Articoli di Michele Mari apparsi su Il Corriere della Sera (in attesa di autorizzazione alla riproduzione, richiesta alla redazione del Corriere)


Borges, animali apparsi in sogno e nella letteratura

Borges, tutte le ossessioni nel Manoscritto

Bradbury, come diventai Melville

Cain, il capolavoro dimenticato di un talento del giallo

Joseph Conrad, quando l'arte di scrivere viene dal mare

Conrad, la stupida catastrofe del Titanic

Crane: se il coraggio è rosso, la fifa è sempre blu

La vera patria è altrove (Crnjanski)

Dal gotico a Freddy Kruger: il business degli innocenti

D'Amicis racconta Re Cecconi, ucciso per uno scherzo

Doderer, microracconti tra ironia e tormento

Smarrirsi nel Labirinto, aspettando il Minotauro (Durrel)

E la popolana divenne messere. Ecco la storia dell'uomo femmina

Fortini e Tasso, anatomia di una passione

Hannibal alla porta (Bradbury)

Hauser, un Mark Twain politicamente corretto

Evviva la letteratura politicamente scorretta (I classici europei visti dagli USA)

I giochi magici di Manganelli

Il fascino morboso dei sepolti vivi

Il grande Celine? Solo un vigliacco

Jean Paul, l'incubo di sognare il futuro

Kafka: cani e sciacalli dal volto umano

Ciacole e risacche liriche nella Venezia di Scarpa

La vita è sogno. Ma dove sono finiti gli incubi di Baudelaire?

L'altro Conan Doyle, inarrivabile antenato di Jurassic Park

Leggi Proust e impara a vivere

Léo Malet, piccolo miracolo del "noir"

Sul " Corriere " l'horror di Sclavi

Linati: il romanzo d'amore di Volta

Löns, il romanzo dei "lupi difensori"

L'Ultimo Commensale

Il dilemma Leopardi tra ragione e poesia

Indagine su Maigret: la sua Parigi è un'astrazione

Nonsense e calembours: cosi Lewis Carroll insegnava la matematica

Parole del mondo. Il catalogo è questo (Beccaria)

Partita a scacchi nella magica Praga (Perutz)

Il '900? Primo Gadda secondo D'Arrigo

Puškin, una smazzata contro la morte e altre fantasie notturne

Meglio dei minimalisti la ferocia di Sandokan

Scapigliati del Sud: ritorna l'Imbriani

La nostalgia del fantastico. Se questo è il vero Cortàzar...

Sono solo in casa e vedo sagome sull' armadio (racconto)

Suskind, grandi ossessioni in piccole storie

Tasso, spaventi notturni di un poeta malinconico

Tiziano Sclavi, ombre e nebbia a Pavia

Tristano, Isotta e l’allegrezza toscana

Un Boll postumo con i primi racconti visionari

Lo scandalo buffo dell'eterno Kavafis


Borges, animali apparsi in sogno e nella letteratura
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 24 luglio 1998)

BORGES E GUERRERO Manuale di zoologia fantastica Editore Einaudi Pagine 184, lire 16.000.

Nel 1957, l'anno in cui si diffuse nel mondo la falsa notizia della sua morte, Jorge Luis Borges pubblicò in collaborazione con Margarita Guerrero (una delle amiche-segretarie che lo soccorrevano nella cecità) il Manuale di zoologia fantastica, la cui prima traduzione italiana, opera di Franco Lucentini (1962) è ora riproposta da Einaudi a cura di Glauco Felici. Tessere in brevissimo spazio le lodi di un libro che ho sempre ritenuto fra i più belli dell'immenso argentino mi è di sgomento, per cui preterisco. Solo posso avvertire che ad ogni rilettura il capolavoro rilascia generosamente nuovi sensi e nuovi piaceri, fra le maglie del dottissimo gioco facendo intravedere abissi teologici sempre più profondi. Teologica del resto è la giustificazione stessa della struttura del Manuale, che nonostante "le possibilità dell'arte combinatoria siano quasi infinite" contempla soltanto ottanta animali fantastici, in virtù di una rispettosa quanto dogmatica petizione di principio secondo la quale "la zoologia dei sogni è più povera di quella di Dio". Di qui la rinuncia o quasi ad inventare, essendo invece sistematico il ricorso a fonti come Erodoto, Plinio il Vecchio, l'Aldovrandi, il Milione, la Bibbia, il Corano, il Liber Monstrorum, Omero ma anche Poe, Kafka o C. S. Lewis. Così uno dei libri in cui più sembra sfogarsi il gusto di Borges per l'apocrifo si rivela in realtà - con le dovute e argute eccezioni - il più "filologico" e il più "storico"; e fatalmente il più alessandrino, se è proprio dell'alessandrinismo lo scavo psicologico che corrompa l'imperturbabile plasticità del mito (si veda l'Idra di Lerna: "L'ultima testa, che era immortale, Ercole la sotterrò sotto una grande pietra; e dove la sotterrò sta ancora adesso, odiando e sognando"). Ma naturalmente Borges sapeva che poche operazioni letterarie sono creative come muoversi nella tradizione: per questo dopo aver incontrato insieme il Kraken e la Manticora, la Sfinge, il Catoblepa, l'Odradek e il Simurg non possiamo più leggere i "classici" con l'ingenuo spirito con cui la scuola ci ha avvezzi a distinguerli.

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Borges, tutte le ossessioni nel Manoscritto
  di MICHELE MARI (Corriere della seramercoledì, 16 giugno 1999)

"Pochi argomenti mi hanno ossessionato nel corso del tempo; sono decisamente monotono (...). L'età ormai avanzata mi ha insegnato la rassegnazione di essere Borges": così, ormai settantenne, il grande scrittore argentino sottolineava la piena appartenenza del Manoscritto di Brodie alla propria inconfondibile maniera, con una civetteria diametralmente opposta alla pretesa, sostenuta nello stesso prologo, di avere scritto dei racconti "lineari" a imitazione di quelli del giovane Kipling. Colpiti da quest'ultima affermazione, e non tenendo conto del principio borgesiano secondo cui in letteratura la semplicità non esiste, perché non c'è pagina o parola che non postuli l'universo, "il cui attributo più noto è la complessità", molti appassionati di Borges rimasero delusi dal Manoscritto di Brodie, quasi si trattasse di una senile conversione a modi narrativi veristi se non addirittura bozzettistici. Eppure, anche senza considerare che tutta l'opera di Borges forma un unico libro in cui tout se tient, basterebbero racconti come L'incontro o Il Vangelo secondo Marco per garantire la continuità del Manoscritto di Brodie rispetto a Finzioni o a L'Aleph. Armi da taglio animate dall'odio dei loro antichi proprietari ("entrambe sapevano combattere - non gli uomini, loro strumenti - e combatterono bene quella notte. Si erano cercate a lungo, per i lunghi sentieri della provincia, e alla fine si incontrarono, quando i loro gauchos erano ormai polvere"), un giovane ladruncolo che, tradendo il suo leggendario capobanda solo per provare la voluttà dell'abiezione, sembra uscito dalla Storia universale dell'infamia, uno studioso che per amore dell'"ombra" (cioè della letteratura) rinuncia a scoprire cosa veramente si dissero il generale San Martin e Simon Bolivar, un uomo "che conobbe il sapore della morte e che fu poi un coltello e adesso la memoria di un coltello e domani l'oblio, il comune oblio", pieghe segrete della Storia, destini di incomprensibile geometria; e soprattutto, una prosa regale. Perché Borges era capace di essere Borges anche senza Biblioteche e senza Bibliografie.

JORGE LUIS BORGES Il manoscritto di Brodie Adelphi, pagine 130. Lire 22.000

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Bradbury, come diventai Melville
  di MICHELE MARI (Corriere della sera, domenica, 18 ottobre 1998)

RAY BRADBURY, Verdi ombre, balena bianca , Fazi, pagine 310, lire 29.000

Quando John Huston si decise a portare sullo schermo Moby Dick, nel '53, Ray Bradbury era un giovane scrittore di fantascienza ancora un passo al di qua della celebrità. Eppure la vocazione cinematografica di libri come Cronache marziane o Farenheit 451 dovettero persuadere il grande regista a sceglierlo come sceneggiatore del romanzo di Melville. Ora non è chi non veda la difficoltà di una simile impresa, stante la densità simbolica di un testo che dialoga in continuazione con la Bibbia e che attraversa tutti i generi, dall'epico al lirico al drammatico al saggistico. Si aggiunga la speciale difficoltà di avere a che fare con un carattere come quello di Huston, incline a lasciare poca autonomia. Huston era più melvilliano di Melville, volendo un Achab prometeico e bestemmiatore della balena-dio, laddove Bradbury (e lo stesso Gregory Peck) vedevano nel capitano soltanto un pazzo: sublime, ma pazzo. Su queste premesse Bradbury arrivò in Irlanda, dove si sarebbe svolta buona parte della lavorazione del film: là tagliò, cucì, fuse, riscrisse, e il risultato (che non soddisfò né lui né Huston) è noto. Meno noto è che 40 anni dopo Bradbury raccontò quell'esperienza in un libro. Tradotto ora in italiano e corredato da un competentissimo saggio di Alessandro Zaccuri, Verdi ombre, balena bianca ci mostra la faticosa "conquista" di Moby Dick da parte di chi non l'aveva mai letto e di chi alla fine poté sentirsi invasato dallo spirito di Melville (il che per uno scrittore dev'essere come trovarsi assunto alla gloria di Dio): "Mi avvicinai allo specchio sopra la macchina da scrivere e annunciai: "Sono Herman Melville!"". A questa trance demiurgica Bradbury deve le sue più felici intuizioni, come l'avere individuato nella moneta d'oro di Achab la metafora fondamentale di Moby Dick. "Quello che teneva insieme il tutto era l'aver inchiodato l'oncia d'oro spagnolo all'albero maestro [...]. Cattura per prima la metafora grossa, il resto seguirà".

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Cain, il capolavoro dimenticato di un talento del giallo
  di MICHELE MARI (Corriere della sera, martedì, 26 maggio 1998)
JAMES M. CAIN La morte paga doppio Editore Adelphi pagine 128, lire 12.000

Pur avendo "generato" un celebre film di Billy Wilder (La fiamma del peccato), La morte paga doppio (Double Indemnity, 1936) è certamente meno conosciuto di un altro libro di Cain destinato a grande fortuna cinematografica come Il postino suona sempre due volte. Eppure si tratta di un capolavoro, come riconobbe lo stesso Wilder dopo averne terminata la lettura in un'ora esatta. Letto questo libro, in effetti, ci si chiede perché James M. Cain non abbia beneficiato di quell'aura che ha sempre accompagnato i nomi di Dashiell Hammett o di Raymond Chandler. Imperniata sulla concomitanza fra un'assicurazione sulla vita e l'improvvisa interruzione di quella vita, la trama è un miracolo di ingegneria giuridico-medico-psicologico-cronologico-topografica: complessissima ma all'apparenza semplice, secondo l'aurea regola della sprezzatura che contraddistingue i classici. E, come nei classici, nulla è "tipico" perché tutto è archetipico: quante dark ladies, ad esempio, sono state modellate sulla protagonista, la sconcertante Phyllis Nirdlinger? Quanti impiegati irreprensibili sedotti dal male ricalcano la figura del narratore, il cinico-sentimentale Walter Huff? Anche la compagnia assicuratrice ha molto del Fato della tragedia greca: la si potrà eludere, la si saprà ingannare? Impegnati nel tentativo prometeico, i due personaggi principali riscuotono la nostra simpatia e la nostra solidarietà: di quante legalissime soperchierie un loro successo ci risarcirebbe fantasticamente! Ma al di là delle questioni di immedesimazione e di catarsi vorrei porre l'accento sul fatto che con questo libro Cain ha dimostrato quanto sia infondato il luogo comune secondo il quale per scrivere un giallo si danno due vie assolutamente irreducibili l'una dall'altra, l'inglese scientifico-enigmistica (Conan Doyle, Agatha Christie) e l'americana hard-boiled. E lo ha dimostrato non solo sotto l'aspetto tematico, fondendo scene di violenza e geometriche argomentazioni, ma anche da un punto di vista stilistico-tonale, grazie a una scrittura ora ellittica e concitata ora analitica e ostentatamente pignola: una scrittura che al passo lento dell'elucubrazione sa affiancare chiuse di capitolo come questa: "Riagganciai. L'amavo come un coniglio ama un serpente a sonagli. Quella notte feci una cosa che non facevo da anni. Pregai".

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Joseph Conrad, quando l'arte di scrivere viene dal mare
  JOSEPH CONRAD Lo specchio del mare Editore Il melangolo, Pagine 238, lire 25.000
  di MICHELE MARI (Corriere della seralunedì, 02 novembre 1998)

Pochi giorni dopo la morte di Conrad, nell'agosto del 1924, Virginia Woolf parlò di lui come di un "ospite" distintosi per un "ristretto numero" di romanzi marinareschi. Di questo giudizio riduttivo Conrad si era spesso lamentato negando che il senso della sua opera si esaurisse in "this damned sea business", ma ammettendo che quel mondo di navi, di acque e di venti aveva modellato la sua personalità di scrittore in modo decisivo. Il documento più esplicito di questo condizionamento è probabilmente "Lo specchio del mare" ("The Mirror of the Sea", 1906), in cui Conrad raccolse una serie di divagazioni marinaresche fra saggio storico, racconto, diario, pamphlet. Ciò che più colpisce è che, accanto ai classici motivi mitici, mistici, metaforici ed iniziatici (appunto "Iniziazione" è il titolo di uno dei capitoli più belli), si incontrano in questo libro considerazioni molto tecniche, perlopiù di carattere linguistico, tese a dimostrare la sostanziale identità fra l'arte di navigare e l'arte di scrivere. Si leggano ad esempio le splendide pagine dedicate alle ancore e si capirà come per Conrad non solo la terminologia nautica ha una bellezza direttamente proporzionale alla sua precisione, ma la stessa tecnica veliera, con l'esattezza e insieme la trepidante ritualità dei suoi gesti e dei suoi tempi, è una forma d'arte. Per questo gli anni trascorsi sulle navi non furono per lui solo un cimento esistenziale ma anche un apprendistato artigianale: imparando a scrivere dalle navi ("di tutte le creature viventi in terra e in mare sono soltanto le navi a non sopportare cattiva arte"), Conrad le avrebbe poi rimeditate facendone un elemento fondamentale della propria maniera, se una maniera, come credo, è fatta di temi e di luoghi non meno di quanto sia fatta di lingua, di ritmo, di struttura, di retorica. Così, in una nota premessa alla seconda edizione dello "Specchio del mare", egli poteva concludere: "[questo libro] è il miglior tributo che la mia devozione può offrire a tutto ciò che ha definitivamente formato il mio carattere e il mio destino: al mare imperituro, alle navi che non ci sono più, e agli uomini semplici che hanno vissuto il loro momento".

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Conrad, la stupida catastrofe del Titanic
  JOSEPH CONRAD, Il Titanic, Passigli, pagine 62, Lire 12.000 di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 07 settembre 1999)

"Il mero aumento di dimensioni non è progresso. Se lo fosse, l'elefantiasi che fa diventare le gambe di uomo grosse come tronchi d'albero sarebbe una sorta di progresso, mentre altro non è che una brutta malattia. A quanto pare, esiste un punto in cui il progresso, per essere un vero avanzamento, deve variare leggermente la sua linea di direzione...". Così, nel 1912, Joseph Conrad rifletteva sulla "English Review" a proposito del naufragio del Titanic, "stupida catastrofe" che senza impressionare più di tanto lo scrittore ("non c'è nulla di eroico nell'annegare su un'enorme cisterna bucata più di quanto ve ne sia nel morire per una colica causata dal salmone della scatola difettosa comprata dal droghiere") indignò profondamente l'uomo di mare. Innanzitutto il Titanic non era per Conrad una vera nave ma un aberrante "Ritz dell'oceano" ottusamente progettato da una compagnia di "bigliettai" allettati da "un'assurda e volgare domanda di lusso" (in questo albergo galleggiante mancano paratie stagne e scialuppe, ma in compenso c'è un "café parigino con quattrocento poveri cristi di camerieri"). In secondo luogo nemmeno l'equipaggio era formato da veri marinai, come Conrad dimostra confrontandone il comportamento con quello di altri sventurati equipaggi, cui tributa un omaggio che solo a fatica non si apre alla commozione. Né si sottrae al suo biasimo l'operato della stampa, colpevole di alimentare una leggenda dalla quale gli armatori possono solo ricavare vantaggi. E poiché non c'è orchestra che possa rendere più gradevole un annegamento, Conrad auspica che la testa di quegli armatori venga "tenuta a forza sotto l'acqua del loro bagno" finché si rendano conto di cosa si sta parlando. Ma alla fine ciò che conta è che questo pamphlet sia stato scritto dall'autore di "Lord Jim", la cui storia incomincia con un analogo naufragio in acque calme e si sviluppa come tormentosa indagine sulla responsabilità e sul tradimento: va così che l'illuministica argomentazione di queste pagine sottintende, per il lettore avveduto, l'ombra della morbosità.

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Crane: se il coraggio è rosso, la fifa è sempre blu
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 10 luglio 1998)

STEPHEN CRANE Il segno rosso del coraggio Editore Frassinelli Pagine 198, lire 20.000

Due sono i romanzi memorabili dedicati alla viltà e all'angoscia morale che un momento di debolezza può suscitare in uno spirito coscienzioso: "Lord Jim" di Joseph Conrad e "Il segno rosso del coraggio" di Stephen Crane ("The Red Badge of Courage", 1895), appena riproposto da Frassinelli in una nuova traduzione di Alessandro Barbero. Collocando in un episodio della Guerra di Secessione il battesimo del fuoco di un giovane nordista, l'altrettanto giovane Crane (aveva allora ventiquattro anni, e morirà di tisi prima di compiere i trenta) descrive, con una sottigliezza psicologica sorprendente, il rapido passaggio del protagonista dall'entusiasmo di chi sogna "battaglie degne dei Greci" all'automatismo animale della fuga (fuggiva, e mentre fuggiva "gli scorrevano nell'immaginazione quadri di meravigliose battaglie"), all'elaborazione di ingegnose giustificazioni fino alla resa, al sentimento d ella vergogna; dalla quale saprà riscattarsi con un furore isterico che iniziandolo al sangue lo priverà per sempre di ogni ingenua illusione. L'illusione è prima della Storia; dopo, viene la Leggenda: in questo senso il libro di Crane ricorda da vicino alcuni fra i più struggenti e insieme più autocritici film western, come "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford e "Gli spietati" di Clint Eastwood. Ma, come dev'essere, la prima qualità del "Segno rosso del coraggio" è stilistica, in virtù di una prosa concitata che riproduce a meraviglia il caos della battaglia e che alla rigorosa crudezza delle notazioni geografiche, strategiche, balistiche ed anatomiche sa unire una visionarietà allucinante e potente. In particolare Crane sembra dominato da un'ossessione cromatica, che ora si scioglie in metafora (la "rappresentazione blu" con cui il protagonista immagina la battaglia, il "ruggito scarlatto dello scontro") ora detta pagine come questa: "Il cadavere portava un'uniforme che un tempo era stata blu, ma adesso s'era scolorita in una specie di verde malinconico. Gli occhi avevano preso quel colore opaco che si vede sulla pancia di un pesce morto. La bocca non era più rossa; era diventata di un giallo spaventoso...". Un giorno un amico gli scrisse: "Siete un completo impressionista". Era Joseph Conrad.

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Le migrazioni serbe verso la Russia descritte da Crnjanski con qualche leziosità
La vera patria è altrove
  MILOS CRNJANSKI Migrazioni II Editore Adelphi, pagine 868, lire 50.000.
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 21 marzo 1999)

La prima parte di "Migrazioni", vasto romanzo storico ambientato nell'Europa del Settecento dal serbo Milos Crnjanski (1893-1977), apparve presso Adelphi sette anni fa e seppe entusiasmare molti lettori per il respiro epico con cui l'autore, intrecciando destini individuali e destino etnico, rievocava il dramma delle milizie serbe impiegate dall'Impero austro-ungarico contro i Turchi. Sacrificati in una guerra che non era la loro quei soldati, nei disegni dell'Impero, si sarebbero dovuti trasformare a guerra finita in contadini, e proprio per evitare questa perdita di identità alcuni comandanti progettarono un trasferimento in massa al servizio della Russia. Quella prima parte si chiudeva appunto con il sogno ossessivo dell'immensa Russia da parte di uno di loro, Vuk Isakovic, "giunto sull'orlo dell'abisso della follia". Al racconto di questa titanica impresa, condotta a termine da un suo nipote adottivo nel 1752, è dedicata la seconda parte, che sul grande modello tolstoiano (anche se per il tema il romanziere cui si corre col pensiero è Ivo Andric) personaggi storici e d'invenzione, epos e "dramma borghese", scene di massa e interni. Purtroppo questi ultimi (soprattutto nei capitoli centrali, ambientati a Vienna e a Kiev) tendono a debordare, smagliando la tenuta complessiva e irretendo l'autore in tonalità più brillanti e salottiere che assolutamente non gli sono congeniali. Ma la conclusione dell'opera, prefigurando per i Serbi immigrati in Russia quello stesso destino di dispersione e anonimato da cui erano fuggiti, restituisce la malinconica grandiosità dell'affresco. E alla fine, oltre ad alcuni toponimi sparsi nella sterminata mappa dell'Orso russo, non resta di un popolo se non il suo stesso eterno migrare: "le migrazioni esistono. La morte non esiste!".

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Dal gotico a Freddy Kruger: il business degli innocenti

di MICHELE MARI (Corriere della seragiovedì, 28 maggio 1992)

Una ventina di anni fa chi si entusiasmava per Lovecraft, per Bloch o per Machen leggeva anche Zio Tibia, e saltuariamente passava un intero pomeriggio in qualche sala periferica specializzata in rassegne non-stop di film orrorosi: oggi che i nomi sono quelli di Stephen King, di Tiziano Sclavi o di Robert Englund, ho l'impressione che da parte dei "cultori" ci sia molto meno compiacimento (e meno passione amatoriale) e viceversa più immedesimazione. Non a caso i maggiori frequentatori di Dylan Dog o di Freddy Kruger (l'eroe della serie cinematografica "Nightmare") sono gli adolescenti, cioè coloro che per costituzione sono meno portati alle mediazioni della cultura: invece chi passava quei famosi pomeriggi in compagnia dell'Uomo-Lupo o del Figlio di Frankenstein, lo ricordo bene, aveva spesso i capelli brizzolati o bianchi. È difficile dire se l'immediatezza dell'odierna fruizione (verrebbe da dire suzione) dell'horror dipenda solo da fattori generazionali, e non sia piuttosto il riflesso della fretta e dell'esteriorità che caratterizzano questo nostro tempo. Quel che è sotto gli occhi di tutti è che l'horror è oggi un gigantesco affare economico, una moda, un'industria: l'industria del titillamento gastrico, con lieto fine assicurato. La questione è: mercificato e massificato, l'orrore rimane ancora orrore? La paura può essere comperata alla fiera? O non sarà vero il contrario, che la disperazione e il terrore ci attendano sulla via del ritorno, lontano dalle mostre e dai festival, nella solitudine? L'orrore è una dimensione dello spirito, è materia teologica: lo sapevano i mistici medioevali e i metafisici barocchi, lo sapeva Goya e lo sapeva Munch, non sarà l'attuale bombardamento di gadgets a farcelo dimenticare.

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D'Amicis racconta Re Cecconi, ucciso per uno scherzo
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 05 novembre 1999)

Di solito, quando un testo letterario riguarda il mondo del calcio, si dice che utilizza quel mondo come prete sto per parlare della "vita", e fatalmente, se la prospettiva è quella infantile o adolescenziale delle prime partitelle e delle prime esperienze da tifosi, si stabilirà che il vero tema del libro è il dramma della crescita, l' iniziazione alla realtà degli adulti, la perdita dell'innocenza e così via. Ora, in questo tipo di interpretazione io ho sempre avvertito qualcosa di ingeneroso e dogmatico, come se il calcio non fosse "in sé e per sé" una dimensione letterariamente degna, e avesse invece bisogno di essere legittimato "ab externo". Mi fortifica in questa convinzione un bellissimo libro appena pubblicato da Carlo D'Amicis, che con coraggioso candore ha intrecciato alla biografia di Re Cecconi (significativamente stesa in forma di autobiografia) la propria vicenda di giovane giocatore e giovane tifoso laziale. Giocatore fondamentale della Lazio che vinse lo scudetto nel '74, amato per la sua forsennata generosità , Luciano Re Cecconi fu ucciso nel '77 da un orefice romano nel cui negozio era entrato simulando per scherzo una rapina. Questa tragica e assurda fine lo colloca nella leggenda a fianco dei morti di Superga e di Gigi Meroni, di Gaetano Scirea e di Agostino di Bartolomei: ma vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che il Re Cecconi di D'Amicis è un personaggio intenso e commovente "a prescindere" dalla sua morte. In quel giocatore biondo, per cui giocare a calcio significava soprattutto correre in su e in giù come un pendolo, il piccolo D'Amicis si proiettava eroicamente chiudendosi in autistiche ruminazioni; saputo della sua morte, si dovette rassegnare a essere "solo" Carlo D' Amicis. Per questo la sua attuale indagine, pur avvalendosi di molti ritagli della stampa dell' epoca, non ha nulla di giornalistico; per questo noi, che laziali non siamo, leggendo questo libro struggente lo diventiamo e per un po' lo restiamo.

CARLO D' AMICIS Ho visto un re Editore Limina, pagg. 146, lire 25.000

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Doderer, microracconti tra ironia e tormento
  HEIMITO VON DODERER Divertimenti e variazioni Edizioni Se, pagine 132, lire 28.000
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 07 maggio 1999)

Considerato l'ultimo narratore classico in lingua tedesca per i suoi romanzi d'impianto tradizionale (tre dei quali, "Le finestre illuminate", "La scalinata" e "I demoni" formano una monumentale trilogia), l'austriaco Heimito von Doderer (1896-1966) sembra avere riservato ogni sperimentalismo antinarrativo alla misura della prosa breve. Lo dimostra questa antologia di testi scritti fra il 1924 e il 1961 e appena tradotti in italiano: divertimenti e variazioni appunto, capricci, microracconti che ricordano la "Centuria" di Manganelli, rielaborazioni di fiabe e dicerie popolari, aforismi. In "Due bugie ovvero un'antica tragedia di paese", dove la vicenda del reduce che senza essere riconosciuto viene rapinato e ucciso dai suoi stessi genitori offriva le maggiori potenzialità romanzesche, l'antinarratività è data dal distacco e quasi dal fastidio con cui quel melodramma popolare è riferito; in "Lei si vende" lo stesso effetto distruttivo è ottenuto attraverso il basso continuo di un'irrisione che non recede nemmeno dalle parole conclusive ("E i due, dopo, non si videro più davvero. Ossia fino alla volta successiva"); in "Sette variazioni" la forma dell'"esercizio di stile" alla Queneau riduce la vicenda a pretesto insignificante; e altrove saranno l'interruzione improvvisa del racconto, o l'abuso delle parentesi stranianti, o l'ostentata fretta di concludere, a suggerire che l'autore per primo non vuole credere alle proprie storie. Oppure, come per sfiducia nei mezzi della letteratura (una sfiducia sorprendente in chi nei fluviali romanzi dà prova di tanta acutezza psicologica e di tanta capacità evocativa), von Doderer rinuncia a dare un nome e un volto alle cose: come quando scrive: "Provai un senso di dolore; impossibile a dirsi l'origine, impossibile a dirsi verso cosa tendesse", che non è retorica preterizione o rispetto dell'ineffabile, ma (come risulta dal tono di tutto il testo) vera e propria abdicazione. Insomma un libro sconcertante ma anche rivelato re, perché nella sua qualità di "precipitato" degli umori negativi del von Doderer romanziere ci fa intuire il tormento sotteso alla sua aurea affabulazione.

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Smarrirsi nel Labirinto, aspettando il Minotauro

  LAWRENCE DURRELL, Il labirinto oscuro , Editore Fazi, pagine 316, lire 30.000
di MICHELE MARI (Corriere della sera
domenica , 08 agosto 1999)

Ultimo rappresentante di quella religione inglese del Mediterraneo che ebbe in Byron e Shelley i padri, Lawrence Durrell (1912-1990) è noto fuori d'Inghilterra per la tetralogia narrativa ambientata ad Alessandria d'Egitto ("Justine", "Balthazar", " Mountolive" e "Clea", 1957-60). Il successo lo indusse a ripubblicare nel 1961 "The Dark Labyrinth", uscito nel 1947, senza molta fortuna, con il titolo "Cefalù". Ambientato a Creta nello stesso 1947, il romanzo mette in scena l'avventura di viaggiatori inglesi smarritisi nello sterminato labirinto naturale all'interno di una montagna. Lungamente preparata dal racconto delle vicende psicologiche che hanno portato a Creta ogni personaggio, la situazione ricorda romanzi di Agatha Christie come "Assassinio sul Nilo": ma è una impalcatura-pretesto, che non interessa a Durrell se non per riflettere sul male di vivere dell'uomo occidentale (nella sua paradigmatica versione anglosassone) e sulla sua possibilità di "ritrovarsi" solo grazie a uno shock palingenetico. Il quale, nella fattispecie, è l'esperienza del mito nel suo sostrato archetipico. Ora, quando l'archetipo è un Labirinto abitato da un possibile Minotauro, è facile pensare alle geometriche variazioni di un Borges o al malinconico alessandrinismo di un Kavafis: nulla di simile in Durrell, che sceglie la strada virulenta della discesa agli Inferi, e la percorre sino in fondo. Alla fine, dei suoi personaggi, ci sarà chi troverà morte orrenda e chi (in pagine viziate da "siddhartismo", la componente più fastidiosa del libro) la pace spirituale. Ma questo è posto in secondo piano dalla presenza inebriante del paesaggio cretese, i cui bianchi e azzurri accompagnano la storia come un tema musicale che Durrell (occidentale prigioniero del Senso) cerca di riassorbire nel simbolismo dell'opera: ma invano.

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E la popolana divenne messere. Ecco la storia dell'uomo femmina

di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 28 maggio 1995)

Colpito dalla lettura del Diario palermitano di Altonino Mongitore, l'illetterato Francesco Polizzi volle emularlo con una cronaca delle più notabili vicende occorse in Caltagirone "à tempi suoi", cioè a cavallo fra '600 e '700. Imbattutasi in uno dei pochi frammenti superstiti della cronaca, relativo alla "grande coriosità" di un "omo fimmina", Maria Attanasio ne ha ricavato un aggraziato e partecipe racconto (Correva l'anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Sellerio, pp. 112, L. 15.000, con un'introduzione di Vincenzo Consolo). E la storia della popolana Francisca, che rimasta vedova, e rifiutando la via della prostituzione, decise di guadagnarsi da vivere sui campi insieme agli uomini, come gli uomini vestendosi e comportandosi. Infaticabile lavoratrice, di volto "hominigno", Francisca si tramutò così in Messer Francisco, la cui doppia natura ("masculu fora e fimmina intra") suscitò presto, oltre alla morbosità del paese, le attenzioni dell'Inquisizione. Ma quando già lo si pensa sul rogo, l'"omo fimmina" viene assolto.

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Fortini e Tasso, anatomia di una passione
  FRANCO FORTINI, Dialoghi col Tasso, Bollati Boringhieri, pagg. 194, - 18.000
di MICHELE MARI( Corriere della sera
domenica , 12 settembre 1999)

Da molto tempo non leggevo un libro di critica letteraria bello come questi Dialoghi col Tasso: bello di una bellezza emozionante come solo le pagine di De Sanctis sanno essere. Lettore lucidissimo, capace d'impiegare rigorosamente gli strumenti del la critica stilistica come di quella sociologica, della metricologia come dell'approccio simbolico-psicoanalitico (e di muoversi con stupefacente rapidità dall'uno all'altro di questi piani), Fortini sembra però inverare la sentenza del Foscolo secondo cui non può essere grande critico chi non è grande poeta. Lo testimonia benissimo, più ancora del continuo accendersi della prosa in definizioni memorabili (il Tasso poeta "nero e dorato" ma "personaggio distrutto e pietoso", "certi passi di angoscia rabbrividita e di occulta animazione della natura" come suo lascito in Sereni e Zanzotto), la profonda sintonia sentimentale fra il critico e il suo autore. Immediatamente amato fin dall'adolescenza, "Torquato" fu infatti per Fortini l'occasione per affermare precocemente la propria vocazione alla scelta di campo militante: "Allora era quasi una scommessa la mia contro il gusto dei miei coetanei e dei miei professori, che preferivano di gran lunga l'Ariosto, caro a Benedetto Croce". Poeta della contraddizione, il Tasso di Fortini non è però solo il genio romantico affascinato dall'"incantevole caos" della sensualità (cioè, detto in termini moderni, il poeta del "ritorno del represso"), ma anche uno scaltrissimo letterato che gioca intenzionalmente sulla tensione dialettica fra l'eros e la "crudele musa" della repressione; e a sorpresa la conferma a quest'interpretazione arriva dai numerosi riferimenti alle arti figurative, dalla pittura di Lorenzo Lotto al cinema di Korosawa. Eppure, romanticamente, voglio concludere con questo brano sulla sua debolezza adolescenziale: "Pensatelo fra quelli un poco più giovani di lui: Tommaso Campanella, Galileo Galilei, Giambattista Marino, Giordano Bruno, Paolo Sarpi. Sembra un ragazzo".

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Hannibal alla porta (Bradbury)
di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 15 ottobre 2000)

Un anomalo Bradbury, Hannibal alla porta. Ci sono scrittori che per quanti sforzi facciano restano prigionieri di un capolavoro e di una stagione: è il caso di Ray Bradbury, la cui grandezza sarà sempre legata alle indimenticabili Cronache marziane, e in seconda battuta a Fahrenheit 451 e L' uomo illustrato. Dopo quei titoli, come se la fantascienza fosse un agone troppo stretto per lui, Bradbury ha imboccato altre strade, una delle quali è rappresentata dai libri che hanno come vero protagonista il cinema, dal "diario" della collaborazione al Moby Dick di Huston a Death is a solitary business, tradotto da Rizzoli nel 1987 come Morte a Venice e ora da Fazi come La morte è un affare solitario. Ambientato nella spettrale città di Venice (California) negli anni '40, il romanzo parte splendidamente come noir-horror, contaminando le atmosfere di Hammett (macchine da scrivere, investigatori, aloni di luce giallastra sui moli...) con gli incubi di Stephen King, dalla cui penna più ispirata sembra essere uscito il misterioso personaggio che odora di alghe e che indugia davanti agli usci degli anziani che vivono soli. Si scoprirà presto (e questa conversione da Stephen King a Thomas Harris è rovinosa, stante non solo la schiacci ante superiorità del primo modello sul secondo ma anche la sua maggior congenialità per Bradbury) che quest'angelo della morte è un coltissimo psichiatra, parente stretto di Hannibal Lecter o del recente "assassino più colto del mondo" di Simon Winchester. Ma il guaio è un altro, ed è appunto la tematizzazione del cinema (il cinema in bianco e nero, il cinema eroico), alla quale evidentemente Bradbury delega il compito di rendere "struggente" la narrazione. Più o meno riconoscibili, entrano dunque in scena diversi personaggi hollywoodiani che con le loro stravaganze spostano fatalmente il tono del romanzo in direzione grottesca, e se c'è qualcosa che il pathos dell' incubo non tollera è proprio il grottesco. Insomma qui è come se si incominciasse con Shining e si finisse con il Dottor Stranamore, per accettare il gap ci vuole un interesse specifico per l'interazione fra letteratura e memoria cinematografica (o fra cinema e situazione letteraria)

RAY BRADBURY La morte è un affare solitario Editore Fazi Pagine 288, lire 30.000

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Hauser, un Mark Twain politicamente corretto
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 26 novembre 1999)

Prima di diventare famoso con il nome di Mark Twain, Samuel Langhorne Clemens fu vagabondo, battelliere sul Mississippi ("mark twain" è appunto un'espressione della terminologia nautica fluviale), minatore, militare, giornalista, conferenziere itinerante. Nel 1856, quando aveva da poco compiuto vent'anni, e quando ne mancavano altri venti alla pubblicazione delle "Avventure di Tom Sawyer", si trovò a soggiornare per qualche mese nel Kansas vivendo di gioco d' azzardo e di scommesse sugli incontri di boxe. Su questo esilissimo spunto lo scrittore americano Thomas Hauser ha imbastito un singolare racconto "autobiografico" in cui si immagina che lo stesso Twain, ormai in punto di morte (siamo nell'aprile del 1910), rievochi quella remota fase picaresca della propria vita. In tal modo Hauser impregna la pagina di entrambi i benefici solitamente offerti dal la sfasatura temporale a questo tipo di narrazione: l'aura di malinconia e di filosofica superiorità con cui l'anziano ripensa la propria parabola di "piccolo grande uomo", e il carattere di predestinazione che assumono le vicende giovanili dei fu turi uomini illustri. Seguiamo così l'inesperto e acerbo Samuel in un'avventura che lo vede prima vincere uno schiavo al poker, poi farlo combattere in incontri di boxe, infine, dopo un ultimo terribile match pieno di trappole, farne un uomo libero. Storia della crescita morale di un giovane sudista abituato a considerare la schiavitù come qualcosa di naturale e di indiscutibile, questa avventura è evidentemente molto meno gioiosa di quelle vissute da Tom Sawyer e da Huckleberry Finn, ma ad esse altrettanto evidentemente si ispira mimandone i tempi, il ritmo, il decor picaresco, la lingua. Tuttavia se la mimesi riesce solo in parte non è tanto per la serietà della vicenda in sé stessa, quanto per lo zelo del "politically correct", che mi sembra la vera debolezza di tanta letteratura contemporanea. Non sarà un caso, allora, che Thomas Hauser sia anche un procuratore legale e che il suo successo sia nato con "Missing", il romanzo sui desaparecidos da cui Costa - Gavras trasse un celebre film.

THOMAS HAUSER Un'avventura di Mark Twain Editore Fazi pagine 156, lire 16 mila

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I classici europei visti dagli Usa
Evviva la letteratura politicamente scorretta
  di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 28 dicembre 1999)

Evviva la letteratura politicamente scorretta Jane Austen e Joseph Conrad razzisti e imperialisti? Dante Alighieri sadico voyeur e mostro d'intolleranza? Virgilio bieco servo del potere? Omero spietato istigatore alla violenza? Ipotesi come queste, che in Europa anche il più ignorante degli studenti si vergognerebbe a formulare, in America sono seriamente prese in considerazione non solo dagli studenti ma anche da molti docenti e critici. Ossessionata dal bisogno di political correctness, la cultura americana degli ultimi trent'anni ha dato sempre più spazio e più peso alle ragioni delle minoranze e al valore neoilluministico della tolleranza. Così i grandi testi della tradizione occidentale sono stati messi in discussione e screditati uno dopo l'altro dall'accusa di connivenza con il Potere e l'Ingiustizia. Nelle Università la gigantesca requisitoria ha comportato la demonizzazione e spesso l' accantonamento del canone dei "Grandi Libri" stabilizzatosi nello stesso ambito accademico per economia didattica. Memore di tanto sfacelo, il quarantottenne David Denby, brillante critico cinematografico newyorchese, ha voluto reiscriversi alla sua vecchia accademia, la Columbia University, per riscoprire il gusto dell' avventura intellettuale e verificare quanto del canone fosse sopravvissuto. La sua esperienza, narrata con piglio di un conteur settecentesco in un grosso volume, intitolato appunto "Grandi libri", appena edito in Italia da Fazi (pagg. 666, lire 35.000), è sconcertante: dalla Bibbia e da Omero fino a Virginia Woolf passando per Dante, Montaigne, Shakespeare e Nietzsche il Canone è ancora lì, ma è lì pretestuosamente (anche se Denby non ha il coraggio di dirlo apertamente) come canone negativo, ovvero come "scandalo" mirato a suscitare negli studenti, guidati da accorta maieutica, lo spirito critico - polemico necessario alla fortificazione della loro personalità. E Denby? Convinto che "si possano ripudiare le ingiustizie del passato senza respingere i capolavori che ne sono scaturiti", prende le distanze dai suoi più giovani e ingenui compagni di corso (oltre che da alcuni illustri critici), ma di tanto in tanto confessa di condividerne l'intransigenza: con la sua glorificazione dei massacri l'Iliade lo "sciocca" e con la sua cupezza l'Orestea lo "opprime" lasciandolo "nauseato"; il finalismo aristotelico è "un errore colossale"; quanto a Dante, la Commedia lo "sconcerta" per la sua "arroganza" (e infatti questa lettura si rivela "un fallimento, uno dei più brucianti"). La realtà è che pur disponendo di altri punti di vista, Denby non sa rinunciare fino in fondo al perbenismo contenutistico: come dimostrano, più dei giudizi appena citati, i luoghi in cui, animato delle migliori intenzioni riabilitatorie, discute con i più facinorosi avversari del Canone misurandosi sul loro stesso terreno. Ed è triste, allora, vederlo battersi a favore di Cuore di tenebra in nome non della sua bellezza ma di una sua presunta correttezza politica nascosta (giacché, obietta a Edward Said e a quanti vorrebbero cancellare il nome di Conrad da qualsiasi programma di studio, suggerendo l'idea che le tenebre siano anche nell'uomo bianco Conrad avrebbe "pareggiato" il proprio colonialismo!). E comunque, è il suo argomento risolutivo, lo stesso pericolo di estinzione che incombe su tutta la letteratura dovrebbe in durre all'ecumenica assoluzione di qualsiasi libro ("in un periodo in cui la letteratura minaccia di scomparire nel ciberspazio o semplicemente di essere calpestata dall' onnivora cultura di massa, le università hanno un' immensa responsabilità"): argomento che per i libri "grandi" non può davvero dirsi lusinghiero, e che per la critica letteraria assomiglia da vicino a un'abdicazione. Insomma, che dire? Che Denby è sufficientemente spiritoso per uscirne elegantemente, ma che se lo stato de gli studi umanistici dell' Università americana è davvero questo (cosa di cui voglio dubitare) allora aveva ragione Alberto Sordi quando sentenziava: "Americani? Popolo giovane!". E lo stesso Denby non conclude il suo libro affermando che i suoi connazionali "devono innamorarsi dell' Europa, per poter diventare americani migliori"? Cosa di cui noi, scorrettamente, non abbiamo mai dubitato.

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I giochi magici di Manganelli
di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica , 05 giugno 1994)

La prima parola del Galateo del Della Casa, "Conciossiacosachè", mandava in visibilio Giorgio Manganelli: "un trauma fonico e sintattico" per il quale "il lettore moderno si adonta ed impenna: spaurito ronzino, linguisticamente animale da fieno. Quel "conciossiacosachè" ha fatto balzar di mano questo mirabile libretto a più d'un lettore; vada a raccoglierlo". Era questo un tipico atteggiamento di Manganelli nei confronti dei lettori, l'atteggiamento terroristico di chi scriveva ogni libro con la stessa violenza e la stessa oltranza di cui è fatto l'Apocalisse ("L'Apocalisse - scrisse con il medesimo visibilio - è senza dubbio di questi libri mostruosi e inesauribili che sfidano qualsivoglia classificazione, che stremano i traduttori, affrangono i commentatori, eccitano e smarriscono i lettori in un labirinto di orrori, di invenzioni, di enigmi, di emblemi"). Ha osservato Giuliano Gramigna che "il contubernio, la convivenza fra Manganelli e il suo lettore, è volentieri acre, rischioso, provocatorio", e che egli "mette il suo interlocutore ideale non già con le spalle al muro, ma con le spalle al vuoto". Con l'irresponsabile coerenza di chi, sacerdote o demente, è tutto del proprio dèmone, effettivamente Manganelli non ha mai cercato di lenire il disagio del lettore, ed anzi questo disagio ha scientificamente coltivato: quasi lo ritenesse adeguato balzello da imporre in via preliminare a chi si apprestava a interrogarlo o, peggio ancora, a "interpretarlo". Ma in tanto scontroso disdegno non c'era solo il dispetto; c'era anche una sorta di pedagogia negativa volta a spogliare il lettore delle sue aspettative, del suo autobiografismo, del suo stesso diritto all'esistenza. "Sognato dai propri sogni" e "scritto dalle proprie parole", questo scrittore così rigoroso da costruire tutti i suoi libri intorno alla propria assenza pretendeva che nemmeno il lettore esistesse come tale: al suo posto ammetteva bensì una pagina bianca, la gloriosa passività della vittima sacrificale. Il piano di edizione completa presso l'Adelphi (l'ultimo uscito, Il rumore sottile della prosa, pagine 261, lire 38.000), lo stillicidio di inediti pubblicati su riviste, le affettuose commemorazioni da parte dei letterati che lo conobbero non tolgono che Manganelli resti uno scrittore per pochissimi: comunque un autore più citato che letto (esattamente come il "suo" Daniello Bartoli) e più letto che amato; un autore che anche molti critici considerano più per la sua poetica che per la sua pagina; un autore troppo spesso relegato nella dimensione riduttiva dell'"acrobazia verbale", del "funambolismo", del "gioco dell'intelligenza"; un autore, infine, che non ha ancora avuto lo spazio che merita in sede di storia letteraria. Oggi non c'è storico o studente che, giustamente, non dia per scontata la grandezza di Gadda: tanta unanimità di consensi, tuttavia, non può non insospettire, non suonare a indizio di conformismo, soprattutto quando poi si senta argomentare che, mentre l'espressionismo di Gadda nasce dal " furore" e da una "necessità", la lingua di Manganelli (che aspetta ancora il suo Contini) indulgerebbe troppo spesso al manierismo. E come se prendessero alla lettera una delle sue tante provocazioni, questi cautelosi vanno negando che egli fosse un vero "scrittore": sommo retore e sommo linguista senz'altro, scrittore in nessun modo, se è scrittore chi comunque commercia con la vita e con il proprio tempo. Manganelli aveva gli arcaismi e le figure retoriche nel sangue, e per lui l'universo aveva la struttura e i confini dei dizionari: ma se il senso della "realtà" è la morte, o il Nulla, e se uno dei più saldi principi estetici è la corrispondenza fra la "cosa" e la forma, come non riconoscere nella scrittura ritualmente geroglifica di Manganelli o nelle sue mentite cristallografie una profonda, devastante "verità"? Sono convinto che in letteratura il gioco non abbia mai bisogno di elemosinare giustificazioni e che abbia in se stesso la sua serietà, ma ugualmente, e con pedanteria, voglio sottolineare che quanto a "furore" e a "necessità" Manganelli non è secondo a nessuno: nemmeno allo stesso Gadda, che talvolta riusciva a rimpicciolire l'inferno nel fastidio per una motocicletta o nel disprezzo per una casa mal progettata, laddove per Manganelli scrivere era sempre e soltanto interloquire con le proprie Furie. Scendere negli orrori innominabili delle proprie viscere e risalire con in mano pietre preziose, emblemi araldici, libri d'ore miniati: è l'ossessiva devozione a questo percorso verticale a fare di Manganelli uno scrittore estremo e purissimo, tanto meno distratto dai fenomeni dell'esistenza quanto più concentrato nell'operazione alchemica di cavare inchiostro dorato dal sangue, decorazioni dall'angoscia, il canto dall'incubo. Per questo Manganelli offre un'idea di letteratura che per il senso comune è insieme troppo alta e troppo bassa: sacra scrittura e buffoneria, sillaba angelica e informe grugnito; nella sua grandezza intuiamo qualcosa di animalesco che non vuole essere riconosciuto. E come in Céline, come in Mishima, il tossico gettato sul lettore è simultaneamente difesa, pudore, confessione, vendetta. La letteratura, si legge in un suo taccuino inedito del 1951, non è autentica "se non ha anche addosso qualcosa di sporco, di fastidioso, di disgustoso"; trent'anni dopo, sul Corriere della Sera, avrebbe raccomandato le letture inquietanti, "giacchè libri che non danno disagio sono libri disertati dagli dèi". Scrittore aristocratico, magico, Manganelli respinge o innamora: o non lo si considera o lo si considera un massimo. Di lui si può ben dire ciò che egli ebbe a dire di Dante: "Era inattuale già ai suoi tempi: un dispettoso, anacronistico, chimerico scrittore; figuriamoci oggi. E avete visto come scrive?".

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Il fascino morboso dei sepolti vivi
  di MICHELE MARI (Corriere della sera sabato, 16 ottobre 1990)

Il fascino morboso dei sepolti vivi "Essere sepolti vivi è, non v'è dubbio, la più terribile delle stremità mai toccate in sorte a misero mortale": lo afferma Edgar Allan Poe in uno dei suoi racconti più famosi, "La sepoltura prematura", e sembra confermarlo la fortuna letteraria che questo tema ha avuto non solo dopo Poe ma anche prima di lui. Quindici racconti di altrettanti autori sono stati raccolti da Enrico Badellino in una bella antologia aperta da una prefazione del compianto Malcolm Skey. Gli autori sono Gautier, Flaubert, Poe, Zola, Maupassant, Kipling, Donati, Bierce, Meyrink, Nesbit, Wharton, Ashton Smith, Woolrich, Bloch e Belen, e la loro riunione dimostra nel modo più impietoso la schiacciante superiorità delle penne ottocentesche su quelle novecentesche (sole eccezioni l'illeggibile "scapigliato" Cesare Donati e Cornell Woolrich, unico moderno a reggere il confronto): la spiegazione, probabilmente, sta nella progressiva perdita di credibilità del decor cimiteriale più che nella naturale consunzione del tema. Del resto chi, oggi, poco prima di morire lascerebbe un biglietto come quello che lasciò Chopin, così ossessionato dall' idea della sepoltura prematura da ordinare di "aprire" il suo cadavere prima di sotterrarlo? Nel suo saggio introduttivo Badellino indaga la sostanza psichica del motivo letterario in questione, persuasivamente accostato alla teologia negativa del Labirinto e dunque all' opera di autori come Sade, Potocki, Kafka e ovviamente Borges. Ma sarebbe interessante estendere l'attenzione anche alla psicologia del lettore, al cui sadismo, masochismo e voyeurismo mi sembra che la fortuna di questo filone debba quasi tutto: non diversamente dal protagonista del racconto di Clark Ashton Smith, infatti, ogni lettore, "attirato da un fascino morboso, fa ricerche su questo orribile tema, e ogni caso capitato ad altri diventa il suo, la loro sofferenza la propria".

Sepolto vivo! Quindici racconti dalle tenebre Autori vari, a cura di Enrico Badellino Einaudi, pagg. 272, lire 17.000.

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Il grande Celine? Solo un vigliacco
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 04 gennaio 1998)

Chi volesse sapere come non si deve scrivere la biografia di un artista legga questo Céline di Philippe Alméras (Corbaccio, pagine 558, lire 49.000), studioso che un incauto risvolto di copertina definisce "il più autorevole specialista di Céline": se davvero lo fosse, povero Céline e povera critica céliniana, perché raramente capita di imbattersi in un esempio così evidente di "maldisposizione" di un biografo nei confronti del proprio oggetto. Ad Alméras Céline è palesemente antipatico; la sua fama lo irrita; la sua "aura" è una mistificazione da denunciare: benissimo, avesse avuto il coraggio e l'onestà di scrivere un libro contro Céline. Il guaio è che al contrario egli si atteggia a "céliniano" zelante, giungendo persino a scimmiottare scolasticamente uno stile ben noto (ad esempio a pagina 322: "...la Rivoluzione, ma allora, qui scusate! quella vera! Supercomunista!"). Avarizia, invidie, venalità, sporcizia, maltrattamenti ai familiari: sappiamo benissimo che non c'è grand'uomo agli occhi del proprio cameriere; ma, appunto, le biografie non devono scriverle i camerieri. Esistono due grandi modelli ideali di biografia: quello erudito-analitico e quello saggistico-sentimentale. Il primo tende al recupero e alla ricostruzione di ogni "fatto", e dà in buona parte per scontati la grandezza del personaggio e il senso della sua opera; viceversa il secondo modello tende a dare per scontato l'accertamento filologico dei fatti, privilegiando l'aspetto interpretativo e valutativo della ricerca. È ovvio che nessuno dei due modelli è del tutto autosufficiente e che ogni contaminazione è lecita: meno lecito mi sembra imbastardire entrambi i modelli trasferendo all'uno i criteri dell'altro. Questo ha appunto fatto Alméras, che per un verso, ricorrendo arbitrariamente all'alibi della scrittura saggistica, ha omesso una miriade di fatti e fatterelli (soprattutto date) salvo subissarne il lettore quando gli interessava, e che per altro verso ha avvilito l'"interpretazione" di Céline scrittore subordinandola al fiscalismo del riscontro effettuale. In Rigodon (è un esempio, potrei farne cento) Céline narra il suo viaggio in Germania con i colori dell'epica apocalittica? Diciotto giorni a piedi e ventisette cambi di treno? Mente!, grida Alméras, e corregge: "Il viaggio, che sembra interminabile, dura tre giorni". E allora? Allora mi chiedo: si può, oggi, al termine di un secolo di teoria della letteratura, dopo l'idealismo, dopo il formalismo, dopo lo strutturalismo, dopo il decostruzionismo, dopo tutto, scrivere una biografia così, paleo-positivista senza nemmeno l'onesta acribia dei positivisti? Quando Alméras commenta alcune inesattezze epistolari del giovane Céline in Africa osservando che egli "ha già orrore della realtà, preferisce imbastire storie" è ancora nel lecito, anche se uno studioso più sensibile avrebbe sfruttato il rilievo per cogliere l'epifania dello scrittore anziché l'infingardaggine del "colono"; ma quando allo stesso setaccio sono fatti passare il Viaggio al termine della notte o Da un castello all'altro è come rimproverare Dante perché cantava Beatrice essendo invece sposato con Gemma Donati (e Alméras ha avuto l'impudenza di riportare un'aurea frase di Jean d'Ormesson: "La vita del romanziere non ha grande interesse, e le sue idee, meno ne ha, meglio è"). Ne esce fatalmente un Céline vigliacco, opportunista, calcolatore, indebitamente lagnoso; e naturalmente un Céline tout-court nazista, senza che la complessa questione del suo antisemitismo provochi un solo dubbio, un solo moto di curiosità esplicativa (dove non sfugga la duplicità di peso e misura: un'iperbole nel Voyage è "menzogna", ma un'iperbole in Bagatelles è "verità"). Non basta: Alméras ci doveva pure affliggere con insopportabili lepidezze, come quando, a proposito del rifiuto di Gallimard di versare a Céline un nuovo anticipo, commenta (giocando sul titolo di Mort à crédit): "Credito è morto", o quando, avendo Céline negato davanti a un interlocutore ebreo di essere filoariano, chiosa fra parentesi: "che fa rima con ruffiano". Non c'è nulla da aggiungere. La vita di Céline è cosa troppo profonda perché un Alméras possa rimpicciolirla: anzi le vite, perché come scrisse Céline già nel 1933, "ne ho avute almeno tre o quattro per quel che mi risulta".

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Jean Paul, l'incubo di sognare il futuro
  JEAN PAUL, Sogni e visioni Mondadori, Pagg. 294, L. 12.000
  di MICHELE MARI (Corriere della sera giovedì, 18 marzo 1999)

Chi ancora dubitasse che il male è molto più redditizio del bene, potrà convincersene leggendo uno dei libri più impressionanti usciti in questi ultimi tempi: l'antologia, curata da Marina Bistolfi, dei "sogni letterari" sparsi da Jean Paul nelle proprie prose. Spirito notturno e visionario, capofila del Romanticismo tedesco, Jean Paul (pseudonimo di Johann Paul Friedrich Richter, 1763-1825) è stato sicuramente, insieme a Novalis, lo scrittore più aperto alle suggestioni dell'inconscio, al punto da identificare poesia e sogno, ispirazione e delirio, verità e "irregolarità". Svolti come capricci musicali, i suoi libri hanno appunto nelle descrizioni di sogni i momenti più intensi: e sono tutti momenti, fatalmente, di estrema angoscia. È vero che Jean Paul, riflettendo il proprio dissidio interiore fra nichilismo e religiosità, si ripromette di rappresentare ogni volta tanto la dannazione quanto la salvezza, passando nello stesso sogno da visioni infernali a visioni paradisiache: ma è anche vero che la sua pagina sa splendere solo quando è fascinata dall'incubo. Si immagini un quadro a cui abbiano collaborato Bosch, Füssli e Munch e si avrà un'idea dell'effetto lasciato da questa antologia, popolata di angeli caduti e di angeli sterminatori, di carri colmi di mani mozze e di bulbi oculari, di lande vetrificate e di demoni che ti sussurrano: "Ti ho tirato fuori dal tuo cervello, tu sei morto da tempo". Particolarmente ossessivo il tema del campo di battaglia coperto di cadaveri, e del tenebroso combattimento che quei cadaveri continuano sottoterra. Altrove, borgesianamente, i morti "simulano la terra", mentre nella splendida "Lamentazione di Shakespeare morto" essi dormono "e di tanto in tanto sorridono: ma quelli svegli non sorridono". Barocche e solenni, le visioni di Jean Paul prefigurano non solo gli incubi di Poe ma anche certe apocalissi protofantascientifiche, dalla "Macchina del tempo" di Wells alla "Nube purpurea" di Shiel; altre, le peggiori, sembrano una descrizione del Duemila.

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Kafka: cani e sciacalli dal volto umano
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 27 febbraio 2000)

Che nesso vi era per Kafka tra gli animali e l' ebraismo? Perché l'ebraismo si collegava nella sua immaginazione con molteplici forme della vita animale?" si chiede Irene Kajon presentando queste "Cinque storie di animali", e subito mi è venuto in mente il finale di una poesia - "La capra" di Umberto Saba - che alle scuole medie veniva proposta come il manifesto ufficiale del sentimento ebraico e al tempo stesso come il suo trascendimento: "In una capra dal viso semita / sentivo querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita". E certo, anche se in una lettera a Martin Buber lo stesso Kafka mise in guardia dal didascalismo invitando a leggere questi racconti non come "similitudini" ma come "storie", la questione non e' di quelle che si possano facilmente aggirare relegandole nel limbo dell' extraletterarietà. Coesione antropologica e diaspora sono i due poli della contraddizione che agita queste pagine dalla prima all'ultima, pagine abitate da sciacalli ("Sciacalli e arabi"), scimmie ("Relazione per un'Accademia"), cani ("Indagini di un cane"), talpe ("La costruzione") e topi ("Josefine"), ma sempre ossessionate dal problema della razza, della tradizione, dell'identità. Perché, come osserva nella propria angoscia il solitario protagonista del terzo racconto, "Nessuna creatura vive ovunque dispersa come noi cani (...). Noi, che vogliamo restare uniti - e sempre ci riusciamo nei momenti di emergenza - proprio noi viviamo separati gli uni dagli altri". Ma se la rappresentazione negativa della via individualistica sembra esortare leopardianamente a una "social catena" dell'ebraismo, in altri momenti è la stessa solidarietà a tradursi in un senso di maledizione: "Nel nostro popolo non si conosce giovinezza, a malapena si conosce l'infanzia" lamenta un topo, e noi riconosciamo la voce di chi, in cambio di un po' di abbandono ("in netta contraddizione con la nostra migliore intelligenza"), rinuncerebbe all' antico Patto.

FRANZ KAFKA, Cinque storie di animali Donzelli, pagine 144, lire 25.000

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Ciacole e risacche liriche nella Venezia di Scarpa
  IN GITA A VENEZIA CON TIZIANO SCARPA Paravia, Pagine 88, Lire 14.000.
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 16 aprile 1999)

Nella sua bella e inquietante "guida" di Torino Dario Voltolini aveva scelto la via analitica della frammentazione, restituendo la città attraverso una galassia di percezioni e di immagini mentali spesso così veloci e assolute da coagularsi in capitoli di poche righe ciascuno. Ne emergeva alla fine una calviniana "città invisibile", non tanto virtuale, comunque, da escludere la desolazione delle tangenziali e dei capannoni industriali: insomma una Torino sironiana. Improntata a una scelta diametralmente opposta (ma con uguale felicità di risultato) mi sembra ora la Venezia di Tiziano Scarpa: scelta opposta perché, come assecondando il ciacolare natio o lo sciabordìo dei canali, Scarpa ha sottoposto i luoghi della città a un ininterrotto processo di affabulazione in cui vengono a sciogliersi aneddoti e divagazioni storiche, "moralità" e ricette culinarie, pettegolezzi e lezioni di fonetica, segnalazioni di opere d'arte e riflessioni ecologiche. In tanta continuità (che ricorda l'enciclopedico e dotto-frivolo chiacchiericcio delle Notti attiche di Aulo Gellio) l'unico principio di articolazione è costituito dai diversi sensi e organi di approccio alla città (Piedi, Gambe, Cuore, Mani, Volto, Orecchie, Bocca, Naso, Occhi), ma è un principio frequentemente violato dalle spinte centrifughe e dal procedimento analogico-associativo che informano il libro. Il quale, nonostante risulti idealmente rivolto a lettori molto giovani (con le relative concessioni tematiche che questa opzione comporta), è dall'inizio alla fine intessuto di altri libri, nella miglior tradizione riflessa dei "viaggi sentimentali" (qui le voci consorti e ispiratrici sono Ruskin, Hofmannsthal, James, Apollinaire, D'Annunzio, Proust, Mann, Hrabal, Zanzotto, Barbaro ed altri). E proprio la capacità di tradurre in letteratura la quotidianità e la bassezza mi sembra la dote migliore di Scarpa che sa trasfigurare liricamente una miriade di chewing-gum appiccicati a un sottoportico come "opera musiva astratta, ganasciofattura collettiva di mastri masticatori mosaicisti".

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La vita è sogno. Ma dove sono finiti gli incubi di Baudelaire?
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 21 agosto 1998)

MAURO MANCIA Breve storia del sogno Marsilio Pagine 114. Lire 24.000

Alla fine, la definizione più bella del sogno resta quella di Artemidoro di Daldi (II sec. d.C.): "Un'invenzione multiforme dell'anima". Come la maggior parte degli onirocritici antichi, anche Artemidoro pensava che il significato dei sogni fosse legato essenzialmente al futuro, al punto da sospettare che in certi casi, più che presagi, essi fossero vere e proprie cause dell'evento adombrato. Legata ai fatti esterni più che alla psicologia del sognatore, la garanzia di verità del sogno era comunque insidiata dal capriccio di un dio malevolo o dispettoso: e proprio nella sua possibile falsità il sogno autorizzava interpretazioni aperte al linguaggio fantastico dell'inconscio. Editi in passato da Dario Del Corno, i maggiori esponenti dell'onirocritica e oniromantica greca (da Aristandro ad Apollodoro, da Artemone a Stratone, da Posidonio a Elio Aristide, insieme al grande Sinesio e ai bizantini) occupano con il citato Artemidoro una cospicua parte della "Breve storia del sogno" pubblicata da Mauro Mancia: un profilo molto informato e vivace che tuttavia, sbilanciato com'è sui greci e su Girolamo Cardano, appare viziato da sproporzioni e lacune che (stante almeno il titolo del volume) non possono non lasciare perplessi. Manca in toto la civiltà latina non cristiana e manca l'Umanesimo; manca l'età barocca e mancano così il Settecento come l'Ottocento: invano dunque il lettore cercherà menzione del "Somnium Scipionis" o dell'"Hypnerotomachia Polyphili" o della "Vita è sogno" o degli incubi baudelairiani (quando invece le pagine su Dante e Boccaccio dimostrano l'attenzione di Mancia per i "sogni letterari"): ma nemmeno troverà cenno delle considerazioni dedicate al sogno da Ignazio di Loyola o da Condillac e dagli enciclopedisti o dal Leopardi dello "Zibaldone" o dai positivisti (a partire dalle note sui sogni dei criminali redatte da Cesare Lombroso). E tuttavia insistere sulle assenze può essere ingeneroso, specialmente quando le presenze annoverino una personalità del fascino di Cardano, la cui angoscia, a libro chiuso, continua a vibrare di un'insopportabile modernità.

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L'altro Conan Doyle, inarrivabile antenato di Jurassic Park
  ARTHUR CONAN DOYLE Il mondo perduto Editori Riuniti, Pagine 268, lire 9.500
  di MICHELE MARI (Corriere della sera sabato, 05 settembre 1998)

Sembra incredibile, ma nella maggior parte delle storie della letteratura inglese Arthur Conan Doyle non è nemmeno menzionato. Eppure alla penna di questo scrittore si deve non solo il ciclo del più famoso investigatore di tutti i tempi, ma un corpus di oltre cento romanzi storici, fantastici e scientifico-didattici. Di questi ultimi l'unico tradotto è "Il mondo perduto" (1912), riproposto ora dagli Editori Riuniti nella stessa versione pubblicata 15 anni fa da Theoria. Letto questo libro risulta abbastanza pacifico che Michael Chricton ne ha tratto l'idea centrale del suo Jurassic Park (la cui continuazione si intitola per l'appunto, sia caso o sia onestà, "Il mondo perduto"), con la differenza che nel best-seller americano l'incontro con i grandi sauri del Mesozoico è reso possibile dalla ricerca scientifico-tecnologica, mentre nel suo incunabolo inglese si fonda sull'ipotesi - solo parzialmente darwiniana - di una mancata evoluzione delle specie in condizioni di assoluto isolamento. Purtroppo, però, risultano chiari anche alcuni limiti. Innanzitutto, il connubio di invenzione romanzesca e didascalismo scientifico è sempre molto rischioso, specialmente quando non si abbiano la levità surreale di Carroll e di Abbott o la forza visionaria di Wells, o viceversa quando non si abbia l'umiltà di tenere separate le parti fantastiche e le parti scientifiche secondo la soluzione di Verne. Inoltre, Doyle sembra qui preda di un demone di brillantezza che esplicandosi nella satira del le querelles accademiche corrompe inopportunamente la solennità dell'avventura. Solennità che tuttavia è tutelata da un senso assolutamente antiscientifico della mostruosità ("il muso di quell'essere era il più assurdo grondone che l'immaginazione di un folle scultore medioevale avesse mai potuto concepire [...]. Era il diavolo della nostra infanzia") e da un estro linguistico salgariano che ci conduce a volo "sull'intenso blu scuro dell'ipomaea". Baker Street, da qui, è lontanissima e vicinissima insieme.

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De Botton: esemplare perché non tradusse le sofferenze personali nell'opera
Leggi Proust e impara a vivere
  I suoi volumi proposti come manuale di comportamento
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 26 aprile 1998)

Ho da poco terminata la lettura di un curioso libretto infelicemente intitolato Come Proust può cambiarvi la vita. Lo ha scritto il giovane Alain de Botton sulla base di un presupposto tanto semplice e logico da rasentare la brutalità: a causa delle sue malattie e delle sue nevrosi Proust "conduceva una vita di spaventose sofferenze fisiche e psicologiche", ma nella Recherche "l'approccio proustiano verso la vita" è armonico, saggio, equilibrato, a tratti persino edificante: quale mostruosa opera di sublimazione dunque, quale vittoria sopra se stessi! Perché non approfittarne? Perché non economizzare quello sforzo immane ricavandone una precisa serie di insegnamenti pratici? L'idea, come si vede, è abbastanza ingenua da riuscire insieme consacrante e dissacrante, tale da insospettire a un tempo proustiani e non proustiani, "stilisti" e "vitalisti", lettori puri e impuri. Dalla sua de Botton ha però una provvidenziale forma di sprezzatura che gli consente di muoversi con garbo e con umorismo nel periglioso terreno, e che insieme ammorbidisce la pretesa di dare per scontata in tutti la conoscenza capillare della Recherche. Ma la qualità migliore del libro mi sembra la continua vigilanza con cui il pensiero (l'animo) di Proust è tenuto distinto dal "proustismo": esemplare in tal senso l'ultimo capitolo, che dopo aver descritto con raccapriccio un pellegrinaggio nel "tempio" proustiano di Illiers-Combray ("Dentro una gigantesca vetrina di plexiglas [...] qualcuno ha messo una tazza bianca da tè, una vecchia bottiglia di acqua di Vichy e una madeleine solitaria, dall'aspetto curiosamente unto, che a un'osservazione più attenta si rivela essere di plastica ...") si conclude con questo monito: "non è Illiers-Combray che dobbiamo visitare: se vogliamo davvero rendere omaggio a Proust dobbiamo cominciare a guardare il nostro mondo attraverso i suoi occhi, e non guardare il suo mondo attraverso i nostri occhi". Ma cosa significa guardare il mondo con occhi proustiani? De Botton ce lo suggerisce rimandandoci a due pittori in cui Proust proiettò una parte cospicua della propria poetica: uno è l'immaginario Elstir, che nella Recherche fonde in se stesso i tratti di alcuni Impressionisti; l'altro è Jean-Baptiste Chardin, cui Proust dedicò un saggio. Entrambi "rivelano" la bellezza nascosta nella quotidianità (un rimorchiatore per Elstir, brocche e pagnotte per Chardin), entrambi dimostrano che la classicità, o il mistero, o il rimpianto, sono regali fatti alle cose dal nostro sguardo, e non proprietà intrinseche delle cose. Senonché, non dandosi in Proust sguardo che non sia memoriale (cioè che non privilegi sempre la dimensione temporale delle cose), dovremmo piuttosto parlare di regali fatti dalla memoria, come lo stesso de Botton sembra ammettere quando scrive che "la madeleine induce a rivalutare piuttosto che a ricordare". Molto meno convincente è invece de Botton quando pretende di insegnarci il gioco di riconoscere figure a noi familiari nei personaggi della Recherche (come se ne dovesse automaticamente derivare una lievitazione artistica del nostro mondo), o quando, con un buon senso che ha del grottesco, ci invita a non prendere esempio da madame Verdurin, o quando ci ricorda l'impossibilità di essere autentici nelle conversazioni con gli altri: qui il tono e il livello sono davvero da risposta alle "lettere al direttore", sempre che non si tratti della suprema e più astuta forma di snobismo del libro.

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Léo Malet, piccolo miracolo del "noir"
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 21 maggio 2000)

"Ho letto tutti i suoi libri, insieme agli unici leggibili in questo periodo: quelli di Rex Stout e di Simenon, quando racconta le avventure di Maigret...": chi scrisse queste parole a Léo Malet nel 1956 non era un lettore qualsiasi, ma René Magritte. Il nome non è casuale, perché negli anni '30 Malet era stato molto vicino ai Surrealisti e in particolare a Breton; e proprio Magritte, nel 1969, avrebbe illustrato la copertina di quella Trilogie noire che consacrava Malet come maestro del noir francese, recuperando un aspetto della sua produzione messo in ombra dal grande successo nel genere del "giallo" (protagonista di una trentina di romanzi, in Francia il suo Nestor Burma è secondo in popolarità solo a Maigret). La vita è uno schifo (La vie est dégueulasse, 1948) è il romanzo che apre la Trilogie, e leggendolo si può capire perché nel 1969 sia tanto piaciuto allo stesso editore, Eric Losfeld, che in quel periodo stava ripubblicando i romanzi "maledetti" di Boris Vian. Infatti, per quanto Malet si fosse formato alla scuola del giallo americano "hard-boiled" (tirocinio coperto da diversi pseudonimi, il più noto dei quali è Leo Latimer), il suo noir non ha nulla del romanzo d'azione, bordeggiando piuttosto le regioni oscure della patologia psichica e conformandosi al modello della tragedia classica. Fatti di sangue non mancano: ma sono appena sfiorati dal narratore, che li riduce a sintomi o a epifenomeni di un "male oscuro" (la vocazione autodistruttiva del protagonista) ortodossamente descritto ma non certo illuminato dall'anamnesi con cui il libro si chiude. Meno morboso di Lord Jim e meno contorto di Raskolnikov, Jean Fraiger ha con il mondo un rapporto di ingordigia infantile che a me ha ricordato da vicino Bel-Ami, e forse la grandezza di Malet sta proprio in questo: aver creato e "tenuto" una perfetta atmosfera da noir (con esiti superati solo da James Cain) senza ricorrere ad alcuno stereotipo del noir: cosa che, per una letteratura "di genere", è un miracolo.

LÉO MALET La vita è uno schifo Fazi editore pagine 186, lire 24.000

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Sul " Corriere " l'horror di Sclavi. Da domani l'estate si tinge di nero
di MICHELE MARI (Corriere della seradomenica, 19 luglio 1992 )

"Sono un fumettaro". "Fantastico". "Mica tanto". "Testi o disegni?". "Testi, soprattutto. Ma ho fatto anche i disegni, qualche volta. E una volta perfino l'impaginatore". "In realtà è uno scrittore, anche se non lo vuole assolutamente ammettere". Questo frammento di dialogo, tratto dal romanzo di Sclavi Il nemico che da domani appare a puntate sul "Corriere" (e a settembre in volume per i tipi di Camunia), ha tutta l'aria di un'apertura autobiografica; un'apertura perfino civettuola, oggi che l'ideatore di Dylan Dog ha all'attivo anche diverse e acclamate opere narrative (Film, 1974; Guerre terrestri, 1978; Mostri, 1985; Tre, 1988; Dellamorte Dellamore, 1991; Sogni di sangue, 1992), ma che nel 1978, quando Il nemico fu edito da Rusconi in forma scorciata e con il titolo Guerre terrestri, doveva avere un senso ben più serio e pensoso. In effetti, se è vero che in Sclavi la scrittura letteraria e la sceneggiatura hanno convissuto fin dagli esordi, nutrendosi e stimolandosi reciprocamente (laonde certe raffinatezze culturali nel fumetto, e l'asciutta vigorìa della prosa), è altrettanto vero che la mostruosa fortuna di Dylan Dog ha a lungo oscurato le sue doti narrative. Nei trentatrè capitoletti in cui si articola la cantica mondana del Nemico queste doti hanno modo di spiegarsi a sufficienza; ma qui non tanto vorremmo parlare del senso del ritmo, o dell'economia dei dialoghi, o della capacità di sfruttare al meglio la "memoria" cinematografica del lettore, quanto soffermarci su alcune ossessioni fantastiche di Tiziano Sclavi. Se essere scrittore vuole anche dire cullare una propria ossessione fino a farne il "tema" da cui dedurre ogni variazione narrativa, ebbene non c'è dubbio che Sclavi sia uno scrittore. Torna anche qui, infatti, uno dei topoi della sua immaginazione, cioè l'idea che la realtà esterna sia interamente simulata, o quantomeno in gran parte controllata, da qualcuno che ci adopera come cavie (l'incunabolo in questo tema è probabilmente They, un racconto scritto da Robert Heinlein nel 1941 che Sclavi potrebbe anche non aver letto); altro motivo familiare, soprattutto a chi conosca Dellamorte Dellamore e Sogni di sangue, è quello dell'isolamento: strade interrotte, nebbie invalicabili, ideali campane di vetro ritagliano un'area ove le leggi della fisica e le convenzioni umane, come nello statuto del sogno, sono sospese (e va dato atto a Sclavi di essere riuscito a dare a queste "zone d'ombra" il volto delle sue terre pavesi, trovando l'orrore là dove più pacioso è il paesaggio). Ma non dimenticherei almeno un'altra ossessione, di tipo meteorologico; quasi tutte le storie di Sclavi si svolgono sotto un'immutabile cappa, sia nebbia sia un'innaturale calura; vengono in mente le brume di certi noires francesi, le afe di Chandler, e perfino la luce accecante che domina nello Straniero di Camus. Il motivo centrale del Nemico è comunque la rivolta delle cose, delle bestie, della natura in generale; per le prime il riferimento d'obbligo è a Stephen King (molte delle cui crudeltà elettrodomestiche, tuttavia, sono posteriori al 1978), per le seconde, come esplicita lo stesso autore, il modello è rappresentato dagli Uccelli di Hitchcock. Ma per quel che riguarda le pecore aggiungeremmo The Inheritors, un racconto scritto da G.M. Glaskin una trentina d'anni fa e tradotto nel 1974 su "Urania" con il titolo Beati i mansueti: questa volta ci stupiremmo se Sclavi non l'avesse letto.

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Linati: il romanzo d'amore di Volta
  di MICHELE MARI (Corriere della Sera, Mercoledi 22 novembre 2000)

Trattato letterariamente un innamoramento di Alessandro Volta nel periodo degli esperimenti elettrici che lo avrebbero portato all'invenzione della pila si lascia immaginare nei termini delle Affinità elettive goethiane o dei "gialloni" (i fulmini, appunto) descritti da Gadda; o ancora nei modi pseudoscientifici di certo Morselli o del Bioy Casares dell' Invenzione di Morel. Nulla di tutto questo in Carlo Linati (Como, 1878-1949), che disdegnando i vantaggi narrativi di un’incursione nel folklore scientifico ha scritto fra il 1942 e il 1944 un romanzetto "classico" fatto per metà di bozzetti (scene della provincia pavese e comasca) e per metà di introspezione psicologica. Il tono dominante è palesemente quello del Settecento di maniera: quindi non quello di Parini o di Longhi, nonostante gli espliciti cenni dell' autore in tal senso, ma quello delle signorine di Guido Gozzano. Dunque un Settecento "falso", al quale, incongruamente, Linati cerca di in fondere vitalità attraverso il ricorso (invero discontinuo) a un lessico dannunziano: onde per cui un vecchio traghettatore sul Naviglio Pavese diventa "il navalestro", e in una villa troviamo "una ricca scalea fiancheggiata da balaustrate". Eppure, sul piano della lingua, proprio l'attività sperimentale di Volta sarebbe splendidamente venuta in soccorso al gusto dell' autore; si pensi solo a espressioni voltiane come "pistola elettroflogopneumatica" o "scintilla commovente". Insomma una vicenda narrativamente un po’ sprecata, questa del contrastato e clandestino amore dello scienziato per la cantante Marianna Paris: tanto che alla fine le immagini che più restano in mente sono quelle del machiavelliano "ingaglioffimento" del grande scienziato che "volentierissimo si mescolava ai contadini sull' aja", dove mangiando "con loro i maccheroni, la polenta, i risi" raccontava "le più strane cose del mondo". La stessa chiave domestica, a ben vedere, dei tanti ritratti dedicati da Linati ad illustri lombardi come Balestrieri, Tessa, Gadda.

CARLO LINATI Cupido fra gli alambicchi Interlinea, pagg. 126, lire 20.000

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Löns, il romanzo dei "lupi difensori"
  di MICHELE MARI (Corriere della sera mercoledì, 11 ottobre 2000)

Pur avendo origini molto più remote (se ne conosce ad esempio un'attestazione in Plauto), il motto Homo homini lupus divenne celebre solo nel 1651, anno di pubblicazione del Leviatano di Thomas Hobbes. Appena tre anni prima, nel 1648, la Pace di Westfalia poneva fine a una delle più sanguinose guerre prenapoleoniche: la Guerra dei Trent'anni. Fra le regioni più devastate dal conflitto, la Sassonia si segnalò per un fenomeno senza precedenti: la costituzione spontanea di eserciti di contadini che volevano difendersi dalle continue scorrerie degli Imperiali, degli Svedesi e dei mercenari sbandati. La più famosa di queste compagnie fu quella dei Wehrwölfe, nome che significa "Lupi difensori" ma che non poteva non essere confuso con l'omofono Werwölfe, "Lupi mannari". Pubblicato nel 1910, il romanzo di Hermann Löns racconta in termini mitici la storia del capo dei Wehrwölfe, Harm Wulf, degno discendente di quei Germani che trucidarono le legioni romane di Varo . Ne nasce un libro curioso che sembra scritto dall' ottimo Nono Majellaro (in assoluto il nostro migliore affabulatore di truculenze medioevali e rinascimentali), e spiace scoprire dall' introduzione di Widar Lehnemann di quante controversie e di quanti imbarazzi sia costellata la sua fortuna, giacché del Wehrwolf, a più riprese, si sono impossessati i movimenti nazionalisti di estrema destra (né credo gli abbia giovato l' entusiastica celebrazione tributatagli nel 1942 da Ernst Jünger, che combattendo sul fronte russo ritrovava nelle pagine di Löns, malgrado una certa "maniera xilografica", lo spirito eterno della ferina bellicosità dell' uomo. E sì che Hermann Löns, a dispetto di una condotta di vita piuttosto "scapigliata", visse solo per i boschi e le sue creature più minuscole, tanto da essere soprannominato "Il Coleottero" e da legare il proprio nome alla scoperta di una nuova specie di lumaca. Le prime parole del romanzo, del resto, sono queste: "In principio la landa era vuota e deserta. L' aquila di giorno pronunciava la sua grande parola, la notte era del gufo; orso e lupo erano i signori della terra".

HERMANN LÖNS Il Wehrwolf Herrenhaus Pagine 272, lire 32.000

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L'Ultimo Commensale
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 09 maggio 1999)

Quando il signor Pinastro seppe che dopo cent'anni di oneste porzioni di arista con patate la trattoria Albertazzi sarebbe stata rilevata da un negozio di telefonini, ebbe la prima volta nella sua vita un pensiero etico, e decise che avrebbe salutato quel luogo morituro come l'Ultimo Commensale. Senonché anche un altro habitué, il signor Farina, ebbe la stessa idea, così quell'ultima sera entrambi giunsero più tardi del solito, entrambi indugiarono innaturalmente fra un'ordinazione e l'altra, entrambi (rimasti ormai soli nella sala) masticavano con esasperante lentezza sorvegliandosi di sottecchi. A mezzanotte il padrone li buttò fuori, ma anche in strada i due contendenti continuavano a ruminare un bolo di crostata, e continuavano, e continuavano, e ancora oggi, se andate a intervistarli, esibiscono frammenti putrefatti di cibo conservati in un barattolino. "Come vede, non ho ancora finito", dicono, e noi per questo li amiamo.

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Il dilemma Leopardi tra ragione e poesia
  L'intensità dei versi e sorretta da una consapevolezza filosofica
  di MICHELE MARI (Corriere della sera domenica, 20 giugno 1999)

Qualsiasi studente liceale che riceva un'educazione letteraria appena decente sa che nella storia della critica leopardiana c'è un anno fondamentale a partire dal quale il grande poeta è stato letto in modo nuovo e irreversibile. Quest'anno-zero della "nuova critica leopardiana" è il 1947, l'anno in cui - impara sempre il nostro studente - due valenti e coraggiosi esegeti liquidarono il riduttivo cliché (di matrice idealistica) di un Leopardi "idillico", vero poeta soltanto negli incantamenti cosmico-naturalistici o nella patetica auscultazione del proprio animo. Contro questa limitazione i due interpreti recuperarono al ritratto poetico di Giacomo Leopardi le sue componenti "impure", dagli impeti oratori a una combattività di stampo eroico alla lucidità intellettuale alla robustezza filosofica, dimostrando l'impossibilità di separare la poesia dal pensiero e insistendo per questo sulla continuità dei Canti con le Operette morali e con lo Zibaldone. Sto parlando naturalmente di Cesare Luporini e di Walter Binni, autori in quel 1947, rispettivamente, di Leopardi progressivo e della Nuova poetica leopardiana. Ora, mentre Binni (che aveva abbozzato le proprie tesi già nel 1935) ha poi pubblicato altri importanti saggi leopardiani, il nome del filosofo Luporini è rimasto legato per gli italianisti a quel primo titolo, originariamente apparso come capitolo del volume Filosofi vecchi e nuovi quindi ristampato a sé nel 1980 e ampliato nel 1993, anno della morte dell'autore. Un titolo provocatorio, Leopardi progressivo (basterebbe pensare allo scherno con cui Leopardi considera le "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità), con il quale il marxista Luporini siglava l'impegno democratico del poeta e (segnatamente nella Ginestra) la sua magnanima esortazione agli umani a consorziarsi in social catena. Certo l'idea di un Leopardi socialista ante litteram era eccessiva se non inaccettabile, ma di quella forzatura, come hanno riconosciuto alcuni dei maggiori leopardisti, dallo stesso Binni a Sebastiano Timpanaro, c'era un fisiologico bisogno per reagire con efficacia alla consolidata interpretazione idealistica di Leopardi. E infatti non tanto ha contato la suggestione di un Leopardi "progressista" (gli ultimi decenni hanno al contrario insistito sul suo nichilismo), quanto l'invito a considerare la poesia leopardiana nel suo substrato filosofico: un invito successivamente raccolto da lettori di formazione e orientamento diversissimi come Blasucci, Prete, Severino, Rigoni e altri. Che lo stesso Luporini avvertisse il bisogno di tornare radicalmente sull'argomento appariva già da alcuni brevi interventi dedicati a Leopardi poco dopo il suo ottantesimo compleanno (era nato nel 1909): ma, nonostante qual che discreto accenno, nulla poteva far supporre che egli stesse attendendo a un volume così ponderoso e ponderato come quello che vede ora la luce per le cure prima della moglie Bianca Maria, scomparsa nel 1995, poi di Sergio Landucci (Decifrare Leopardi, pubblicato dall'editore Macchiaroli, pagine 282, lire 75.000). Interrotto dalla morte il volume è rimasto largamente incompleto, con lacune che se creano rimpianto non pregiudicano tuttavia l'organicità complessiva. Devo subito dire che sono rimasto commosso dall'umiltà con cui una "istituzione" della critica leopardiana come Luporini si è riaccostato al suo autore per chiarirne ciò che egli stesso chiama "il mistero". Mistero che nasce appunto da una poesia tanto più intensa quanto più è sorretta da una consapevolezza intellettuale o senz'altro - che è la tesi generale del volume - filosofica. La quantità degli spunti offerti da Cesare Luporini in pagine concettualmente tesissime impedisce un resoconto attendibile, ragion per cui mi limito ad accennare ad alcuni nodi. Anzitutto la questione della modernità di Leopardi, capace di superare i dilemmi tradizionali (antichi e moderni, classici e romantici, sentimento e ragione etc.) in virtù di uno sguardo non storico-culturale ma filosofico-teoretico: quello stesso sguardo che ne fa un "filosofo della differenza" e quindi un ideale contemporaneo di Husserl e Heidegger. Poi la questione del nichilismo, che pur asserito in misura di gran lunga superiore a quanto si dava nel Leopardi progressivo non sminuisce ma anzi alimenta l'agonismo vitalistico di Leopardi ("Leopardi è un nichilista non perché abbia un atteggiamento negativo verso qualcosa, ma perché è lui piuttosto a sentirsi negato e cancellato. Tutte le sue negazioni e contestazioni sono una risposta a questa situazione"): è significativo a questo proposito che Luporini eviti sistematicamente il luogo obbligato del "pessimismo". Così come denuncia per luogo comune l'idea del "vago" o "indefinito" come categoria estetica leopardiana per eccellenza, ammettendola in fase di "esecuzione" linguistica ma non in sede di "invenzione", dove prevarrebbe invece una chiarezza intellettuale determinatissima. E' una convenzione su cui si può discutere, ma va dato atto a Luporini di sostenerla - è il pane suo - con un'argomentazione sillogisticamente perentoria: penso in particolare alle pagine sull'Infinito, innovativamente letto non come ricostruzione di una "esperienza" ma come "esperimento volontario" (cioè " provocato" e "guidato") nello sforzo di intuire kantianamente lo spazio puro come "condizione della rappresentazione di ogni cosa sensibile". Resta, alla fine del libro, un senso di vertigine: effetto di un'indagine che per amore del proprio oggetto vi si conforma, non concedendosi nulla di scontato e tutto sottoponendo a una continua, spietata, leopardianissima interrogazione.

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Indagine su Maigret: la sua Parigi è un'astrazione
Inchiesta sul rapporto tra il famoso commissario e la capitale francese. E Simenon finisce sott’accusa
di MICHELE MARI (Corriere della sera sabato, 05 agosto 2000)

Ci sono indirizzi che sono luoghi della letteratura, e che in quanto tali eludono sdegnosamente la curiosità dei pellegrini: così, a Londra, chi percorresse Baker Street non vi troverà il 221, e a Roma, in via Merulana, manca proprio il 26. Meno aristocratico di Conan Doyle e di Gadda, Georges Simenon ha affollato i suoi libri di riferimenti topografici rintracciabilissimi, dall’appartamento dei coniugi Maigret in boulevard Richard-Lenoir all’ufficio del commissario al quai des Orfèvres a un’infinità di locande, bistrot, brasserie, mercati, stazioni. Sulle orme dello scrittore e del suo più celebre personaggio si è mosso con passione Marco Vitale, che partendo dall’arrivo alla Gare du Nord di "Pietro il Lettone", protagonista del primo romanzo della serie (1929), giunge fino al 1972, anno dell’ultima avventura. L’impressione generale è che Simenon, dopo anni di ricognizione diretta, abbia incominciato a vivere di rendita, offrendo ai lettori una Parigi sempre più astratta e mentale: processo che inevitabilmente accelera dopo il suo trasferimento in Svizzera, da dove continuerà a descrivere luoghi resi nel frattempo irreperibili dal riassetto urbanistico (questo lo apparenta paradossalmente a quei romanzieri antinaturalistici che seguitarono ad ambientare come contemporanee le loro storie nei vicoli parigini molti anni dopo l’azione devastatrice di Haussmann). Sempre più spesso, del resto, le inchieste di Maigret si svolgono lontano dalla capitale: ma il fatto stesso che questo "altrove" sia sempre la provincia dimostra che per Simenon l’unica città era Parigi. E le sempre più frequenti "vacanze" di Maigret in Bretagna o in Normandia assomigliano davvero a una regressione: perché se è vero che il commissario fu inventato durante una gita in chiatta in un canale olandese, ogni viaggio verso le acque del nord sarà un ritorno nel ventre materno dello scrittore. E forse a tanto, a dispetto dei suoi sistematici anacronismi, Simenon era spinto dalla consapevolezza che, come scrive Baudelaire, "la forme d’une ville/ change plus vite, helas! que le couer d’un mortel" (la forma di una città cambia più alla svelta, ahimé!, che il cuore di un mortale). Il libro : "Parigi nell’occhio di Maigret" di Marco Vitale, Unicopli, pagine 132, lire 15.000

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Nonsense e calembours: cosi Lewis Carroll insegnava la matematica
  di MICHELE MARI (Corriere della sera Domenica, 09 agosto 1998)

Il più bel libro fantastico scritto per insegnare la geometria ai ragazzi è indubbiamente Flatlandia, pubblicato dal reverendo inglese Edwin Abbott nel 1882. Lo precedette nell'idea un altro reverendo inglese, professore di matematica a Oxford, che fra il 1880 e il 1881 tenne su un periodico per ragazzi una rubrica nella quale poneva ai suoi lettori quesiti matematici in forma di racconto, commentando in seguito le risposte in modi parimenti affabulanti, tali cioè da tramutare gli stessi interlocutori in personaggi della storia. Quel professore di chiamava Charles Lutwidge Dodgson, noto al mondo come Lewis Carroll. Ora, il fatto che per questi racconti matematici raccolti nel 1885 sotto il titolo Una storia intricata (A Tangled Tale) Dodgson non abbia adottato il nom de plume riservato alle sue opere letterarie può dipendere dalla sua consapevolezza della prevalenza dell'istanza didattica sul divertimento: oppure basta imbattersi nel personaggio di Matta Matica per ricordarsi di certe regine di picche e di certi gatti mammoni, così come un banchetto a base di cancelleria (fogli per piatti, nettapenne per panini, calamai per bicchieri) non può non evocare il tè a orologeria del cappellaio matto. Dalle nevrosi compulsivo-ossessive alle fobie igienico-alimentari alla balbuzie i disturbi psichici di Dodgson-Carroll sono proverbiali, al punto che oggi le voci di critica psicoanalitica costituiscono il grosso della bibliografia carrolliana. E come l'asma di Proust, anche la balbuzie di Carroll è assurta a emblema di un'intera impasse esistenziale: quella balbuzie - è documentato - che come per miracolo cessava solo quando Carroll parlava con dei bambini in forme di filastrocche e di nonsense, quella balbuzie cui noi dobbiamo l'esorcistico fiore di Alice. Di questi conflitti anche Una storia intricata offre numerosi indizi, dai surreali calembours con cui il maestro Balbus (appunto "balbuziente") deresponsabilizza la lingua, alla frequente contaminazione dei temi matematici con il tema del cibo: a questo proposito è vero che Carroll "si guadagnava il pane con la matematica", ma è ancora più vero che egli mangiava solo per poter catalogare e archiviare maniacalmente, come fece per tutta la vita, i menù dei suoi morigeratissimi pasti.

LEWIS CARROLL Una storia intricata Stampa alternativa Pagine 170, Lire 15.000.

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Un saggio di Beccaria
Parole del mondo
Il catalogo è questo
di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 19 gennaio 1996)

Chi ha letto i romanzi e i racconti di Joao Guimaraes Rosa ricorderà il tremolio magico che i nomi di animali e di piante hanno nella pagina di quel meraviglioso scrittore, capace di interrompere scene di efferatezza guerresca per indugiare sulla grazia del Manuelzinho-del-greto, un uccellino che è fra i veri protagonisti di Grande Sertao. Si può [dire] che il linguaggio della botanica e della zoologia stia all'opera di Guimaraes Rosa come il linguaggio della chimica e della fisica sta all'opera di Gadda. Ma forse più che a Gadda si dovrebbe pensare a tutti gli autori di mirabilia che hanno "nominato" il mondo con la pretesa della verità e con il piacere della creazione, fino a quando questo particolare "genere letterario" si è esplicitato nel Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero. Che l'onomastica sia un regno di poesia e di passione è testimoniato anche dai più bei libri che siano stati dedicati all'antropologia del fantastico, dalla Scienza nuova di Vico al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi di Leopardi al Ramo d'oro di Frazer. Una delle principali lezioni di questi libri è che la realtà è magica perché è nominale e nominabile perché magica, e che dare un nome alle cose significa crearle, desiderarle, conoscerle. Da molto tempo l'Occidente ha perso questa condizione e questo privilegio, ma se non altro, nella memoria contadina, serbava il deposito di tanta creatività; ora che la civiltà rurale è in via di estinzione, anche le "sue" parole stanno scomparendo o sono già scomparse. E' dunque con un misto di malinconia e di gratitudine che si segue Gian Luigi Beccaria nel suo viaggio fra gli sterminati cimiteri verbali della vecchia Italia (I nomi del mondo, Einaudi, pp. 308, lire 55 mila, recente vincitore del Premio Nonino): un'Italia risorgimentale ma anche un'Italia barocca, un'Italia medioevale e cattolica ma anche, se non soprattutto, un'Italia pagana. La ricerca di Beccaria esibisce un'impressionante messe di spogli linguistici: eppure in tanto affollamento ciò che alla fine resta non sono le classificazioni del tecnico, ma la pietas del memoratore. Un libro, verrebbe da dire con un po' di retorica, scritto con la penna di Perec e l'animo di Proust; un libro dove Giovanni Pascoli ritroverebbe tutti i suoi uccellini e le sue bacche, dove Guido Gozzano potrebbe andare in cerca delle sue amate farfalle, dove Stefano D'Arrigo incontrerebbe ancora le sue fere e Carlo Levi i suoi Monachicchi; oppure dove si può far e la conoscenza del Serpegatto, che sembra essere uscito dalla Famosa invasione degli Orsi in Sicilia di Buzzati. Nomi su nomi, nomi angelici e nomi demoniaci, legati ai santi e ai folletti, alle streghe, alle stagioni, alla morte e alle malattie, alla fame, al cibo; nomi favolosi che evocano i mostri di Bosch e nomi-scongiuro, nomi sacri e nomi ambigui di cose ambigue, nomi rivelatori e nomi inspiegabili, nomi in lussuosa sovrabbondanza per uno stesso significato: è come trovarsi di fronte al precipitato di millenni di paure e di desideri, nella conferma che solo la lingua può restituire qualcosa della "storia" delle generazioni dei senza-voce e dei senza-nome, i diseredati, quelli che brulicano nelle pagine di scrittori come Tolstoj, Camus, Saramago. Come in uno di quei cimiteri celtici in cui le lapidi non si distinguono più dai sassi, il libro di Beccaria è percorribile senza geometria. Volendo indicare alcuni tumuli ove sostare foscolianamente, mi piace segnalare in guisa di misteri popolari i seguenti: quante e quali piante siano note come Albero di Giuda; perché la coccinella sia animale propizio nonostante i suoi colori infernali; se è vero che San Bovo protegga i bovini; secondo quale disegno zoocosmico i gufi, i rospi, le donnole, i ramarri e certi serpenti siano alleati nel privare del latte le madri; e finalmente, cosa sia un Mazzapauriello.

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Partita a scacchi nella magica Praga
  Quando la fantasia diventa presentimento storico
  di MICHELE MARI (Corriere della sera Domenica, 14 giugno 1998

Chi è Leo Perutz? Uno dei più bravi scrittori del Novecento europeo, verrebbe da rispondere immediatamente. E solo secondariamente: un matematico praghese vissuto dal 1884 al 1957, impiegato nel ramo assicurativo (sinistri e incendi), appassionato di enigmistica e autore di uno dei manuali di bridge più diffusi negli anni '30, campione di scacchi e botanico dilettante, collezionista di ogni cosa collezionabile, poliglotta, suonatore di violino e di tromba, uomo solitario e speciale, costretto dal lavoro a lasciare ancor giovane la diletta Praga (come Rilke) per Vienna, costretto dall'Anschluss a lasciare Vienna per Tel Aviv senza per questo lasciare il tedesco (ha scritto Marino Freschi: "A Tel Aviv Perutz continua a parlare la lingua dei nemici, a indossare sempre, d'inverno e d'estate, la cravatta quale simbolo discreto della Mitteleuropa, e a portare un anello con inciso un pesce con la scritta Contra currentem"). Ecco, quest'uomo puntiglioso e maniaco, quest'omarino preciso, ha scritto alcuni dei libri più folli e geniali di questo secolo. Merito di Praga forse, della profonda amicizia con Kafka, dell'ammirazione per quel maestro dell'esoterismo praghese che fu Gustav Meyrink, delle suggestioni cabalistiche dell'ebraismo: merito suo perbacco, se non vogliamo cadere in un determinismo etnico-genealogico, e merito suo soprattutto perché, a differenza di tutti gli altri grandi poeti dell'ebraismo mitteleuropeo, Perutz seppe essere anche positivo, anche logico o iperlogico, anche geometrico, anche (quindi) intensamente laico se non laico-ludico. Nasce qui, all'intersezione della ripelliniana "Praga magica" con l'enigmistica, la mitologia di Perutz "ossimoro vivente", conosciuto nell'Europa degli anni '20-'40 come autore di romanzi polizieschi (come tale lo consideravano Walter Benjamin e un giovanissimo Ian Fleming) e invece in Sudamerica - grazie a Borges - come maestro del fantastico, celebrato da Hermann Broch per la sua "logica del meraviglioso" e per "la meraviglia della sua logica", visto in somme come il centauro in cui si ibridano nature letterarie apparentemente incompatibili, come più di altri ha voluto sottolineare Friedrich Torberg definendo Perutz "il risultato di un faux pas di Agatha Christie con Franz Kafka". Di Perutz erano stati pubblicati da Adelphi due fra i suoi libri più belli, Il marchese di Bolibar, ambientato in Spagna durante la campagna napoleonica del 1811-12, e il "settecentesco" Cavaliere svedese (cui si è aggiunto più di recente, presso lo stesso editore, il meno convincente Tempo di spettri), mentre altre proposte sono venute negli ultimi anni dalle edizioni e/o (Di notte sotto il ponte di pietra), Studio Tesi (La nascita dell'Anticristo) e Fazi (Il Giuda di Leonardo): ora proprio Fazi, con una scelta che lascia sperare in un prossimo recupero dei molti libri di Perutz che ancora mancano all'appello, manda in libreria La neve di San Pietro, romanzo fra i più fantastici e al tempo stesso fra i più storicamente premonitori. Scritto nel 1933 e ambientato nella Germania del 1932, La neve di San Pietro è un divertimento storico (alla maniera che sarà poi del Morselli di Contrapassato prossimo) in cui non possiamo non sentire un grido d'allarme nei confronti del nazismo, se è vero che il lucido-folle protagonista, il barone Von Malchin, vuole sì riportare la fede in Europa grazie ai poteri psicotropi di un fungo parassita dei cereali (appunto la "neve" del titolo, causa occulta di tutti i grandi movimenti religiosi della Storia), ma solo al fine di ripristinare quella devozione legittimista necessaria a sua volta alla riedificazione del sacro Romano Impero: e in effetti la fede verrà, ma sarà il culto sanguinario di Moloch. I personaggi demoniaci caratterizzano del resto tutte le storie di Perutz, da quel marchese di Bolibar che sembra uscito dal Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, al mugnaio morto che recluta disperati per le infernali fonderie del vescovo nel Cavaliere Svedese ("aveva un a faccia come di cuoio spagnuolo, giallognola e vizza e piena di rughe, e gli occhi confitti nella testa come due gusci di noce svuotati"), all'imperatore Rodolfo II e al Rabbi Löw in Di notte sotto il ponte di pietra. Ereditato dal Golem di Meyrink, che l'aveva raccolto dalla tradizione del cabalismo ebraico, il Rabbi è il personaggio tipico di Perutz, quello in cui la sua fantasia prometeica e la sua poetica borgesiana (il "dicitore" come Creatore) si incarnano, con una violenza e insieme con una grazia irreperibili in altre rivisitazioni novecentesche del tema: penso ad esempio al pur pregevole La vie éternelle di Jacques Attali. Furore e ricamo, angoscia e calligrafia, ossessione e divertimento: c'è in Perutz qualcosa della "doppiezza" di Goya, di Wells, di Manganelli, di Gombrowitz, poiché i molti golem dei suoi molti Rabbi sono emblemi araldici, figure di tarocchi o funzioni algebriche, e sono insieme l'urlo di Munch, le Lacrymae rerum dell'ebraismo: "Su questo muro, con la sua forza, dalla luce lunare e dalla muffa, dalla fuliggine e dalla pioggia, dal muschio e dalla malta il rabbino fece sorgere un'immagine. Era un Ecce homo. Ma non era il Salvatore, non era Cristo. Era il popolo ebraico, perseguitato e schernito per secoli, che ha manifestato il suo dolore in quell'immagine". Capiamo così perché questo giocoliere, tacitamente estromesso dal canone di una tradizione così attenta a salvaguardare il mito aristocratico della propria malinconia, questo picaro che ha ambientato i suoi romanzi in tutti i secoli e in tutti i paesi, abbia confidato poco prima di morire: "Per tutta la vita non mi sono liberato della Praga della mia giovinezza. Ho inseguito sempre il fantasma del ghetto praghese cercandolo dappertutto".

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Il '900? Primo Gadda secondo D'Arrigo
  di MICHELE MARI (Corriere della sera mercoledì, 09 agosto 2000)

"Gli animali si dividono in (a) appartenenti all' Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo...": questa celebre pagina di Borges mi è tornata in mente sfogliando i tre poderosi volumi dedicati al Novecento che hanno appena completato la Storia generale della letteratura diretta da Nino Borsellino e Walter Pedullà (Motta editore, 12 volumi, 960.000 lire; ma i tre appaiono separatamente anche presso Rizzoli-Larousse). Esplicitando la follia della classificazione borgesiana, i responsabili di quest' opera l'hanno articolata secondo categorie temporali o generazionali (il secondo dopoguerra), geografiche (i Siciliani, i Triestini), sessuali (le scrittrici), retoriche (il comico), sociologiche (l'età del Benessere), "epistemologiche" (l' ipertesto), di genere (il teatro), monografiche (Pirandello) e così via. Oltre che negli spazi a loro intitolati, così, gli autori si trovano presenti in una costellazione di altri luoghi, invitando il lettore a una non meccanica ricostruzione della loro personalità. Il che significa, in altre parole, che il modo migliore di muoversi in una Storia come questa è vagabondare a capriccio, tanto più che il continuum testuale è sistematicamente negato dal discretum dei paratesti (o "colonnini") e delle bellissime illustrazioni. Ma ben più discreta è la stessa libertà stilistica lasciata ai collaboratori, alcuni dei quali scrittori "in proprio". Dirò subito, primo, che sotto la sprezzatura delle forme questa Storia propone con decisione un canone che mi trova d' accordo; secondo, che questo canone nasce (contro la "storia" e contro la "fortuna") dall' adesione ad alcune idee forti ancora più condivisibili. Così, se con una perentorietà finora mai raggiunta da alcuna sistemazione divulgativa si indica in Gadda il massimo scrittore del Novecento italiano e subito sotto di lui si pone D'Arrigo, non è per un facile gusto del difficile o per l' ormai vulgato mito dell' espressionismo, ma in primis per l' ardua , solitaria, orgogliosissima idea di scrittura come cimento estremo che sottende le loro opere. Sicché Horcynus Orca "svetta su tutta la narrativa del secondo Novecento" proprio in virtù della sua anacronistica e demiurgica "sicurezza di sé" (Pedullà), cosa che per altri versi può dirsi dell' opera di altre figure giganteggianti come il Campana di Marzio Pieri, il Landolfi di Marcello Carlino, il Fenoglio di Tommaso Pomilio, il Pizzuto di Pedullà, il Volponi e il Manganelli (finalmente ascritto all'olimpo dei maggiori!) di Graziella Pulce. Per tutti loro vale l' insegna di Michel Leiris citata da Pedullà: "letteratura come toreare". Che è poi la stessa serietà "religiosa", non estetizzante, che conferisce un senso di scommessa fatale alle pagine di scrittori "fantastici" e "magici" come Bontempelli, Palazzeschi, Savinio, Viani, Lisi, Morovich, Loria, Delfini, Buzzati (un altro dei grandi "rivalutati" di questa Storia), la Masino, la Ortese; ma anche alle pagine di scrittori diversi come Bufalino (le cui "lussurie verbali", come ben dice Massimo Onofri, sono medicina etica contro "l' ossificazione del mondo"), Consolo (che sottopone a grande tensione la parola romanzesca come per verificare quali possibilità rimangano alla letteratura "di fronte alla nuova barbarie": sempre Onofri) o Cordelli, uno degli ultimi per cui "la letteratura è ancora una questione di vita e di morte" (Pedullà). Dove invece si propone una versione ristretta del canone è nel notevolissimo saggio su La scrittura nell'età multimediale di Gabriele Frasca, per il quale tutto ciò che si allontana dalla trimurti Gadda-D'Arrigo-Pizzuto o dall' asse Joyce-Beckett (cioè dalle scritture che costringendo il lettore ad "eseguirle", nel senso musical e del termine, non rappresentano ma si rappresentano) tende alla Trivial-litteratur. Personalmente sono per una versione meno terroristica, e voglio dire a Frasca, proprio perché lo ritengo una delle più belle menti in circolazione, che mi spiace la mancanza di pietas (anzi l'esultanza!) con cui egli celebra qui i funerali non solo del libro ma della stessa letteratura. Perché se è vero che il mezzo è il messaggio e che l' avvento della multimedialità interattiva cambierà tutto (ma voglio prendermi il lusso di sperare il contrario fino all' ultimo, come un soldato giapponese in un atollo), è anche vero che una delle cose più belle e commoventi di ogni creazione artistica è sempre stata il conflitto con il proprio mezzo. Quindi prepariamoci alla lotta, con questi non-libri che ci aspettano, senza affrettarci a salutarli come trionfatori.

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Puškin, una smazzata contro la morte e altre fantasie notturne
  ALEKSANDR PUŠKIN La dama di picche Traduzione di T. Landolfi Adelphi pp. 104, lire 12.000
  di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 29 settembre 1998)

Quando uno scrittore racconta di un giovane ossessionato dalle carte da gioco al punto da far morire un'anziana nobildonna nel tentativo di estorcerle il segreto di una puntata infallibile, e quando la fantasia che presiede all'invenzione è di quelle che diconsi "notturne", e quando finalmente il racconto è scritto in una prosa altamente stilizzata, ricca di arcaismi ma anche di forme popolari, allora non c'è dubbio che il suo traduttore ideale ha il nome di Tommaso Landolfi. Il racconto in questione è "La dama di picche" (1833), che Landolfi tradusse insieme agli altri due qui raccolti per la sua antologia di "Narratori russi" del 1948, con molti anni di anticipo, quindi, sulla grande e sistematica fatica della versione dell'opera poetica puskiniana. Ma di Puškin Landolfi aveva incominciato ad occuparsi nel 1937, con un bellissimo saggio sulla "Fantasia puskiniana" che inaugurava una lunga serie di scritti critici e biografici. Uno di questi ultimi, dedicato al duello che provocò la morte del poeta, è stato qui riportato in appendice da Idolina Landolfi, e suggerisce che prima ancora che dall'opera di Puškin Landolfi era affascinato dalla sua vita, una vita, osservò altrove, "dominata dall'amore", dall'amicizia, dall'intrigo galante, dall'avventura, o meglio (e ciò la rende più patetica) dal continuo e quasi sempre deluso desiderio di "avventura": una vita, soprattutto, che grazie "alla connaturale malinconia, alla nobiltà del carattere, alla profonda ed esigente serietà, al rigore di ricerca e di lavoro" non poteva non suscitare in lui un profondo senso di identificazione. Non a caso il Puškin disegnato da Landolfi nella breve sezione dei suoi "Narratori russi" è un Puškin gotico: un convegno di morti in casa del "Fabbricante di bare", il fantasma della vecchia dama che appare allo scellerato giocatore per dettargli la combinazione perdente che la vendicherà: e ravvisando nella donna di picche "una straordinaria somiglianza" con la sua vittima e persecutrice, il giovane scoprirà ciò che lo scrittore e il traduttore sapevano bene: che si gioca sempre contro la morte.

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Salgari cent'anni dopo
Meglio dei minimalisti la ferocia di Sandokan
  di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 18 giugno 1996)

Nell'attuale clima letterario aduggiato dagli angusti orizzonti del minimalismo, del mimetismo linguistico basso-gergal-giovanile, del cronachismo; di fronte all'abdicazione (ribadita in recenti "manifesti" programmatici) alla ritualità e ai fasti delle Belle Lettere; nell'asfissia di una discussione sui "maestri" che non va al di là dei nomi di Moravia o di Calvino o dell'inimitabile Gadda, come se la letteratura fosse nata nel Novecento, come se la trecentesca Vita di Cola di Rienzo o i secenteschi Discorsi di anatomia di Lorenzo Bellini, per limitarci all'Italia, fossero degni solo di una deferenza accademica e non anche dell'ammirazione e dell'emulazione di uno scrittore di oggi; in un'epoca che non ha esitato a promuovere alla classicità autori inconsistenti come Salinger; insomma in un momento storico in cui la memoria della tradizione e la libertà dell'invenzione sono umiliate dalla fregola dell'"autentico" e dell'"immediato", pare opportuno e pietoso cogliere ogni occasione per rendere omaggio alle bellezze dimenticate. Sto parlando, sotto il pretesto del centenario della pubblicazione in volume de I pirati della Malesia (1896), della prosa di Emilio Salgari. E tanto più ne voglio parlare quanto più il nome di Salgari è generalmente trascurato da quegli stessi lettori che non consonando con lo svevismo e il moravismo del nostro Novecento vanno in cerca, come di un balsamo, del "fantastico" e del barocco. Costoro celebreranno giustamente scrittori come Gadda e Manganelli, Landolfi e Savinio, D'Arrigo e Bufalino, Arpino e Buzzati, e da questa pleiade risaliranno agli scapigliati lombardi, all'Imbriani, taluno al Collodi. Salgari manca perché, riconosciutagli la fecondissima via narrativa di un ingenuo cantastorie, gli si sono sempre negate le qualità strettamente letterarie del "bello scrivere". Eppure basta aprire a caso uno qualsiasi dei suoi libri per scoprire le virtù di uno stile che, a dispetto della popolarità e della ripetitività, non saprei come definire se non iperletterario. Vi si riconoscono tutte le veneri del melodramma e la retorica barocca del mirabolante; il totale asservimento del tempo e dello spazio alle ragioni della letteratura; l'elegante emancipazione della fantasia dalla psicologia e dalla plausibilità; l'applicazione del principio, splendidamente sancito da Borges, per cui creare significa nominare; e soprattutto la capacità di tradurre l'esotismo in suggestione linguistica, con un procedimento di astrazione verbale non dissimile da quello realizzato negli stessi anni da Mallarmé. Scrive Salgari: "un gruppo di manghieri, di giacchieri, o di nagassi", oppure: "nella provincia di Guzerete esiste un banian chiamato Cobirbor", e le parole diventano puro suono e quel suono non è il detrito dell'avventura ma è tutta l'avventura, sono le nozze dell'avventura con la letteratura. "Smisurati rotang, che nel Borneo tengono il luogo delle liane, e nepentes, correvano da un albero all'altro formando delle vere reti, che il maharatto e il portoghese erano costretti a tagliare a colpi di kriss": com'è possibile pretendere che Salgari sia solo un narratore di cose? Che cosa sarebbe del brano citato senza la purissima letterarietà e la purissima ritualità di rotang, di ne pentes, di kriss? Kriss è per Salgari ciò che l'aura è per Petrarca: il coagulo di una "maniera", una firma, dunque una paradossale garanzia di verità. Alle foruncolose paturnie del giovane Holden, dunque, continueremo a preferire la leggendaria ferocia di Sandokan ("più di una volta era stato visto bere sangue umano e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi"), l'inattualità dei prahos, il lusso della vegetazione malese, la generosa autosufficienza della parola Mompracem.

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Scapigliati del Sud: ritorna l'Imbriani
di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 09 giugno 1992)

Più citato che letto, Vittorio Imbriani (Napoli 1840-1886) è senz'altro uno di quegli autori bisognosi di edizioni filologicamente importanti che li consacrino, o quantomeno ne rimettano in circolazione, i testi più significativi. A tanto provvedono ora Guanda e la Fondazione Pietro Bembo, pubblicando per cura di Fabio Pusterla i romanzi Merope IV e il più noto Dio ne scampi dagli Orsenigo (I romanzi, pagine 550, lire 50.000), mentre è imminente l'edizione dei racconti. Queste due iniziative coronano un decennio di relativa fortuna per l'Imbriani (ricordo solo il Convegno svoltosi nel Centenario della morte), ma se arretriamo nel tempo scopriamo che, con le luminose eccezioni di Croce e di Contini, che lo definì "Carlo Emilio Gadda della Nuova Italia", la critica novecentesca è stata assai avara con lui. Eppure l'opera dell'Imbriani costituisce quel che si dice un "caso", essendo l'unico vero esempio di espressionismo meridionale e, per certi aspetti, di scapigliatura meridionale. Sembra anzi che, come fu un isolato in vita (il suo proverbiale "caratteraccio" e il suo amor di polemica gli valsero più di un duello, e anche la sua posizione di monarchico-garibaldino non gli giovò), l'Imbriani non abbia trovato una sua collocazione nemmeno dopo la morte, lontano com'è, geograficamente e culturalmente, dalla linea padana dei Dossi, dei Faldella, dei Gadda. Non meno di costoro, tuttavia, l'Imbriani fu un grande artefice di lingua, nel senso che si avverte in lui quell'insoddisfazione nei confronti della norma linguistica, e quella tensione a forgiarsi una lingua "personale", che sono proprie di ogni scrittore espressionista. Dunque un eversore e un deformatore, ma sarebbe un errore interpretare per questo l'opera dell'Imbriani soltanto nel segno della "negazione": le sue bizzarrie, i suoi estri e i suoi funambolismi verbali nascono al contrario da un profondo amore per la lingua letteraria culta e di tradizione, che con uno spiccato gusto del pastiche egli si diverte a far cozzare contro le proprie invenzioni e contro materiali linguistici "bassi" (il dialetto, il gergo, il lessico familiare, il turpiloquio...). Vicinissimo a Gadda nella vocazione all'ibrido e al mescidato, l'Imbriani mette al servizio dei propri umori anche una non comune erudizione. Ecco allora le scienze naturali e il diritto, l'arte militare e l'araldica, la filologia e suggestioni che un denigratore direbbe "libresche" convergere in modi sempre cangianti nella sua pagina, e dar vita a una prosa scintillante ed arguta, sovraccarica, istrionica. Una prosa in cui può capitare di imbattersi in accumuli rabelaisiani ("babbione, gocciolone, bietolone, ignatone, moccicone, galeone, ghiandone, moccolone, lasagnone, maccherone, palamidone...") e in invenzioni tipografiche alla Sterne (certi capitoli in cui sotto il titolo e l'epigrafe non c'è nulla se non una serie di puntini), in allusioni oscene desunte dalla lingua zerga dei furfanti rinascimentali oppure in felicissimi neologismi. Ma l'Imbriani non è pago di fare violenza alla lingua: più radicalmente, egli aggredisce le stesse convenzioni narrative facendo esplodere dall'interno la macchina romanzesca; il suo procedimento preferito, in tal senso, è quello della digressione, così ipertrofico da ridurre la vera e propria trama a mero pretesto (un trionfo delle forze centrifughe che sembra anticipare la scrittura di un maestro della divagazione come Ronald Firbank). Né mancano, soprattutto in Merope IV, gli interventi metanarrativi, nei quali l'autore dialoga con il proprio lettore istituendo a oggetto narrativo lo stesso romanzo: il che spiega forse perché, nonostante la diversissima atmosfera culturale, non è poi così difficile presagire in queste pagine il gusto sperimentale e un po’ beffardo dell'Oulipo. In ogni caso l'intemperanza espressiva dell'Imbriani è di quelle che nascono da una disagiata e sdegnosa disposizione a isolarsi, a non consuonare con un mondo regolato da cerimoniali assurdi più che riprovevoli: di qui quella sua rappresentazione grottesca della realtà e quelle strategie di straniamento che solo eccezionalmente lasciano adito allo scherno o all'iconoclastia. Dio ne scampi dagli Orsenigo, ad esempio, è talmente tramato di rovesciamenti di luoghi comuni (a partire dall'opinione che l'adulterio sia meno impegnativo e più piccante del matrimonio), che la figura cardinale di tutta la narrazione è il paradosso. A un simile sguardo stralunato nulla sfugge, dalle toilettes femminili ridotte a uno spettacolo astratto che sembra parodiare ante-litteram certe alcove dannunziane (e anche i nomi Maurizio Della-Morte e Almerinda Ruglia-Scielzo non potrebbero uscire dal Piacere o dal Fuoco?) agli stessi sentimenti, svalutati in partenza da uno scetticismo disincantato che mina alle basi l'illusione romanzesca. Ma ciò che più importa, alla fine, è che l'Imbriani distrugga la società del suo tempo a colpi di giochi linguistici, a riprova che in letteratura, molte volte, non c'è niente di più serio del divertimento.

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Tutte le opere dello scrittore argentino
La nostalgia del fantastico. Se questo è il vero Cortàzar...
di MICHELE MARI (Corriere della seralunedì, 12 giugno 1995)

 

Si sa bene, fin troppo bene, quanto possa essere doloroso rileggere da adulti i libri che ci incantarono nell'infanzia, quanto iniquo possa apparirci, nella sua "verità", il rimpicciolimento di certe nostre personali mitologie. Ma si danno casi, meno malinconici ma forse più sconcertanti, in cui la delusione, anziché da un'incongruenza fra il testo e la memoria, nasce da un'incongruenza fra il testo e l'aspettativa. E quando parlo di aspettativa mi riferisco non tanto all'anticipazione di un giudizio, quanto all'aura di cui le nostre associazioni mentali avvolgono un autore che non abbiamo mai letto, e che ancora indugiamo a leggere per non consumarlo troppo in fretta: più tempo passerà in questa volontaria dilazione, è fatale, maggiore sarà il piacere che ci ripromettiamo da quell'incontro. È quanto mi è capitato con Julio Cortàzar. Cortàzar aveva tutto per fascinarmi a priori: un nome che suscita musicalmente l'idea dell'efferatezza, la connazionalità con autori amatissimi come Bioy Casares e l'immenso Borges, l'irresistibile nomea di scrittore "fantastico", la stima di lettori severi e aristocratici, una patente di nobiltà einaudiana, un titolo (Bestiario) che per i motivi suddetti associavo automaticamente al Manuale di zoologia fantastica di Borges e Margarita Guerrero. Così, quando ho saputo dell'edizione Einaudi Gallimard (a cura di Ernesto Franco) che in oltre 1.400 pagine raccoglie tutti i racconti di Cortàzar, mi sono disposto alla lettura con una fiducia resa ingorda da vent'anni di rinvii. Fra quella fiducia e le presenti note si situano settimane di imbarazzo e di incredulità: ogni racconto affrontato come possibile riscatto del precedente, ogni bella pagina salutata come la chiave che mi avrebbe dischiuso un mondo letterario che fino all'ultimo mi sono ostinato a supporre affascinante: tanto più affascinante, anzi, quanto più doveva dissimularsi nell'ovvietà, tanto più profondo quanto più mi arrestavo alla superficie. Ma è stata una lotta inutile, e alla fine delle 1.400 pagine ho dovuto ammettere che quell'autore non l'avevo guadagnato, ma perso. Cosa resta, in effetti, di tanta verbalità? A essere spontanei vien da dire: sigarette e cocktail, e aperitivi, e drink di ogni tipo, secondo la topica del peggior Hemingway e del peggior Fitzgerald. E poi carte di credito, "ristorantini", Guide Bleu, villaggi turistici, bungalow, amache, piano bar, verande sul mare, orchestrine, cestelli di champagne: insomma un materiale letterariamente incommestibile, quando non intervenga l'ironia, o lo straniamento, o quel che si dice il lievito del fantastico. Ma Cortàzar non è della famiglia di Borges o di Landolfi o di Poe: abita appunto con Hemingway e Fitzgerald, e crede che per conseguire quel lievito sia sufficiente arieggiare la maniera ellittico fantasmatica di Henry James. L'arte dell'allusione, che già in James corre sempre sul filo dell'abuso, diventa così un espediente meccanico che quasi mai riesce a dar forma a quel repertorio filisteo, cui evidentemente Cortàzar non sa rinunciare in alcun modo. Su questo, in effetti, non so darmi pace: come abbia potuto uno scrittore colto, e comunista, incappare nel provincialismo di chi vede in un caffè da Florian il senso supremo di un viaggio a Venezia (corrispettivo linguistico di questo provincialismo, il vezzo di infarcire le pagine di frasette in inglese). Altro motivo di perplessità viene dal cosiddetto "sperimentalismo" di Cortàzar, che troppe volte non va al di là di una diligente applicazione dei modelli oulipiens: l'abolizione della punteggiatura, il troncamento di un racconto a metà di una frase, la commutazione grammaticale dei punti di vista, la contaminazione dei tempi narrativi, le superfetazioni metatestuali in cui il narratore dialoga con il lettore ci appaiono come qualcosa di molto datato, e anche di molto vicino a quel mètier o "cucina letteraria" che Cortàzar per primo disdegnava. Si osserva qui quanto possa rivelarsi imprudente l'accostamento dell'opera di uno scrittore alle sue dichiarazioni di poetica: perché non c'è nulla, nelle due prose teoriche edite in appendice (Alcuni aspetti del racconto e Del racconto breve e dintorni), che davvero non sia impeccabile e pienamente sottoscrivibile, dalla convinzione che ogni buon racconto sia lo sviluppo teso e serrato di una "ossessione possessione" ("Ciò che proviene da un territorio indefinibile e abominevole"), e quindi una forma di esorcismo, alla definizione del fantastico come "nostalgia" ("c'è un'ora in cui si desidera essere se stessi e l'inaspettato"); dall'idea che lo straordinario debba essere trattato ordinariamente ("è necessario che l'eccezionale diventi anch'esso regola") alle più generali considerazioni sulla natura verticale e accelerativa del racconto rispetto al romanzo. Sennonché sono davvero pochi i racconti che non disattendono queste premesse, soprattutto per colpa di una prolissità dalla quale anche le prove migliori (penso a La salute degli infermi o a Le fasi di Severo) vengono irrimediabilmente diluite. Mi sembra, allora, che il Cortàzar più convincente (sono tentato di dire: il vero Cortàzar) sia quello delle brevissime prose "non narrative" di una o due pagine ciascuna: Perdita e recupero del capello, Tema per un arazzo, Le linee della mano o il magnifico Discorso dell'orso. Qui finalmente la letteratura crea un universo, da qui finalmente si torna in Argentina.

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Sono solo in casa e vedo sagome sull' armadio
Con lo scrittore Michele Mari prosegue la serie di racconti onirici nel centenario della "Traumdeutung" di Freud
di MICHELE MARI (Corriere della sera
domenica, 09 gennaio 2000)

Proseguiamo la serie di racconti onirici avviata ieri con i testi di Enrico Baj, Paola Capriolo, Carmen Covito, Mario Monicelli ed Emanuele Severino, in occasione del centenario dell' "Interpretazione dei sogni" di Sigmund Freud, scritta nel 1899 e pubblicata l' anno dopo.

Ho sette od otto anni; i miei genitori escono dopo cena lasciandomi a casa da solo: mi salutano, mi dicono di fare il bravo e di dormire. Dopo un po' che sono usciti, man mano che l' occhio si abitua all' oscurità, mi sembra di intravedere delle sagome grigiastre davanti all' armadio: forse sono riflessi creati dal lucore proveniente dalla finestra, o forse sono loro, che hanno fatto finta di uscire per mettermi alla prova e osservarmi. Trattenendo il respiro, immobile come un cadavere, scruto quelle sagome senza riuscire a stabilire se siano ferme o oscillino leggermente. Certo è che non le chiamo, perché se sono loro il silenzio fa parte della prova, e se non sono loro... Oppure, più grandicello, sono solo in una casa di campagna: si schiude la porta della mia camera e uno dei miei genitori, o un parente, insinua la testa nello spiraglio per darmi la buonanotte; mi sorride benevolo e per un attimo mi convince, poi penso che in quella casa non c'è nessuno oltre a me. Oppure, di nuovo piccolo, sono a letto nella stessa stanza dove in una culla dorme la mia sorellina di due anni. A un certo punto, la vedo uscire dalla culla e strisciare sul pavimento verso di me. Arrivata ai piedi del mio letto, che è molto alto, la perdo per qualche istante di vista: quando vi si arrampicherà sopra (già sento tendersi e appesantirsi la coperta) so che non avrà più la stessa faccia di prima. Tutti questi sogni, che mi hanno visitato per anni e anni, ripetono esattamente, ma con più insopportabile credibilità, le fantasie cui, da piccolo, indulgevo prima di addormentarmi.

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Suskind, grandi ossessioni in piccole storie
  PATRICK SUSKIND Ossessioni Editore TEA, Pagine 64, lire 8.000
  di MICHELE MARI Corriere della sera giovedì, 24 dicembre 1998

Scrittore nevrotico come pochi, Patrick Süskind offre in ogni suo libro un preciso modello di letteratura dell'ossessione. In modi narrativamente piani (senza il cantilenare morboso di un Gombrowitz ad esempio, senza il trattatismo luciferino di un Manganelli o il furore sincopato di un Céline) egli parte da uno spunto normalissimo, e attraverso una serie di passaggi plausibili se lo lavora, lo spreme ed assottiglia fino ad esiti paradossali: in questo il suo maestro è certo il Kafka dei due romanzi maggiori. Come il Piccione (1987), i tre racconti uniti sotto il titolo Ossessioni (ma nell'originale sono semplicemente Geschichten, "Storie") consistono in altrettanti avvitamenti mentali intorno a un'inezia destinata a diventare catastrofe. In tal senso il più tipico è il terzo (Il testamento di Maitre Mussard) che, riportando il lettore agli aggraziati scenari del Profumo, finisce col precipitarlo nell'incubo di una cosmologia negativa. Abbiamo un famoso orafo di corte che scopre alcune conchiglie fossili nel suo giardino, abbiamo altresì uno scrittore che con arguti paralogismi confuta tutte le spiegazioni sulla formazione dei fossili: avremo alla fine la prova angosciosa che tutto il Mondo è Conchiglia, che il Dio che lo regge è Conchiglia, che siamo noi stessi conchiglie (per la sua spirale, per la serialità e claustralità della sua struttura quale immagine dell'ossessione più perfetta di un Nautilus?). Il racconto più bello è tuttavia il secondo (Una sfida), degno di figurare accanto alla Novella degli scacchi di Stefan Zweig in una crestomazia della narrativa d'argomento scacchistico. Ma, pur rappresentando alcune situazioni scacchistiche, il racconto ne trascende l'àmbito, e come in tante storie di pugilato di Jack London o di Hemingway, o in quel bellissimo omaggio al poker che è il Cincinnati Kid di Richard Jessup, alla fine ciò che conta è ancora un'ossessione: perché si è perso, come si è vinto; e vincere senza bellezza, sanno gli animi tormentati, è molto peggio che perdere.

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Tasso, spaventi notturni di un poeta malinconico
  di MICHELE MARI (Corriere della sera martedì, 15 febbraio 2000)

Forse non conosceremo mai i veri motivi della reclusione di Torquato Tasso in manicomio (l'ospedale di Sant' Anna a Ferrara) dal 1579 al 1586, anche se la suscettibilità e la crudeltà di quell'orrendo personaggio che fu Alfonso II d'Este rimangono la causa più probabile. Certo è che, quale che fosse la gravità dei disturbi psichici tassiani (depressione, fobie, manie di persecuzione, insomma "melancolia"), la prigione poté solo peggiorarli, come testimoniano le bellissime lettere in cui l'infelice poeta, alternando lucidità ed esaltazione, ora compiange la propria miseria ora riferisce in modo convulso di "strepiti di cose inanimate" e di un dispettoso folletto che gli fruga nel baule, di "fiammette nell'aria" ed altri "spaventi notturni", di sarabande di topi infernali e di "operazioni della malia potentissime". Per la maggior parte di quel le lettere si deve ancora ricorrere alla vecchia ma insostenibile edizione di Cesare Guasti, dalla quale Franco Costabile circoscrisse nel 1960, per l'editore Cappelli, un onesto volume di "Lettere da Sant' Anna". Sarebbe comunque tempo per una nuova edizione condotta con i criteri della più recente filologia, ed è perciò tanto più sconcertante un'iniziativa che anziché migliorare la situazione la peggiora notevolmente. Cosa sono queste "Lettere dal manicomio" curate da Davide Dei? Innanzitutto una scelta ridottissima e incongrua (senza che il lettore sia avvisato delle omissioni); poi, per diverse missive, un disinvolto collage di spezzoni; infine si tratta di testi modernizzati non solo sul piano grafico e interpuntorio, ma anche su quello fono-morfologico. Certo il volumetto non è indirizzato agli specialisti, ma questo non può essere un alibi visto che tante collezioni economiche dimostrano che si può coniugare la leggibilità con il rigore. D'altronde, cosa aspettarsi da una collana che fra gli altri suoi titoli si e' inventata (estrapolando un capitolo di "A Tale of a Tub") un "Elogio del rutto" scritto da Swift?

TORQUATO TASSO Lettere dal manicomio Le Cariti Editore, pagine 40, lire 3900

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Tiziano Sclavi, ombre e nebbia a Pavia
di MICHELE MARI Corriere della sera venerdì, 03 aprile 1992

"E d'un colpo gli troncò il capo ... facendo saltar via i due ossi bregmatici e la connessura sagittale insieme con un bel po’ dell'osso coronale, cosicché venne a tagliargli le due meningi e ad aprire profondamente i due ventricoli posteriori del cervello". Questo (nella classica traduzione di Mario Bonfantini) è Rabelais. "Da sinistra a destra, lento e freddo, il rasoio le incise lo stomaco, si spostò in alto... e la lama meticolosamente esplorò il suo corpo, fino alla gola". Questo invece è Sclavi. Nulla in comune, beninteso, se non una medesima visione astratta e direi linguistica del corpo umano, ridotto a paesaggio, a città, a repertorio di nomi. A pochi mesi da Dellamorte Dellamore Tiziano Sclavi torna in libreria con quattro storie dell'orrore (Sogni di sangue, Camunia editore, pagine 336, lire 25.000). Ma è per l'appunto un orrore asettico, esatto come la cifra o il ritmo del cosmo. Non fosse così, gli incubi dei personaggi di Sclavi non potrebbero avere quella geometria e quella pulizia formale che mancano alle loro giornate, fatte di insensata routine e di sorda animalità: sì che proprio non mi pare un caso se, in questa scrittura di morte, il vero "schifo" sia coniugato al momento vitale per eccellenza quello dell'eros: "lo baciò con la bocca aperta. Stravros fece in tempo a vedere tutto di quella bocca, dal rossetto sul muco delle labbra carnose all'oscena cavità di un dente mancante, prima che una lingua mastodontica lo penetrasse". Su Sclavi, negli ultimi tempi, si è scritto molto. A me pare corretto fingere di ignorare che sia il creatore di "Dylan Dog" e parlarne semplicemente come di uno scrittore. Uno scrittore istintivo, anzitutto, che scrive secondo dittano le sue paure, ma anche uno scrittore scaltro, abile a sfruttare la propria maniera e ad arieggiare, per altri versi, la lezione di Scerbanenco e di Fruttero e Lucentini. A ben vedere, anzi, le sue pagine grondano letteratura da tutte le parti. Ne sono spia le continue citazioni che Sclavi si diverte a proporre alla competenza del lettore. Talvolta è la stessa ambientazione a costituire una continua citazione implicita. Due delle quattro storie (Un sogno di sangue e Un delitto normale, già pubblicate nel 1976 con lo pseudonimo di Francesco Argento) si svolgono infatti a Pavia, cioè in quella provincia che una consolidata tradizione letteraria e cinematografica ha connotato come la dimensione più vera dei "misteri" e dei "veleni". Penso soprattutto a Un delitto normale, che conferma quanto si sospettava: non risiedere il vero "orrore" nel crimine, ma nella vita quotidiana. Dire Pavia vuol dire nebbia. Orbene, nel romanzo breve intitolato Quante volte tornerei Sclavi immagina che la nebbia sia prodotta artificialmente, e che altrettanto artificiali siano il paesaggio, le case, le stesse persone. Chi, almeno una volta, non ha assecondato il proprio egocentrismo fino al punto di pensarsi come l'unico vero abitatore di una pseudo-realtà simulata attorno a lui da una èquipe di extra umani che lo studiano come una cavia? La vera sorpresa del libro è però costituita da Il testimone arcano: chi ancora non conoscesse le risorse inventive di Sclavi, incominci da qui.

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Tristano, Isotta e l’allegrezza toscana
TAVOLA RITONDA, a cura di Emanuele Trevi, Rizzoli, pagg. 772, L. 90.000.
di MICHELE MARI (Corriere della sera
domenica, 25 luglio 1999)

Capita sempre più di rado, in quest'era del marketing e delle mode, che dall'editoria arrivi un "regalo" d'altri tempi, tanto eroico e inattuale quanto per ciò stesso destinato a durare. Dobbiamo dunque essere particolarmente grati alla Rizzoli e a Emanuele Trevi per questa edizione integrale della trecentesca "Tavola ritonda", forse il più importante rifacimento nostrano del "Roman de Tristan" e del ciclo che ne espande la materia. A differenza di altre compilazioni "italiane", come il "Tristano Riccardiano" e il "Tristano Veneto", la pisana "Tavola Ritonda" è infatti molto più di un volgarizzamento, caratterizzata com'è da uno spirito di riorganizzazione e di commento che fanno irrompere nel testo la personalità e la cultura dell' anonimo autore. Il quale, come osserva Trevi, si preoccupò di esorcizzare le suggestioni morbose della storia d'amore di Tristano e Isotta (quella stessa "esemplarità negativa" che spinge alla perdizione Paolo e Francesca) non meno di quanto ne fosse affascinato: preoccupazione vana, se a sua volta la "Tavola ritonda" dovrà la propria fortuna (sarà ancora letta dall'Ariosto) principalmente alla dimensione patologica di quell'amore fatale. Ma patologico è ancor prima il carattere stesso di Trista no, il cavaliere errante che coerentemente al proprio nome non ride mai ("non fue mai una ora allegro") e che sotto l'esuberante varietà delle sue avventure e dei suoi travestimenti nasconde uno spirito tutto fantastico e delirante. E tuttavia in tanta allucinazione l'autore ha saputo introdurre più di una nota di salute borghese, come quando non può fare a meno di quantificare il valore delle pietre preziose, o quando descrive i paesaggi e gli arredi nei termini edonistici di un "plazer". Perché nemmeno raccontando la vicenda dei due infelici amanti di Cornovaglia, è sempre Trevi a ricordarlo, l'Anonimo rinunciò a "quella fiorita Allegrezza toscana".

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Un Boll postumo con i primi racconti visionari
HEINRICH BOLL Cane Pallido, Einaudi, pagine 142, lire 22.000.
di MICHELE MARI (Corriere della sera
sabato, 17 luglio 1999)

In una stanza d'obitorio un prete e un medico contemplano il cadavere orrendamente martoriato di un criminale assassinato dai suoi stessi compagni. Il leggendario Cane Pallido. Incomincia così il racconto che dà il titolo a questa raccolta postuma apparsa in Germania quattro anni fa: un racconto che può sembrare atipico in Böll, ma che sotto la sua patina noir sviluppa i temi principali dello scrittore di Colonia, dalla solitudine dell'individuo bellico e post-bellico alla responsabilità morale di una società intimamente vocata al filisteismo, alla burocratica irreligione delle istituzioni religiose. Così la straordinaria intelligenza del colto e raffinato Theodor Herold, delusa da "quella vita spaventosa di cadaveri viventi" e indignata dalla "gerarchia della piattezza" in cui il militarismo aveva gettato la Germania, diventa il barbaglio luciferino con cui Cane Pallido progetterà le sue imprese tanto efferate quanto gratuite; eppure, sembra voler dimostrare Böll, per quanto asociale questo cavaliere delle tenebre non è che la diretta espressione dell'assenza di valori che mina l'intera società. E quando leggiamo che "non c'è nulla che l'inferno odii come se stesso" non sappiamo se si alluda alla ferocia di Cane Pallido, all'infamia dei suoi traditori o alla soddisfazione dei benpensanti tedeschi per la sua uccisione. Perlopiù anteriori al primo libro pubblicato da Böll (Il treno era in orario, 1949) questi racconti cupi e visionari si affiancarono a quelli raccolti in Viandante, se giungi a Spa... (1950) come esempi della prima maniera - a mio giudizio la migliore - di uno scrittore divenuto più noto al grosso pubblico dopo la svolta satirica maturata negli anni '60 con Opinioni di un clown. Certo in alcuni momenti questo tono apocalittico può suonare un po' ingenuo (penso in particolare a un racconto scritto a diciannove anni, I fervidi dove cinematografi e balere "non sono in genere altro che trappole di Satana ben sistemate"), ma nell'insieme la forza narrativa è all'altezza dei requisiti di quella che di lì a poco lo stesso Böll avrebbe teorizzato come "letteratura delle macerie".

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Una biografia del poeta greco
Lo scandalo buffo dell'eterno Kavafis
  di MICHELE MARI (Corriere della sera venerdì, 18 dicembre 1998)

Fra i poeti la cui "biografia esterna sta tutta in poche righe", ha scritto Marguerite Yourcenar, un posto di primo piano spetta sicuramente a Costantino Kavafis (1863-1933). Lo conferma un libro del 1974 tradotto solo ora in italiano (Robert Liddell, Kavafis, Crocetti Editore, pagine 246, lire 26.000), dove fra notizie storico-politiche, ricostruzioni di ambienti culturali e biografie di famigliari ed amici, Kavafis si defila come un fantasma sfuggente, tanto che a lettura ultimata restano nel la memoria pochissime immagini: Kavafis impiegato al Servizio delle Irrigazioni che copre la sua scrivania di documenti per dare l'impressione di lavorare, mentre in realtà pensa ad una poesia; Kavafis che scegliendo un pollo da acquistare ne preleva di nascosto alcuni campioni di piume per controllare che al momento di recapitarglielo non lo sostituiscano con un altro pollo. Il fatto è che Kavafis, come ha scritto il poeta greco Seferis, "non esiste al di fuori delle sue poesie", e la proverbia le penombra della sua abitazione appare davvero come la metafora della sua discrezione. Poeta alessandrino di gusto prima ancora che di nascita, raffinato parnassiano, decadente "bizantino", Kavafis è stato a lungo accompagnato da un sospetto di "insincerità", eccettuatene solo (ma per suscitare in alcuni l'opposta e complementare condanna moralistica) le poesie dedicate all'amore omosessuale: doppio errore, questo, perché quelle liriche erotiche (misteriosamente designate dall'autore con una sigla - la lettera T - che ha fatto impazzire gli studiosi) non sono certo né le più significative né le più immediatamente autobiografiche, modellate come sono sugli epigrammi dell'Antologia Palatina. Piuttosto, rovesciando il giudizio, trovo in Kavafis una straordinaria attitudine a "erotizzare" la Storia facendo rivivere ciò che il tempo o l'erudizione hanno imbalsamato. Grande lettore degli storici antichi più ancora che dei poeti, grande "osservatore" di lapidi, di monete, di bassorilievi, morbosamente fascinato dalle date, Kavafis trovava la sua ispirazione nei dettagli trascurati e appunto nelle zone d'ombra (com'è proprio della vera poesia alessandrina): "Chiarita infine l'epoca / avrei deposto il libro, se una notizia breve, / irrilevante, del re Cesarione / non m'avesse d'un tratto reso intento.../ Oh, sì, giungesti tu, con quell'ambigua / malìa. La storia, poche righe / ti dedica. Così / ti plasmò con un estro più libero la mente. / E sensitivo e bello ti plasmò". Sono versi da Cesarione (1915) nella versione di Filippo Maria Pontani, ma altrettanto a proposito potrebbero citarsi quelli dedicati a Nerone poco prima di essere sconfitto da Galba (La scadenza di Nerone), ad Antonio al momento della sua deposizione (Il dio abbandona Antonio), ad Antioco Epìfane, a Demetrio Sotere, a Manuele Comneno e a tante altre figure rese fraterne da una letteratissima pietas. Giova qui rammentare come alla cultura classica il giovane Costantino si rivolgesse con l'animo di chi cerca la propria identità: lui che nato da famiglia greco-turca ad Alessandria d'Egitto (allora Protettorato britannico) trascorse tutta l'infanzia in Inghilterra, e che una volta tornato ad Alessandria dovette riconquistare con lo studio la lingua "materna". L'inglese per il lavoro e il greco (un neogreco fortemente venato da arcaismi, autentica lingua "decadente") per la poesia: in questa rigorosa separazione si coglie l'aspetto rituale e liturgico della consuetudine poetica di Kavafis, il quale aveva un senso così etico della forma da rifiutarsi per tutta la vita di pubblicare in volume i propri testi, preferendo distribuirli manoscritti o ciclostilati su fogli volanti che gli amici raccoglievano formandosi ognuno un proprio "canone" kavafisiano; sottoposti ad un ininterrotto processo di correzione, quei testi erano superati già pochi giorni dopo la loro distribuzione, secondo un movimento non meno distruttivo che costruttivo. Oggi tanta incontentabilità, oltre a fare della filologia kavafisiana uno degli ambiti più ardui della variantistica, ci appare anche come il segno più evidente della vocazione di Kavafis a scomparire, a negarsi. "Dalle cose che feci o che dissi / non cerchino d'indovinare chi fui. / C'era un impedimento a trasformare / il mio modo di vivere e di agire. / C'era un impedimento che m'interrompeva / molte volte che stavo per parlare. / Dalle mie azioni meno appariscenti / e dai miei scritti più velati / da questo solo mi conosceranno": è l'inizio della poesia Cose nascoste (versione di Nicola Crocetti). Eppure questo poeta dell'ombra fece dire al "concittadino" Ungaretti: "A volte, nella conversazione, lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere".

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