Gli Uomini del Duce

Achille Starace

Segretario generale del Partito Nazionale Fascista
Gallipoli (LE) 1889 - Milano 1945

ACHILLE  STARACE. Nasce a Gallipoli il 18 agosto 1889. E' di famiglia stimata e benestante: il padre ha un florido commercio di vini ed olio. Giovane esuberante, inquieto, studente svogliato e disordinato, ufficiale valoroso nella Grande Guerra (una medaglia d'argento, quattro di bronzo, due croci al valor militare, una croce francese con stella, due promozioni per merito di guerra e il cavalierato dell'Ordine militare di Savoia), avrebbe potuto occuparsi del commercio paterno, pronto a consolarsi dal tran tran quotidiano facendo l'atleta della domenica (gli esercizi fisici erano per lui una vera mania) e il donnaiolo. 
Ma fu uno dei tanti che visse in un periodo storico straordinario e la sua strada di uomo qualsiasi si incrociò a un certo punto con quella di un uomo speciale, MUSSOLINI. Ne nacque un connubio che più che condizionare, creò la sua vita, e che condizionò la vita di tutti gli italiani. Starace fu ammazzato tre volte. La morte più misericordiosa in fondo gliela diedero i partigiani che dopo una farsa di processo si limitarono a maltrattarlo per qualche ora e poi lo uccisero a raffiche di mitra, nei giorni della grande mattanza di fine aprile del 45.
Ma la morte più crudele gliela aveva inflitta il Duce, che con cinismo a un certo momento buttò dagli altari alla polvere questo suo servitore, fedelissimo per lunghi anni, lasciandolo poi nell'indigenza e nell'oblio. E poi una storiografia affrettata e superficiale lo uccise ancora, liquidandolo sempre come un cretino, con un epitaffio crudele ma soprattutto, a nostro avviso, immeritato. Starace non fu un cretino, tutt'altro. Non fu un innocente esecutore, perché crediamo che questa scusante non sia valida per nessuno. Fu senza dubbio la miglior incarnazione del fascismo (o del mussolinismo perché, piaccia o non piaccia ad alcuni eminenti studiosi, le due cose sono inscindibili).
Starace  segretario generale del Partito Nazionale Fascista dal 10 dicembre 1931 al 31 ottobre 1939, condizionò la vita di un popolo, ma probabilmente trovò anche un popolo disponibile ad essere condizionato; infine, pagò un salatissimo conto per i suoi errori. E cercheremo ora di spiegare queste nostre affermazioni.
Achille, non ancora diciassettenne, lasciò la Puglia per Venezia, probabilmente senza saperne bene il motivo. Come tanti ragazzi, cercava qualcosa di nuovo; ma aveva comunque un padre che lo pressava, che gli rimproverava l'abbandono degli studi ginnasiali, e il giovanotto prese a Venezia il diploma di ragioniere. Ma soprattutto nella città lagunare Achille Starace poté coltivare, meglio che nella terra natia, provinciale e bigotta, la sua esuberanza verso il gentil sesso. Era piccolo di statura, ma robusto e ben fatto, né gli mancava quel modo di fare un po' canagliesco che, per uno dei misteri dell'animo umano, affascina tante donne. Una di queste, Ines Massari, di un anno più giovane di lui, ne fu così bene affascinata che i due ragazzi si sposarono un po' precipitosamente, il 21 aprile del 1909; poco più di un mese dopo, il 29 maggio, nasceva la loro prima figlia, Francesca, detta Fanny, che resterà poi, negli anni della gloria come in quelli del declino, il principale punto di riferimento affettivo di Achille. Sempre una figura secondaria, confinata a Gallipoli, dove Starace era tornato provvisoriamente e dove avrebbe in seguito fatto solo delle sporadiche ricomparse, con viaggi frettolosi che gli lasciarono però il tempo per avere un secondo figlio, Luigi, e un terzo, Vincenzo, morto alla nascita. Il padre nel frattempo gli aveva dato incarico di aprire a Milano un deposito di vini pugliesi, sperando di trovare al giovanotto una situazione stabile. Ma è difficile avere una situazione stabile quando si è instabili: Achille continuava a coltivare le sue principali vocazioni, sport e donne (la moglie era alla tranquillizzante distanza di mille chilometri), ma si dedicava poco e male al commercio di famiglia. Erano gli anni dell'inquietudine generale e Milano era il fulcro di tante nuove idee, di eventi nuovi, impensabili nella sonnacchiosa terra del Salento. 
Marinetti opponeva al crepuscolarismo l'esaltazione dell'energia, della violenza, del vitalismo, giungendo a dire (o a delirare?) nel suo Manifesto del Futurismo: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore, e il disprezzo della donna." 
Non sappiamo se Starace, che con i libri non fu mai in ottimi rapporti, avesse mai letto gli scritti di Marinetti. Certamente però a Milano queste idee erano oggetto di esercitazioni intellettuali.
Per uscire dal grigiore di una nazione che comunque era povera, che veniva scossa dagli scioperi, mentre si ingrossavano le schiere degli emigranti che cercavano di fuggire dalla miseria in patria, per trovare finalmente quel qualcosa che potesse risolvere la sottile inquietudine di un mondo senza più valori precisi, la teorizzazione dell'esuberanza fisica come norma e ragione di vita, col suo schematismo in fondo banale, attirava irresistibilmente tanti giovani. E Achille Starace era giovane, esuberante, pieno di energie. Alla fine del 1909 conobbe anche, seppur per poche settimane, la prigione, dove era finito per la sua partecipazione a tumulti irredentisti contro l'Austria. Poi arrivò la cartolina precetto e, grazie al suo diploma di ragioniere e all'indulgenza delle autorità militari verso chi era stato in galera, ma per motivi patriottici, il vivace giovanotto poté frequentare il corso allievi ufficiali di complemento, nella specialità di fanteria a lui più consona, i bersaglieri. Qui sembrò che avesse finalmente trovato il suo ubi consistam: infatti alla fine del servizio di leva firmò per trattenersi in servizio. Ma anche la vita militare evidentemente non lo soddisfaceva completamente. Chiese infatti il congedo poco prima della guerra in Libia, cercando di riprendere l'attività commerciale paterna a Milano e iscrivendosi a Venezia alla facoltà di Economia e Commercio, senza peraltro arrivare mai alla laurea. 
L'Europa andava verso la Grande Guerra e l'Italia era divisa tra interventisti e pacifisti. Tra i primi facevano spicco figure come D'Annunzio (che ironizzava sull' Italietta pantofolaia), Marinetti, Corridoni ("la neutralità è dei castrati!"), il direttore del Corriere della Sera, Albertini. Mussolini aveva fatto il gran salto e, da neutralista era divenuto fautore della guerra, tuonando dalle colonne del Popolo d'Italia contro "L' Italietta amletica dei rinunciatari".
Di contro, i socialisti agitavano la bandiera del neutralismo, pensando così di interpretare i sentimenti delle masse operaie e contadine, ma agendo con quel confusionismo che poi, dopo la guerra, avrebbe avuto tanta parte nello spianare la strada al fascismo. Alla fine del 1914 il giovane sottotenente dei bersaglieri Achille Starace, da poco richiamato alle armi, si trova a Milano, al caffè Biffi in Galleria; arriva un gruppo di giovanotti che agitano bandiere rosse ed inneggiano al neutralismo, mettendosi a beffeggiare il giovane ufficiale. Questi scatta come una molla, afferra una delle bandiere, usandone l'asta come un bastone e si mette a menar legnate all'impazzata,  trascinando col suo impeto anche diversi avventori del caffè. Conclusione: i giovani socialisti scappano con molte ammaccature, mentre Starace grida: "Non permetteremo che facciate dell'Italia una Svizzera di albergatori e camerieri." 
Le idee non erano molto chiare, perché già allora la Svizzera volgeva i suoi interessi molto di più verso l'attività finanziaria che verso quella alberghiera, ma comunque la bravata in Galleria rese popolare lo scatenato pugliese, soprattutto tra i più scatenati interventisti, che si raccoglievano alla redazione del Popolo d'Italia e nella sede di un nuovo movimento politico, il Fascio rivoluzionario di azione internazionalista, che aveva tra i suoi esponenti di spicco Filippo Corridoni, Cesare Rossi e il futuro quadrunviro Michele Bianchi. 
Il 24 maggio del 1915 il Piave mormorava e Starace marciava sul Carso, sul Piave e nel Trentino con una brigata di bersaglieri al comando del colonnello Sante Ceccherini.
Elencavamo all'inizio di questo studio le onorificenze raccolte dal futuro segretario del PNF. Coraggioso lo era senza dubbio, ma la guerra gli permise di mettere in luce anche altre sue peculiari caratteristiche; ci riferiamo soprattutto alla fedeltà al Capo e alla grande capacità organizzativa, unita alla scrupolosissima esecuzione degli ordini superiori. Il Capo lo incarica nel 1923, ad istituire la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), un esercito di parte che serviva a disciplinare le squadre, riottose a smobilitare, e "a difendere la rivoluzione fascista".
 Starace, che nel frattempo aveva assunto anche compiti di prefetto volante di Mussolini (che cercava con uomini di sua fiducia di mantenere l'ordine tra gli stessi centrifughi quadri del partito), lasciò la vice segreteria del PNF per assumere il comando della milizia a Trieste. Tornò così ad un organismo militare, trovando la quadratura del cerchio, perché poteva finalmente unire una disciplina militare ufficiale allo spirito fascista. 
Alle elezioni del 1924 Starace divenne anche deputato per la Puglia. Poi vennero le proteste di Matteotti per le violenze e le intimidazioni a cui erano stati sottoposti gli elettori in varie parti d'Italia, venne l'omicidio del coraggioso deputato socialista e Mussolini colse la palla al balzo, ancora una volta favorito dalla pochezza dei suoi avversari, per rigirare la realtà ed approfittare del crimine per eliminare definitivamente gli ultimi residui di libertà. Il fascismo diveniva dittatura, lo Stato era finalmente fascista fino in fondo. 
Starace ebbe nel 1926 un anno brillante: ritornò alla vice segreteria del partito e divenne luogotenente generale della Milizia (grado equivalente a quello di generale di divisione dell'esercito, entrando anche a far parte del Gran Consiglio del Fascismo. Se al realizzarsi dell'unità nazionale ci fu il problema, fatta l'Italia, di fare gli italiani, ora per Mussolini c'era il problema di fare l'italiano fascista. Il compito del Partito doveva proprio essere quello di insinuarsi in ogni angolo della vita, di creare quel fascista scattante, disciplinato, soldato, con lo sguardo fiero e dritto, pronto ad eseguire qualsiasi ordine per il bene della Patria e della rivoluzione fascista, affiancato da una moglie silente e buona riproduttrice, che partorisse tanti fascistini.
 Il Partito era insomma l'organo di governo indiretto di Mussolini, capo del governo ufficiale. I segretari del Partito che si insediarono dal 1925 al 1931 non soddisfecero mai in pieno Mussolini: Farinacci (segretario dal 12 febbraio 1925 al 30.marzo 1926) tentò addirittura di scavalcare il Duce. Turati (30 marzo 1926 - 7 ottobre 1930) e Giuriati (7 ottobre 1930 - 10 dicembre 1931) erano due galantuomini, il primo definito spesso dal Duce come "un austero fesso", il secondo temuto per l'eccessivo spirito d'iniziativa.
Intanto Starace continuava a ricoprire la carica di vice segretario, e si mise particolarmente in luce nel 1929, operando, su diretto incarico di Mussolini, un gran repulisti al Fascio di Milano, retto dal potente federale Giampaoli, troppo chiacchierato per la sua vita dispendiosa e libertina. Il fascismo voleva darsi una veste di perbenismo e Starace si guadagnò definitivamente il soprannome di mastino eseguendo alla lettera gli ordini del Duce. Il fascio di Milano fu ripulito, Giampaoli silurato insieme ad altri gerarchi locali e ufficiali della milizia. 
L'arrivo di Starace alla segreteria generale del PNF fu il naturale esito di anni di scrupolosa obbedienza, di imitazione del Capo, di dedizione totale e incondizionata. Ora si poteva davvero iniziare la creazione del fascista e Starace si gettò in questo compito con impeto bersaglieresco. Erano gli anni in cui il consenso al regime andava consolidandosi, vuoi per l'attitudine nazionale ad affezionarsi a chi vince, vuoi perché il fascismo comunque bilanciava la perdita delle libertà democratiche con l'acquisto di sicurezze più tangibili in materia previdenziale, di tutela del posto di lavoro, di assistenza alle famiglie.
 Il Foglio d'ordini del Partito divenne, con la segreteria Starace, il regolatore della vita nazionale. Il segretario nazionale era cavallerizzo, sciatore, ginnasta, tiratore, podista, nuotatore e tutti i gerarchi dovevano adeguarsi, perché il fascismo era energia, impeto, giovanile fierezza del proprio vigore fisico. Il partito era milizia, e quindi doveva avere una propria divisa. L'Italia si riempiva di uniformi: oltre a quelle delle tradizionali Forze Armate, oltre a quelle della MVSN, ora anche i fascisti avevano la loro uniforme, oggetto di continui aggiornamenti da parte dell'infaticabile segretario generale.
Il Duce aveva detto che la pace perpetua non esiste, che un popolo si forgia solo con la guerra, e Starace provvedeva ad emanare le disposizioni perché il sabato fascista fosse dedicato, sotto la guida di ufficiali della MVSN, alla preparazione premilitare dei futuri combattenti. L'Opera Nazionale Dopolavoro, l'Opera Nazionale Balilla, i Fasci Femminili, i GUF (Gruppi Universitari Fascisti), l'Istituto Superiore di Educazione Fisica, tutto converge nel Partito, perché l'italiano non abbia più uno spicchio della propria vita e della propria giornata, lavorativa o di riposo, che non sia fascista. 
Starace inventa anche il Saluto al Duce, con cui si deve aprire ogni adunata fascista, da quelle oceaniche di piazza Venezia, dove è il Capo stesso a comparire al balcone, all'ultima riunione rionale, prescrivendone con ragionieresca pignoleria la procedura. In qualsiasi occasione la parola Duce deve sempre essere scritta a tutte maiuscole: DUCE. Mussolini intanto preparava qualcosa di grosso: la guerra coloniale in Abissinia, la conquista dell'Impero. Il Partito doveva collaborare, non solo preparando il popolo al grande evento, ma partecipandovi direttamente, perché la guerra doveva essere soprattutto una guerra fascista. Di certo il Duce non mancava di furbizia, sapendo che questa era l'occasione per coprirsi facilmente di gloria militare, vista l'inconsistenza del nemico. Le inique sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni furono l'occasione per manifestazioni di entusiasmo popolare, con la Regina stessa che, per prima, donò il suo anello nuziale alla Patria, bisognosa di oro per sostenere i combattenti.
Si prospettava gloria a buon mercato per tutti, e tutti volevano andare in Africa, fascisti ignoti e personaggi celebri. Partirono deputati, senatori, accademici d'Italia e altezze reali. Non partiva Starace, che scalpitava a Roma. Ormai la partecipazione popolare era formata, tutta la nazione seguiva con entusiasmo il progredire delle bandierine tricolori sulle carte geografiche, e sembrava che l'atteggiamento del Duce, che tardava a dare al segretario generale la soddisfazione del combattimento, preludesse al suo siluramento: era già da quattro anni alla guida del partito, forse era ora di trovargli un altro ruolo. Invece, finalmente, arrivò anche per Starace l'ordine di partenza, al comando di una organizzatissima colonna di bersaglieri e di camicie nere. La vittoria doveva essere soprattutto una vittoria fascista e il Duce volle che la Colonna Starace fosse un esempio di efficienza assoluta, né il segretario generale, partito in divisa di luogotenente generale della milizia, con casco coloniale e piumetto da bersagliere, lo deluse. 
La sua impresa coloniale, in verità assai povera dal punto di vista militare, fu però l'occasione per esaltare la combattività delle nuove generazioni forgiate dal fascismo o, come disse Starace con orrendo neologismo, acciaiate. Prima di partire per l'Africa Starace aveva voluto rimettere nelle mani del Duce il suo incarico di segretario generale. Al suo ritorno Mussolini lo fece penare non poco. Si diceva che fosse indispettito dall'eccessiva pubblicità che Starace aveva fatto a sé stesso, anche con la pubblicazione presso Mondadori di un libro, La Marcia su Gondar, celebrativo delle sue gesta africane. Se Starace voleva avere la sua marcia, si diceva, questo suonava male, quasi volesse mettere in ombra la Marcia per eccellenza, ossia quella su Roma.
Sta di fatto che a un certo punto il Duce decise di sgombrare il campo da tutte queste voci, organizzando (si era alla fine di agosto del 36) una cerimonia in onore di Starace nella Sala del Mappamondo, "per l'indiscutibile merito, che si poteva definire storico, di aver guidato camicie nere e bersaglieri alla conquista del Tana e del Goggiam". Starace era tornato nelle grazie del Duce, che piuttosto si preoccupava del progredire in popolarità di uomini del livello di Grandi o di Balbo, in grado di fargli ombra. Questo rischio non veniva certo dal ragioniere di Gallipoli, che restava comunque ancorato ad una fedeltà assoluta al Capo, non riuscendo neanche a concepire di poter agire se non per ordine del Duce. 
La figlia prediletta Fanny ebbe a dire, molti anni dopo: "Mio padre respirava per ordine di Mussolini". Alla fine del 1937 il segretario generale del PNF veniva elevato al rango di ministro, partecipando di diritto alle riunioni di governo; inoltre a Starace, su iniziativa di Mussolini, veniva conferita una medaglia d'argento per l'impresa africana. Il segretario del Partito rispondeva prontamente, facendosi promotore della legge istitutiva del grado militare di Primo Maresciallo dell'Impero, da assegnarsi al Duce e al Re (l'iniziativa mandò in bestia il Re, ma il fascismo era ancora troppo sulla cresta dell'onda perché Vittorio Emanuele III si sentisse di bloccarla). Sembrava insomma che l'idillio non dovesse aver fine. Starace, dato per morto l'anno prima, era più vivo che mai, anche se i rapporti della polizia segreta si accumulavano sul tavolo del Duce (da lui stesso sollecitati), calcando impietosamente la mano sulle mille dicerie che giravano sul segretario del partito, soprattutto per la sua ben nota esuberanza col gentil sesso.
Mussolini leggeva e, come sua abitudine, archiviava. Starace proseguiva nella sua opera di fascistizzazione della società. L'italiano fascista doveva essere qualcosa di unico, di irripetibile. Dicevamo in apertura che Starace, a nostro avviso, non fu un cretino. Aver retto per anni lo scottante incarico di segretario generale del PNF riuscendo a superare non poche tempeste, non era certo un'impresa facile. 
Piuttosto l'uomo aveva i suoi limiti, culturali, di carattere, nonché quelli derivanti proprio dalla sua virtù principale, ossia la totale dedizione al Capo. E questi limiti si palesarono a un certo punto, con alcune iniziative che mostrarono come Starace avesse ormai perso quella sensibilità verso il popolo che gli aveva permesso per anni di essere il principale interprete delle direttive di Mussolini. 
Il popolo italiano si era lasciato tranquillamente guidare, aveva tranquillamente accettato di togliersi la fatica di pensare, si era sinceramente entusiasmato per la conquista dell'Impero. Ma la frenesia staraciana non conosceva soste; la Guerra Civile di Spagna era chiaramente l'anticamera di ben più gravi conflitti, e i volontari che inizialmente affluirono dall'Italia fascista a dar man forte alle truppe franchiste, si accorsero che una guerra vera era una cosa ben più sanguinosa e gravida di rischi delle semi-passeggiate militari in Abissinia. Il popolo italiano, pago di avere un impero e una situazione all'interno abbastanza soddisfacente, non avrebbe probabilmente desiderato molto di più, mentre invece la politica mussoliniana andava sempre più pericolosamente verso l'abbraccio con la Germania nazista e il segretario del partito si gettava in due nuove iniziative, la prima francamente ridicola, la seconda decisamente tragica. 
Ci riferiamo alla campagna per il voi e al sostegno alle leggi razziali. La campagna per il voi iniziò quasi per caso, con un articolo di Bruno Cicognani sul Corriere della Sera. Si era agli inizi del 38, e lo scrittore fiorentino pubblicò un articolo in cui parlava del lei come di un retaggio spagnolesco, oltre che di un'aberrazione grammaticale. "Roma repubblicana non conobbe che il tu, Roma cesarea poi conobbe il voi". Non era davvero un argomento di grande importanza, ma il Partito vi si gettò sopra, dopo un placet distratto di Mussolini, che iniziava ad avere dei dubbi sulle campagne del suo segretario generale, temendo l'ondata del ridicolo. Che non mancò, perché Starace fece dell'uso del tu e del voi l'oggetto di minuziosissime disposizioni sul Foglio d'ordini del Partito. Ben più grave fu il sostegno alle leggi razziali che l'Italia, sempre più legata al carro hitleriano, promulgò nel maggio del 38.
Nel luglio dello stesso anno il Manifesto del Razzismo Italiano sosteneva tesi cervellotiche sulla purezza della razza italica, ed era sottoscritto da un gruppo di sedicenti scienziati e da Starace, che subito si mostrò il più scatenato fautore di un anti-ebraismo che non ebbe mai riscontro nella coscienza popolare italiana, proponendo come prima misura l'espulsione di tutti gli ebrei, "anche fascistissimi", dalle file del partito.
Starace era razzista? Non crediamo che sia questa la spiegazione. Starace era il segretario generale del Partito, il Partito era lo Stato, se lo Stato promulgava una legge, per quanto iniqua e assurda, lui non poteva far altro che applicarla e difenderla a spada tratta. A ben guardare, non fu tanto grave il suo razzismo, ma la sua incapacità a capire che le leggi razziali, con la loro stupida crudeltà, alienavano al Partito non poche simpatie popolari, considerando anche che la maggioranza degli italiani non vedeva affatto di buon occhio l'avvicinamento alla Germania nazista. Gli italiani volevano stare in pace, erano stanchi, desideravano solo che l'Italia riuscisse a mantenersi fuori dalla tempesta che stava per travolgere l'Europa. E anche qui Starace fallì, con un bellicismo non solo impopolare, ma che lo metteva anche in rotta col ministro Ciano, antigermanico e, soprattutto, genero del Duce. E quest'ultimo pensò che era giunto il momento di dare al popolo un capro espiatorio. L'uomo che solo due anni prima era stato elevato al rango di ministro, che per otto anni era stato il suo più fedele mastino, andava eliminato, nella speranza che le indubbie colpe di uno servissero a coprire anche le colpe di tanti altri, Duce in testa, senza il cui placet comunque Starace non avrebbe mai mosso un dito.
I rapporti di polizia iniziarono ad essere messi in circolazione, e Starace fu messo alla berlina come scatenato donnaiolo (e questo era vero), come arricchito a spese del regime (e la miseria successiva in cui si trovò l'ex segretario dimostrarono l'infondatezza di queste voci) e come colpevole in genere di tutta la situazione in cui si trovavano la Nazione e il Partito.
Il Paese era stanco ed impreparato a una guerra che lo minacciava comunque, il Partito era diventato un elefante burocratico. E il 31 ottobre del 39 Mussolini si limitò a comunicare a Starace: "Darete oggi stesso le consegne di segretario generale ad Ettore Muti. Voi passate alla Milizia". Venne nominato Capo di Stato Maggiore della Milizia; una retrocessione clamorosa da una posizione di enorme potere a un ruolo poco più che nominale.
Il 10 giugno del 40 l'Italia iniziò la sua tragica avventura e per Starace iniziò una specie di penoso balletto tra comandi militari, ai quali si presentò in divisa di colonnello dei bersaglieri, che se lo palleggiarono tra Grecia e Albania, senza mai assegnarli un incarico di comando, finché non si decise a rivestire la divisa della Milizia e ad andare a combattere in Albania. Qui fu anche ferito e tornò in patria a metà aprile del 41. Sbarcando a Brindisi si diede ad un amaro sfogo sulle condizioni disastrose delle truppe italiane; passò alcuni giorni in famiglia, poi tornò a Roma, al suo ufficio di Capo di Stato Maggiore della Milizia. E qui, il 16 maggio del 1941, trovò sulla scrivania l'ultima comunicazione scritta del Duce: "Ritengo concluso il vostro ciclo nella funzione di Capo di Stato Maggiore della MVSN. L'opera da voi svolta non mi ha in questi ultimi tempi soddisfatto. Ci sarà ancora qualcosa da fare per voi al momento della nostra ripresa in Africa Orientale". Ma la ripresa in Africa non ci sarà più.
Da questo momento la storia di Starace diventa una penosa strada fatta di miseria (non aveva più emolumenti di alcun genere, se non le irrilevanti indennità medaglie) e soprattutto di abbandono. Tempesta di lettere il Duce, ma Mussolini non era uomo da smuoversi per gli affetti; Starace ormai era fuori gioco, ed era meglio che ci restasse, perché le cose andavano sempre peggio, e restava quindi un ottimo capro espiatorio. Tuttavia le lettere di Starace al Duce sono sempre ispirate alla massima devozione, pur cadendo via via di tono, fino a ridursi alla semplice richiesta di autorizzazione a lavorare, a fare un lavoro qualsiasi per campare. Mussolini si limitò ad annotare a margine "può lavorare", e a fargli comunicare la risposta. 
Ma nessuno voleva dare un'occupazione a quello che era divenuto ormai l'uomo più impopolare d'Italia. Arriva il 25 luglio del 43, poi l' 8 settembre di quel tragico anno. Starace, come tanti altri italiani, si trova a risalire suo malgrado la penisola, stabilendo la sua residenza a Milano, in un appartamentino in piazzale Libia. A Milano vengono anche la moglie e il figlio Luigi, ma resteranno sempre separati da quel padre e marito che fu sempre da loro separato. Solo con la figlia Fanny Starace mantiene rapporti epistolari, spesso ricevendo anche aiuti concreti in generi alimentari. 
Quando nasce la Repubblica Sociale è malvisto anche dai neo fascisti repubblichini, che lo accusano di aver rovinato lo spirito del primo fascismo, quello puro e duro a cui loro pretendono di rifarsi. Mussolini, incupito e stanco, è ritornato al potere, e Starace riprende a scrivergli, protestando ancora la sua immutabile fede fascista e offrendosi per qualsiasi mansione. Il Duce, per tutta risposta, lo fa internare nel campo di concentramento di Lumezzane, dal 30 giugno al 9 settembre del 44, ricordandosi all'improvviso che l'ex segretario generale aveva scritto anche a Badoglio dopo il 25 luglio (la stessa cosa fu fatta del resto anche da Mussolini).
Starace non deflette dalla sua grafomania neanche dal campo di concentramento e infatti la liberazione, il 9 settembre del 44, avverrà proprio su ordine diretto del Duce, che incarica Buffarini Guidi, ministro dell'Interno repubblichino, di liberare il prigioniero, ingiungendogli però di non farglielo mai incontrare: "Ne ho abbastanza di lui e delle sue lettere, perciò ora non leggerò nemmeno più quelle". Restava a Starace meno di un anno da vivere. Solo, occupava buona parte delle sue giornate a curare il suo orto di guerra, che, assieme a quanto gli mandava una sorella da Gallipoli, lo aiutava a sopravvivere. Ma non aveva mai perso la mania per gli esercizi fisici. I mesi passavano, il disastro totale si avvicinava, e anche la mattina del 28 aprile 1945, in tuta ginnica, faceva le sue corsette per mantenersi in forma. Sentì una voce che lo interpellava: "Starace, dove vai?". "A prendere un caffè", fu la risposta. La domanda era venuta da un gruppo di partigiani garibaldini, giusto per conferma al riconoscimento.
L'ex segretario fu arrestato, portato in un'aula del Politecnico, per un processo dall'esito scontato. Il mattino del giorno successivo i partigiani lo portarono a vedere il cadavere di Mussolini appeso a testa in giù in piazza Loreto, poi lo beffeggiarono, spintonandolo e percuotendolo col calcio dei mitra. Si limitò a dire: "Fate presto". Lo misero al muro e lo uccisero con due raffiche; il suo cadavere fu poi portato all'obitorio insieme a quello del Duce e degli altri gerarchi appesi in piazza. E' difficile, se non impossibile, stabilire se un uomo ha subito la giusta pena in rapporto alle sue colpe, soprattutto quando si tratta di una pena grave come la morte. Nei giorni successivi al 25 aprile la giustizia fu casuale, capricciosa e risparmiò molti che seppero fare in tempo il salto necessario di barricata.
Per pietà umana verrebbe da dire che Starace pagò un conto eccessivo, perché ormai non era più nulla, e anni di umiliazioni e indigenza erano stati una pena ben grave. Ma per obiettività storica non possiamo non sottolineare che pochi come Starace contribuirono a costruire quel clima che avrebbe portato l'Italia al disastro della guerra. 
Anche se al 10 giugno del 1940 egli non deteneva più alcun effettivo potere politico, è anche vero che fu il più diretto, fedelissimo collaboratore di Mussolini nel mettere l'Italia su una strada senza ritorno. Per contro, è altrettanto vero che l'uomo fu, di suo, onesto e leale nei confronti del suo Capo, che non cercò gli arricchimenti e le sistemazioni così classiche nell'italiano medio. Ma questo non basta, quando si vanno a leggere le cifre agghiaccianti di morti e distruzioni a cui portò un bellicismo coltivato per anni e anni. La pena di morte non ci garba, per nessuno. Chiudere gli occhi davanti ai dati di fatto, nemmeno. Su una sola cosa vorremmo render giustizia ad Achille Starace: si è detto che fu l'inventore di mille buffonate.


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