcha non poteva scegliere per il massacro del suo popolo, e capitolò.
Mussolini andò su tutte le furie per la nuova mossa dell'alleato che si mostrava sempre più aggressivo e che ora minacciava di attentare anche all'integrità territoriale della Jugoslavia, sulla quale invece l'Italia aveva già ben precise mire, sostenendo in segreto il movimento separatista di Vladimir Macek: Ciano tornò alla carica col suocero e per la prima volta fu esplicito nell'invito a rompere l'alleanza con la Germania. Ma bastò la rassicurazione da parte di Ribbentrop sul fatto che la Germania non aveva alcuna aspirazione ad affacciarsi sul Mediterraneo, perché la momentanea furia anti - tedesca di Mussolini si affievolisse. 
Ciano riporta nei suoi diari che il Duce liquidò la faccenda dicendo: "Noi non possiamo cambiare politica perché non siamo delle puttane!".
L'Italia restava legata alla Germania e quest'ultima premeva sempre più perché l'alleanza divenisse più esplicitamente un patto militare. Mussolini e Ciano tiravano in lungo, il primo perché comunque dubbioso sulla possibilità dell'Italia di assumersi un impegno militare serio, con le forze armate efficienti al 40%, secondo le dichiarazioni degli Stati Maggiori, il secondo perché sempre più anti tedesco. Ma il Duce comunque, ormai avviluppato in quello strano rapporto di amore - odio - emulazione con il Führer, volle prendersi anche lui la soddisfazione di una conquista autonoma: e il paese dovette assistere alla poco onorevole invasione dell'Albania, consumata minacciando la scialba figura di Re Zog, e che diede l'occasione a Ciano di inebriarsi per alcuni giorni di potere, comportandosi da viceré, alla conquista di uno stato che non interessava a nessuno e che non offriva alcuna risorsa.
Il mondo occidentale però iniziò a muoversi; la vittoria nazionalista in Spagna e l'occupazione italiana dell'Albania spinsero Francia e Gran Bretagna a prestare garanzia ai governi della Grecia e della Romania "contro chiunque realizzasse una politica di dominio dell'Europa", creando altresì una organizzazione di mutua assistenza con la Polonia e l'Unione Sovietica. 
Hitler sentiva pesare su di sé questi atteggiamenti, che erano difensivi ma venivano da lui vissuti come tentativi di accerchiamento della Germania, e accelerò i preparativi per la successiva impresa a cui si predisponeva, l'invasione della Polonia, "per riportare Danzica nel suo naturale ambito tedesco" e per costituire quel corridoio che doveva congiungere la Prussia Orientale col resto della Germania.
L'imminenza di un'azione tedesca contro la Polonia spinse Ciano a sollecitare un incontro con Ribbentrop, che si tenne a Milano il 6 e 7 maggio (siamo nel 1939). Sia il Duce che il ministro degli esteri escludevano ancora la firma di un trattato militare con la Germania e Mussolini, seppur considerasse ormai inevitabile una guerra europea, escludeva la possibilità per l'Italia di essere pronta prima del 1943. Era quanto bastava a Ciano che, contrario in assoluto all'alleanza, partì abbastanza tranquillo per Milano. I colloqui col ministro degli esteri tedesco toccarono inizialmente temi generali, e Ribbentrop negò che la soluzione militare fosse l'unico mezzo per risolvere la crisi con la Polonia, pur tornando sull'argomento caro ai tedeschi: le democrazie si apprestavano ad assediare gli stati totalitari, era quindi necessario che Italia e Germania stipulassero un'alleanza militare. Ciano nicchiava e prendeva tempo, ma nel secondo giorno di colloqui arrivò il colpo di scena: Mussolini ordinò telefonicamente al suo ministro degli esteri di aderire alle richieste tedesche di alleanza.
Nei suoi Diari, Ciano svelerà che il Duce, adirato per aver letto su un giornale francese che Milano aveva accolto con ostilità Ribbentrop, e che questo fatto provava il diminuito prestigio personale di Mussolini, aveva voluto mostrare che invece l'Italia marciava compatta con l'alleato. E il 22 maggio a Berlino fu firmato il Patto d'Acciaio. Ciano riaffermò, nelle conversazioni con Hitler e Ribbentrop, "l'interesse di entrambi gli alleati a un ulteriore mantenimento della pace per almeno tre anni". I tedeschi assentirono; cosa costava loro dire di sì, quando già sapevano cosa volevano fare? Il giorno successivo alla firma dell'alleanza Hitler convocò i capi militari, ai quali impartì le direttive: "Danzica non è il nostro scopo; l'invasione del Belgio e dell'Olanda ci servirà per un affondo non già verso Parigi, ma verso le coste della Manica... ".
I tedeschi assentivano e proseguivano per la loro strada. Il patto d'acciaio voleva dire soprattutto una garanzia a Sud; la garanzia a Est se la stavano creando con trattative segrete che avrebbero condotto, il 23 agosto, al patto di non aggressione con l'Unione Sovietica. Tra l'11 e il 13 agosto, sollecitati dall'Italia, si tennero ancora a Salisburgo dei colloqui tra i due alleati; ma si era ormai al dialogo tra sordi. Da una parte Ribbentrop ammetteva con naturalezza che "Danzica e il corridoio non interessano più al Führer. Adesso vogliamo la guerra". Hitler, alle domande incalzanti di Ciano, che ricordava l'impegno a non prendere iniziative militari per almeno un triennio, rispondeva con un'analisi della situazione internazionale, escludendo che Francia e Gran Bretagna, data la loro scarsa preparazione militare, fossero realmente in grado di intervenire in caso di invasione della Polonia, peraltro ritenuta ormai inevitabile.
Al ritorno da questo incontro, Ciano annotò sui Diari: "Torno a Roma disgustato della Germania, dei suoi capi, del loro modo di agire. Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in un'avventura che non abbiamo voluta e che può compromettere il regime e il paese. Il popolo italiano fremerà di orrore quando conoscerà l'aggressione contro la Polonia e , caso mai, vorrà prendere le armi contro i tedeschi. Non so se augurare all'Italia una vittoria o una sconfitta germanica".
 Il 23 agosto venne reso noto il patto tra Ribbentrop e Molotov, ministro degli esteri sovietico. Il 25 agosto Polonia e Gran Bretagna firmarono un trattato in base al quale un attacco tedesco avrebbe provocato automaticamente l'intervento inglese. Hitler fremeva, con le divisioni già pronte a dilagare in Polonia. Ciano, coadiuvato dall'ambasciatore Attolico, stava in quei giorni pressando Mussolini perché si addivenisse addirittura ad una denuncia del patto d'acciaio. Frasi del tipo: "Si può essere più porci di Ribbentrop?", "Ci hanno sempre ingannato, trattandoci da servi e non da alleati", "Stracciate il patto, Duce, gettatelo in faccia a Hitler e l'Europa riconoscerà in voi il capo naturale della crociata antigermanica!" punteggiarono colloqui, come ci narra Attolico, in cui Ciano diede definitivamente sfogo al livore accumulato a Salisburgo. In effetti il ministro degli esteri aveva ragione. L'azione militare contro la Polonia avrebbe dovuto essere concordata tra i firmatari del patto d'acciaio, così come l'accordo con l'Unione Sovietica.
Mussolini ebbe un momento di incertezza e autorizzò il ministro degli esteri a sollecitare un nuovo incontro con Ribbentrop, in cui "chiarire definitivamente e senza dubbi la posizione italiana". Ma Ribbentrop, molto semplicemente, non si rese disponibile, perché troppo impegnato. Hitler aveva fissato l'invasione della Polonia per il 26 agosto, ma purtroppo il risultato dei colloqui di Ciano e Mussolini fu la classica soluzione all'italiana, che non servì che a ritardare di qualche giorno le operazioni militari tedesche e a portare alla dichiarazione di non belligeranza con cui abbiamo aperto questo studio. 
Infatti il 25 agosto Mussolini fece pervenire al Führer una lettera in cui gli spiegava che l'Italia non poteva in ogni caso intervenire a fianco della Germania, perché troppo sprovvista di mezzi bellici e di materie prime. Era mancato il coraggio per lo sganciamento, e di fatto si rimandava il problema. Hitler chiese immediatamente al governo italiano di specificare le sue necessità di approvvigionamenti e il 26 agosto Mussolini riunì a Palazzo Venezia i capi militari, ai quali Ciano rivolse un caldo invito a non fare "del criminoso ottimismo". Da quella riunione ne venne fuori una lista di richieste alla Germania che avrebbe avuto del comico, se la situazione avesse permesso di ridere. In sostanza, l'Italia denunciava carenze di materie prime ed armamenti per un quantitativo equivalente a 17.000 (diciassettemila!) treni merci. Mussolini aveva optato per la furbata. Hitler non era certamente in grado di garantire all'Italia un tale flusso di rifornimenti, e continuò per la sua strada.
La Polonia fu stritolata in pochi giorni, mentre nell'opinione pubblica italiana, e anche tra le stesse migliori intelligenze del fascismo - Grandi, Balbo, Bottai - la neutralità diveniva sempre più popolare e iniziavano a serpeggiare le voci che volevano Ciano come successore naturale di un Duce stanco e scosso da mille dubbi. Ma Mussolini, che aveva potuto accettare le umiliazioni inflitte dall'alleato, non poteva sopportare che venisse messo in discussione il suo potere, e in occasione dell'incontro con le gerarchie del fascismo bolognese (la cosiddetta Decime Legio) fu esplicito: "In questo momento burrascoso per l'Europa e per il mondo intero, è bene che il pilota non sia disturbato, chiedendogli ogni momento notizie sulla rotta che sta seguendo... Se e quando apparirò al balcone e convocherò il popolo italiano ad ascoltarmi, non sarà per prospettargli esami della situazione, ma per annunciargli decisioni, dico decisioni, di portata storica...".
Purtroppo, il pilota portò l'Italia al 10 giugno 1940, alla catastrofe. Ciano vide da quel momento il suo potere estremamente ridotto, tornando al ruolo di ministro - esecutore. Aveva visto chiaro, ma non aveva potere sufficiente; del resto, gli mancò anche il coraggio di fare l'unico gesto che avrebbe potuto dargli una statura maggiore di quella del Duce: presentare le dimissioni, dissociarsi da una politica da suicidio.
La terribile catarsi dell'avventura di Ciano, fucilato il 10 gennaio del 1944 con gli altri traditori del 25 luglio, stende un velo pietoso su tutta la vita di un uomo che fu senza dubbio un arrivista, che nell'avventura dell'Albania fu cinico, ma che nel contrasto col mostro nazista seppe avere più lucidità del Duce e più dignità del Re.

  


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