Alessandro
Pavolini
Ministro
della Cultura Popolare Firenze 1903 - Dongo (CO) 1945
Alessandro Pavolini nasce a Firenze il 27 settembre
del 1903. E' di ottima famiglia altoborghese: suo padre, Paolo Emilio, che
diventerà anche Accademico d'Italia, è un indianista e orientalista di fama
internazionale. Alessandro fin da giovanissimo manifesta la sua vocazione per
l’attività letteraria. A dodici anni fonderà un giornaletto scolastico in cui
scriverà articoli interventisti. E' studente brillante, si laurea in
Giurisprudenza e in Scienze Politiche, frequentando due atenei, quello di
Firenze e quello di Roma. E proprio a Roma, per ragioni di studio, il giovanotto
si trova nel giorno "fatale" del 28 ottobre del 1922. Si accoda alle colonne
fiorentine di camicie nere per la parata finale, quando Mussolini ha già
ricevuto la nomina a Primo Ministro: e la sua marcia su Roma è tutta
qui.
I richiami allo squadrismo che Pavolini farà poi, nel
periodo repubblichino, sono di tipo puramente intellettuale e morale:
squadrista, nel senso effettivo e violento del termine, non fu mai. Del resto,
tra lui e l'armata brancaleone che "marciò" su Roma c'era un abisso: lo stesso
abisso che separava i due tronconi del fascismo a Firenze, quello popolare di
Tullio Tamburini (che aveva tra i suoi fedeli anche elementi come Amerigo
Dumini), e quello aristocratico e altoborghese, guidato da Dino Perrone.
Compagni che, pur con i suoi poco onorevoli precedenti (famoso come donnaiolo,
ex-ufficiale di cavalleria, era stato degradato per debiti di gioco), aveva pur
sempre un titolo di marchese, pur se la sua fama di "viveur" lo rendeva popolare
anche tra i ciompi di Tamburini. In politica con i fascisti, fù la parte aristocratica a prevalere, ed infatti il
federale di Firenze sarà un altro marchese, Luigi Ridolfi. E fu proprio
quest'ultimo a introdurre Pavolini nella politica attiva , chiamandolo al suo
fianco nel 1927 come vice-federale. Era una naturale cooptazione tra personaggi
della Firenze-bene, chiusa ed esclusiva, in cui l'emergente giovanotto,
elegante, ottimo giocatore di tennis, brillante conversatore, aveva il suo giro
di amici (tra cui anche Carlo e Nello Rosselli). Collaboratore di riviste
letterarie, scrittore di saggi politici, si cimentò anche nel romanzo e nel 1928
ottenne un primo buon successo con "Giro d'Italia". Nel 1929 il marchese Ridolfi lascia la carica di
federale, passando il testimone a Pavolini che diviene così, a soli ventisei
anni, la massima autorità fascista di Firenze. Fu un federale anomalo: mentre il
fascismo procedeva sulla strada del totalitarismo, entrando in tutta la vita
degli italiani, regolandola dalla nascita alla morte, mentre Achille Starace,
segretario nazionale del partito, imperversava con i suoi alluvioni di buffonate
(fu uno dei più infaticabili creatori di uniformi sempre più complesse e,
fanatico dello sport, impose all'Italia, gerarchi in testa, un salutismo a dir
poco ridicolo), mentre il regime diveniva sempre più appannatore delle
coscienze, Pavolini manteneva una sorta di aristocratico distacco, convinto di
una supremazia comunque indiscutibile della cultura e
dell'arte. Firenze, con Pavolini federale, conobbe un grande
impulso alle manifestazioni artistiche e di costume. La mostra degli artigiani
di Ponte Vecchio, l'annuale rievocazione della partita di calcio in costume,
innumerevoli mostre d'arte, furono tra le molte iniziative di questo gerarca.
Un'altra delle sue creature, il "Maggio musicale fiorentino" è tutt'oggi una
delle più importanti rassegne artistiche a livello internazionale. E' sempre in
questo periodo che Pavolini fonda anche una rivista settimanale, "Il Bargello",
ufficialmente organo della federazione giovanile fascista, di fatto rivista
letteraria: il federale non chiede la tessera ai suoi collaboratori, convinto
com'è che l'arte sia sufficiente a distinguere l'individuo. Non si tratta ancora di fronda, ma comunque è già un
grande atto di distinzione rispetto alla corsa al consenso: non scordiamoci
infatti che ormai, come notavamo sopra, il fascismo era dittatura consolidata.
Mussolini, dopo il delitto Matteotti, dopo le intemperanze delle squadre
d'azione (che proprio a Firenze avevano creato gravi disordini sul finire del
1924), col discorso del 3 gennaio del 25 aveva posto le basi per quella
conquista dello Stato di cui la marcia su Roma non fu che un episodio. Quando
Pavolini inizia ad assumere le prime responsabilità politiche (nel 27, come
vedevamo sopra) il fascismo è ormai consolidato come partito-stato, il bavaglio
alla stampa è già imposto, sono già state emanate le norme sulla revisione dei
passaporti, sulla cittadinanza, è già stato istituito il Tribunale speciale per
la difesa dello Stato, è già stata abolita l’elettività nelle amministrazioni
dei comuni con meno di 5000 abitanti (ed entro il 1929 il "podestà" di nomina
governativa sarà imposto a tutti i comuni d'Italia). In questo clima in cui, con
antico vizio nazionale, i consensi aumentavano via via che aumentava la potenza
del vincitore, Pavolini si distingue appunto come elemento anomalo, anche se non
si porrà mai in chiara antitesi con il Duce, anche se non aspirerà mai a guidare
una sorta di "opposizione interna" sul tipo di quella del ras di Cremona, il
bollente Roberto Farinacci. Pavolini fascista è sostanzialmente pavoliniano. Per
la sua estrazione sociale, non può che essere ai vertici della società, e la
società è fascista. Per la sua preparazione culturale (che lo distanzia di molto
dalla media dei gerarchi fascisti) e per le sue doti non può che essere un
isolato. E’ un isolato che però si è fatto un nome e a Firenze
è divenuto estremamente popolare: nel 1932 viene chiamato a far parte del
Direttorio Nazionale del Partito, iniziando così" le sue frequentazioni a Roma,
dove si trasferirà nel 1934, eletto deputato. E nella capitale Pavolini
incontrerà un altro giovane "emergente" del fascismo, con cui stringerà una
grande amicizia: GALEAZZO CIANO. Un' amicizia dal tracico futuro, un
incontro che segnerà profondamente la vita di Pavolini
perché, come vedremo più avanti, Ciano divenne poi la vittima sacrificale
nell'agonia del regime, avendo come carnefice proprio il suo più caro amico. Ma
nel 1932 Ciano è lanciatissimo: da due anni ha sposato Edda Mussolini, è quindi
genero del Duce, una posizione di enorme vantaggio per valorizzare le doti di
intraprendenza e di intelligenza che, comunque, il giovanotto mostra di avere,
oltre ad essere (il che non guasta mai) "figlio d'arte": suo padre Costanzo è
una delle figure più eminenti del fascismo, nonché eroe della Grande Guerra.
Anche Ciano, che è coetaneo di Pavolini, ha fatto qualche esperienza
giornalistica giovanile, dedicandosi poi alla carriera diplomatica, nella quale
brucerà le tappe, divenendo, trentatreenne, ministro degli esteri. Anche Ciano,
come Pavolini, è una figura "anomala", anche se la sua posizione familiare gli
consente, al più, un moderato scetticismo, non certo un'opposizione al
Duce. Pavolini
deputato, grazie alla sua fama di scrittore e di organizzatore culturale, viene
chiamato a presiedere la Confederazione Professionisti ed Artisti. E con questa
carica istituisce i "LITTORIALI", una specie di olimpiade della cultura e
dell'arte, che diverranno presto anche il luogo di espressione di quel poco di
fronda e di dissenso che era possibile in Italia. Non mancano, da parte dei
fascisti più ortodossi, le lamentele per il carattere spesso ambiguo dei
Littoriali, nei quali si metteranno in luce anche alcuni futuri antifascisti, e
queste lamentele ne alimentano delle altre, quello sullo snobismo di Pavolini,
visto da molti gerarchi come l'uomo presuntuoso, che si bea di se stesso, non
nascondendo (ad esempio) il suo profondo disprezzo per ACHILLE STARACE, il
segretario del Partito, ingenuo e ignorante, tutto teso nello sforzo di essere
più mussoliniano di Mussolini. L’AVVENTURA
MILITARE IN AFRICA - La carica consente a Pavolini anche di scrivere sul
giornale più importante, il Corriere della Sera, lasciando il Popolo d'Italia,
giornale mussoliniano per eccellenza, ai mestieranti del regime o ai giovani
alle prime prove. Ma il livello dei suoi scritti è sempre alto. Pavolini è
arrivato al "Corriere" perché è diventato un gerarca importante: ma comunque
fornisce al "Corriere" ottimo materiale. Lo scrittore e giornalista, presidente
della Confederazione professionisti ed artisti, sente però il richiamo
dell'avventura militare e parte volontario per la guerra d'Africa: proprio col
suo amicissimo Galeazzo Ciano comanderà una squadriglia aerea cui viene dato il
nome di una squadra d'azione famosa a Firenze ai tempi della marcia su Roma: la
Disperata. Durante la guerra Pavolini trova anche il tempo di mandare
corrispondenze al Corriere della Sera, e dall'esperienza bellica in Africa
trarrà il suo secondo libro: "La Disperata". Finita
l’avventura africana, mentre Ciano diviene Ministro degli Esteri, Pavolini, che
è ormai entrato definitivamente nelle grazie di Mussolini, diventa una specie di
"inviato speciale" del regime. Viaggia in tutto il mondo, inviando al "Corriere"
corrispondenze che poi raccoglierà in volume. Sono
probabilmente gli anni migliori di Pavolini, che può dare il massimo sfogo alla
sua passione giornalistica, che riceve apprezzamenti anche dai colleghi della
stampa estera, che vive insomma cavalcando il fascismo, con la coscienza del
fatto che è il regime ad avere bisogno di lui, mentre lui stesso ha le doti che
gli darebbero comunque il successo anche senza il fascismo. In questo periodo
inizia la sua relazione con l'attrice DORIS DURANTI, una delle "maliarde" del
cinema italiano, concorrente di Clara Calamai in un certo ritorno al cinema muto
(nel senso che una bella donna che si spoglia non ha in genere bisogno di
pronunciare molte parole). MINISTRO
DELLA CULTURA POPOLARE -
Il 31 ottobre
1939, in uno dei molti rimpasti governativi in cui alcuni ministri apprendevano
il giorno dopo, dalla stampa, che "le loro dimissioni erano state accettate da
S. M. il Re e Imperatore", Alessandro Pavolini (che di lì a poco darà alle
stampe con successo il suo ultimo romanzo, "Scomparsa d'Angela") diventa
Ministro della Cultura Popolare: è il vero potere, probabilmente la posizione
più importante dopo quella del duce. Per chiarire
questa affermazione, conviene fermarsi un attimo sulla natura e le attribuzioni
di questo ministero. Il Ministero della Cultura Popolare, istituito il 1°
settembre del 1937, come sviluppo del sottosegretariato alla Stampa e del
successivo Ministero della Stampa, è la più poderosa arma del Partito Fascista
per il controllo delle coscienze degli italiani. Già da diversi anni il regime,
con le norme definitive sull'Ordine dei Giornalisti e sull'Albo Professionale (a
cui devono essere iscritti obbligatoriamente i direttori responsabili delle
testate) ha iniziato il controllo della stampa, efficacemente spiegato dallo
stesso Mussolini il 10 ottobre del 28 ad un raduno dei direttori di giornale:
"il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime: è
libero perché, nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare, e le
esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione". Possiamo notare un
concetto di libertà a dir poco originale. D'altra parte il Duce, giornalista
egli stesso, aveva intuito l'importanza vitale, per la gestione del potere, del
controllo di quelli che oggi chiamiamo "mass-media". E infatti il
Ministero della Cultura Popolare è strutturato in sei direzioni generali, per la
stampa estera, per quella nazionale, per la propaganda, per il cinema, per il
turismo e il teatro, più una per i servizi amministrativi. Sotto la sua
vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR (l'attuale RAI), la SIAE (Società
Italiana Autori ed Editori) ed altri enti, tra cui addirittura anche
l'Automobile Club. Inizia per i giornali la stagione delle famose "veline",
ossia, senza eufemismi, delle direttive su cosa scrivere e cosa tacere, oppure
sul come fornire determinate informazioni. CANE DA
GUARDIA DELLA STAMPA - La base giuridica per il bavaglio alla stampa è
rappresentata dall'art. 5 del R.D. 26/2/28 num. 384, che al secondo capoverso
recita: "Non possono in alcun caso essere iscritti (all'Albo dei Giornalisti) e,
qualora vi si trovino iscritti devono essere cancellati, coloro che abbiano
svolto attività in contraddizione con gli interessi della nazione". Le domande
di iscrizione sono prese in esame da una commissione composta di cinque membri,
nominati dal Ministro della Giustizia, di concerto con quelli per l'Interno e
per le Corporazioni. La commissione esprime il giudizio dopo aver ricevuto dalla
Prefettura un'attestazione sulla "condotta politica" del richiedente. Il
"MINCULPOP", come veniva chiamato, divenne il regolatore delle coscienze degli
italiani, stabilendo cosa si doveva sapere e cosa no. E se spigoliamo qua e là,
dall'ottimo libro di Ricciotti Lazzero "Il Partito Nazionale Fascista" (Rizzoli,
1985), troviamo "veline" anche divertenti per quella mancanza di senso del
ridicolo che caratterizza ogni dittatura e ogni censura. Qualche esempio:
28/6/35: vietato pubblicare le fotografie di Carnera a terra. 14/8/37: il Duce
ha fatto un viaggio in Sicilia. Vietato pubblicare le foto che lo ritraggono
mentre danza. 26/8/38: revisionare attentamente le foto di parate militari e
premilitari: pubblicare solo quelle dalle quali risultano allineamenti
impeccabili. 13/6/39: ignorare la Francia. Non scrivere nulla su questo paese.
Criticare invece sempre e comunque l'Inghilterra. Non prendere per buona nulla
che ci venga da quel paese. 13/7/39: vietato pubblicare foto di donne in costume
da bagno. Eccetera eccetera. Potremmo continuare con mille esempi. Ma torniamo al
nostro protagonista, che il 31 ottobre del 1939 diventa il dominus di questo
apparato col quale la Storia non esiste più, venendo sostituita da ciò che il
Regime decide che deve essere filtrato, interpretando, ignorando, modificando o,
se del caso, anche inventando. Tutto indurrebbe a pensare che Alessandro
Pavolini, intellettuale che, come vedevamo sopra, non disdegnava di assumere
posizioni centrifughe e molto personali, dovesse provare una naturale ripugnanza
per uno strumento repressivo della libertà di espressione. Ma evidentemente
Mussolini conosceva i suoi uomini, o almeno era capace di quelle intuizioni che
si rivelano molto più efficaci del ragionamento. VERSO
LA METAMORFOSI FATALE - E infatti Pavolini inizia con l'incarico
ministeriale la sua metamorfosi, perché diviene di fatto il principale
responsabile dell'alluvione di bugie con il quale il popolo italiano viene
avviato alle armi e ad una tragedia che non poteva essere peggiore. Quando il
brillante giornalista fiorentino assume l'incarico ministeriale il mondo è ormai
in fermento, perché l'aggressiva politica hitleriana e le incertezze di Francia
e Inghilterra sono già al punto di non ritorno; è chiaro che difficilmente
l'Italia potrà mantenersi estranea (anche per la sua posizione geografica) alla
bufera che sta per travolgere l'Europa. A differenza di altri paesi, in Italia
la corrispondenza di guerra non è sottoposta alla censura militare: è sempre
l'onnipotente Minculpop a indirizzare e a stabilire anche le terminologie:
iniziano così le preparazioni in armi che sono "entusiastiche". Quando si parla
di sconfitte alleate, non bisogna parlare di "catastrofi" per non svalutare le
successive battaglie. Ben presto inizieranno anche gli "arretramenti sulle
posizioni prestabilite" (eufemismo per indicare una ritirata dopo una
sconfitta). Tutto ciò in
una nazione dove comunque tutto va bene, per cui alla cronaca nera si stabilisce
che vada dedicata al massimo una colonna in quinta pagina. In Italia, viene
ribadito dal Minculpop, non esistono suicidi, nè esistono problemi con il
razionamento, perché siamo pieni di inventiva e alternative valide, anzi,
abbiamo addirittura dei vantaggi alimentari se, al posto del caffè, iniziamo ad
usare vari surrogati le cui virtù erano state finora poco sfruttate. E se le
città conoscono la tragedia dei bombardamenti, niente paura: la prima cosa da
fare è stendere strisce di nastro adesivo sui vetri delle finestre, per
impedirne lo scoppio, e queste strisce possono mettersi sia in orizzontale che
in verticale, o addirittura possono essere l'occasione per formare disegni
ornamentali. Noi ci occupiamo di storia e non vogliamo quindi troppo indugiare
in indagini che esulano dal nostro campo. Ma una domanda urge inevitabilmente:
come può un uomo di cultura divenire ad un certo punto l'organizzatore
dell'inganno di tutta una nazione? IL RIBELLE
PLAGIATO DA MUSSOLINI - E' francamente
difficile immaginare un Pavolini succube del Duce. Troppo forte era la
personalità del fiorentino per pensarlo come un docile strumento nelle mani di
Mussolini. Viene più da pensare che con la Guerra Pavolini abbia trovato
finalmente la sua dimensione. E se la guerra d'Africa (in cui comunque Pavolini
si era comportato da valoroso) era stata veloce, limitata e di esito abbastanza
scontato, qui invece ci si avvia, finalmente, ad una Guerra Totale, ad una sorta
di lavacro sacrificale in cui confluiscono tutte le tensioni, le angosce, gli
smarrimenti spirituali del novecento, il secolo del futurismo, ma anche del
decadentismo, di D'Annunzio e di Nietzsche, del crollo delle certezze mai
sostituite da altri punti fermi. La Guerra è quindi un fatto positivo in sè
stesso, a prescindere dalle reali possibilità di vittoria, dal sacrificio che
comporterà, dalle vite umane che spezzerà. E' un fatto estetico che trova in se
stesso la sua ragion d'essere. Se Pavolini fu fascista pavoliniano, e comunque
fascista anomalo, in tempo di pace, ora, in tempo di guerra, diviene
fascistissimo. Perché il Duce gli ha dato lo strumento che ancora gli mancava:
la Guerra. Non
pretendiamo che la nostra analisi sia indiscutibile. Ci sembra però interessante
proporre all'attenzione del lettore una valutazione di Pavolini su Hitler
(espressa sul finire degli anni 30, quando il riarmo della Germania era
completato e le mire belliche del dittatore tedesco erano chiare): "l'oscuro
milite... che si oppone a tutto un mondo tramontante e a tutto un mondo mal
neonato... un uomo solo, diverso fin nello stile mentale... apparizione nuova e
sorprendente in mezzo alle facce lardose e sfocate della dirigenza democratica e
a quelle sigillate, d'acciaio, del prussianesimo tradizionale e
vetusto..." L’INTELLETTUALE IN REGRESSIONE - Forse non
scorgiamo già in questo giudizio un distacco dalla realtà delle cose? Pavolini
si sofferma su valutazioni "filosofiche" della figura di Hitler, il quale
rappresentava di sicuro una novità nel panorama politico; ma si trattava della
novità che stava trascinando il mondo nella tragedia: e probabilmente anche
questo, o soprattutto questo, fa parte del suo fascino, superando gli aspetti
deteriori dell'uomo fondamentalmente ignorante, circondato da una corte di
figuri senza scrupoli, di quello stesso stampo che avrebbe, qualche anno prima,
disgustato l'esteta. Ma Pavolini è ormai la Guerra. E difende la Guerra contro
ogni evidenza: infatti quando Pietro Badoglio, che non poté o non volle
distogliere il Duce dall'intervento a fianco dei tedeschi, ha finalmente, nel
novembre del 1940, un risveglio di coscienza di fronte alla tragedia dei soldati
italiani massacrati inutilmente in Grecia e si rivolge per uno sfogo proprio al
Ministro della Cultura Popolare, questi fa una "spiata" in piena regola a
Mussolini, che destituisce immediatamente il Maresciallo "disfattista" dalla
carica di Capo di Stato Maggiore Generale. Di menzogna in
menzogna il popolo italiano vede aumentare il suo martirio; ormai è difficile
tenere nascosta una realtà che è di sfacelo e il 5 febbraio del 1943 Mussolini
tenta l'ultima carta per porre riparo al discredito in cui era ormai caduto il
partito: un ampio rimpasto governativo, in cui le teste più illustri che cadono
sono proprio quelle di Ciano (relegato a fare l'ambasciatore presso la Santa
Sede) e di Pavolini (al quale viene assegnata la direzione del quotidiano "Il
Messaggero"). Pavolini
riprende così il suo vecchio mestiere di giornalista, portandovi tutto il suo
impeto bellicista, e il Messaggero diviene subito un foglio di battaglia. Ma i
tempi del redde rationem sono vicini. Il 25 luglio di quello stesso anno avviene
l'incredibile: il Gran Consiglio del Fascismo si trasforma da assemblea di
"yes-men" nell'organo che esautora Mussolini: l'ordine del giorno proposto da
Dino Grandi ottiene, con diciannove voti, la maggioranza. Il giorno dopo il
dittatore viene arrestato ed inizierà le sue peregrinazioni carcerarie che lo
porteranno a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, mentre l'incarico di governo
viene affidato al Maresciallo Badoglio. 8
SETTEMBRE 1943 - Nella confusione
che seguirà (favorita anche dal primo infelicissimo proclama del nuovo capo del
governo, con la famosa frase "la guerra continua"...) l'ordine di Badoglio di
arrestare Pavolini non viene eseguito: e questi riesce a riparare in Germania. A
Konigsberg si incontrerà col figlio del duce, Vittorio, e con gli altri gerarchi
che avevano scelto la stessa via di fuga. Da una radio tedesca Pavolini e
Vittorio Mussolini si affannano a spiegare al mondo che il fascismo non è morto,
finché il 15 settembre 1943 gli italiani sentono di nuovo provenire dall'etere
la voce inconfondibile del Duce, liberato dalla prigionia del Gran Sasso da un
colpo di mano dei paracadutisti tedeschi. Ha così inizio l'ultima atto della
rappresentazione: dalla commedia brillante degli anni 30, al dramma della
guerra, ora siamo passati alla tragedia. La Repubblica
sociale Italiana non fu altro che uno dei vari protettorati tedeschi: come già
hanno osservato molti storici, insieme agli avventurieri, ai profittatori, ed
insieme alla grande massa di chi semplicemente non poteva scegliere, ci
fu anche chi aderì alla Repubblica sociale per motivi ideali rispettabilissimi,
o anche solo perché disgustato dalla penosa figura del Re in fuga e dai
voltafaccia badogliani. Alessandro Pavolini aderì alla Repubblica Sociale con
tutto se stesso e fu lui, neo segretario del neo costituito Pfr (Partito
fascista repubblicano) a sollecitare un Mussolini stanco, riluttante,
probabilmente più che cosciente della sconfitta totale, ad assumere la guida del
nuovo regime, essendone "il capo naturale". E' ormai la
stagione del degrado definitivo dell'intellettuale Pavolini: come nel romanzo di
Stevenson, il dottor Jeckyll ha perso ormai il controllo di mister Hyde: ma
probabilmente ciò è accaduto perché mister Hide era il più forte. Ci sono
fondamentalmente quattro eventi significativi in questo ultimo periodo della
vita di Alessandro Pavolini: il congresso di Verona, costitutivo del Pfr, il
processo di Verona contro i "traditori" del 25 luglio, la costituzione delle
Brigate nere e il 25 aprile. Il 14 novembre
del 43, tra le mura di Castelvecchio, il già raffinato scrittore, l'uomo
accusato a suo tempo di snobismo intellettuale, griderà ai congressisti: "lo
squadrismo è stato la primavera della nostra vita... e chi è stato squadrista
una volta lo è sempre!". Il congresso di Verona fu una disordinata assemblea in
cui venne fuori di tutto. Mussolini non aveva voluto neanche
parteciparvi. NELLA
SPIRALE DEL FANATISMO - Nell'accozzaglia di proposte politiche, che andavano dal veterofascismo
fino ad aspirazioni confusamente comunistoidi, una promessa venne chiaramente
espressa da Pavolini: "I traditori del 25 luglio dovranno pagare!". Un concetto,
questo, che era già per altro espresso nei punti fondamentali del nuovo Stato,
annunciati per radio da Mussolini due mesi prima. Forse il duce pensava di dare
un contentino verbale ai più fanatici, confidando poi sulla sua capacità di
"addormentare" il problema: sapeva bene che il 25 luglio, ora che Grandi era
fuggito in Portogallo, si identificava soprattutto in Galeazzo Ciano, nel marito
di Edda, la sua figlia amatissima. Pavolini invece la vendetta la voleva
realmente, e lo dimostrerà coi fatti due mesi dopo, al processo. Durante il
congresso di Verona vi fu anche il feroce intermezzo della spedizione punitiva a
Ferrara, dove era stato assassinato il federale Ghisellini: undici antifascisti
prelevati dalle carceri pagarono con la vita, fucilati per rappresaglia per un
delitto di cui non si scoprì mai il colpevole. Dalla sua
posizione di potere (di fatto era secondo solo a Mussolini, ma soprattutto
riscuoteva la fiducia dei veri padroni, i tedeschi) Pavolini frantumò subito le
speranze di chi vagheggiava una Repubblica "Sociale" proprio per tentare una
riconciliazione degli italiani. Il solco era scavato, era profondo, e andava
riempito col sangue. Quel distacco dalla realtà, unito ad un sempre più chiaro
desiderio di autodistruzione, di cui accennavamo sopra, si va palesando in tutte
le successive scelte del segretario del Pfr. La vicenda del processo di Verona è
significativa in tal senso. La Repubblica
sociale con una mostruosità giuridica (il decreto 11/11/43, di fatto una norma
penale con effetti retroattivi) aveva voluto dare la formalizzazione giuridica
alla vendetta, costituendo per l'occasione anche un tribunale destinato
solamente a giudicare coloro che avevano approvato l'ordine del giorno di Dino
Grandi, i "traditori" del 25 luglio 43. PADRONE
DELLA REPUBBLICA DI SALO’ - Peraltro solo
sei dei diciannove ricercati erano stati arrestati: gli altri era riusciti a
sottrarsi alla polizia fascista, che aveva però potuto mettere le mani sul
personaggio più ambìto, Galeazzo Ciano, che non aveva esitato a cercare rifugio
in Germania, convinto com'era che la sua parentela col Duce gli avrebbe
assicurato l’impunità. Pavolini aveva personalmente compilato la lista dei
giudici per sottoporla all'approvazione del Duce: e già questa lista era
significativa perché i giudici, come del resto era previsto dalle norme
istitutive del Tribunale Speciale, dovevano essere "fascisti di provata fede" e
in particolare erano da scegliersi fra quanti "avessero avuto a patire per la
loro fedeltà all'idea". L'esito del processo era dunque scontato, nè ci
interessano le tre giornate di dibattimento, vuote dal punto di vista giuridico
e anche sotto il profilo sostanziale. Cinque condanne a morte, per Ciano,
Marinelli, Gottardi, De Bono e Pareschi e una condanna a trent'anni per Cianetti
(che salvò la pelle per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione
all'ordine del giorno Grandi) conclusero una cupa farsa giudiziaria. E' piuttosto
interessante vedere cosa successe dopo, la notte del 10 gennaio del 1944, quando
le autorità della Repubblica Sociale si trovarono tra i piedi un ostacolo che
non avevano previsto: le domande di grazia. Mancava, nel decreto istitutivo del
Tribunale Speciale, la stessa previsione delle domande di grazia: a chi andavano
dunque rivolte, qual'era l'autorità che poteva ancora decidere della sorte dei
cinque condannati? L'avvocato Cersosimo, istruttore del processo, suggerì" a
Pavolini, per analogia con le norme che regolavano il funzionamento del vecchio
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, di sottoporre le domande di grazia
alla massima autorità militare territoriale, il generale Piatti del Pozzo,
comandante dell'esercito a Padova. Questi però, con l'appoggio di un consulente
legale, respinse seccamente l'incombenza e Pavolini, che aveva con sè le domande
di grazia, iniziò una strana peregrinazione in compagnia di Cosmin, prefetto di
Verona, di Fortunato, p.m. al processo e del capo della polizia
Tamburini.VENDETTA
FEROCE: CIANO AL MURO - Andò dapprima
da Pisenti, ministro della Giustizia, che disse che avrebbe subito sottoposto le
domande a Mussolini: esattamente ciò che Pavolini non voleva. Disse che della
faccenda si era occupato esclusivamente il partito, e che il Duce non doveva
essere posto di fronte ad una alternativa così dolorosa. Ma proprio
lui, Pavolini, come massima autorità del partito, si dichiarò incompetente a
respingere le domande di grazia. Fu interpellato allora anche il Ministro
dell'Interno, Buffarini Guidi, il quale a sua volta ebbe la pensata di scovare
un comandante militare disposto ad assumersi la responsabilità dell'esame delle
domande. Dopo varie telefonate ed altre peregrinazioni, Pavolini riuscì a
mettere le domande in mano al console della milizia Italo Vianini, ispettore
della V Zona, e quindi competente per territorio. Così, con una procedura
contorta (le domande non furono espressamente respinte ma semplicemente "non
inoltrate", e con lo stesso provvedimento Vianini ordinava l'esecuzione della
sentenza) i cinque condannati furono avviati alla morte. Pavolini avrebbe potuto
salvarli: nessuno, nella Repubblica sociale, sapeva di preciso dove risiedesse
l’autorità. Soprattutto avrebbe potuto salvare il suo grande amico, Ciano (gli
altri imputati, con l'eccezione di De Bono, erano degli sconosciuti al grande
pubblico), l'uomo contro il quale era di fatto celebrato il processo. Non si può
certo ipotizzare che Pavolini nutrisse per Ciano l'odio, mai nascosto, che
avevano tanti altri fascisti: il genero del Duce era considerato infatti un
arrampicatore, un profittatore, tanto più meritevole di punizione ora, per i
fascisti "puri e duri" della Repubblica Sociale. Assumendosi la responsabilità
di accogliere le domande di grazia (era stato lui stesso a obiettare a Pisenti
che "la faccenda era di competenza del partito") Pavolini avrebbe potuto
mostrare che il nuovo stato fascista era in grado di punire, con la gravità
della sentenza, ma anche di essere magnanimo.LE BRIGATE
NERE, ARMATA SUICIDA - Decretando di
fatto la morte del suo più caro amico, Pavolini inizia a uccidere anche se
stesso. Ma la sua era ormai una logica di morte, di una morte che doveva
"purificare". Era la stessa logica che fu alla base della costituzione e
dell’attività delle "Brigate nere". Da parte di alcuni storici si è detto che
Pavolini volle costituire le Brigate nere per sete di potere, per contrapporre
all'esercito di Graziani e alla milizia di Ricci il "suo" esercito personale.
Francamente ci sembra una spiegazione che non calza col personaggio. Le Brigate
nere sorsero, col decreto num. 446 del 30-6-44, come trasformazione del Partito
in unità militari: i commissari federali diventano comandanti di brigata. Tutti
gli iscritti al Pfr, di età compresa tra i 18 e i 60 anni, possono arruolarsi
nelle Brigate nere. Da subito la totale inconsistenza militare di queste
formazioni fu chiara: era del resto impensabile che fosse sufficiente stabilire
con decreto che "i commissari federali assumono la carica di comandanti di
brigata" per trasformare in combattenti burocrati, ex-squadristi delusi che
mordevano il freno, impiegati. E tanto più questo era impensabile per un uomo
intelligente come Pavolini, già ufficiale dell’Aeronautica, di sicuro conscio
del fatto che la situazione militare era al collasso e che di fronte
all'avanzata alleata nella Penisola le ultime tenui speranze potevano essere
riposte, al più, nelle quattro divisioni italiane che stavano terminando il
durissimo addestramento in Germania, e non certo in guerrieri improvvisati,
dichiarati tali solo perché di sicura fede fascista. Gli stessi
compiti istituzionali delle Brigate nere erano poco chiari: in teoria dovevano
essere unità combattenti, e ne veniva escluso l'impiego per azioni di
polizia.ALLE B.N.
AZIONI DI BASSA MACELLERIA - Di fatto i
tedeschi non le vollero mai al fronte e i combattimenti si svolsero solo contro
le formazioni partigiane. Ma soprattutto le Brigate Nere divennero il punto di
incontro di tutto quell'universo represso di vecchi squadristi delusi, di
giovani sbandati inquieti, nonché (cosa che non deve stupire nel caos
organizzativo della Repubblica sociale) anche di militari di altri corpi, che in
alcuni casi erano addirittura disertori. Poiché in ogni città dove esisteva una
federazione del Pfr poteva sorgere una Brigata nera, e questo avveniva sulla
base di iniziative dei vari "capi" locali, si ebbero le cose più strane:
caporali che si autonominavano colonnelli, o (come avvenne ad esempio a Verona)
un maresciallo di marina al comando di un reggimento. Del resto ciò avveniva in
modo "legale" perché la norma istitutiva del nuovo corpo armato prevedeva che i
gradi fossero attribuiti per "assimilazione", ossia in base alle funzioni
rivestite. Come dire: se ti trovi a comandare un migliaio di uomini, sei
automaticamente almeno tenente colonnello. Questo
guazzabuglio, che ricorda più che altro il formarsi di bande di guerriglieri
alla Pancho Villa, era malvisto, come dicevamo sopra, dai tedeschi, che peraltro
non impedirono la nascita delle formazioni nere, convinti che servissero
comunque a mantenere sotto il controllo della paura una popolazione sempre più
insofferente. Le controllavano e le utilizzavano nelle operazioni di
rastrellamento. Ma le Brigate nere ben presto furono malviste anche dalla
popolazione, per i troppi abusi commessi da queste formazioni in cui la
disciplina militare era spesso pura teoria e la cui indeterminatezza di compiti
lasciava troppo spazio all'inventiva di comandanti che ricoprivano gradi ai
quali erano del tutto impreparati. Tornando
quindi al loro "comandante generale", Alessandro Pavolini, ci sorge spontaneo
chiederci: perché un uomo del suo livello volle costituire questa specie di caos
armato, in cui si trovò a trattare con comandanti locali che spesso
rappresentavano quella parte peggiore di società che il giovane letterato
fiorentino aveva sempre accuratamente evitato? L'uomo che nei tempi del fascismo
trionfante era capace di dare spazio agli antifascisti, purché dotati di cultura
e di doti intellettuali, ora che il fascismo crollava, perché dava spazio a
ciurmaglie spesso assetate solo di vendetta e di rapina? La risposta ci sembra
che sia una sola. Pavolini era già fuori dalla realtà, nè gli interessava più di
tanto la vittoria militare, sulla quale non soffermava la sua
riflessione. PRIGIONIERO
DI UN’ALLUCINAZIONE - Era ormai
all'esito della sua avventura, prigioniero di un sogno che gli faceva scrivere:
"Le Brigate nere allineano - dai vecchi ai ragazzi - gli uomini di ogni età. O
meglio: gli uomini che non hanno età, se non quella del proprio spirito."; "Le
Brigate nere anelano al combattimento contro il nemico esterno, ma sanno che in
una guerra come l'attuale, guerra di religione, non c’è differenza fra nemico di
fuori e di dentro..."; "Le Brigate nere sono una famiglia, questa famiglia ha un
antenato: lo Squadrismo, un blasone: il sacrificio di sangue, una genitrice:
l'Idea fascista, una guida, un esempio, una dedizione assoluta e un affetto
supremo: MUSSOLINI." (Queste parole venivano scritte alla fine del 44, quando
ormai gli alleati erano vicini al Po). Sulla base di questi presupposti era
indifferente che le Brigate Nere avessero o no un'efficienza militare. Come ogni
verità fanatica, si giustificavano da se stesse. Erano in fondo l'esito logico
della Guerra come fatto estetico e purificatore. E Pavolini
seppe essere coerente fino in fondo. Non si preoccupò di se stesso: organizzò la
fuga in Svizzera della sua amante, e poi andò incontro al suo destino. Vaneggiò
di raccogliere ventimila fedelissimi per costituire l'ultima resistenza in
Valtellina: là voleva far trasportare anche le ossa di Dante, simbolo
dell’italianità.SIPARIO
NERO. PAVOLINI FU - Ne trovò, di
fedelissimi, solo duecento (il più illustre dei quali, il generale Graziani,
seppe abbandonare la compagnia al momento buono, consegnandosi agli alleati e
salvando così la pelle) e si avviò con il Duce, il 25 aprile del 45, per
l'ultimo viaggio, dalla Prefettura di Milano al lungolago di Dongo, dove venne
fucilato dai partigiani della 52a brigata garibaldina, dopo un inutile tentativo
di fuga a nuoto nel lago. Aveva 42 anni:
troppo pochi per morire, ma era un tempo in cui la vita poteva bruciarsi
rapidamente. E quante vite, anche più giovani della sua, si erano bruciate,
trascinate in una guerra senza speranze e senza senso, se non quello di scavare
solchi di odio sempre più profondo? Qualche giorno dopo, il 1° maggio, il suo
omologo tedesco, il dottor Joseph Goebbels, Ministro della propaganda del Reich,
anch'egli scrittore, anch'egli uomo di cultura raffinata divenuto Grande
Ingannatore di tutto un popolo, si uccideva nel bunker di Berlino, insieme con
la moglie e i sei figli. Lasciava scritto: "... preferendo terminare al fianco
del Führer una vita che non potrebbe più avere alcun valore, dal momento che non
potrei spenderla al suo servizio e al suo fianco". PAVOLINI fu
catturato anche lui a Dongo dopo una rocambolesca fuga con alcuni colleghi. I
partigiani diedero l'alt a un'auto sospetta, questa invece di fermarsi, invertì
la marcia fuggendo verso Como. La vettura fu raggiunta da una scarica di mitra,
proseguì per alcune centinaia di metri lungo il lago, poi fu abbandonata
precipitosamente dai due occupanti che si diedero alla fuga. Nelle
ricerche fatte subito dopo, fu catturato il primo occupante (il prefetto Porta),
mentre Pavolini pur ferito aveva trovato scampo gettandosi nel lago.
Rimase semisommerso nell'acqua dietro una roccia. Fu catturato solo verso sera,
quasi mezzo assiderato. Il giorno dopo, il 28, febbricitante, zoppicando per le
ferite, dopo il noto sbrigativo processo sommario, assieme agli altri
gerarchi, fu portato sul lungolago e davanti al parapetto, alle ore
17.48, fucilato. Fu uno dei primi a cadere, e in base a una testimonianza
sembra che abbia gridato Viva l'Italia.