I doni dello Spirito Santo
L’insegnamento biblico sui doni dello Spirito
A partire dal nostro battesimo, lo Spirito Santo è venuto ad abitare nel nostro
corpo come in un Tempio. Questa inabitazione dello Spirito non ha un carattere passivo
ma dinamico; in altre parole: lo Spirito dimora in noi non come se fosse depositato,
ma come nel centro direttivo di tutta la nostra personalità: “Tutti quelli infatti
che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Lo
Spirito prende dimora in noi per guidarci nelle varie circostanze della vita.
Lo Spirito ci guida mediante le virtù teologali, mediante i doni e i carismi. Parlando
in particolare dei doni, la Scrittura ne enumera sette che rappresentano le operazioni
più basilari dello Spirito nell’interiorità umana. Il profeta Isaia si esprime infatti
così: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza,
Spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”
(Is 11,2). Lo Spirito che si posa sul Messia si manifesterà con queste fondamentali
operazioni; secondo il testo ebraico sono sei, mentre la traduzione greca dei LXX
spiega che il “timore del Signore” contiene anche il dono della “pietà”. Si completa
così il sacro settenario, riaffermato dall’Apocalisse giovannea: “I sette spiriti
che stanno davanti al trono di Dio” (Ap 1,4); e ancora: “Così parla Colui che possiede
i sette spiriti di Dio” (Ap 3,1). Il quadro delle operazioni dello Spirito si completerà
con Is 61,1-3, mediante i doni carismatici che abilitano il Messia (e i suoi Apostoli)
non solo ad annunciare autorevolmente il regno di Dio, ma anche a leggere nei cuori,
a compiere esorcismi e guarigioni. I doni carismatici, però, non sono dati a tutti;
i sette doni di cui parliamo sono infusi in tutti i battezzati. Cercheremo di capire,
alla luce dell’insegnamento biblico, cosa sono e come agiscono nella nostra interiorità.
La vita interiore del battezzato è toccata da questi sette doni in due principali
facoltà: la mente e la volontà. Quattro di essi agiscono sulla mente:
sapienza, intelletto,
consiglio e scienza (o conoscenza);
tre invece influiscono sulla volontà: fortezza,
timor di Dio e pietà.
Il dono della sapienza (su)
Il settenario isaiano si apre con la menzione di questo dono. La Scrittura si riferisce
ripetutamente a questo dono dello Spirito, considerandolo come necessario per conoscere
Dio e il suo volere. I passi biblici relativi a questo tema sono abbastanza numerosi,
e questo fatto già dimostra di suo quale importanza rivesta il dono della sapienza
nel quadro della rivelazione.
Iniziamo col dire che, per la Bibbia, l’uomo non è sapiente né sono sapienti gli
angeli; mano che mai sono sapienti i demoni. Infatti, “uno solo è sapiente, molto
terribile, seduto sul trono” (Sir 1,6); “A Dio appartengono la sapienza e la potenza”
(Dn 2,20); e Paolo dice ai Romani: “a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù
Cristo la gloria nei secoli” (Rm 16,27). Con questo si intende escludere che la
sapienza possa essere prerogativa di qualcuno che non sia Dio stesso. Se una creatura
può dirsi sapiente, ciò è perché ha ricevuto da Dio questo dono: “Dammi la sapienza
che siede accanto a te in trono” (Sap 9,4); “Dio concede a chi gli è gradito la
sapienza” (Qo 2,26). Oppure perché ha ascoltato con attenzione l’insegnamento dei
sapienti: “Il tuo piede logori i gradini della porta del saggio” (Sir 6,36); “Piega
l’orecchio ai discorsi sapienti” (Prv 23,12). La sapienza è quindi un dono di Dio,
e come tale va anche desiderata e cercata. L’uomo privo della divina sapienza, anche
se completo nelle sue doti naturali, può considerarsi un nulla (cfr. Sap 9,6). Dall’altro
lato, coloro che hanno ricevuto da Dio la sapienza, non sanno di averla, e soltanto
la convinzione di essere sapienti è un segno certo di stupidità: “Guai a coloro
che si credono sapienti” (Is 5,21); “c’è chi si atteggia a saggio nei discorsi,
ed è odioso” (Sir 37,20). “È meglio sperare in uno stolto che in uno che sio crede
saggio” (Prv 26,12). L’Apostolo Paolo racchiude sotto lo stesso rimprovero tutta
la grecità pagana: “Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Rm
1,22). Insomma, la caratteristica più evidente dello stolto è quella di compiacersi
delle proprie parole e di appoggiarsi con ostentata ed esagerata sicurezza alle
proprie idee.
La sapienza non è dunque prerogativa dell’uomo e tuttavia senza di essa l’uomo è
un nulla (cfr. Sap 9,6). La ricerca della sapienza è allora un atteggiamento imprescindibile.
Il presupposto perché questa ricerca possa iniziare è la consapevolezza di non possederla.
Dal canto suo, la sapienza è desiderosa di donarsi e ha preparato un banchetto per
nutrire coloro che la desiderano (cfr. Prv 9,5-6). A questo banchetto sono invitati
tutti senza distinzione, perché l’invito risuona nei punti più alti della città
(cfr. Prv 9,3), ma risponderanno solo coloro che pensano di non avere ancora trovato
la sapienza e sono perciò perennemente tesi nell’ascolto e nell’apprendimento (cfr.
Prv 9,4). Coloro che si credono già sapienti ascoltano ma non apprendono, mangiano
ma non assimilano. Rimangono perciò sempre fermi al medesimo punto e non progrediscono
oltre.
Dio si compiace di chi si decide a chiedergli la sapienza come prima e più importante
ricchezza; chi cerca la sapienza dimostra già con questo di essere un saggio, anche
se soggettivamente non ritiene affatto di esserlo (cfr. Sir 39,1-11). Al contrario:
“Il beffardo ricerca la sapienza, ma invano” (Prv 14,6); “È troppo alta la sapienza
per lo stolto” (Prv 24,7); “Gli stolti disprezzano la sapienza” (Prv 1,7).
Nell’AT la figura del saggio per antonomasia è quella di Salomone, figlio di Davide.
Prima di ascendere al trono, egli si ritira in preghiera nel tempio di Gabaon e
si rivolge al Signore con queste parole: “Concedi al tuo servo un cuore docile che
sappia rendere giustizia al tuo popolo” (1 Re 3,9). La narrazione continua dicendo
che al Signore piacque che Salomone avesse chiesto la saggezza nel governare e non
avesse chiesto gloria, ricchezza e potenza o la morte dei nemici. Però, dal momento
che Salomone ha chiesto la chiesto la cosa più importante, Dio gli garantisce anche
le cose che lui non aveva chiesto: gloria, ricchezza e potenza. Gesù riaffermerà
ancora una volta questa verità per tutti i suoi discepoli, dicendo: “Cercate prima
il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33).
Si tratta perciò di saper colpire il bersaglio più importante. Nella stessa preghiera
con cui Salomone chiede la saggezza, dimostra già di essere saggio, perché capace
di distinguere il meglio dal bene. Tra i doni di Dio, la sapienza è il più prezioso:
“Vale più scoprire la sapienza che le gemme” (Gb 28,18); “Meglio possedere la sapienza
che l’oro” (Prv 16,16); “Preferii la sapienza a scettri e a troni… preferii il suo
possesso alla stessa luce, perché non tramonta il suo splendore. Insieme con essa
mi sono venuti tutti i beni” (Sap 7,8.10-11). Il dono della sapienza procura tutti
i beni, ossia il bene per eccellenza che è l’amicizia di Dio: “Sebbene unica la
sapienza può tutto, attraverso le età entrando nelle anime sante forma amici di
Dio e profeti. Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la sapienza” (Sap 7,27-28).
Stando così le cose, la sapienza va cercata al di sopra di tutto, e la prima via
di ricerca è LA PREGHIERA: “Ricercai assiduamente la sapienza nella preghiera” (Sir
51,13; cfr. anche Sap 9,1-18, dove è riportata la preghiera di Salomone). La seconda
via di ricerca è L’ASCOLTO DELL’INSEGNAMENTO BIBLICO: “Ascolta, figlio mio, e sii
saggio” (Prv 23,19); “L’insegnamento dei saggi è fonte di vita” (Prv 13,14); “I
più saggi tra il popolo ammaestreranno molti” (Dn 11,33); “Tendi l’orecchio e ascolta
le parole dei sapienti” (Prv 22,17). E si potrebbe continuare ancora indefinitamente.
La terza via di ricerca è LA MEDITAZIONE: la Scrittura è piena di esortazioni a
leggere la Parola di Dio con attenzione e a riflettere su di essa assiduamente;
tale esortazione è rivolta a tutti senza eccezione, ricchi e poveri, re, grandi
della terra, o cittadini comuni. L’insistenza su questo tema è molto frequente,
come si evince da alcune citazioni tra le molte possibili: “Medita giorno e notte
il libro di questa legge” (Gs 1,8); “Tutto il giorno vado meditando la tua legge”
(Sal 119,97); “Medita sempre sui comandamenti del Signore” (Sir 6,37); “Il saggio
mediterà sui comandamenti di Dio” (Sir 39,7); “Il re leggerà tutti i giorni la copia
di questa legge” (Dt 17,19); “Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc
2,19). Non occorre aggiungere altre citazioni, che peraltro potrebbero ancora moltiplicarsi.
Il senso è chiaro: Dio vuole che l’uomo legga e mediti la Scrittura assiduamente,
di giorno e di notte. Si vede che la presenza della Parola di Dio nella mente umana
è una luce: “I comandi del Signore danno luce agli occhi” (Sal 19,9), ma è anche
una potenza di guarigione: “Non li guarì né un’erba né un emolliente, ma la tua
Parola, Signore, che tutto risana” (Sap 16,12).
Ci possiamo chiedere adesso quali sono gli effetti che la sapienza produce in colui
che la riceve da Dio. L’AT presenta delle figure di uomini che hanno ricevuto il
dono della sapienza in misura eminente; si tratta di Giuseppe, figlio di Giacobbe,
di Daniele, il veggente, e di Salomone, figlio di Davide. L’esame della loro personalità,
attraverso le narrazioni bibliche, può in buona parte rispondere al nostro interrogativo
di partenza.
Giuseppe, figlio di Giacobbe, è il protagonista di una storia drammatica e meravigliosa
insieme. Il libro della Sapienza parla di Giuseppe in questi termini: “La Sapienza
non abbandonò il giusto venduto, ma lo preservò dal peccato. Scese con lui nella
prigione, non lo abbandonò mentre era in catene, finché gli procurò uno scettro
regale… e gli diede una gloria eterna” (Sap 10,14). In poche battute è così sintetizzata
la sua storia: venduto dai fratelli, accusato ingiustamente imprigionato essendo
innocente, innalzato nella gloria come viceré di Egitto. Giuseppe, dal canto suo,
aveva avuto una precognizione del suo futuro in due sogni fatti da bambino (cfr.
Gen 37,5-11).
In questa storia dobbiamo cogliere i segni dell’opera del dono della sapienza concesso
a Giuseppe. Il primo elemento che va notato è la precognizione del proprio futuro,
ossia della propria posizione nel disegno di Dio. Possiamo scorgere questa luce
sapienziale nella vita di un altro Giuseppe, lo sposo della Vergine Maria, che riceve
nella notte una cognizione sapienziale della volontà di Dio, fino a quel momento
sconosciuta per lui. Senza questa luce soprannaturale, Giuseppe avrebbe agito da
uomo giusto, ma sarebbe uscito dal disegno di Dio, rimandando in segreto la sua
fidanzata. In questo senso dobbiamo parlare del dono della sapienza, come quella
luce che ci porta a conoscere la nostra posizione nel disegno di Dio, vale a dire:
LA NOSTRA VOCAZIONE SPECIFICA. La scoperta della propria vocazione e del posto che
Dio ci ha assegnato nella vita della Chiesa è segno certo che il dono della sapienza
ha operato in noi.
Un’altra manifestazione dell’atteggiamento sapiente di Giuseppe consiste nel fatto
che tutte le sue opere sono compiute con grande perfezione. Egli non è mai svogliato
o superficiale nel compimento dei suoi doveri. L’uomo saggio è sempre così. Affidare
all’uomo saggio un servizio è lo stesso che mettere un tesoro in cassaforte. La
sua credibilità e la sua affidabilità sono assolute. Quando Giuseppe arriva in Egitto
con la carovana di ismaeliti, viene venduto di nuovo a un ricco signore di nome
Potifar. Giuseppe si dimostra così preciso e perfetto nei suoi lavori, che da schiavo
diventa amministratore dei beni di Potifar (cfr. Gen 39,3-4). La moglie di Potifar
aveva messo gli occhi su Giuseppe, ma senza nessun risultato. E qui si vede un’ulteriore
caratteristica dell’uomo saggio: è un uomo casto, non soggetto alle passioni dell’io
inferiore. La sapienza infatti sta lontana dai disordini passionali (cfr. Sap 1,4).
Proprio per le accuse ingiuste della moglie di Potifar, che così si vendica del
fatto di essere stata respinta, Giuseppe finisce in carcere. Lì si svela presto
la sua statura morale, “così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti
i carcerati, e quanto c’era da fare là dentro, lo faceva lui” (Gen 39,22). Ancora
una volta, l’assoluta affidabilità dell’uomo saggio non può restare nascosta. Dio
viene in aiuto a Giuseppe, dandogli anche una sapienza di ordine carismatico. Egli
interpreta il significato dei sogni di due compagni di prigione e, successivamente,
verrà chiamato a svolgere lo stesso compito per il Faraone, turbato da due sogni
strani, che i suoi maghi non riescono a comprendere. Giuseppe scioglie l’enigma
e viene costituito amministratore di tutto l’Egitto dal Faraone: “Poiché Dio ti
ha svelato tutto questo, nessuno è più saggio di te. Tu stesso sarai il mio maggiordomo
e ai tuoi ordini si schiererà tutto l’Egitto: solo per il trono io sarò più grande
di te. … senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutto
l’Egitto” (Gen 41,39-44).
La saggezza di Giuseppe si manifesta però in tutta la sua grandezza, quando i suoi
fratelli si recano in Egitto per acquistare il grano e si prostrano davanti a lui
senza riconoscerlo, peraltro Giuseppe parla loro in lingua egiziana mediante un
interprete, ma li capisce quando parlano in ebraico tra loro. Si realizza così il
sogno della sua infanzia: i covoni dei fratelli si prostrano davanti al suo. Giuseppe
si mostra duro con loro e li accusa di essere spie incaricate di scoprire i punti
deboli del paese, mentre i fratelli interpretano questa durezza come un castigo
di Dio per il loro antico peccato: “Si dissero l’un l’altro: certo su di noi grava
la colpa nei riguardi di nostro fratello… per questo ci è venuta addosso questa
angoscia” (Gen 42,21). Non sapevano che Giuseppe li capiva. Allora egli si allontanò
da loro e scoppiò in pianto (cfr. Gen 42,24).
Alla fine Giuseppe si fa riconoscere e la famiglia si riunisce presso di lui. L’ultimo
atto della sapienza di Giuseppe è la rilettura della sua vita tormentata in chiave
di salvezza. Specialmente dopo la morte del padre Giacobbe, i fratelli di Giuseppe
cominciano a temere la sua vendetta, credendo che era per rispetto al padre che
lui si era trattenuto. Perciò, gli mandano a dire: “Tuo padre, prima di morire ha
dato quest’ordine: perdona il delitto dei tuoi fratelli. Ma Giuseppe disse loro:
Non temete. Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo
servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo
numeroso” (Gen 50,15-20).
Le parole di Giuseppe contengono qui una profonda teologia. La sua sapienza lo porta
a rifiutare l’atteggiamento infantile di chi si piange addosso. E lo conduce a cogliere
la difficile verità della pedagogia di Dio, che lo ha guidato per vie incomprensibili
e aspre. Ma per un fine alto e buono. Si ha qui anche il primo barlume della sapienza
della croce: Dio non affligge mai per il gusto di affliggere; certamente non lo
farebbe, se la gioia e il frutto di bene che ne derivano non fossero sensibilmente
maggiori. Giuseppe, negli anni della sua maturità, è in grado di rileggere la propria
esperienza di dolore e di rifiuto, la propria vita di uomo respinto e perseguitato,
senza sentire più alcuna ferita, e ciò perché la luce sapienziale che invade la
sua mente, gli dà di comprendere che i dolori della vita, vissuti nel e col Signore,
distruggono nell’uomo solo ciò che deve essere distrutto, in modo tale che ciò che
sopravvive è sempre la parte migliore e più eletta della personalità. Così nascono
i santi: fioriscono sulle ceneri del proprio uomo vecchio, distrutto dai dolori
della vita, accettati con amore, senza mai pensare che Dio ci abbia colpiti per
capriccio o per arbitrio. Dopo molti decenni di paziente attesa, però, splende la
verità della divina pedagogia, troppo alta per essere compresa da noi prima che
tutto si compia. Sono i giudizi rapidi che ci portano fuori strada. Giuseppe ha
valutato il senso globale della sua vita, ma solo alla fine, quando il disegno di
Dio a suo riguardo si era ormai quasi del tutto compiuto. Tocchiamo qui un’altra
caratteristica dell’uomo saggio: la lentezza nel pronunciare giudizi definitivi
sull’opera di Dio e l’attesa di ciò che Dio farà domani.
Altri aspetti dell’agire del saggio provengono dalla figura del veggente Daniele.
Osserviamo intanto il distacco dagli onori e da ciò che umanamente procura la stima
del prossimo. Daniele viene chiamato a corte per interpretare una misteriosa scrittura
comparsa sulla parete; il re Baldassar chiama tutti i maghi del suo regno ma nessuno
riesce a leggere e decifrare quella scritta. Infine si rivolge a Daniele: “Mi è
stato detto che tu sei esperto nel dare spiegazioni e sciogliere enigmi. Se quindi
potrai leggermi questa scrittura sarai vestito di porpora, porterai al collo una
collana d’oro e sarai il terzo signore del regno. Daniele rispose al re: tieni pure
i tuoi doni per te, tuttavia io leggerò questa scrittura al re e gliene darò la
spiegazione” (Dn 7,16-17). Il saggio non è quindi sedotto dalla gloria umana, perché
la sapienza è già un abito regale che lo riveste in modo più prezioso di quanto
non possano le umane onorificenze. L’uomo saggio è abbellito in modo soprannaturale
dalla sua stessa dignità e statura morale, perciò non è bisognoso di altri riconoscimenti,
da lui considerati tutti inferiori alla ricchezza spirituale già posseduta.
Nella figura di Daniele il saggio si presenta anche come un uomo di preghiera. Daniele
prega molto. Soprattutto nei momenti difficili. Quando, ad esempio, Nabucodonosor,
adirato coi maghi del suo regno colpevoli di non avergli fornito la spiegazione
autentica di un suo sogno, decide di metterli a morte, Daniele interviene per evitare
lo sterminio e prega tutta la notte. Così, in una visione notturna Dio gli svela
sia il sogno del re sia la sua spiegazione autentica. Questo fatto placa l’ira del
re (cfr. Dn 2). Al cap. 6 si dice inoltre che Daniele era solito pregare tre volte
al giorno rivolto verso Gerusalemme, lodando Dio (cfr. v. 11). La luce sapienziale
si ottiene in sostanza nel contesto della preghiera. La sapienza è data a chi prega.
Un’altra caratteristica del saggio, molto evidente in Daniele, è il rifiuto del
servilismo verso i potenti. Daniele si dimostra perfino disposto a morire, pur di
non adorare il potere umano come se fosse una divinità. A Nabucodonosor, che gli
impone l’adorazione di una statua, dice insieme ai suoi compagni: “sappi che il
nostro Dio può liberarci dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi
che noi non serviremo mai i tuoi dèi” (Dn 3,17-18). La dirittura di coscienza è
assoluta, inflessibile dinanzi all’autorità umana. Per il saggio, l’autorità umana
perde ogni valore, quando è esercitata contro la verità e contro il bene.
La terza grande figura di uomo sapiente, nell’AT, è il re Salomone. Anche in lui
possiamo notare taluni aspetti della sapienza che vanno senz’altro sottolineati.
Ritorna a questo proposito il tema della preghiera: Salomone è un uomo di preghiera,
anzi, è colui che edifica e consacra il luogo di preghiera per Israele, costituendo
il centro ideale della spiritualità del popolo eletto. Salomone, così come farà
anche Gesù nel suo ministero pubblico, affronta tutte le circostanze più cruciali
della sua vita con la preghiera. Dopo la morte di Davide, il suo governo ha inizio
con una notte di preghiera nel tempio di Gabaon (cfr. 1 Re 3,4ss) e più avanti è
descritto mentre prega (cfr. 1 Re 8,22ss); e poi compare anche nell’atto di intercedere
in favore del popolo (cfr. 1 Re 8,30ss). Il libro della Sapienza riporta pure una
preghiera attribuita a Salomone, per ottenere da Dio la luce del discernimento (cfr.
cap. 9). Nella visita della regina di Saba viene fortemente sottolineata questa
caratteristica di Salomone, possessore di un acuto discernimento: “La regina di
Saba si presentò a Salomone e gli disse quanto aveva pensato. Salomone rispose a
tutte le sue domande, nessuna ve ne fu che non avesse risposta o che restasse insolubile
per Salomone” (1 Re 10,1-3). Dopo che lo ebbe ascoltato, la regna concluse: “Beati
i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ti ascoltano”
(1 Re 10,8). E possiamo anche comprendere, a questo punto, la profondità del rimprovero
di Gesù ai suoi contemporanei: “La regina del Mezzogiorno si alzerà, nel giorno
del giudizio, a condannare questa gente: essa infatti venne dalle più lontane regioni
della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Eppure, di fronte a voi sta uno
che è più grande di Salomone” (Lc 11,31). Nell’ultimo giorno non sarà dunque Dio
a biasimare chi ha avuto la salvezza a portata di mano e non vi ha attinto la propria
liberazione: saranno gli antichi, i quali hanno affrontato grandi sacrifici pur
di avvicinarsi solo a un riflesso di quella luce che in Cristo splende in tutta
la sua pienezza (cfr. Ap 1,16).
Il dono di intelletto / intelligenza
(su)
Il dono dell’intelletto riguarda anch’esso una illuminazione soprannaturale della
mente umana, ma sotto un aspetto ancora diverso. Se il dono della sapienza è “la
luce per vedere” e il dono della scienza è “l’oggetto divino da vedere”, il dono
dell’intelletto è “la facoltà di vedere”. Anche nelle cose naturali, in fondo, la
possibilità di conoscere il mondo risulta dall’incontro di tre fattori: un OGGETTO
da vedere, la LUCE per poter vedere e l’OCCHIO sano. In mancanza di uno di questi
tre elementi non si ha la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del disegno
divino di salvezza risulta egualmente da tre doni spirituali: la scienza (l’oggetto
da vedere), la sapienza (la luce per vedere), l’intelletto (l’organo della vista).
Vediamo qualche riscontro biblico.
In Matteo 15,16, Gesù rimprovera significativamente i suoi Apostoli: “Anche voi
siete ancora senza intelletto?”. Cosa era accaduto? Il Maestro aveva appena esposto
un insegnamento fondamentale sul puro e sull’impuro, precisando che l’impostazione
del Levitico doveva essere trasferita dal piano materiale del cibo che entra nello
stomaco (e che quindi non contamina lo spirito) al piano spirituale di ciò che l’uomo
elabora dentro la propria coscienza. È questa radice interiore delle decisioni che
contamina la società e il singolo. I farisei restano scandalizzati dinanzi a questo
insegnamento così nuovo, mentre gli Apostoli non ne capiscono il senso. È a questo
punto che Gesù chiede: “Siete ancora senza intelletto?”
Che cosa è allora l’intelletto? Sulla base del contesto in cui Gesù utilizza questo
termine, dobbiamo dire che il dono dell’intelletto è una particolare capacità di
capire la Parola di Dio. Il dono dell’intelletto entra quindi in azione nei momenti
di meditazione personale, nei ritiri e negli incontri di annuncio o di formazione
dottrinale. Senza “l’organo della vista”, cioè senza il dono dell’intelletto soprannaturale,
la nostra comprensione delle Scritture non sarebbe né profonda né salvifica. Sappiamo
che la Bibbia può essere studiata anche come libro; di essa si può scandagliare
tutto: le epoche di composizione, le eventuali stratificazioni e redazioni, la trasmissione
del testo e i suoi codici, i suoi generi letterari, il suo rapporto con l’archeologia…
ma rimane il fatto che la Bibbia diventa Parola di salvezza solo a condizione che
venga letta e meditata “nello Spirito”; ossia sotto l’influsso e l’operazione dei
doni che innalzano le facoltà mentali dell’uomo a un livello di conoscenza soprannaturale.
Se la Bibbia viene studiata senza il dono dell’intelletto può essere compresa solo
nei suoi significati umani, ma non nelle sue energie salvifiche, che si possono
raggiungere e penetrare solo in una lettura nello Spirito. Su questo punto abbiamo
dei riscontri molto precisi: “L’ispirazione dell’Onnipotente lo fa intelligente”
(Gb 32,8); vale a dire: esiste una forma di analisi e di penetrazione mentale della
realtà che è data da una ispirazione divina, la quale rende più acuta l’intelligenza
naturale e la fa idonea a comprendere ciò che supera il confine della natura: il
mondo del soprannaturale. Per questo il saggio avverte: “Non appoggiarti sulla tua
intelligenza” (Prv 3,5), esortazione che risulterebbe senz’altro assurda, se non
esistesse un’altra intelligenza sulla quale potersi appoggiare.
Che l’intelligenza, come dono soprannaturale, sia distinta e ordinata alla sapienza
si vede chiaramente da 1 Re 5,9: “Dio concesse a Salomone saggezza e intelligenza”.
Non sarebbe infatti pensabile che Dio doni all’uomo la luce per vedere (sapienza)
ma non l’organo della vista (intelligenza). Anche l’Apostolo Paolo si muove nella
identica prospettiva: “Egli ha riversato (la grazia) abbondantemente su di noi con
ogni sapienza e intelligenza” (Ef 1,8). In sostanza, Paolo vuol dire che per metterci
in grado di capire il mistero di Cristo (dono della scienza), il Padre ci ha dato
la luce per vedere (dono della sapienza) e l’organo della vista (dono dell’intelligenza).
Il dono dell’intelligenza, cioè la comprensione soprannaturale della realtà, non
è limitato però ai soli contenuti della Rivelazione, visto che lo stesso Apostolo
lo preannuncia a Timoteo come un aiuto per tutte le altre eventuali difficoltà del
ministero apostolico: “Il Signore ti darà intelligenza per ogni cosa” (Tm 2,7).
Infine, ai Romani, Paolo parla del dono dell’intelletto che i sapienti della Grecia
pagana non hanno avuto; essi, tanto colti e raffinati da aver dato i natali alla
filosofia occidentale, hanno dall’altro lato idolatrato le forze della natura, rendendo
un culto a divinità inesistenti, false e bugiarde, come le chiama Agostino di Ippona,
e Dante dopo di lui. In questo si sono dimostrati insipienti. Hanno guardato la
natura, così bella e ricca di armonie, ma non sono riusciti a risalire dall’opera
all’Artista; e ciò è strano, perché “dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni
invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto” (Rm 1,20). Se l’intelletto
naturale bastasse per vedere le perfezioni di Dio nella natura, anche i greci, così
sapienti, se ne sarebbero accorti. Ci vuole infatti il dono dell’intelletto, di
cui essi erano evidentemente privi. E poi, trattandosi di un dono, l’intelligenza
infusa va anch’essa invocata e attesa: “Se invocherai l’intelligenza…” (Prv 2,3).
Il dono del consiglio (su)
Questo dono dello Spirito, altrettanto necessario ai discepoli di Cristo, riguarda
pure una particolare illuminazione della mente; tuttavia, a differenza dei tre doni
precedenti, i quali si muovono su un terreno prevalentemente speculativo (anche
se la sapienza ha innegabili aspetti pratici), il dono del consiglio opera esclusivamente
in sede di ragion pratica. Questa particolare luce soprannaturale non è quindi ordinata
al conoscere ma all’agire. Ma perché è necessario un dono dello Spirito per illuminare
la ragion pratica? La risposta è semplice: l’ambito delle decisioni e della vita
pratica è il campo su cui si combatte la battaglia del compimento della volontà
di Dio. E la luce della ragione naturale, da sola, non è sufficiente a indicarmi
“il meglio pratico” nel quadro della perfezione cristiana. In sostanza: se devo
realizzare un bene umano (vale a dire: l’acquisto di una casa, la legalità nella
professione, il metodo educativo per i figli..) può bastarmi la luce della mia ragione
naturale, accompagnata dalle competenze e dall’esperienza; ma se devo realizzare
un bene soprannaturale (vale a dire: realizzare le aspettative della volontà di
Dio per me, qui e ora), la luce della mia ragione naturale non può più bastarmi.
Ecco che il Signore mi dà ciò che manca al mio quoziente intellettivo, infondendomi
il dono soprannaturale della ragion pratica: il consiglio.
Si tratta di un dono che, al pari degli altri, nessuno può conseguire, se Dio non
lo elargisce graziosamente: “A Dio appartiene il consiglio” (Gb 12,13). Anche questo
dono è prerogativa divina, nel senso che non è in dotazione della natura umana in
quanto tale. Il consiglio è un dono che si aggiunge alla ragione umana. Chi non
lo possiede non può rispondere alle esigenze quotidiane della volontà di Dio, perché
non è interiormente diretto da Dio. Al massimo egli potrà individuare il bene umano
e regolarsi su di esso in base al loro buon volere, ma la perfezione cristiana,
ovviamente, è ben altro. Chi ha il dono del consiglio è guidato da Dio nelle circostanze
piccole e grandi della vita pratica, e perciò egli non agisce bene, ma agisce santamente:
“Mi guiderai con il tuo consiglio” (Sal 73,24); “Benedico il Signore che mi ha dato
consiglio” (Sal 16,7); “Il Signore dirigerà il consiglio del saggio” (Sal 39,7).
Per ottenere il dono del consiglio, al pari di tutti gli altri doni soprannaturali,
occorre una precisa disposizione: “L’uomo accorto acquisterà il dono del consiglio”
(Prv 1,5); insomma, i doni di Dio non possono essere elargiti a chi non si dispone
a riceverli.
Il dono della scienza (su)
Quanto al dono della scienza, la precisazione della sua natura va certamente nella
linea dei contenuti. Vale a dire: il dono della sapienza si può definire come “una
luce che permette di vedere”; essa non consiste quindi in una “quantità” di cose
da sapere, bensì in una particolare luce di discernimento che permette alla persona
di leggere i fatti e le situazioni della vita, in certo senso, con gli occhi di
Dio. Il dono della scienza non è una luce che permette di vedere, ma è l’oggetto
stesso della verità di Dio (la Rivelazione). In questo senso il dono della scienza
è coordinato a quello della sapienza. Se la scienza è il possesso mentale del progetto
di Dio, la sapienza è quella luce intellettuale che permette di vederlo senza deformazioni
o fraintendimenti. Sarà opportuno anche qui qualche riferimento scritturistico.
Ai Corinzi l’Apostolo Paolo dice di essere un profano nell’eloquenza ma non nella
scienza: “Se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella
dottrina” (2 Cor 11,6); il riferimento va alla dottrina sacra, la scienza di Dio,
cioè ai contenuti del piano di salvezza conosciuti dall’Apostolo per rivelazione.
Così anche agli Efesini: “Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire
la mia comprensione del mistero di Cristo” (Ef 3,4).
I contenuti della scienza di Dio appartengono solo a Lui e solo Lui li comunica
a chi vuole: “Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero” (Ef 3,3); “C’è
un Dio nel cielo che svela i misteri” (Dn 2,28); “Il Signore, cui appartiene la
sacra scienza” (2 Mac 6,30); “s’insegna forse la scienza a Dio?” (Gb 21,22); e ancora:
“Gli occhi del Signore proteggono la scienza” (Prv 22,12); “O profondità della scienza
di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie” (Rm
11,33). L’idea è chiara: la divina rivelazione e le profondità della sua divina
verità nessun uomo può raggiungerle con la sola luce della ragione naturale; Qoelet
dice addirittura che neppure un saggio potrebbe trovarla (Qo 8,17). Ciò significa
che è un dono di Dio non solo la conoscenza della sua verità (dono di scienza) ma
perfino la luce intellettuale che permette di vederla (dono di sapienza). Che la
scienza sia un dono risulta anche dalla dottrina paolina: “in Lui siete stati arricchiti
di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza” (1 Cor 1,5); e più
avanti: “se io conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… ma non avessi l’amore”
(1 Cor 13,2). Qui la scienza è equiparata ai misteri, dunque si tratta di un sapere
rivelato, che comunque è del tutto inutile in mancanza dell’amore teologale.
La Scrittura afferma inoltre che il dono della scienza è dato da Dio, ed è un dono
ben distinto, come abbiamo detto, da quello della scienza: “L’ho riempito dello
Spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza” (Es 31,3); è dunque
Dio che concede il dono della scienza, che rimane comunque distinto dal dono della
sapienza e da quello dell’intelletto, che esamineremo più avanti. Il libro del Siracide
afferma che il dono della scienza, ossia la conoscenza rivelata della verità di
Dio, è uno di quei doni che l’essere umano ha ricevuto fin dall’origine della creazione:
“Il Signore creò l’uomo dalla terra… pose davanti a loro la scienza e diede loro
in eredità la legge della vita” (Sir 17,1.9). Si vede dal parallelismo sinonimico
che il termine “scienza” corrisponde a “legge della vita”, cioè la Torah, ovvero
la conoscenza della volontà di Dio e la sua dottrina. Coloro che hanno ricevuto
il dono della sapienza apprezzano i contenuti della scienza di Dio, perché, avendo
la sapienza, li possono guardare nella luce giusta: “I saggi fanno tesoro della
scienza” (Prv 10,14). Essi sono in grado anche di comunicarla nel loro insegnamento:
“La lingua dei saggi fa gustare la scienza” (Prv 15,2), “Le labbra dei saggi diffondono
la scienza” (Prv 15,7). In conclusione: “Ricchezze salutari sono sapienza e scienza”
(Is 33,6).
Il dono della fortezza / forza (su)
Dicevamo all’inizio che ci sono tre doni che riguardano la sfera emozionale volitiva:
la fortezza, la pietà, il timor di Dio. Cominciamo col dono della fortezza. Anche
in questo caso dobbiamo distinguere una fortezza naturale da una fortezza infusa
da Dio. E se c’è una fortezza naturale, come la forza del carattere, per affrontare
le difficoltà normali della vita, c’è anche una fortezza carismatica per affrontare
le difficoltà che sono proprie del cammino di fede. A questo è appunto orientato
il dono della fortezza. Vediamo quale può essere qualche riscontro biblico pertinente.
In più punti e in diversi modi si dice nella Scrittura che Dio è la fortezza dell’uomo.
Le citazioni potrebbero essere molto numerose: “Signore, mia roccia, mia fortezza”
(Sal 18,3); “Di’ al Signore: mio rifugio e mia fortezza” (Sal 91,2). I sapienziali
precisano che Dio è fortezza per l’uomo giusto: “Il Signore è una fortezza per l’uomo
retto” (Prv 10,29). La forza è anch’essa una prerogativa di Dio, che però Egli non
usa per imporsi, ma solo per sostenere la debolezza umana: “Prevalere con la forza
ti è sempre possibile, tutto il mondo davanti a Te è come polvere… Tu, padrone della
forza, giudichi con mitezza… il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti”
(Sap 11,21.22; 12,17.18). Piuttosto è Dio che infonde forza ed energia all’uomo:
“Il Signore ti darà la forza” (Dt 8,18), e ancora: “Dammi forza, Signore, in questo
momento” (Gdt 13,7); “Il Signore darà forza al suo popolo” (Sal 29,11). Naturalmente,
come già dicevamo, non si tratta di una forza finalizzata a realizzazioni umane,
bensì è quella forza di cui abbiamo bisogno per portare a compimento la volontà
di Dio, spesso ardua e ostacolata da grandi impedimenti. Senza il dono della fortezza
infusa, si cederebbe radicalmente dinanzi a ostacoli non di rado superiori alle
forze umane, come si vede bene dalla vita dei santi, e in particolare quella dei
martiri.
Dobbiamo adesso cercare di vedere, attraverso le narrazioni bibliche, in quali casi
è intervenuto il dono della fortezza infusa. Il primo riferimento potrebbe essere
rappresentato dal difficile ministero di Mosè. Egli non deve soltanto tenere testa
all’ostilità del Faraone, bensì anche alle mormorazioni e alla sfiducia del popolo
di Israele, come quando, dopo il suo primo intervento in favore degli schiavi ebrei,
per tutta risposta il Faraone aumenta la misura dell’oppressione, e gli isareliti
accusano Mosè e Aronne: “Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci
avete resi odiosi agli occhi del Faraone e dei suoi ministri” (Es 5,21). E questa
sfiducia verso di lui si ripresenterà più e più volte lungo tutto il cammino nel
deserto. Perfino sua sorella Maria, insieme ad Aronne, dubiterà di lui e sarà punita
da Dio per questo (cfr. Nm 12,1-3). Insomma, Mosè è colpito dall’esterno e dall’interno,
eppure non si abbatte mai, anche se attraversa momenti di grandi lotte interiori
(cfr. Nm 11,15). Quale forza lo tiene a galla? Senza dubbio l’infusione della fortezza
soprannaturale, che lo abilita a compiere una missione non umana, e perciò dalle
difficoltà non umane.
Un’altra figura che può aiutarci a cogliere l’operazione del dono della fortezza
è Davide, allorché si trovò dinanzi a Golia, abile soldato filisteo. Le parole di
Davide sono già l’espressione verbale del dono della fortezza soprannaturale; mentre
gli israeliti fuggono dinanzi al campione Golia, Davide chiede: “Chi è mai questo
filisteo incirconciso che osa insultare le schiere del Dio vivente?” (1 Sam 17,27).
L’uomo giusto si sente sempre sicuro e imbattibile nei confronti di coloro che,
pur arroganti o umanamente potenti, non hanno con sé la grazia di Dio. Questo stesso
concetto, con implicito riferimento alla fortezza soprannaturale, è detto in Prv
28,1: “L’empio fugge anche se nessuno lo insegue; il giusto invece è sicuro come
un giovane leone”.
Il profeta Daniele lo abbiamo già visto nella sua grande disinvoltura dinanzi ai
re di Babilonia, e soprattutto viene messa in rilievo dal narratore l’inflessibilità
del veggente perfino dinanzi alla minaccia della morte. Non v’è dubbio che la fortezza
dei martiri sia una fortezza non umana, cioè un dono carismatico che corrobora la
capacità umana di volere un bene arduo.
Lo stesso può dirsi di Giuditta e di Ester, le quali, chiamate da Dio a una missione
di salvezza in favore del popolo di Israele, affrontano delle prove e dei combattimenti
del tutto sproporzionati alla loro femminilità. Evidentemente, lo Spirito di Dio
ha aggiunto quella dose di coraggio e di inflessibilità che umanamente mancava al
loro carattere.
Il discorso sul dono della fortezza soprannaturale sarebbe monco se non si giungesse
all’insegnamento di Gesù nel NT. Il Maestro dice ai suoi discepoli che essi nel
mondo dovranno portare il peso di angustie e persecuzioni per il fatto stesso di
essere cristiani; per questo Dio li soccorrerà infallibilmente nel momento della
prova. Questo divino soccorso nel tempo della prova è stato identificato dalla teologia
spirituale con il “dono della fortezza” di Is 11,2. Rivediamo i termini dell’insegnamento
neo testamentario.
Dopo avere scelto i Dodici e avere comunicato loro l’autorità carismatica di operare
guarigioni ed esorcismi, Gesù rivolge loro un lungo insegnamento nel quale dice,
tra l’altro, “sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia… E quando
vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete
dire… non siete infatti voi a parlare, ma lo è Spirito del Padre vostro che parla
in voi” (Mt 10,18-20). Ciò significa che i discepoli, nelle loro prove, non sono
sorretti unicamente dalla loro fede soggettiva, o dalla capacità personale di sperare
contro ogni speranza; i discepoli sono sorretti nel loro cammino e nei loro combattimenti
da un intervento tempestivo e attuale dello Spirito di Dio, che sposta i limiti
delle loro forze aldilà delle normali possibilità umane. Con maggiore dovizia di
particolari, il vangelo di Giovanni riporta il lungo discorso pronunciato da Gesù
nel contesto dell’Ultima Cena, dopo l’uscita di Giuda dal cenacolo. Qui il Maestro
promette alla comunità cristiana la venuta del Paraclito, dopo la propria partenza
da questo mondo. Lo Spirito di Verità riespone nel cuore dei credenti l’insegnamento
di Gesù (cfr. Gv 14,26), diviene forza nuova di testimonianza nel mondo (cfr. Gv
15,26), dove i discepoli sono odiati come è stato odiato Lui (cfr. 15,18). L’opera
lucana parla esplicitamente di una forza proveniente dallo Spirito: “avrete forza
dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8); e prima
di ascendere al Padre il Risorto così parla ai discepoli radunati: “Io manderò su
di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non
siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).
Quanto questa promessa sia vera è ampiamente dimostrato non solo dal racconto degli
Atti degli Apostoli, ma anche dalla storia della Chiesa dei primi tre secoli, secoli
di sanguinose persecuzioni. E i pagani si stupivano del modo di morire dei cristiani,
sereno e gioioso.
Il dono del timor di Dio (su)
Il dono del timore di Dio è strettamente connesso a quello della pietà. Infatti,
questo timore di cui parliamo non è il timore dello schiavo, bensì il timore del
figlio, preoccupato di non addolorare il padre con la propria disubbidienza. È proprio
questo che Giovanni intende, dicendo: “Nell’amore non c’è timore” (1 Gv 4,18): il
timore di Dio scaturisce dall’amore, e per questo è un timore filiale, mentre è
assente il timore dello schiavo, che non può convivere con l’amore. L’amore purifica
il timore. Nell’amore non c’è il timore, ossia il timore umiliante dell’estraneo
verso un potente, ma c’è certamente il timore confidente del figlio che, come tale,
impone a se stesso dei limiti, nella consapevolezza di essere infinitamente amato
dal Padre, ma senza mai innalzarsi sul suo stesso piano. Vediamo quali sono i riscontri
biblici di questo insegnamento.
Dobbiamo per prima cosa riconoscere che l’idea del timore di Dio ha subito una notevole
evoluzione nel corso dello sviluppo della divina rivelazione. Il primo concetto
di timore di Dio che si incontra nella Scrittura è quello rappresentato dalla fuga
di Adamo dopo il peccato originale: Dio lo chiama e lui si nasconde (cfr. Gen 3,8-10).
Questa forma di timore di Dio è negativa sotto tutti gli aspetti; si tratta di una
conseguenza psicologica del senso di colpevolezza. All’uomo in quanto tale, tutto
ciò che appartiene al mondo divino della trascendenza fa paura. Il filosofo greco
Epicuro elabora un’etica partendo dal presupposto che gli uomini hanno paura degli
dèi, e si propone una filosofia di liberazione. Per l’uomo non ancora illuminato
dallo Spirito di Cristo, tutte le realtà invisibili, quando non le nega in nome
del materialismo, gli sono in certo senso estranee, e tra esse anche Dio, percepito
come il lontano ordinatore del cosmo o come il capriccioso arbitro dei destini umani.
Il dono del timore viene perciò a risanare una disposizione volitiva emozionale
comune a tutti gli uomini, infondendo nell’animo quella confidenza rispettosa che
non ci fa sentire estranei al mondo di Dio, ma che al tempo stesso ci mantiene nella
nostra realtà di creature. Il difficile equilibrio tra figliolanza e creaturalità
è dato dal dono del timore.
La ferita del peccato originale ha dunque creato una frattura nei rapporto tra l’uomo
e Dio, creando nella sensibilità religiosa degli uomini un senso di timorosa estraneità.
Nell’AT questa forma negativa del timore di Dio è comune a tutti i personaggi che
sono chiamati a particolari ruoli nel disegno di Dio. Possiamo ricordare Abramo:
nella notte in cui Dio stipula con lui l’Alleanza, egli viene assalito da un oscuro
terrore (cfr. Gen 15,12). È la percezione della vicinanza di Dio ciò che lo terrorizza.
Giacobbe, quando si sveglia dopo il sogno della scala su cui salivano e scendevano
gli angeli, “ebbe timore e disse: Quanto è terribile questo luogo” (Gen 28,17).
In Esodo 3 Mosè è descritto nell’atto di velarsi il volto, perché aveva paura di
guardare verso Dio (cfr. v. 6). Un atteggiamento simile si riscontra anche nel grande
profeta Elia, che, sul monte Oreb, si vela il volto col mantello al passaggio del
Signore (cfr. 1 Re 19,13). Isaia vede il Signore nel Tempio e si sente impuro: “Ohimè!
Io sono perduto” (Is 6,5), Ezechiele rimane stordito per una settimana (cfr. Ez
3,15) e Daniele cade con la faccia a terra (cfr. Dn 8,17-18). Ecco le reazioni dei
santi dell’AT dinanzi alla rivelazione del mistero di Dio.
Alle soglie della Nuova Alleanza sembra che questo atteggiamento di timore del divino
continui a sussistere. Ad esempio, quando Zaccaria vede l’angelo Gabriele ritto
alla destra dell’altare, “si turbò e fu preso da timore” (Lc 1,12). Lo stesso angelo
porta l’annuncio a Maria, ma non ci sembra che la Vergine abbia provato lo stesso
tipo di paura. Lei, nella sua Immacolata Concezione, non poteva provare lo stesso
genere di paura: è detto infatti che non l’apparizione celeste, ma il contenuto
delle parole dell’angelo provoca in Lei un certo turbamento: “A queste parole Ella
rimase turbata…” (Lc 1,29). Queste parole svelavano infatti un grande e incomprensibile
privilegio di cui Maria non sapeva di essere stata destinataria.
Il timore di Dio comincia ad assumere le sue giuste proporzioni quando dal timore
scaturisce la lode, e ciò avviene solo dove Cristo compie i suoi gesti di liberazione:
il racconto dell’episodio in cui Gesù risuscita il figlio della vedova di Nain,
si conclude dicendo che “tutti furono presi da timore e glorificavano Dio” (Lc 7,16).
Il termine di passaggio dal timore servile veterotestamentario al timore filiale
del discepolato è lo squarcio del velo del Tempio, che ha luogo in concomitanza
con il terremoto che accompagna la morte di Gesù (cfr. Mt 27,51). Il velo separava
infatti il “santo dei santi”, luogo sacro dove nessuno poteva entrare, se non il
sommo sacerdote una volta all’anno. Squarciato questo velo, il luogo sacro dove
abita Dio non è più inaccessibile: la morte di Cristo inaugura un’epoca nuova e
noi siamo accolti presso Dio come figli a cui è promessa l’eredità (cfr. Rm 8,16-17).
La riflessione più ampia sul timore di Dio si trova nei libri sapienziali, a cui
è opportuno dedicare una riflessione accurata.
Innanzitutto, nell’insegnamento sapienziale, il timore di Dio, come atteggiamento
religioso, non ha nulla a che vedere con la paura istintiva che si è soliti provare
dinanzi a tutto ciò che può spaventarci. Tant’è vero che il timore di Dio si apprende:
“Venite, figli, ascoltatemi e vi insegnerò il timore del Signore” (Sal 34,12). Si
viene dunque educati al timore religioso, e ciò presuppone un cammino di iniziazione
e di conoscenza del mistero di Dio. Non a caso il timore di Dio nasce dall’ascolto.
E ancora: “Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole… allora comprenderai il timore
del Signore” (Prv 2,1.5). Del re Ozia si racconta che “ricercò Dio finché visse
Zaccaria, che l’aveva istruito nel timore del Signore” (2 Cr 26,5). Senza un’adeguata
istruzione il timore di Dio non si comprende. Nel medesimo tempo, mentre l’uomo
è istruito nei misteri di Dio, gli viene comunicato come dono l’autentico timore,
che è una disposizione liberatoria: “non mi allontanerò più da loro per beneficarli;
metterò nei loro cuori il mio timore, perché non si distacchino da me” (Ger 32,40).
Inoltre, la mancanza di timore religioso è la caratteristica principale dell’empio:
“Nel cuore dell’empio parla il peccato, davanti ai suoi occhi non c’è timor di Dio”
(Sal 36,2). Al timore di Dio si è dunque educati mediante l’insegnamento sapienziale,
ma questo atteggiamento religioso può prendere consistenza solo nel contesto di
una vita retta e innocente. L’empio infatti può conoscerne la nozione, ma non lo
può vivere, perché nel suo cuore parla il peccato.
Il timore del Signore, lungi dall’essere una condizione di infelicità o di mancanza
di serena disinvoltura, è al contrario una fonte di energia positiva per l’uomo
retto: “Tu avrai una grande ricchezza se avrai il timore di Dio, se rifuggirai da
ogni peccato e farai ciò che piace al Signore tuo Dio” (Tb 4,21); l’uomo che è rivestito
di fortezza non confida nella medesima fortezza che ha ricevuto, ma nel timore di
Dio: “Nel timore del Signore è la fiducia del forte” (Prv 14,26). Anzi, perfino
la salute, la longevità e il prolungarsi dei propri giorni hanno causa e origine
nel timore di Dio: “Il timore del Signore prolunga i giorni, ma gli anni dei malvagi
sono accorciati” (Prv 10,27). Infatti: “con il timore del Signore si evita il male”
(Prv 16,6).
Per il libro del Siracide, il timore di Dio non solo non è un atteggiamento umiliante
ma è addirittura “gloria e vanto, gioia e corona di esultanza… dà contentezza, gioia
e lunga vita” (Sir 1,9-10). Prima di giungere alla sapienza occorre passare per
il dono del timore, perché “principio della sapienza è temere il Signore” (Sir 1,12),
“il timore di Dio è una scuola di sapienza” (Prv 15,33). Il discepolo trova rifugio
nel timore del Signore quando arriva il momento della sua morte: “Per chi teme il
Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte” (Sir 1,11),
“Vanto dei vecchi è il timore del Signore” (Sir 25,6).
Che il timore servile non abbia niente a che vedere col dono del timor di Dio è
riaffermato dal Siracide in questi termini: “Quanti temete il Signore, aspettate
la sua misericordia; voi che temete il Signore confidate in Lui; voi che temete
il Signore, sperate i suoi benefici” (Sir 2,7-9). In sostanza, il dono del timore
di Dio si specifica in tre atteggiamenti particolari: l’attesa della misericordia,
la confidenza in Dio e la speranza di essere da Lui beneficati. Esattamente il contrario
di qualunque timore servile e oppressivo. Ma a questi atteggiamenti se ne aggiungono
altri, descritti più avanti, per completare il quadro: “Coloro che temono il Signore,
non disobbediscono alle sue parole, cercano di piacergli, tengono pronti i loro
cuori, umiliano l’anima loro davanti a Lui” (Sir 2,15-17). In fondo, insieme ai
tre precedenti, non sono altro che questi gli atteggiamenti tipici del discepolato:
la venerazione della Parola e la sottomissione gioiosa al suo insegnamento; l’indifferenza
per il giudizio umano, allo scopo di essere graditi e lodati solo da Dio; la prontezza
e l’attenzione vigile ai segnali che Dio dissemina nella nostra vita quotidiana;
l’umiltà della creatura che non presume nulla dinanzi al suo Creatore, e che, anzi,
tutto attende da Lui.
Il dono della pietà (su)
Anche il dono della pietà tocca la sfera emozionale volitiva, creando delle disposizioni
abituali che qualificano il rapporto del cristiano con Dio. Innanzitutto va chiarito
il termine: il dono della pietà non riguarda il rapporto col prossimo, perciò con
questo termine non ci si riferisce alla disposizione d’animo di chi ha compassione
del prossimo o è misericordioso verso chi lo offende; col termine “pietà” qui si
intende descrivere la cosiddetta virtù di religione, ossia la disposizione di filiale
ubbidienza, sentita dal cristiano come una esigenza interiore, insieme al dovere
di sottomettersi alla volontà di Dio non per paura ma per amore. Il dono della pietà
qualifica, appunto, il rapporto con Dio. Di riflesso, però, esso qualifica anche
il rapporto con tutto ciò che sulla terra ha valore di “segno” della divina Presenza.
Così, se da un lato il dono della pietà dispone il cristiano a sentirsi figlio di
Dio, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle decisioni e dei sentimenti, dall’altro
lato lo dispone anche a un atteggiamento di delicatezza e di rispetto verso tutto
ciò che Dio ha istituito nella Chiesa e nel mondo come un riflesso della propria
universale Paternità. Sarà opportuno cercare qualche riscontro biblico.
L’atteggiamento della pietà religiosa è tenuto in grande considerazione nella tradizione
veterotestamentaria. Esso si iscrive in un preciso orientamento della volontà di
Dio: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che richiede il Signore da te: praticare la
giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8). La pietà
corrisponde dunque a una delle aspettative di Dio, insieme alla giustizia e alla
disponibilità a lasciarsi guidare da Dio nella vita, senza ostinarsi a perseguire
i propri progetti personali e le proprie personali mete.
Gli atteggiamento concreti della pietà si collegano a quella che comunemente viene
definita “virtù di religione”, vale a dire l’insieme di disposizioni necessarie
per rapportarsi a Dio. Tra i personaggi biblici dell’AT che incarnano l’ideale della
pietà possiamo ricordare soprattutto Giobbe e Tobi. Giobbe rimane convinto che Dio
governa il mondo con perfetta sapienza, anche quando lo affligge misteriosamente:
“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto” (Gb 1,21); in sostanza, l’uomo che è illuminato
dal dono della pietà religiosa sente con chiarezza che il proprietario di tutto
è Dio, proprietario anche dei beni personali, che ciascun uomo ritiene di possedere
a buon diritto, avendoli acquistati col proprio lavoro; ma Dio è proprietario anche
delle vite umane create da Lui, e si riserva una libertà assoluta di decretare i
tempi delle nascite e delle morti. Dio è il proprietario di ogni vita, anche di
quella che una madre partorisce dolorosamente e che, essendo carne della sua carne,
considera come qualcosa di “proprio”. Anche su questa vita concepita e partorita,
e su questo rapporto materno, Dio ha il primato e il diritto assoluto di proprietà:
“Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio
delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò
mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Is 49,15-16); “Dice il Signore
Dio… Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia”
(Ez 18,4). Il NT attribuisce al Cristo risorto questo potere assoluto sui viventi:
“E Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”
(Mt 28,18).
Nell’AT anche Tobi è una figura che incarna l’ideale della pietà religiosa (cfr.
Tb 1). Pur vivendo in terra straniera non perde l’antica fede e continua a vivere
da israelita fedele; però, nella vita non tutto gli va bene: come accade a Giobbe,
viene colpito anche lui da una malattia. Sua moglie assume allora un atteggiamento
simile a quello della moglie di Giobbe, che si può sintetizzare nella frase, “Che
ci hai guadagnato a essere un uomo religioso?” (cfr. Tb 2,14 e Gb 2,9). Tobi non
le risponde e si raccoglie nella preghiera, riaffermando la propria sottomissione
ai decreti di Dio: “Tu sei giusto, Signore, e giuste sono le tue opere… Tu sei il
giudice del mondo” (Tb 3,2). L’uomo illuminato dal dono della pietà ha dunque un
senso acuto della sua piccolezza di creatura davanti a Dio, che invece è padrone
e giudice del mondo. Per questo si astiene dal giudicare i decreti di Dio, il suo
operato e il suo modo di guidare la vita delle società come pure dei singoli esseri
umani. Il Signore però risponderà alla fedeltà di Tobi con la sua solita misura
traboccante: gli restituirà la salute, proteggerà suo figlio Tobia in un difficile
viaggio, e libererà la fidanzata di Tobia da un maleficio che le impediva il matrimonio.
L’epilogo della storia dà quindi torto alla moglie di Tobi, come anche la moglie
di Giobbe viene smentita dai fatti, ma in entrambi i casi, però, la risposta di
Dio arriva parecchio tempo dopo. Il giusto non è mai abbandonato al potere del male,
ma è soccorso da Dio in tempi e modi che non sempre coincidono con le aspettative
della logica umana. In questo senso il libro della Sapienza dice che “la pietà è
più potente di tutto” (Sap 10,12): al legame religioso, che unisce l’uomo a Dio,
corrisponde, da parte di Dio, una benedizione più potente di qualunque male. Una
benedizione divina che comunque deve essere intesa non come uno scudo che preserva,
ma come una corazza che ci permette di combattere senza che i colpi del nemico possano
ucciderci. Il combattimento è infatti inevitabile. Il NT riafferma questo concetto:
“La pietà è utile a tutto” (1 Tm 4,8). Essa è una caratteristica inalienabile nella
personalità dell’uomo di Dio (1 Tm 6,11). Nello stesso tempo, per realizzare un
rapporto pieno e integrale con Dio, “la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni
bene per quanto riguarda la pietà” (2 Pt 1,3); qui l’Apostolo si riferisce ovviamente
in modo esplicito al dono dello Spirito che viene a perfezionare la virtù di religione:
il dono della pietà.
Il prototipo di questo atteggiamento che definiamo “dono della pietà” è Gesù stesso
nel suo modo di rapportarsi a Dio nei giorni della sua vita terrena. La nota più
importante che caratterizza la pietà del Gesù storico è tutta racchiusa nel termine
aramaico “Abbà”, ricorrente nella sua preghiera personale. Si tratta di una parola
tratta dal linguaggio dell’infanzia, che esprime l’intimità dell’ambiente domestico.
In questo modo il Maestro costruisce il modello di riferimento del rapporto religioso
tra i discepoli e Dio, un rapporto fatto di confidenza e di intimità come quello
dei bambini verso i loro genitori, tra le mura domestiche. “Quando pregate, dite
Abbà…” (Lc 11,2). Il senso della pietà cristiana è tutto qui. Il dono della pietà
genera in noi gli stessi sentimenti di Cristo verso il Padre.