La Parte Oscura

"…chi sa non parla
chi parla non sa.
Smussare il tagliente
schiarire il confuso
velare l'abbagliante
confondersi esteriormente con l'uomo comune:
questa è la profondità.
A colui che è Illuminato non si è vicini
non si è lontani.
Per lui non esiste guadagno
non esiste perdita.
Egli è al di sopra dell'onore
al di sopra del disprezzo.
Per questo è ciò che di più alto vi è al mondo."


"La via di cui si può parlare
non è l'Eterna Via.
Il nome che si può pronunciare
non è l'Eterno Nome…"


                                  Lao-Tze
Tao-Te-Ching


E' forse il più antico comandamento dell'Uomo. Platone fece una sintesi in quel "conosci te stesso" che gli architetti greci immortalarono nella pietra. Prima ancora Lao-Tze tramandava alle generazioni future la sua trentatreesima massima del già citato Tao-Te-Ching affermando che:

"conoscere gli altri è saggezza
conoscere se stessi è illuminazione.
Dominare gli altri è forza
dominare se stessi è superiorità.
Ricco è colui che basta a se stesso."


Il più antico comandamento dunque.
Il più prezioso. Il più ignorato!
Le Arti Marziali in oriente nacquero come una delle strade attraverso cui approfondire questa conoscenza dell'unità tra Spirito e Corpo.
Essere un Praticante di Arti Marziali significava, in primo luogo, sondare ogni aspetto della propria più intima essenza, misurare i limiti delle proprie capacità, scandagliare le profondità delle proprie paure, lasciar emergere dagli abissi dell'inconscio tutta la nobiltà di cui si era capaci, tutta la violenza che vi era sepolta.
Perché nel "conosci te stesso" sono contenute tutte le possibili filosofie.
Perché l'universo, in fondo, non travalica i confini della nostra mente.
In oriente il buio e la luce sono complementari, si fondono, ognuno di essi contenendo una piccola parte dell'altro.
Il male esiste come indispensabile parte del bene.
Al dualismo occidentale si contrappone la dialettica orientale.
Un tempo a questo servivano le Arti Marziali: scoprendo a poco a poco i propri aspetti più riposti e meno accettabili si apprendeva a non averne paura, a non subirne l'oscuro fascino… Le Arti Marziali, però, insegnavano anche ad uccidere, in mille e più maniere, in modo da avere la quasi certezza dell'invincibilità.
Un uomo che sappia di poter eliminare il proprio avversario senza rischio è veramente padrone delle proprie scelte.
Per questo, il più delle volte, deciderà di non usare il suo potere. Non si lascerà accecare dall'ira, che sa controllare. Non colpirà per paura, che sa dominare. Può guardare la Tigre negli occhi. E sorriderle. Oggi la maggioranza delle Arti Marziali ha rinnegato questa ricerca.
La loro lenta evoluzione nei secoli ricorda quella che ha mutato il lupo selvaggio in un cane domestico. Tuttavia pochi uomini hanno continuato a seguire la loro Via e hanno scelto il Lupo… Perché hanno deciso, tra l'altro, di credere ancora in quel "conosci te stesso" che è, forse, il più antico comandamento dell'Uomo.

Le Radici

Le Arti Marziali hanno radici profonde.
Come ogni forma di cultura sviluppatasi in Asia la loro nascita si colloca, probabilmente, in quel "pianeta misterioso" che è l'India.
La più antica delle Arti di combattimento di cui ancora si conservi memoria è, infatti, il Kalari Payat, disciplina di lotta a mani nude e con armi di derivazione diretta dall'antichissima Vatiramuki.
Tuttavia ben presto queste realtà raggiunsero anche la Cina, dove trovarono ad attenderle un terreno quanto mai fertile.
L'antichità di questo insediamento e, più in generale, dell'interesse cinese per lo sviluppo dell'Arte Marziale, è testimoniato dal fatto che la Storia ci narra che l'imperatore Phuc-Hi, attorno al 4.300 Avanti Cristo, più di seimila anni fa, già insegnava tecniche di lotta ai suoi seguaci.
Inoltre molto prima dell'anno 100 a. C. un Saggio pensò di tramandare alle generazioni a venire tutto ciò che aveva appreso dell'Arte della Guerra. Il suo nome era Sun Tzu, un generale nativo dello stato C'ì, vissuto probabilmente nel VI secolo prima di Cristo, e il nome della sua opera è "l'Arte della Guerra". Per possedere le caratteristiche citate da Sun Tzu un normale addestramento non poteva bastare: l'Arte dovevo divenire metodo e ragione di vita, scopo e mezzo nello stesso tempo. In Cina quest'Arte ebbe molti nomi, ma quello che finì per affermarsi fu In Sen Shu, letteralmente "Arte Silenziosa".
Tuttavia oltre che di uomini che avevano fatto della Guerra la loro ragione di vita, in breve le Arti Marziali divennero patrimonio anche di una casta di monaci guerrieri che, da un lato, le ritennero utili per difendersi lungo i loro pellegrinaggi in zone selvagge e, dall'altro, le utilizzarono come indispensabile mezzo nella loro personale ricerca dell'Illuminazione. Nacque così il Fa Shu, l'Arte Nera, che univa tecniche marziali con pratiche di meditazione, tecniche di respirazione con prestidigitazione e che, soprattutto, aveva lo scopo di permettere all'uomo di far ricorso a quella "forza" che permea lui come ogni cosa vivente.

L'Arte giunge in Giappone

Come per la filosofia e le religioni, come per la scrittura e la pittura, come per le Arti Marziali in generale, non è possibile stabilire il momento in cui l'Arte Silenziosa, l'In-Sen-Shu, valicò il mare per approdare alle coste del "Paese degli Dei", del Giappone.
Furono le ruvide mura dei monasteri alpini ad ospitare gli alfieri dell'Arte Silenziosa per prime. Furono i boschi di conifere, gli impetuosi torrenti montani, i nevai scintillanti a fare da rude culla per la genesi nipponica dell'Arte dei Guerrieri della Notte...
Da quel momento l'intreccio complesso di In-Sen-Shu, Fa-Shu e molte altre discipline sarebbe stato conosciuto con il nome giapponese di Ninjutsu...

"Kyoto, l'antica nobile capitale di un Impero inquieto.
E' una notte d'aprile, tiepida e silenziosa. Tra le case in legno dai tetti spioventi, tra i giardini di incredibile armonia, tra i templi di cento diverse religioni una leggera brezza porta il sottile profumo dei fiori di ciliegio. Le guardie della città si sono ritirate nei loro quartieri, hanno deposto i lunghi yari, le acuminate picche sulla cui punta il gancio studiato per appendervi una lanterna che rischiari l'oscurità appare ormai inutile: nessuno si avventura nelle Tenebre.
Perchè le ombre nascondono altre ombre.
Quando cala la notte Kyoto appartiene ai Ninja."


I nobili Bushi, i Samurai, li odiano e li temono... o, forse, li odiano perchè costretti a temerli; i signorotti locali ostentano disprezzo nei loro confronti ma non esitano a ricorrere ai loro servizi; il "potere" è dibattuto tra il desiderio di distruggere qualcosa che avverte "diverso", pericoloso, eversivo e la necessità di usare questi uomini capaci di realizzare imprese incredibili.
Ma in realtà, chi usa chi?
Alternativamente attaccati e protetti i Clan Ninja utilizzano le ambiguità del potere per rafforzarsi, consolidarsi, espandersi. Apparentemente al soldo del miglior offerente sono, in pratica, fedeli solo a sè stessi ed alla possibilità di continuare a tramandare la ricerca della loro Via.
E' in particolare nel centro-sud del Giappone che i Ryu, le Scuole, di Ninjutsu si espandono. Le province montagnose di Iga e di Koga sono le roccheforti da cui l'infiltrazione ha inizio. I nomi di alcuni antichi Ryu si sono tramandati sino a noi: il Clan Hattori originario della provincia di Iga; Il Ryu Kyushin celebre per l'uso particolare della lancia che vi si insegnava; la Scuola Fudo, che si specializzò nell'utilizzazione delle più disparate lame da lancio; la Famiglia Gyokku i cui membri erano epserti nell'Arte di sferrare colpi mortali con mani e piedi, talvolta con un solo dito, una particlare tecnica denominata Yubijutsu che faceva parte del più generale Atemijutsu (Arte dei colpi), ed in quella analoga del Koshijutsu che consisteva nell'attaccare con pressioni dolorose i centri nervosi ed altri gangli vitali. Altri esperti di Atemi, ma con lo scopo di spezzare o slogare le ossa, erano gli appartenenti al Ryu Koto che si specializzarono in Koppojutsu, l'Arte della frantumazione. Ed ancora il Clan Togakure nel cui seno si svilupparono molte delle ingegniose armi Ninja, e la Famiglia Kusonoki famosa per l'abilità delle proprie spie.
Naturalmente ogni Ryu, pur eccellendo in questa o quella specializzazione, coltivava l'insieme delle tecniche, coltivava l'Arte nella sua conservata intierezza, sia fisica che psichica.

L'insegnamento fisico e mentale cominciava in tenerissima età. Col passare degli anni l'addestramento al combattimento si intensificava, mentre procedeva contemporaneamente l'iniziazione ai segreti della concentrazione psichica, della meditazione, del controllo del respiro e del battico cardiaco. Infine l'aspirante Ninja veniva introdotto alle discipline più esoteriche dell'Arte, il Mikkiu, il Kuji-Kiri, il Kobudera...
Quando il tempo era venuto il Maestro gli assegnava una "missione". Nel corso della sua vita egli avrebbe superato molte prove. Ma questa era particolare, appositamente studiata, individuo per individuo, al fine di permettergli di affrontare le sue più celate paure, le sue più segrete angoscie. L'Iniziato, in un modo o nell'altro, si trovava a dover combattere contro se stesso. Se superava la Prova era un uomo diverso a tornare indietro.
Da quel momento era un Ninja.
Non c'era arma che non sapesse costruire ed usare, non c'era forma di combattimento in cui non eccellesse, non c'era nulla che potesse intimidirlo al punto da farlo rinunciare ai suoi obbiettivi perchè, sin dalla sua prima missione, s'era abituato a varcare la sottile soglia tra la vita e la morte...e ne era tornato sorridente.
Ora cavalcava la Tigre, uomo tra gli uomini eppure, in qualche modo, diverso da loro.
Per chi ha compreso, sin nell'intimo delel proprie cellule, che il mondo, la vita, la morte non sono che un sogno dentro un sogno, vivere, morire o uccidere acquistano valori diversi dal resto dell'umanità. Egli guardava con ironia i nobili Samurai che storcevano il naso per la sua "mancanza d'onore", per il fatto che, talvolta, eliminava il suo nemico in modo subdolo: considerava il Bushido, le rigide norme di comportamento che dettavano la vita dei classici guerrieri, una raffinata ipocrisia. Per il Ninja non esistevano differenze di casta: gli uomini erano divisi in Adepti del proprio Clan, cui era dovuta fedeltà assoluta, e gli altri, nei confronti dei quali tutto era lecito. Tuttavia il Guerriero delle Tenebre non era mai inutilmente crudele...Egli aveva già esplorato la propria parte oscura e non sentiva affatto il bisogno di cedervi. Uccideva, se era necessario, se gli veniva comandato, nel modo più veloce, più efficiente, più "pulito" possibile. E si uccideva, quando la situazione lo richiedeva, senza l'elaborata etichetta del Seppuku. Buttava il proprio corpo come ci si libera di un abito vecchio quando è ormai inservibile, convinto che la minuziosa ritualità del Seppuku nascondesse un amore per la morte che altro non è che il risvolto di un attaccamento alla vita.
Inoltre la sua stessa concezione del mondo lo portava ad agire in un modo particolare: per attingere alla "forza" che pervade e collega tutto ciò che è vivo nell'Universo occorre turbarne il meno possibile l'Armonia... Muoversi silenziosamente, essere furtivi, colpire e tornare a scomparire nell'ombra, ad esempio, erano schemi di comportamento che, al di là di una loro innegabile utilità pratica, rispondevano ad una scelta filosofica precisa.

"...smussare il tagliente, schiarire il confuso, velare l'abbagliante..."



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