Il coro o oratorio interno di Santa Chiara

In fondo al presbiterio, a destra di chi guarda l'altare maggiore, si apre una porticina che immette nell'atrio d'accesso alla sagrestia di S. Chiara. La volta della sagrestia è affrescata con figure di Santi Francescani ed una Annunciazione, volute da suor Teresa Brayda che nel 1692 commissionò anche gli armadi ed il lavabo marmoreo. A destra della porta a vetri della sagrestia, sempre nell'atrio, si apre l'accesso ad un altro locale nel quale è esposto, a destra, un grande arazzo raffigurante uno Sbarco dei Turchi, opera di ricamatori napoletani databile all'ultimo quarto del XVII secolo che soprattutto nell'iconografia richiama gli arazzi di Beauvais, mentre per i motivi decorativi riprende le ornamentazioni di porcellane e di ricami orientali di importazione olandese. A sinistra della porta della sagrestia, invece, si apre un vestibolo maiolicato. Alle pareti sono conservati sedili con decorazione maiolica ed il pavimento in cotto presenta anch'esso inserti decorativi di maiolica policroma, i quali come pure i pannelli con scene di genere, sono opera del maiolicaro Donato Massa che prese a modello il pure massiano pavimento del Coro di S. Maria Donnalbina (1736) disegnato da Muzio Nauclerio ed in seguito andato perduto. Oltrepassato il vestibolo maiolicato si giunge ad un pianerottolo dove pervengono le scale che portano al dormitorio nord del monastero femminile e quelle che invece conducono al chiostro grande e dove si apre anche la porta dell'oratorio interno. Le pareti e la volta del pianerottolo o atrio dell'oratorio, si presentano vivacemente affrescate, in particolare, a destra del portale del coro si può osservare l'affresco più antico un S. Cristoforo che si regge sull'albero di palma con il Cristo bambino sulle spalle, databile genericamente al secolo XIV ed in parte ridotto alla sola sinopia. Gli altri affreschi che sono tutti riferibili al periodo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, raffigurano Santi Martiri, Scene di Martirio e Scene dell'Apocalisse di S. Giovanni. Una intera parete di fronte all'accesso al coro conserva invece un grande affresco del Giudizio Universale, pure cinquecentesco, attribuito ai pittori manieristi Pietro Torres e Cesare Smet, dalla interessante iconografia ispirata molto probabilmente ai Sermoni di S. Giacomo della Marca.
Di notevole interesse è il portale di accesso al Coro o oratorio interno frutto della sistemazione settecentesca di frammenti scultorei del Trecento in un'opera unitaria. Mentre l'architrave può essere datato al XVIII secolo, la lunetta ogivale con bassorilievo dell'Agnus Dei e le colonne laterali del portale sono certamente opere trecentesche. Le sei colonne, tre per lato, montate sul dorso di due leoni per lato, sono caratterizzate da un'accurata decorazione a motivi vitinei con grappoli e fogliame. I rispettivi capitelli presentano a loro volta una decorazione a foglie accartocciate. Oltre a ricordare i sostegni del tinesco sepolcro di Caterina d'Austria in S. Lorenzo Maggiore, le colonne del portale del coro richiamano negli ornati vegetali, le colonne del baldacchino vescovile del Duomo di Napoli, presentando però un intaglio più arcaico discussa ne è comunque la provenienza, se cioè da un monumento funerario smembrato, dal vestibolo o da una delle porte minori della stessa basilica.
Varcato il portale, si penetra nel coro o oratorio interno di S. Chiara, un ampio ambiente a pianta rettangolare (m. 30,6 x 18,5), suddiviso in tre navate (quella centrale alta m. 24 e quelle laterali m 18,10) scandite da due pilastri polistili, alti oltre undici metri dalla base all'apice e che contribuiscono a creare l'impressione di una forte tensione ascensionale e l'illusione di un ambiente più alto di quello della basilica. In occasione del restauro postbellico sono state completamente rimosse le residue tracce degli affreschi databili approssimativamente dal secolo XVI in poi ed in particolare dei cicli con Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, della Vita di Gesù e della Vergine, nonché Storie di S. Francesco e di S. Chiara, e della decorazione pittorica dei pennacchi delle vele con stemmi di Sancia utilizzati come insegne del monastero ed emblemi della casa d'Asburgo, così che la grande sala ha acquistato attualmente un aspetto di maestosa nudità.

A partire dagli anni Cinquanta sono stati sistemati proprio nel coro frammenti scultorei di epoche diverse provenienti per la maggior parte dal complesso francescano. La tipologia dei frammenti minori è piuttosto varia: si notano infatti pannelli con tarsie marmoree a motivi astratti della seconda metà del secolo XII, un tronco di colonna a base ottagonale con fregi vegetali e dentinatura, adattato a base di tavolino databile alla prima metà del secolo XIV, una formella di pietra con bassorilievo del calice e dell'ostia a ricordo dell'antica dedicazione della basilica all'Ostia Santa (sec. XIV), quattro leoni già stilofori del secolo XIV, frammenti di colonnette tortili, un grosso capitello a decorazione vegetale e tre puntali di cuspidi tutti trecenteschi, una lastra sepolcrale terragna o il coperchio di un'arca con figura muliebre in vesti monacali e frammenti degli stemmi Orsini e Marzano del secolo XV o inizi del XVI, un doppio capitello con decorazione vegetale della fine del secolo XII o inizi del XIII, ed un capitello ottagonale con doppio ordine di decorazione vegetale della fine del secolo XII o inizi del XIII, cinque porzioni di facce frontali di baldacchini con decorazioni a tralci vitinei o rose e tracce della colorazione antica tutte del XIV secolo, un frammento di lastra sepolcrale di anonimo personaggio del secolo XV o inizi del XVI, un altro frammento minimo, sul quale è osservabile solo il panneggio di una tunica, un pilastrino del secolo IX o X scolpito a bassorilievo con il motivo decorativo del tralcio di vite nascente dal vasetto.
Quanto invece alle opere piu significative ed importanti, seguendo l'ordine di esposizione a partire dall'ingresso, notiamo anzitutto sulla parete subito a sinistra due frammenti di un pluteo altomedioevale sul quale erano rappresentati due leoni affrontati all'albero della vita. Il pluteo originario è databile agli anni tra l'898 ed il 903 e ciò in base all'iscrizione leggibile sul frammento superiore la quale menziona un vescovo Pietro identificato con il vescovo di Napoli di stesso nome che governò la diocesi appunto in quegli anni. Sotto il profilo dell'iconografia i nostri frammenti richiamano modelli bizantino orientali mentre è ignota la loro provenienza originaria.
Poco oltre sono sistemati due frammenti di una lastra frontale di sarcofago databile approssimativamente a metà del Trecento. Entro archetti su colonnine tortili sono rappresentati S. Pietro e S. Giovanni Battista e si conservano parzialmente gli stemmi dei de Gianvilla e dei Sanseverino. Le due figure possono essere genericamente attribuite ad accurati esecutori seguaci dei fratelli Bertini, il monumento di provenienza non è identificabile con certezza sulla base delle fonti letterarie, ma si tratta probabilmente di una delle arche sepolcrali dei Gianvilla di Santangelo che ebbero in patronato la settima cappella della navata destra.
Poco al di sopra è murato un bassorilievo di mediocre fattura raffigurante il Redentore entro la tradizionale mandorla, databile a metà del Trecento e proveniente dal frontone di un perduto e non identificabile baldacchino sepolcrale.

Seguono, sistemate su pilastrini di piperno grigio, otto statuine trecentesche per la maggior parte cariatidi provenienti da smembrati sepolcri. Nell'ordine si osservano:
1) una cariatide con compasso (Temperanza o Prudenza);
2) una cariatide che impugna una spada frammentaria e che risulta attualmente priva della mano destra con la quale probabimente tratteneva in origine la punta della spada stessa (Temperanza, Giustizia o Fortezza ;
3) una cariatide che reca in una mano un serpente e nell'altra un libro chiuso da fermagli (Prudenza);
4) una cariatide che regge la fiaccola stilizzata (Prudenza, Speranza o Fede);
5) un gentiluomo con falco;
6) una statua di una fanciulla coronata che reca in grembo un agnello o un piccolo levriero, ovvero un ermellino (Mansuetudine o Carità);
7) una cariatide con clava e leone vinto (Fortezza);
8) la cariatide della Fede proveniente dal sepolcro di Agnese e Clemenza di Durazzo e della quale si è già discorso illustrando tale monumento.

Quanto specificamente alle statuine indicate coi numeri 1), 2), 3) 4) e 7), le opinioni in ordine all'attribuizione sono state piuttosto articolate. Alcuni, le hanno riferite a Tino di Camaino, Gagliardo Primario ed aiuti ritenendole, a causa delle ridotte dimensioni (altezza m. 0,87), provenienti dai sepolcri dei principini angioini Luisa, Maria, e Ludovico, altri ne hanno invece sostenuto esclusivamente la diretta derivazione da modelli tineschi. Secondo altri ancora la cariatide con il compasso, quella con fiaccola stilizzata, quella con serpente e libro ed infine quella con spada dovrebbero essere tutte assegnate alla bottega dei Bertini, in particolare le prime due sarebbero avvicinabili ad una delle figure delle Arti liberali della camera sepolcrale di re Roberto e recherebbero le tracce dell'intervento del migliore dei due fratelli. Le ultime due e specificamente la cariatide con serpente, si distinguerebbero per i tratti delicati e per il panneggio derivato direttamente dai modelli tineschi e soprattutto dal Confessore del monumento di Arrigo VII. Ancora, secondo una recente opinione il falconiere, la Prudenza con serpente, la Giustizia con spada frammentaria e la Temperanza con compasso, interpretata anche come uomo con tenaglie a molla, spetterebbero invece al c.d. Maestro della dama con l'ermellino figura di scultore recentemente ricostruita. A mio avviso ed in conclusione, è invece possibile distinguere l'opera di almeno tre distinti artefici. Nella cariatide con il serpente del coro ed in una perduta Fortezza maschile, nonché nelle due cariatidi oggi al Museo dell'Opera e cioè una Temperanza acefala caratterizzata da una insistita rappresentazione della spada serrata nel fodero ed una Giustizia con bilancia e spada, sembrerebbe possibile rintracciare la mano di quello tra i fratelli Bertini più prossimo ai modelli tineschi, ovvero di un autore della bottega, comunque particolarmente sensibile proprio a tali modelli. La cariatide con il compasso e quella con la spada conservate nel coro potrebbero invece essere attribuite ad un allievo diretto dei Bertini e datate agli anni successivi al completamento del sepolcro di re Roberto (fine del 1345). La cariatide con fiaccola stilizzata e quella con clava e leone sarebbero opera di un più tardo imitatore dei Bertini e potrebbero essere datate ai tempi dell'esecuzione del sepolcro di Maria di Durazzo in S. Chiara (1370 ca.).

Quanto alla cariatide coronata con l'agnello ovvero con l'ermellino (Mansuetudine) la stessa può essere ricondotta al magistero tinesco e presenta un elaborato panneggio accompagnato dall'accurato studio dei tratti del volto caratteristicamente astratti ed infine da un equilibrato deanchement benchè sia stata invece di recente attribuita ad uno scultore distinto da Tino e dai Bertini, che avrebbe eseguito anche le cariatidi del sepolcro di Carlo di Calabria, denominato appunto convenzionalmente, come appena anticipato, Maestro della dama con l'ermellino. La statua in esame era in origine in opera nel sepolcro di Maria di Valois come confermano i caratteri stilistici, le dimensioni e la presenza sul dorso delle radici delle ali estirpate in epoca imprecisabile, radici che si leggono identiche sulle spalle delle due cariatidi del sepolcro di Maria. Un documento tratto dai registri monasteriali dell'Archivio di Stato di Napoli ci conferma che in occasione dei lavori di ripavimentazione della basilica diretti da Antonio Guidetti nel periodo 1703-1705, anche il monumento di Maria di Valois venne privato di una delle cariatidi e che la stessa, da identificare appunto con la statua in esame, non fu poi ricollocata in situ. Quanto in conclusione specificamente al falconiere così come conferma l'abbigliamento tipicamente trecentesco e la complessiva fisionomia, anch'esso dev'essere assegnato ad un anonimo scultore della cerchia dei Bertini piuttosto che del Baboccio come invece da alcuni ritenuto.
Tra le altre sculture conservate nel coro si segnala, seguendo l'ordine di esposizione, un quadrone di pietra scura con stemma della famiglia Stella coronato da un cimiero simbolico raffigurante un pellicano che nutre i suoi piccoli, allusione al sacrificio di Cristo per l'umanità, risalente, come riferisce l'iscrizione, al 1325 e proveniente da un monumento della famiglia sistemato originariamente nella basilica presso la quarta cappella della navata destra. Al di sopra del comunichino centrale, entro un arcosolio dal fondo affrescato con i gigli angioini e lo stemma di Sancia, è collocata la statua giacente di re Roberto, proveniente dal sepolcro provvisorio del sovrano ed opera di uno dei fratelli Bertini. La statua, evidentemente derivata da modelli arnolfiani, risulta incompiuta nel tratto tra l'incrocio delle braccia e la punta estrema del saio. Il volto sarebbe stato ricavato da un calco funerario proprio come per la statua giacente del sepolcro definitivo.
A destra dell'ultimo dei comunichini centrali sono murati alcuni importanti frammenti di sarcofagi trecenteschi. Nell'ordine, dall'alto in basso, notiamo una formella quadrata sulla quale, entro un clipeo, è raffigurata una santa martire con palma e braciere, forse S. Lucia o S. Agata mentre in un'altra formella del tutto identica è raffigurata S. Elisabetta d'Ungheria con i fiori in grembo. Più in basso è posta una lastra frontale di sarcofago mutila, sulla quale, sempre entro clipei, sono raffigurati da sinistra a destra S. Ludovico di Tolosa, S. Francesco che mostra le stimmate ed un giovane santo martire non meglio identificabile. Le due formelle quadrate costituivano probabilmente le facce laterali del piccolo sarcofago, mentre la lastra rettangolare, la faccia frontale dello stesso. Molto probabilmente il monumento era addossato ad una parete sicché la lastra di fondo, peraltro non conservata, non doveva essere figurata. Mancano tracce evidenti di decorazione musiva ma rimane qualche labile segno di decorazione pittorica, soprattutto nel riquadro con S. Elisabetta. I frammenti sono stati attribuiti a Tino di Camaino ed alla sua bottega, in particolare i caratteri tineschi sono evidenti nella S. Elisabetta, nel S. Ludovico e nel santo non identificato che rientrerebbero quindi nel gruppo dei piccoli rilievi, opere destinate ad essere osservate da vicino cui il Maestro attese principalmente nel periodo 1330-1337. Si recentemente supposto inoltre che queste sculture provengano dai sepolcri di Maria o di Luisa d'Angiò ovvero dal cenotafio di Carlo Martello d'Angiò (morto nel 1327), del quale però non si ha alcuna precisa notizia storica.

Poco più in basso sono murati due frammenti marmorei sui quali sono scolpiti gli stemmi personali di Maria di Valois probabilmente provenienti dal sepolcro provvisorio della duchessa. Al termine della parete è infine sistemata la lastra sepolcrale terragna del notaio Andrea de Turri (morto nel 1411), raffigurato con vivace realismo caratteristico di altre opere di ambito baboccesco ed in particolare della già ricordata lastra Penna Sulla parete successiva, al di sopra della porta che conduce alla sagrestia del Tesoro è murata una porzione di bassorilievo rappresentante il Cristo benedicente entro una corona d'alloro, opera della seconda metà del Quattrocento proveniente dal distrutto baldacchino del monumento sepolcrale dei Supino di Penna in origine collocato subito a destra entrando nella basilica dalla porta maggiore. Poco più oltre, su mensole, sono poste tre statue parzialmente danneggiate: un S. Francesco con la croce, una S. Caterina d'Alessandria che schiaccia sotto i piedi il tiranno con resti della ruota del martirio ed una S. Chiara con il giglio, tutte databili agli ultimi decenni del Cinquecento. Le statue di San Francesco e S. Chiara, sono state attribuite a Girolamo d'Auria figlio del più noto scultore Gian Domenico e suo fedele imitatore. La Santa Caterina è stata invece riferita ad un anonimo scultore del tardo Cinquecento, probabilmente anch'esso membro della nutrita bottega del d'Auria padre, mentre non è stato fin qui possibile accertare l'originaria collocazione delle tre sculture. A livello più basso sono poste, al muro, alcune lastre scolpite a bassorilievo e raffiguranti S. Chiara che mette in fuga i saraceni da Assisi, un'altra S. Francesco che riceve le stimmate sul monte Verna e l'ultima S. Lodovico di Tolosa. Seguono ancora uno stemma degli Asburgo di Spagna, una lastra rettangolare con santo non identificato con rosario e Vangelo, ed una lastra con S. Antonio di Padova con giglio. I primi tre bassorilievi (S. Chiara, S. Francesco e S. Ludovico) ed il S. Antonio, sono opera di Francesco Cassano e furono eseguiti intorno al 1607 a decorazione dei basamenti sui quali poggiavano le colonne di sostegno del coro dei frati addossato alla controfacciata, dai quali proviene probabilmente anche lo stemma Asburgico. Il bassorilievo con santo non identificato faceva invece parte del gruppo di bassorilievi dei Santi Promartiri dell'Ordine Francescano, attualmente murati alla parete di fondo della decima cappella della navata sinistra e risulta databile alla fine del Cinquecento o agli inizi del Seicento. Sulla parete opposta si osservano: un grande pannello marmoreo con bassorilievo di un santo martire non identificato tra gli stemmi dei Sanseverino e dei Marzano, databile approssimativamente entro la prima metà del Trecento e forse proveniente dalla cappella di S. Maria a Cassanico nella distrutta chiesa di S. Sebastiano, ed ancora un capitello con decorazione animale e vegetale, databile alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo, ed infine, in alto, un frammento di bassorilievo raffigurante S. Giovanni Battista della seconda metà del XIV secolo.
Sulle pareti del coro sono ancora osservabili anche numerosi affreschi di epoche diverse, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di frammenti solo parzialmente conservati. In alto, a destra della quadrifora centrale aperta nel muro divisorio tra il coro e la navata della basilica si notano con una certa difficoltà a causa dell'altezza i resti di una Crocifissione e di un Compianto su Cristo morto, riferibili a Giotto, ovvero ad artisti della sua bottega.

Le fonti letterarie che testimoniano la presenza e l'attività di Giotto e della sua bottega a Santa Chiara, attribuiscono al Maestro i seguenti cicli pittorici e singole opere:

a) l'Apocalisse in una cappella (secondo l'Anonimo Magliabechiano, il Libro di Antonio Billi e le Vite del Vasari);

b) "molte" storie del Vecchio e del Nuovo Testamento in alcune cappelle (secondo le Vite del Vasari);

c) l'affrescatura integrale dell'ecclesia delle monache, senza precisazione dei soggetti (secondo la Lettera di Pietro Summonte a Marc'Antonio Michiel del 20 marzo 1524);

d) più tavole piccole di immagini di santi che furono della regina Sancia (sempre secondo la Lettera del Summonte).


Secondo alcuni, la menzione in S. Chiara delle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, ricorrente nelle fonti letterarie, deriva molto probabilmente dalla confusione con gli affreschi di stesso soggetto cui Giotto attese invece a Castelnuovo, inoltre si è osservato che il cenno del Summonte all'ecclesia delle monache avrebbe dovuto intendersi come riferito al solo oratorio interno con esclusione quindi di qualsivoglia intervento nella chiesa esterna. Una conferma di tale ricostruzione è stata trovata nella permanenza nell'oratorio di affreschi cinquecenteschi e seicenteschi articolati in riquadri proprio come accadeva nel Trecento, e quindi probabile segno della preesistenza di cicli pittorici di quest'ultima epoca. Ulteriori riprove sarebbero costituite dalla notizia della ridipintura degli affreschi giotteschi ad opera del pittore Pietro Negroni nel Cinquecento (376) ed inoltre dalla constatazione per la quale le notevoli dimensioni della chiesa esterna avrebbero impedito un'affrescatura integrale nel corso della permanenza del Maestro fiorentino a Napoli. La critica più recente risulta comunque divisa tra chi accetta l' ampio catalogo tradizionale delle attribuzioni giottesche sopra sintetizzato e chi è invece propenso a circoscrivere l'attività del Maestro al solo oratorio interno sulla base della considerazione che anche l'integrale affrescatura di questo solo ambiente avrebbe comunque richiesto lunghi tempi di lavorazione considerate le superfici da dipingere pari a ca. 2100 mq. Quanto alla datazione occorre anzitutto precisare che nessuno dei pur relativamente numerosi documenti angioini concernenti la presenza di Giotto a Napoli tra l'8/12/1328 ed il 6/12/1333, menziona espressamente gli affreschi di Santa Chiara. Tuttavia, considerato che molto probabilmente il Maestro fu richiesto a Napoli da re Roberto proprio perchè provvedesse a dipingere le pareti della Basilica francescana, si ritiene che vi lavorasse appunto tra il dicembre del 1328 ed il febbraio del 1329 o secondo altri sino al gennaio del 1330, sicchè in quest'ultima ipotesi dal settembre 1329 avrebbe operato contemporaneamente anche a Castelnuovo.

Passiamo quindi alla illustrazione dei resti della Crocifissione: qui un demonio rapisce a viva forza l'anima del cattivo ladrone posto in croce con le braccia poste dietro la traversa. La scena del Compianto si svolgeva più in basso, ne facevano parte i volti di donne e di un santo barbuto ancora oggi osservabili, mentre a malapena si distingue un capo femminile velato creduto quello della Vergine. Alcuni degli affreschi messi in luce su questa parete dal rogo bellico andarono irrimediabilmente perduti per effetto degli agenti atmosferici prima che si riuscisse a conservarli. Si trattava in particolare, nella scena di Compianto di una figura femminile con le chiome rosse ed aureola di stucco a rilievo (la Maddalena?), di tre teste virili, di una testa ridotta a sinopia ed, al di sopra della Crocifissione, di dischi e aureole dorate, forse resti di figure di angioletti. I frammenti superstiti vengono prevalentemente attribuiti alla bottega di Giotto, ma secondo alcuni la scena del Compianto, ed in particolare la testa del santo barbuto in atteggiamento di dolore potrebbe essere assegnata a Giotto stesso e risentirebbe dell'esperienza della Cappella de' Bardi a Firenze, così come i tre angioletti dolenti sarebbero confrontabili con quelli del Compianto giottesco di Padova, risultando di conseguenza databili a circa il 1329. Una isolata opinione attribuisce invece questi affreschi a Roberto d'Oderisio datandoli pertanto a metà del Trecento. La datazione più tarda risulterebbe confermata dal fatto che, come attesta un frammento di affresco di angioletto dolente, l'episodio del Compianto si sviluppava anche sulla muratura di riempimento della quadrifora centrale, muratura realizzata verosimilmente dopo il 1343 onde consentire di addossare alla parete dal lato della basilica il monumento di Re Roberto, sicché gli affreschi non avrebbero potuto essere riferiti a Giotto morto nel 1337. Tuttavia l'esame stilistico dei frammenti non consente certamente di condividere l'attribuzione al d'Oderisio, pur restando dubbi sull'effettiva collocazione ed articolazione spaziale degli affreschi, benchè non possa escludersi che la quadrifora centrale della parete di testata sia stata occlusa già all'epoca dei lavori giotteschi forse anche solo con una tavola di legno dipinta, come quella del Cristo in Trono posta a chiusura di una delle finestre della cappella degli Scrovegni a Padova. Restano incerte le circostanze nelle quali si verificò la distruzione degli affreschi giotteschi. L'opinione tradizionale vuole che gli stessi venissero coperti di calce sul finire del Cinquecento per volere del reggente Berardino Barrionuevo ma non può escludersi che la causa concreta della distruzione sia piuttosto stata un incendio divampato nel monastero e da qui appiccatosi al Coro nel 1561, secondo una dinamica accertata per un precedente e meno grave incendio verificatosi nel 1508 del quale ci testimonia la Cronaca di Notar Giacomo.
Tra gli altri affreschi dell'oratorio interno si segnalano: gli stalli corali dipinti più in basso sulla stessa parete della Crocifissione giottesca ad illusoria prosecuzione del coro ligneo trecentesco posto di fronte, attribuibili sempre alla bottega di Giotto ed ancora, al di sopra della porta d'accesso al coro dal lato interno, un affresco staccato trecentesco probabilmente proveniente da una lunetta, raffigurante Cristo che celebra la messa tra due Apostoli, ulteriore riferimento iconografico all'Eucarestia cui era formalmente dedicata la basilica. Ancora a sinistra della statua giacente di re Roberto è invece un affresco quattrocentesco raffigurante la Vergine in trono, in parte ridotto alla sola sinopia. Sulla parete di fondo, a sinistra della porta della sagrestia del Tesoro è invece un affresco staccato con S. Sebastiano martirizzato alla colonna, databile alla fine Quattrocento o inizi del secolo successivo ed una grande Annunciazione quattrocentesca, nonché una Crocifissione degli inizi del Trecento, attribuibile allo stesso anonimo pittore di formazione cavalliniana che eseguì la Crocifissione attualmente sistemata in fondo alla Sala Maria Cristina del monastero.
Unica scultura lignea conservata nel coro è il grande Crocifisso collocato al di sopra dell'arcosolio con la statua di re Roberto, opera attribuita allo scultore settecentesco Francesco Mollica Gli attuali stalli che hanno sostituito quelli settecenteschi distrutti dal rogo bellico risalgono al 1958.