In
fondo al presbiterio, a destra di chi guarda l'altare maggiore, si apre
una porticina che immette nell'atrio d'accesso alla sagrestia di S. Chiara.
La volta della sagrestia è affrescata con figure di Santi Francescani
ed una Annunciazione, volute da suor Teresa Brayda che nel 1692 commissionò
anche gli armadi ed il lavabo marmoreo. A destra della porta a vetri della
sagrestia, sempre nell'atrio, si apre l'accesso ad un altro locale nel
quale è esposto, a destra, un grande arazzo raffigurante uno Sbarco
dei Turchi, opera di ricamatori napoletani databile all'ultimo quarto
del XVII secolo che soprattutto nell'iconografia richiama gli arazzi di
Beauvais, mentre per i motivi decorativi riprende le ornamentazioni di
porcellane e di ricami orientali di importazione olandese. A sinistra
della porta della sagrestia, invece, si apre un vestibolo maiolicato.
Alle pareti sono conservati sedili con decorazione maiolica ed il pavimento
in cotto presenta anch'esso inserti decorativi di maiolica policroma,
i quali come pure i pannelli con scene di genere, sono opera del maiolicaro
Donato Massa che prese a modello il pure massiano pavimento del Coro di
S. Maria Donnalbina (1736) disegnato da Muzio Nauclerio ed in seguito
andato perduto. Oltrepassato il vestibolo maiolicato si giunge ad un pianerottolo
dove pervengono le scale che portano al dormitorio nord del monastero
femminile e quelle che invece conducono al chiostro grande e dove si apre
anche la porta dell'oratorio interno. Le pareti e la volta del pianerottolo
o atrio dell'oratorio, si presentano vivacemente affrescate, in particolare,
a destra del portale del coro si può osservare l'affresco più
antico un S. Cristoforo che si regge sull'albero di palma con il Cristo
bambino sulle spalle, databile genericamente al secolo XIV ed in parte
ridotto alla sola sinopia. Gli altri affreschi che sono tutti riferibili
al periodo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, raffigurano
Santi Martiri, Scene di Martirio e Scene dell'Apocalisse di S. Giovanni.
Una intera parete di fronte all'accesso al coro conserva invece un grande
affresco del Giudizio Universale, pure cinquecentesco, attribuito ai pittori
manieristi Pietro Torres e Cesare Smet, dalla interessante iconografia
ispirata molto probabilmente ai Sermoni di S. Giacomo della Marca.
Di notevole interesse è il portale di accesso al Coro o oratorio
interno frutto della sistemazione settecentesca di frammenti scultorei
del Trecento in un'opera unitaria. Mentre l'architrave può essere
datato al XVIII secolo, la lunetta ogivale con bassorilievo dell'Agnus
Dei e le colonne laterali del portale sono certamente opere trecentesche.
Le sei colonne, tre per lato, montate sul dorso di due leoni per lato,
sono caratterizzate da un'accurata decorazione a motivi vitinei con grappoli
e fogliame. I rispettivi capitelli presentano a loro volta una decorazione
a foglie accartocciate. Oltre a ricordare i sostegni del tinesco sepolcro
di Caterina d'Austria in S. Lorenzo Maggiore, le colonne del portale del
coro richiamano negli ornati vegetali, le colonne del baldacchino vescovile
del Duomo di Napoli, presentando però un intaglio più arcaico
discussa ne è comunque la provenienza, se cioè da un monumento
funerario smembrato, dal vestibolo o da una delle porte minori della stessa
basilica.
Varcato il portale, si penetra nel coro o oratorio interno di S. Chiara,
un ampio ambiente a pianta rettangolare (m. 30,6 x 18,5), suddiviso in
tre navate (quella centrale alta m. 24 e quelle laterali m 18,10) scandite
da due pilastri polistili, alti oltre undici metri dalla base all'apice
e che contribuiscono a creare l'impressione di una forte tensione ascensionale
e l'illusione di un ambiente più alto di quello della basilica.
In occasione del restauro postbellico sono state completamente rimosse
le residue tracce degli affreschi databili approssimativamente dal secolo
XVI in poi ed in particolare dei cicli con Storie del Vecchio e del Nuovo
Testamento, della Vita di Gesù e della Vergine, nonché Storie
di S. Francesco e di S. Chiara, e della decorazione pittorica dei pennacchi
delle vele con stemmi di Sancia utilizzati come insegne del monastero
ed emblemi della casa d'Asburgo, così che la grande sala ha acquistato
attualmente un aspetto di maestosa nudità.
A partire dagli anni Cinquanta sono stati sistemati proprio nel coro frammenti
scultorei di epoche diverse provenienti per la maggior parte dal complesso
francescano. La tipologia dei frammenti minori è piuttosto varia:
si notano infatti pannelli con tarsie marmoree a motivi astratti della
seconda metà del secolo XII, un tronco di colonna a base ottagonale
con fregi vegetali e dentinatura, adattato a base di tavolino databile
alla prima metà del secolo XIV, una formella di pietra con bassorilievo
del calice e dell'ostia a ricordo dell'antica dedicazione della basilica
all'Ostia Santa (sec. XIV), quattro leoni già stilofori del secolo
XIV, frammenti di colonnette tortili, un grosso capitello a decorazione
vegetale e tre puntali di cuspidi tutti trecenteschi, una lastra sepolcrale
terragna o il coperchio di un'arca con figura muliebre in vesti monacali
e frammenti degli stemmi Orsini e Marzano del secolo XV o inizi del XVI,
un doppio capitello con decorazione vegetale della fine del secolo XII
o inizi del XIII, ed un capitello ottagonale con doppio ordine di decorazione
vegetale della fine del secolo XII o inizi del XIII, cinque porzioni di
facce frontali di baldacchini con decorazioni a tralci vitinei o rose
e tracce della colorazione antica tutte del XIV secolo, un frammento di
lastra sepolcrale di anonimo personaggio del secolo XV o inizi del XVI,
un altro frammento minimo, sul quale è osservabile solo il panneggio
di una tunica, un pilastrino del secolo IX o X scolpito a bassorilievo
con il motivo decorativo del tralcio di vite nascente dal vasetto.
Quanto invece alle opere piu significative ed importanti, seguendo l'ordine
di esposizione a partire dall'ingresso, notiamo anzitutto sulla parete
subito a sinistra due frammenti di un pluteo altomedioevale sul quale
erano rappresentati due leoni affrontati all'albero della vita. Il pluteo
originario è databile agli anni tra l'898 ed il 903 e ciò
in base all'iscrizione leggibile sul frammento superiore la quale menziona
un vescovo Pietro identificato con il vescovo di Napoli di stesso nome
che governò la diocesi appunto in quegli anni. Sotto il profilo
dell'iconografia i nostri frammenti richiamano modelli bizantino orientali
mentre è ignota la loro provenienza originaria.
Poco oltre sono sistemati due frammenti di una lastra frontale di sarcofago
databile approssimativamente a metà del Trecento. Entro archetti
su colonnine tortili sono rappresentati S. Pietro e S. Giovanni Battista
e si conservano parzialmente gli stemmi dei de Gianvilla e dei Sanseverino.
Le due figure possono essere genericamente attribuite ad accurati esecutori
seguaci dei fratelli Bertini, il monumento di provenienza non è
identificabile con certezza sulla base delle fonti letterarie, ma si tratta
probabilmente di una delle arche sepolcrali dei Gianvilla di Santangelo
che ebbero in patronato la settima cappella della navata destra.
Poco al di sopra è murato un bassorilievo di mediocre fattura raffigurante
il Redentore entro la tradizionale mandorla, databile a metà del
Trecento e proveniente dal frontone di un perduto e non identificabile
baldacchino sepolcrale.
Seguono, sistemate su pilastrini di piperno grigio, otto statuine trecentesche
per la maggior parte cariatidi provenienti da smembrati sepolcri. Nell'ordine
si osservano:
1) una cariatide con compasso (Temperanza o Prudenza);
2) una cariatide che impugna una spada frammentaria e che risulta
attualmente priva della mano destra con la quale probabimente tratteneva
in origine la punta della spada stessa (Temperanza, Giustizia o Fortezza
;
3) una cariatide che reca in una mano un serpente e nell'altra
un libro chiuso da fermagli (Prudenza);
4) una cariatide che regge la fiaccola stilizzata (Prudenza, Speranza
o Fede);
5) un gentiluomo con falco;
6) una statua di una fanciulla coronata che reca in grembo un agnello
o un piccolo levriero, ovvero un ermellino (Mansuetudine o Carità);
7) una cariatide con clava e leone vinto (Fortezza);
8) la cariatide della Fede proveniente dal sepolcro di Agnese e
Clemenza di Durazzo e della quale si è già discorso illustrando
tale monumento.
Quanto specificamente alle statuine indicate coi numeri 1), 2), 3) 4)
e 7), le opinioni in ordine all'attribuizione sono state piuttosto articolate.
Alcuni, le hanno riferite a Tino di Camaino, Gagliardo Primario ed aiuti
ritenendole, a causa delle ridotte dimensioni (altezza m. 0,87), provenienti
dai sepolcri dei principini angioini Luisa, Maria, e Ludovico, altri ne
hanno invece sostenuto esclusivamente la diretta derivazione da modelli
tineschi. Secondo altri ancora la cariatide con il compasso, quella con
fiaccola stilizzata, quella con serpente e libro ed infine quella con
spada dovrebbero essere tutte assegnate alla bottega dei Bertini, in particolare
le prime due sarebbero avvicinabili ad una delle figure delle Arti liberali
della camera sepolcrale di re Roberto e recherebbero le tracce dell'intervento
del migliore dei due fratelli. Le ultime due e specificamente la cariatide
con serpente, si distinguerebbero per i tratti delicati e per il panneggio
derivato direttamente dai modelli tineschi e soprattutto dal Confessore
del monumento di Arrigo VII. Ancora, secondo una recente opinione il falconiere,
la Prudenza con serpente, la Giustizia con spada frammentaria e la Temperanza
con compasso, interpretata anche come uomo con tenaglie a molla, spetterebbero
invece al c.d. Maestro della dama con l'ermellino figura di scultore recentemente
ricostruita. A mio avviso ed in conclusione, è invece possibile
distinguere l'opera di almeno tre distinti artefici. Nella cariatide con
il serpente del coro ed in una perduta Fortezza maschile, nonché
nelle due cariatidi oggi al Museo dell'Opera e cioè una Temperanza
acefala caratterizzata da una insistita rappresentazione della spada serrata
nel fodero ed una Giustizia con bilancia e spada, sembrerebbe possibile
rintracciare la mano di quello tra i fratelli Bertini più prossimo
ai modelli tineschi, ovvero di un autore della bottega, comunque particolarmente
sensibile proprio a tali modelli. La cariatide con il compasso e quella
con la spada conservate nel coro potrebbero invece essere attribuite ad
un allievo diretto dei Bertini e datate agli anni successivi al completamento
del sepolcro di re Roberto (fine del 1345). La cariatide con fiaccola
stilizzata e quella con clava e leone sarebbero opera di un più
tardo imitatore dei Bertini e potrebbero essere datate ai tempi dell'esecuzione
del sepolcro di Maria di Durazzo in S. Chiara (1370 ca.).
Quanto alla cariatide coronata con l'agnello ovvero con l'ermellino (Mansuetudine)
la stessa può essere ricondotta al magistero tinesco e presenta
un elaborato panneggio accompagnato dall'accurato studio dei tratti del
volto caratteristicamente astratti ed infine da un equilibrato deanchement
benchè sia stata invece di recente attribuita ad uno scultore distinto
da Tino e dai Bertini, che avrebbe eseguito anche le cariatidi del sepolcro
di Carlo di Calabria, denominato appunto convenzionalmente, come appena
anticipato, Maestro della dama con l'ermellino. La statua in esame era
in origine in opera nel sepolcro di Maria di Valois come confermano i
caratteri stilistici, le dimensioni e la presenza sul dorso delle radici
delle ali estirpate in epoca imprecisabile, radici che si leggono identiche
sulle spalle delle due cariatidi del sepolcro di Maria. Un documento tratto
dai registri monasteriali dell'Archivio di Stato di Napoli ci conferma
che in occasione dei lavori di ripavimentazione della basilica diretti
da Antonio Guidetti nel periodo 1703-1705, anche il monumento di Maria
di Valois venne privato di una delle cariatidi e che la stessa, da identificare
appunto con la statua in esame, non fu poi ricollocata in situ. Quanto
in conclusione specificamente al falconiere così come conferma
l'abbigliamento tipicamente trecentesco e la complessiva fisionomia, anch'esso
dev'essere assegnato ad un anonimo scultore della cerchia dei Bertini
piuttosto che del Baboccio come invece da alcuni ritenuto.
Tra le altre sculture conservate nel coro si segnala, seguendo l'ordine
di esposizione, un quadrone di pietra scura con stemma della famiglia
Stella coronato da un cimiero simbolico raffigurante un pellicano che
nutre i suoi piccoli, allusione al sacrificio di Cristo per l'umanità,
risalente, come riferisce l'iscrizione, al 1325 e proveniente da un monumento
della famiglia sistemato originariamente nella basilica presso la quarta
cappella della navata destra. Al di sopra del comunichino centrale, entro
un arcosolio dal fondo affrescato con i gigli angioini e lo stemma di
Sancia, è collocata la statua giacente di re Roberto, proveniente
dal sepolcro provvisorio del sovrano ed opera di uno dei fratelli Bertini.
La statua, evidentemente derivata da modelli arnolfiani, risulta incompiuta
nel tratto tra l'incrocio delle braccia e la punta estrema del saio. Il
volto sarebbe stato ricavato da un calco funerario proprio come per la
statua giacente del sepolcro definitivo.
A destra dell'ultimo dei comunichini centrali sono murati alcuni importanti
frammenti di sarcofagi trecenteschi. Nell'ordine, dall'alto in basso,
notiamo una formella quadrata sulla quale, entro un clipeo, è raffigurata
una santa martire con palma e braciere, forse S. Lucia o S. Agata mentre
in un'altra formella del tutto identica è raffigurata S. Elisabetta
d'Ungheria con i fiori in grembo. Più in basso è posta una
lastra frontale di sarcofago mutila, sulla quale, sempre entro clipei,
sono raffigurati da sinistra a destra S. Ludovico di Tolosa, S. Francesco
che mostra le stimmate ed un giovane santo martire non meglio identificabile.
Le due formelle quadrate costituivano probabilmente le facce laterali
del piccolo sarcofago, mentre la lastra rettangolare, la faccia frontale
dello stesso. Molto probabilmente il monumento era addossato ad una parete
sicché la lastra di fondo, peraltro non conservata, non doveva
essere figurata. Mancano tracce evidenti di decorazione musiva ma rimane
qualche labile segno di decorazione pittorica, soprattutto nel riquadro
con S. Elisabetta. I frammenti sono stati attribuiti a Tino di Camaino
ed alla sua bottega, in particolare i caratteri tineschi sono evidenti
nella S. Elisabetta, nel S. Ludovico e nel santo non identificato che
rientrerebbero quindi nel gruppo dei piccoli rilievi, opere destinate
ad essere osservate da vicino cui il Maestro attese principalmente nel
periodo 1330-1337. Si recentemente supposto inoltre che queste sculture
provengano dai sepolcri di Maria o di Luisa d'Angiò ovvero dal
cenotafio di Carlo Martello d'Angiò (morto nel 1327), del quale
però non si ha alcuna precisa notizia storica.
Poco più in basso sono murati due frammenti marmorei sui quali
sono scolpiti gli stemmi personali di Maria di Valois probabilmente provenienti
dal sepolcro provvisorio della duchessa. Al termine della parete è
infine sistemata la lastra sepolcrale terragna del notaio Andrea de Turri
(morto nel 1411), raffigurato con vivace realismo caratteristico di altre
opere di ambito baboccesco ed in particolare della già ricordata
lastra Penna Sulla parete successiva, al di sopra della porta che conduce
alla sagrestia del Tesoro è murata una porzione di bassorilievo
rappresentante il Cristo benedicente entro una corona d'alloro, opera
della seconda metà del Quattrocento proveniente dal distrutto baldacchino
del monumento sepolcrale dei Supino di Penna in origine collocato subito
a destra entrando nella basilica dalla porta maggiore. Poco più
oltre, su mensole, sono poste tre statue parzialmente danneggiate: un
S. Francesco con la croce, una S. Caterina d'Alessandria che schiaccia
sotto i piedi il tiranno con resti della ruota del martirio ed una S.
Chiara con il giglio, tutte databili agli ultimi decenni del Cinquecento.
Le statue di San Francesco e S. Chiara, sono state attribuite a Girolamo
d'Auria figlio del più noto scultore Gian Domenico e suo fedele
imitatore. La Santa Caterina è stata invece riferita ad un anonimo
scultore del tardo Cinquecento, probabilmente anch'esso membro della nutrita
bottega del d'Auria padre, mentre non è stato fin qui possibile
accertare l'originaria collocazione delle tre sculture. A livello più
basso sono poste, al muro, alcune lastre scolpite a bassorilievo e raffiguranti
S. Chiara che mette in fuga i saraceni da Assisi, un'altra S. Francesco
che riceve le stimmate sul monte Verna e l'ultima S. Lodovico di Tolosa.
Seguono ancora uno stemma degli Asburgo di Spagna, una lastra rettangolare
con santo non identificato con rosario e Vangelo, ed una lastra con S.
Antonio di Padova con giglio. I primi tre bassorilievi (S. Chiara, S.
Francesco e S. Ludovico) ed il S. Antonio, sono opera di Francesco Cassano
e furono eseguiti intorno al 1607 a decorazione dei basamenti sui quali
poggiavano le colonne di sostegno del coro dei frati addossato alla controfacciata,
dai quali proviene probabilmente anche lo stemma Asburgico. Il bassorilievo
con santo non identificato faceva invece parte del gruppo di bassorilievi
dei Santi Promartiri dell'Ordine Francescano, attualmente murati alla
parete di fondo della decima cappella della navata sinistra e risulta
databile alla fine del Cinquecento o agli inizi del Seicento. Sulla parete
opposta si osservano: un grande pannello marmoreo con bassorilievo di
un santo martire non identificato tra gli stemmi dei Sanseverino e dei
Marzano, databile approssimativamente entro la prima metà del Trecento
e forse proveniente dalla cappella di S. Maria a Cassanico nella distrutta
chiesa di S. Sebastiano, ed ancora un capitello con decorazione animale
e vegetale, databile alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo, ed
infine, in alto, un frammento di bassorilievo raffigurante S. Giovanni
Battista della seconda metà del XIV secolo.
Sulle pareti del coro sono ancora osservabili anche numerosi affreschi
di epoche diverse, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di
frammenti solo parzialmente conservati. In alto, a destra della quadrifora
centrale aperta nel muro divisorio tra il coro e la navata della basilica
si notano con una certa difficoltà a causa dell'altezza i resti
di una Crocifissione e di un Compianto su Cristo morto, riferibili a Giotto,
ovvero ad artisti della sua bottega.
Le fonti letterarie che testimoniano la presenza e l'attività di
Giotto e della sua bottega a Santa Chiara, attribuiscono al Maestro i
seguenti cicli pittorici e singole opere:
a) l'Apocalisse in una cappella (secondo l'Anonimo Magliabechiano,
il Libro di Antonio Billi e le Vite del Vasari);
b) "molte" storie del Vecchio e del Nuovo Testamento
in alcune cappelle (secondo le Vite del Vasari);
c) l'affrescatura integrale dell'ecclesia delle monache, senza
precisazione dei soggetti (secondo la Lettera di Pietro Summonte a Marc'Antonio
Michiel del 20 marzo 1524);
d) più tavole piccole di immagini di santi che furono della
regina Sancia (sempre secondo la Lettera del Summonte).
Secondo alcuni, la menzione in S. Chiara delle storie del Vecchio e del
Nuovo Testamento, ricorrente nelle fonti letterarie, deriva molto probabilmente
dalla confusione con gli affreschi di stesso soggetto cui Giotto attese
invece a Castelnuovo, inoltre si è osservato che il cenno del Summonte
all'ecclesia delle monache avrebbe dovuto intendersi come riferito al
solo oratorio interno con esclusione quindi di qualsivoglia intervento
nella chiesa esterna. Una conferma di tale ricostruzione è stata
trovata nella permanenza nell'oratorio di affreschi cinquecenteschi e
seicenteschi articolati in riquadri proprio come accadeva nel Trecento,
e quindi probabile segno della preesistenza di cicli pittorici di quest'ultima
epoca. Ulteriori riprove sarebbero costituite dalla notizia della ridipintura
degli affreschi giotteschi ad opera del pittore Pietro Negroni nel Cinquecento
(376) ed inoltre dalla constatazione per la quale le notevoli dimensioni
della chiesa esterna avrebbero impedito un'affrescatura integrale nel
corso della permanenza del Maestro fiorentino a Napoli. La critica più
recente risulta comunque divisa tra chi accetta l' ampio catalogo tradizionale
delle attribuzioni giottesche sopra sintetizzato e chi è invece
propenso a circoscrivere l'attività del Maestro al solo oratorio
interno sulla base della considerazione che anche l'integrale affrescatura
di questo solo ambiente avrebbe comunque richiesto lunghi tempi di lavorazione
considerate le superfici da dipingere pari a ca. 2100 mq. Quanto alla
datazione occorre anzitutto precisare che nessuno dei pur relativamente
numerosi documenti angioini concernenti la presenza di Giotto a Napoli
tra l'8/12/1328 ed il 6/12/1333, menziona espressamente gli affreschi
di Santa Chiara. Tuttavia, considerato che molto probabilmente il Maestro
fu richiesto a Napoli da re Roberto proprio perchè provvedesse
a dipingere le pareti della Basilica francescana, si ritiene che vi lavorasse
appunto tra il dicembre del 1328 ed il febbraio del 1329 o secondo altri
sino al gennaio del 1330, sicchè in quest'ultima ipotesi dal settembre
1329 avrebbe operato contemporaneamente anche a Castelnuovo.
Passiamo quindi alla illustrazione dei resti della Crocifissione: qui
un demonio rapisce a viva forza l'anima del cattivo ladrone posto in croce
con le braccia poste dietro la traversa. La scena del Compianto si svolgeva
più in basso, ne facevano parte i volti di donne e di un santo
barbuto ancora oggi osservabili, mentre a malapena si distingue un capo
femminile velato creduto quello della Vergine. Alcuni degli affreschi
messi in luce su questa parete dal rogo bellico andarono irrimediabilmente
perduti per effetto degli agenti atmosferici prima che si riuscisse a
conservarli. Si trattava in particolare, nella scena di Compianto di una
figura femminile con le chiome rosse ed aureola di stucco a rilievo (la
Maddalena?), di tre teste virili, di una testa ridotta a sinopia ed, al
di sopra della Crocifissione, di dischi e aureole dorate, forse resti
di figure di angioletti. I frammenti superstiti vengono prevalentemente
attribuiti alla bottega di Giotto, ma secondo alcuni la scena del Compianto,
ed in particolare la testa del santo barbuto in atteggiamento di dolore
potrebbe essere assegnata a Giotto stesso e risentirebbe dell'esperienza
della Cappella de' Bardi a Firenze, così come i tre angioletti
dolenti sarebbero confrontabili con quelli del Compianto giottesco di
Padova, risultando di conseguenza databili a circa il 1329. Una isolata
opinione attribuisce invece questi affreschi a Roberto d'Oderisio datandoli
pertanto a metà del Trecento. La datazione più tarda risulterebbe
confermata dal fatto che, come attesta un frammento di affresco di angioletto
dolente, l'episodio del Compianto si sviluppava anche sulla muratura di
riempimento della quadrifora centrale, muratura realizzata verosimilmente
dopo il 1343 onde consentire di addossare alla parete dal lato della basilica
il monumento di Re Roberto, sicché gli affreschi non avrebbero
potuto essere riferiti a Giotto morto nel 1337. Tuttavia l'esame stilistico
dei frammenti non consente certamente di condividere l'attribuzione al
d'Oderisio, pur restando dubbi sull'effettiva collocazione ed articolazione
spaziale degli affreschi, benchè non possa escludersi che la quadrifora
centrale della parete di testata sia stata occlusa già all'epoca
dei lavori giotteschi forse anche solo con una tavola di legno dipinta,
come quella del Cristo in Trono posta a chiusura di una delle finestre
della cappella degli Scrovegni a Padova. Restano incerte le circostanze
nelle quali si verificò la distruzione degli affreschi giotteschi.
L'opinione tradizionale vuole che gli stessi venissero coperti di calce
sul finire del Cinquecento per volere del reggente Berardino Barrionuevo
ma non può escludersi che la causa concreta della distruzione sia
piuttosto stata un incendio divampato nel monastero e da qui appiccatosi
al Coro nel 1561, secondo una dinamica accertata per un precedente e meno
grave incendio verificatosi nel 1508 del quale ci testimonia la Cronaca
di Notar Giacomo.
Tra gli altri affreschi dell'oratorio interno si segnalano: gli stalli
corali dipinti più in basso sulla stessa parete della Crocifissione
giottesca ad illusoria prosecuzione del coro ligneo trecentesco posto
di fronte, attribuibili sempre alla bottega di Giotto ed ancora, al di
sopra della porta d'accesso al coro dal lato interno, un affresco staccato
trecentesco probabilmente proveniente da una lunetta, raffigurante Cristo
che celebra la messa tra due Apostoli, ulteriore riferimento iconografico
all'Eucarestia cui era formalmente dedicata la basilica. Ancora a sinistra
della statua giacente di re Roberto è invece un affresco quattrocentesco
raffigurante la Vergine in trono, in parte ridotto alla sola sinopia.
Sulla parete di fondo, a sinistra della porta della sagrestia del Tesoro
è invece un affresco staccato con S. Sebastiano martirizzato alla
colonna, databile alla fine Quattrocento o inizi del secolo successivo
ed una grande Annunciazione quattrocentesca, nonché una Crocifissione
degli inizi del Trecento, attribuibile allo stesso anonimo pittore di
formazione cavalliniana che eseguì la Crocifissione attualmente
sistemata in fondo alla Sala Maria Cristina del monastero.
Unica scultura lignea conservata nel coro è il grande Crocifisso
collocato al di sopra dell'arcosolio con la statua di re Roberto, opera
attribuita allo scultore settecentesco Francesco Mollica Gli attuali stalli
che hanno sostituito quelli settecenteschi distrutti dal rogo bellico
risalgono al 1958.
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