Benito Mussolini Nella preparazione della guerra era
essenziale organizzare a tal fine l’economia nazionale. Nel 1926, Mussolini,
come si è detto, aveva rivalutato la lira su "quota novanta", una misura, come
anche si è detto, che favorì il fascismo nella considerazione, ma sfavorì le
esportazioni e danneggiò i lavoratori. Comunque essa serviva
propagandisticamente a dimostrare l’energia delle decisioni del Duce. Negli anni
‘30 cominciò la costruzione dello Stato corporativo, sulla base della "Carta del
lavoro" elaborata da Giuseppe Bottai e promulgata dal Gran Consiglio il 21
agosto 1927. Nel 1931 furono istituite, almeno sulla carta, 13 corporazioni,
di cui sei di datori di lavoro, sei di lavoratori e una di coloro che
esercitavano una libera professione o un’arte. Il Consiglio Nazionale delle
Corporazioni, istituito il 20 marzo 1930 come organo costituzionale, era
presieduto da Mussolini o, per sua delega, dal ministro delle Corporazioni; i
suoi disegni di legge dovevano essere sottoposti all’approvazione del Gran
Consiglio del Fascismo. Ma con la nuova legge del 5 febbraio 1934, quando il Duce dichiarò che le
Corporazioni erano nate, esse erano salite da 13 a 22. Al nuovo sistema, che doveva inquadrare tutta l’economia
italiana sotto direttive di carattere politico e che nella concezione di Bottai
avrebbe dovuto costituire un ministero della programmazione, furono apportati
ritocchi continui; e tuttavia, non solo il sistema non funzionò mai secondo
quanto stava scritto sulla carta, ma nessuno fu mai in grado di dire che cosa
esattamente le Corporazioni fossero e come funzionassero o dovessero funzionare.
Nella pratica quel tanto di corporativismo che venne attuato ebbe carattere
autoritario-burocratico e valse come principio di reazione alle sane regole del
mercato e soprattutto di asservimento dei lavoratori alla dittatura e al grande
capitalismo finanziario. La disoccupazione oscillò negli anni 1932-33 da un
milione a un milione 158
mila unità (diminuì poi con i grandi lavori pubblici del 1937-39 e con le
guerre). La crisi mondiale del 1929 si ripercosse in Italia a partire dal 1930 e
il regime reagì con un’intensa statizzazione dell’economia, in cui prese posto
tra l’altro la fondazione nel gennaio 1933 dell’Istituto per la Ricostruzione
Industriale (IRI), con il quale si ebbe in gran parte la socializzazione delle
perdite e la privatizzazione dei profitti. Alla legislazione sociale il regime
fascista diede indubbiamente un certo impulso, pur tenendo conto — il che vale
anche per il processo di ammodernamento del Paese — del fatto che si trattava di
tendenze comuni a tutti gli Stati civili; inoltre è privo di fondamento il vanto
del fascismo di aver inventata quella legislazione, poiché il regime continuò un
opera che era stata iniziata molto prima. La Cassa di previdenza per
l’invalidità e la vecchiaia degli operai aveva mosso i suoi primi passi fin
dall’Ottocento. L’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia era
stata istituita nel 1919, l’assicurazione contro la disoccupazione nel 19 17-19,
la Cassa nazionale di assicurazione per gli incidenti sul lavoro aveva iniziato
la sua vita nel 1883, e i regolamenti a essa relativi emanati dal regime a
partire dal 1926 ebbero un’impronta nettamente statalistica e di regime. La
Cassa nazionale per le assicurazioni sociali fu trasformata nel 1933 in Istituto
nazionale fascista della previdenza sociale (INPS), e nello stesso anno la Cassa
nazionale infortuni fu trasformata in Istituto nazionale fascista per
l’assicurazione infortuni sul lavoro (INAIL). La Cassa nazionale di maternità,
con assicurazione obbligatoria, era stata creata nel 1910. Nel 1925 il fascismo
creò l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, che
nel 1935 assisteva 1.740.000 persone; la mortalità infantile scese dal 12,79 per
cento dei nati vivi nel 1922 al 9,99 nel 1934-35. Uniformandosi alla Convenzione
internazionale di Washington, il 10 marzo 1923 il governo fascista decretò la
limitazione delle ore di lavoro giornaliere a otto. Il 3 aprile 1926 furono
emanati i regolamenti per i contratti collettivi del lavoro. L’Opera Nazionale
Dopolavoro fu istituita nel 1925 e nel 1937 contava 3.180.000 iscritti: era un
organismo dispensatore di facilitazioni per il tempo libero, ma, al tempo
stesso, anche per il controllo del modo in cui i lavoratori utilizzavano il loro
tempo libero e per indirizzarli verso l’accoglimento della propaganda del
regime. Un cenno meritano le bonifiche, anch’esse
iniziate sessant’anni prima del fascismo, ma indubbiamente dal regime portate
avanti con ben altro impegno. A esse fu dato impulso con la cosiddetta "legge
Mussolini" del dicembre 1928. La maggiore opera di bonifica "integrale" come
venne chiamata fù quella attuata nell’Agro Pontino a partire dal 1931, che tra
l’altro comportò la creazione di cinque città (la maggiore e più conosciuta fu
Littoria, fondata nel 1932 e seguita da Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia) e
una spesa di oltre otto miliardi di lire (a quel momento, su 9.750.000 ettari di
terreno da bonificare, ne erano stati bonificati oltre sei milioni). Le
bonifiche, però, finirono in gran parte per costituire un miglioramento della
proprietà privata a spese del bene pubblico; inoltre solo dal 10 per cento della
superficie bonificata furono in pratica tratti — come ha giudicato un tecnico,
Mario Bandini — "frutti cospicui". La "battaglia del grano", per rendere
l’Italia autosufficiente in fatto di cereali, ebbe notevole successo, anche se
si seminò in terre che sarebbero state adatte a colture diverse e più variate e
comportò costi di produzione esorbitanti. Nel 1928 un grande economista
liberale, Umberto Ricci, scriveva: Io credo fermamente che un uomo di Stato debba conoscere i
principali dettami della scienza economica; o per lo meno saper ascoltare coloro
che tali dettami conoscono. Quando essi ignorano tali dettami, commettono grandi
errori: costringono gli agricoltori a coltivare prodotti comparativamente più
costosi e si aspettano poi che il prodotto netto dell’agricoltura nazionale
aumenti. Ingiungono agli industriali di scemar con ogni mezzo il costo dei
prodotti della loro industria e proibiscono loro di acquistare anche all’estero
materie prime, macchine e altri strumenti. Sottraggono con imposte il risparmio
da impieghi che dan lavoro agli operai, lo usano per sussidiare i disoccupati o
per erigere opere pubbliche inutili. Era una condanna di tutta la legislazione
economica del regime mussoliniano, che infatti condannò il suo autore alla
perdita della cattedra universitaria e lo indusse a esiliarsi e a insegnare al
Cairo e a Istanbul. Un secondo plebiscito fu organizzato nel 1934. I votanti
dovevano semplicemente rispondere con un "sì" o con un "no" alla seguente
domanda: "Approvate voi la lista dei deputati designata dal Gran Consiglio del
Fascismo?". La scheda del "sì" era tricolore, in modo che il voto non era più
segreto. Inutile dire che i "sì" furono oltre dieci milioni, i
"no" quindicimila quindicimila
temerari. Sul corporativismo s innestò l’autarchia. Già nel 1925
Mussolini, come si è detto, aveva impostato la "battaglia del grano" che aveva
carattere e scopi autarchici. Ma la spinta decisiva all’autarchia, se non in
tutti i rami della produzione, almeno in quelli essenziali, fu determinata dalla
congiuntura economico-politica in cui l’Italia fascista si trovò in seguito alle
sanzioni decretate contro di essa dalla Società delle Nazioni a causa della
guerra d’Etiopia. I princìpi dell’autarchia furono indicati da Mussolini con i
due discorsi del 23 marzo 1936 e del 15 maggio 1937 rispettivamente alla
11 e alla III Assemblea nazionale delle
Corporazioni. Dell’autarchia l’Enciclopedia Italiana dava la seguente
interpretazione: "Suo fine principale è quello di rendere la nazione
economicamente autonoma per tutto ciò che riguarda i prodotti essenziali alla
vita e alla difesa in caso di guerra "
(la sottolineatura è nel testo). Nel ‘37 il Gran Consiglio, udita una
relazione del Duce, stabilì che si dovesse compiere "il sacrificio anche totale,
se necessario, delle esigenze civili a quelle militari". La politica autarchica
comportò una serie di divieti in fatto di alimentazione e soprattutto l’aumento
dei costi di produzione interna rispetto alle importazioni. E'vero però, come ha rilevato De Felice, che la
politica autarchica avvenne al di fuori dell’ordinamento corporativo, il quale
cessò così di avere qualsiasi incidenza attiva sulla vita economica e sociale
del paese, riducendosi a un organismo burocratico di collegamento.
Le Corporazioni e
l'Autarchia