Prefazione
La basilica di Santa Chiara costituisce fuor di dubbio uno degli edifici sacri più importanti e singolari della Napoli angioina.
Le sue notevoli dimensioni, il profilo squadrato e possente ma al contempo semplice e disadorno, suggerirono nel tempo agli osservatori accostamenti anche arditi. Giulio Cesare Capaccio, nel suo Forastiero del 1630, la definì come gran machina superiore alle altre in Italia per grandezza ed altezza… con superbe mura, corridori, volte ingegnosissime, finestroni altissimi e molti per dar la chiarezza al tempio e più tardi Onofrio Giannone ne descrisse i vottanti (gli arc-boutants del gotico francese), il soffittato con grande armaggio di gran legni, concludendo per la rassomiglianza della chiesa addirittura ad un arsenale.
Ancora, secondo una voce tradizionale raccolta da Scipione Ammirato seguito poi da molti storici napoletani successivi, Carlo Illustre, duca di Calabria, nel visitare l'interno della basilica con suo padre re Roberto d'Angiò, l'avrebbe paragonata ad una stalla con le cappelle a far da mangiatoie, e ciò per l'assenza di navate laterali vere e proprie, osservazione che, di là dall'aneddoto, risulta particolarmente acuta e frutto certamente di un'attenta percezione delle peculiarità dell'assetto interno dell'edificio.

Queste opinioni colgono però solo parzialmente e distintamente i due aspetti dell'apparente contraddizione che si concretizza nella basilica: la semplicissima pianta rettangolare caratteristica della frugale architettura dell'ordine francescano che soprattutto alle origini aveva riutilizzato anche edifici destinati a tutt'altro scopo, quali magazzini, casolari e stalle spesso in rovina, fu ripresa dai maestri costruttori angioini che però svilupparono la chiesa napoletana in una scala di monumentale grandiosità, giustificata sicuramente dalle esigenze rappresentative in particolare di re Roberto, che l'aveva eletta appunto a sacrario regio.
Il programma celebrativo esigeva che fossero impiegati nella decorazione pittorica dell'edificio e nell'esecuzione dei sepolcri regi, i migliori pittori e scultori dell'epoca. Ecco così spiegata la presenza di Giotto e della sua bottega, nonché di Tino di Camaino e successivamente di Giovanni e Pacio Bertini. A questi ultimi scultori spetta l'esecuzione del monumento sepolcrale del fondatore, opera che rappresenta il culmine del programma stesso. La grande macchina funeraria di re Roberto, posta al centro del presbiterio attira l'attenzione del visitatore fin dall'ingresso. Questo singolarissimo panegirico marmoreo esalta il potere temporale del sovrano, eternandone le sembianze in posa di maestà, in trono: le Roy ne meurt jamais, il re non muore mai. Ne sottolinea inoltre le virtù morali, nelle cariatidi e culturali, nel bassorilievo delle Arti Liberali, non mancando di presentarcelo giacente, vestito dell'umile abito francescano, degno membro della sua sancta gens.

Santa Chiara riprende anche e significativamente i caratteri strutturali di tutti i principali edifici di fondazione angioina presenti a Napoli: infatti, mentre l'aula basilicale riproduce la più elementare tipologia delle chiese dell'ordine francescano a navata unica (S. Maria Donnaregina, S. Maria la Nova, S. Lorenzo Maggiore) volute dai sovrani provenzali, il coro, con la sua articolazione in tre navate, richiama la struttura delle fondazioni non francescane (S. Eligio, il Duomo, S. Pietro a Majella e S. Domenico Maggiore), quasi che si intendesse ulteriormente ricordare la dinastia con un esemplare compendio delle più prestigiose fabbriche sacre promosse non solo da Roberto ma anche dai suoi antenati, fabbriche che con i loro slanciati profili avrebbero caratterizzato l'aspetto della città anche nei secoli seguenti.

La storia della basilica nei tempi successivi alla sua fondazione è, purtroppo, storia del lento dissolversi dell'unità originaria del monumentale complesso. Terremoti ed incendi ne minarono anzitutto le strutture rendendo necessari interventi di portata a tutt'oggi non sempre agevolmente accertabile. Il fuoco, in particolare, causò probabilmente la distruzione degli affreschi giotteschi nel coro, avvenuta forse proprio nel corso del disastroso incendio del 1561, così da fare del Vasari il loro ultimo testimone oculare nel 1544-1545. Le frenesie di rinnovamento che animarono nei secoli le monache ed i privati patroni, determinando la spoliazione e la distruzione delle cappelle, dei monumenti e degli affreschi trecenteschi, risparmiarono, almeno parzialmente, i sepolcri regi per i quali però la guerra non ebbe alcun riguardo. Non può che addolorare lo stato attuale dei monumenti di Roberto, di Maria di Durazzo, di Carlo e di Maria di Valois, calcinati, scheggiati, martoriati e coperti ancora del velo nero del rogo seguito al bombardamento del 1943. E tuttavia, ancora oggi, re Roberto dall'alto del suo faldistorio leonino, rivolge lo sguardo sulla vasta navata che gli si apre davanti, proprio come se nulla fosse accaduto, ed i secoli non fossero trascorsi.