Saggistica Psichiatrica I

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La narrazione cinematografica e la malattia mentale - La follia descritta dal cinema

Arte, creatività e follia

Il video nelle tecniche dell'educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale

Violenza giovanile e crudeltà ancestrale

 

Giuseppe Paradiso

Ecco alcuni miei saggi, comparsi nella Rivista

Formazione Psichiatrica

Periodico Trimestrale a cura della Clinica Psichiatrica

dell'Università di Catania

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in: Formazione Psichiatrica, Anno XX, n° 1-2- Gennaio Giugno 1999

 

La narrazione cinematografica e la malattia mentale

LA FOLLIA DESCRITTA DAL CINEMA

 

L’inevitabile incontro tra cinema e follia

L’alterazione mentale, con la sua esperienza tragica, anticipa la morte e minaccia l’esistenza degli uomini, rendendoli sempre più deboli e meschini di fronte alla vita. L’ascesa dell’interesse per la follia ha fatto sì che essa sia stata rappresentata non solo nella letteratura, ma anche nella pittura, nella musica e, da ultimo, nel cinema.

Il cinema, in quanto immagine e fictio, è una tribuna privilegiata per l’esame della psicologia del personaggio, che può essere analizzato con la tecnologia suggestiva delle elaborazioni filmiche. I rapporti tra cinema e patologia furono già bene evidenziati, per esempio, nella cinematografia tedesca del periodo espressionista, in cui vennero descritti stati d’animo enfatizzati con chiari riferimenti ai contenuti dell’inconscio.

E così, sebbene il cinema sia nato più tardi del teatro e della letteratura, l’analisi che esso fa della "persona", è altamente coinvolgente. Dall’unione di cinema e psichiatria è nato un proficuo binomio, il cui campo di applicazione è vasto ed articolato, perché spazia dai film interiors e d’arte, allo studio e alla ricerca psichiatrica vera e propria.

Utilizzando i mezzi tecnici espressivi (primi piani, riprese "in soggettivo", montaggio, sovrapposizioni di immagini, effetto allucinazione, compressione del tempo e dello spazio, etc.), ed equilibrando sequenze espressive, tempi reali, narrazioni metaforiche, si possono esprimere tutte le impercettibili sfumature dei più intriganti stato d'animo.

Nella sequenza cinematografica, parola e mimica danno rilevanza emblematica alla psicopatologia, sottolineandone, anche a mezzo di allegorie, le sfaccettature esistenziali.

Non a caso l’Imago ha un ruolo primario nella strutturazione della psiche. L’immagine, infatti, è la prima forma di comunicazione e, più della stessa parola, è la primaria forma di stimolazione e di conoscenza. La qualcosa fa del cinema, sequenza ininterrotta di immagini, uno strumento per la comprensione dei disturbi psichici

Se, agli inizi, "la decima musa" venne considerata un semplice mezzo di divertimento, dopo i primi passi, l’industria cinematografica, per avere uno sbocco concreto e duraturo, dovette uscire dalla narrazione ludica, dal passatempo leggero, per affrontare, con vigore, problemi e tematiche più complesse. E poiché il cinema manda in onda messaggi che richiamano l’attenzione di milioni di persone, esso è la forma più immediata di propagazione della cultura di massa.

Le sceneggiature, sempre con maggiore precisione, analizzano la psicopatologia e le radici della disperazione umana. I casi clinici di S. Freud, e L’interpertazione dei sogni, sono stati molto consultati per migliorare la "credibilità psichiatrica" di molte trame. Anche Un caso di stupore isterico, in cui C. G. Jung delinea un quadro dei malati di mente caratterizzato da confusione allucinatoria, disturbi alterni della personalità, amnesie, risposte senza senso, perdita delle cognizioni, etc. è stato un libro sul quale gli addetti alla sceneggiatura hanno posto attenzione.

Registi e sceneggiatori si sono inoltre ispirati, per produrre film a sfondo psichiatrico, anche agli scritti di psichiatri e psicoanalisti molto noti, e in particolare, a Laing, Schatzman, Fromm, Binswanger, Moreno, Fornari, Lacan, Basaglia, Cooper. Due famosi psicoanalisti Karl Abrahams e Hanns Sachs hanno collaborato col regista Georg Pabst, ritenuto una delle personalità di maggior rilievo del cinema, alla stesura di alcuni film come La via senza gioia (1925), I misteri di un’anima (1926), e Il diario di una donna perduta(1927).

Il regista Luigi Bazzoni intervistato sui motivi per i quali ha prodotto film a sfondo psichiatrico, ha detto di essersi sempre interessato di psicologia, psichiatria e psicoanalisi. Liliana Cavani, per sceneggiare L’ospite, storia di una donna che è stata a lungo in un manicomio, ha condotto indagini accurate, esaminando, con vari sopralluoghi, la situazione della struttura ospedaliera ove la ammalata era stata internata ed ha incontrato gli psichiatri che avevano seguito quel caso. Nelo Risi ha affermato che più che dai propri studi di medicina, le sue scelte psichiatriche sono state dettate dallo spazio che la malattia mentale ha in letteratura. Secondo Risi, il fascino della psicologia è dato dal fatto che, grazie ad essa, si comprendono gli insospettabili risvolti patologici dell’animo umano. Il regista, per girare correttamente Diario di una schizofrenica, passò molte settimane a contatto con gli schizofrenici degenti in una struttura, perché voleva capire al meglio le sfumature della loro malattia.

Sono molti, dunque, i registi che hanno delineato la follia sotto vari aspetti, anche se non sempre le loro opere hanno trovato consensi nella psichiatria ufficiale. In qualche caso, inoltre, le sceneggiature non hanno seguito le sistemazioni filologiche e nosografiche introdotte dalle versioni del DSM, mantenendo terminologie ormai desuete per la psichiatria ufficiale. Per una questione pratica, in molti casi, i registi hanno preferito restare negli schemi linguistici della tradizione culturale e letteraria alla quale la gente è abituata, rendendo così più comprensive le specifiche psicopatologie.

Tuttavia, se pure il cinema non sempre si è adeguato alle terminologie e ai raggruppamenti diagnostici dell’ultima generazione di DSM o di ICD, esso è anche un laboratorio di cultura. Introducendo, nelle sale di tutto il mondo, una serie di battaglie ideologiche, esso ha scosso e svegliato le coscienze.

In molti casi la cinematografia ha veicolato temi che, per la difficile iniziazione culturale, sarebbero rimasti retaggio esclusivo degli addetti ai lavori. Inoltre, lo spettatore, entrando nel gioco identificativo, s’avvicina a volte più del comune lettore al nocciolo narrativo-rappresentativo. Pertanto, grazie alla divulgazione filmata, anche gli argomenti più scottanti hanno avuto vasta diffusione tra le gente comune.

La follia è, così, uno degli argomenti più affascinanti e maggiormente elaborati dal cinema. L’industria cinematografica ha prodotto su questo tema opere particolarmente ricche e complesse, piene di risonanza emotiva, con sceneggiature che tengono presente la lettura psichiatrica o psicoanalitica della vicenda e con un impianto narrativo frutto di un approfondito studio dei caratteri.

Molti film dedicati alla follia, sottolineando la crisi della razionalità, mostrano la precarietà della mente umana e introducono un senso di contingenza e di spaesamento negli spettatori. Ma questa presa di coscienza, orientando lo spettatore verso i significati inconsci del pensiero e del comportamento, ha stimolato un profondo cambiamento nella mentalità della gente. Infatti i film a carattere psichiatrico hanno contribuito a mettere in guardia la mentalità comune dalle trappole del pregiudizio e a creare un lucido distacco da tutto ciò che è ovvio e convenzionale.

Quando, alla fine dell’Ottocento, Charcot, a Parigi, iniziò a fotografare i malati della Salpêtrière, con la sua intuizione gettò le basi per la diffusione di una vasta indagine sulla malattia psichiatrica. Una indagine che si sarebbe estesa, oltre l’ambito accademico, al grande pubblico. E dunque, la fonte principiale di informazione di massa è stata proprio la narrazione cinematografica, la quale ha tradotto, per i non addetti ai lavori, problematiche mai prima uscite dall’ambito accademico e terapeutico.

In Usa, sin dai tempi del film muto, l’interesse per la psichiatria è balzato subito all’attenzione dei produttori . The Case of Becky (1921), narra la storia di un esperto neurologo, e uno psichiatra è il protagonista del film The Man Who Saw Tomorrow(1922).

Dopo quegli inizi, la cinematografia si è addentrata sempre più nella tematica psichiatrica, e molti aspetti della follia sono stati affrontati per descrivere il paziente psichiatrico.

 

La follia

Tuttavia, in qualche caso, la pazzia dei personaggi cinematografici è metaforicizzata, o romanzata, per necessità sceniche e di produzione. E dunque, a volte, non sono messe in luce "tecnicamente" le sfaccettature della patologia mentale, che viene interpretata, invece, con una codificazione che serve a rendere il personaggio più "vicino" alle platee, ma più lontano dallo schema psichiatrico, tanto da rischiare di farne un fantoccio.

In certi casi, dunque, la narrazione della malattia perde verità e complessità e il malato resta bloccato in un canovaccio psichico da palcoscenico. A volte alcune storie, come per esempio La Sindrome di Stendhal (1995) di Dario Argento, hanno una grande presa sul pubblico, ma certamente non contribuiscono a migliorare la cultura psichiatrica della gente.

Una delle situazioni cinematografiche più suggestive ed emblematiche è lo sdoppiamento della personalità. Il romanzo di Robert Stevenson, Lo strano caso del dr Jekyll e del signor Hyde, che l’autore scrisse nel 1886, è stato portato sul set sin dal 1920, (Dr Jekyll and Mr Hyde, di John S.Robertson).

In seguito, a questo romanzo hanno attinto vari registi. Il racconto di Stevenson mise a nudo le tensioni che serpeggiavano sotto la composta superficie della conformista società vittoriana. Una società che voleva evitare tenacemente qualsiasi trasgressione.

In una celebre versione cinematografica del Dr Jekyll, del 1932, il protagonista, l’attore Frederick March, è uno scienziato che scopre dentro di Sé un orribile alter ego. Questo occulto Mr Hyde emerge dall’inconscio del medico quando questi beve una strana pozione. Il racconto vuol mettere in luce le connessioni e le ambiguità esistenti tra civiltà e natura selvaggia. Il dr Jekyll, puritano e represso, muta, quando ingurgita l’orrenda mistura, in un individuo dai tratti selvaggi e preda degli istinti primordiali. Il film ha una sua morale ed un messaggio chiaro: è pericoloso percorrere sentieri non tradizionali, perché così facendo si può intraprendere un cammino senza ritorno; infatti, utilizzando esperimenti rischiosi, si potrebbe precipitare per sempre nel Male.

Non meno stucchevole, ma più nota, è la versione cinematografica, con Spencer Tracy ed Ingrid Bergman, firmata da Victor Fleming nel 1941. Anche questo film mette in luce l’antinomia tra rispettabilità borghese e pulsioni inconfessabili, ma l’idea che potessero coesistere, nello stesso individuo, le forze del bene e quelle del male, creò scandalo negli ambienti bene e retrivi dell’epoca. Malgrado questo, però, il caso Jekyll-Hyde ha affascinato l’immaginazione popolare. Esso rappresenta la conturbante tematica dei molteplici aspetti della personalità. Una imprevista performance, può trasformare, improvvisamente, una persona tranquilla in individuo arrogante e un timido in personaggio violento. Pirandello delineò questo aspetto dell’animo umano in Uno, nessuno e centomila,

L’avvincente tematica della diabolica doppia personalità si trova anche ne La vedova nera (1987) di Bob Rafelson, in cui si scopre che una insospettabile poliziotta è la folle, diabolica assassina che la polizia ricerca.

Portando alle estreme conseguenze lo sdoppiamento della personalità, il regista presenta due figure speculari, quella del bene e quella del male, che convivono nella protagonista, e si attraggono e si odiano irresistibilmente.

La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock, è un viaggio psicoanalitico nei misteri dell’inconscio. Hitchcok, però, per motivi spettacolari, mescola, ad una trama thrilling, elementi psicopatologici non del tutto psichiatricamente corretti.

Donna fatale, psichicamente disturbata e tenebrosamente ossessiva, è la protagonista di Attrazione fatale (1987), che, dopo una notte d’amore, si trasforma in possessiva maga circe, folle e determinata. Alla sua apparizione nelle sale cinematografiche il film fece discutere sociologici, psicoanalisti e scatenò inoltre lo sdegno delle femministe che videro, in quell’ambiguo personaggio femminile, una ennesima riprova di maschilismo cinematografico. In Desiderio sotto gli Olmi(1958), del regista Delbert Mann, tratto da un romanzo di O’ Neill, vengono raccontati alcuni stati psicodinamici come l’ambiguità dell’aggressione-sottomissione e l’identificazione inconscia con i genitori, mediante patologie che, nel finale, trovano sbocco nell’infanticidio.

Ma, al di là degli stereotipi, il cinema, "penetrando visivamente nella coscienza", ha i mezzi per analizzare gli interstizi reconditi della follia. L’affondo della cinepresa nell’intimità mentale del personaggio, scandaglia e fissa ogni sfumatura, anche la più impercettibile, degli stati d’animo del soggetto. In una sequenza de L'ammutinamento del Caine (1954), di Dymitrik, si vede il capitano Queeg (Humprey Bogart) che, mentre viene interrogato dal tribunale, non riesce a smettere di girare nervosamente nella mano tre palline di ferro. L’espressione del viso, la tensione emotiva che traspare con primi piani sapientemente dosati, non necessita di parole per far comprendere allo spettatore il disagio psichico di cui è affetto l’accusato. In Magic (1978) di Richard Attenborough, uno schizofrenico, magistralmente impersonato dall’attore Anthony Hopkins, svolge la professione di ventriloquo, e a poco a poco si identifica col pupazzo, che diventa il suo incubo e la sua condanna.

In Vittime nel buio (1994) di D.Anspaugh, si raccontano le vicissitudini di una poliziotta alla quale lo stress della caccia ai criminali fa emergere stati ansiosi e d’angoscia. Aiutata da una psicologa, l’agente riesce a venire a capo dei problemi che l’affiggono. Il film, pur non avendo una vernice eccelsa, è interessante perché affronta il problema dell’equilibrio psicologico in un campo, quello delle forze dell’ordine, in cui, di solito, si da’ per scontato che siano tutti ben compensati e non abbiano problemi nevrotici.

La ragazza di Trieste (1982) di Pasquale Festa Campanile denunzia l’inquietante situazione di un malato di mente, in balia di se stesso e per di più perseguitato dai pregiudizi della gente, che si suicida per liberarsi del fardello insopportabile della solitudine. Purtroppo, infatti, a volte, i malati che sono stati liberati dalle nuove normative, non hanno nessuno che possa dare loro un aiuto efficace.

Quando il cinema contesta lo psichiatra

Un certo cinema, facendo proprie le inquietudini degli spettatori che vedono nello psichiatra "l’oggetto cattivo", l’esperto nella manipolazione, in senso autoritario, della mente, ha creato l’archetipo dello psichiatra quale detentore di un potere incontrollabile.

La critica nei confronti della psichiatria, svolta a vari livelli, in qualche caso ha raggiunto espressioni allarmanti. Qualche pellicola ha disegnato la figura dello psichiatra come uomo truce e malvagio, e persino criminale!

Storicamente "interiorizzata", questa contestazione è trasposta in immagini cinematografiche che hanno assicurato il successo di molti film, che fanno leva sull’inconscio bisogno di horror di una parte degli spettatori.

In questa categoria troviamo i film di Friz Lang, Il dottor Mabuse (1922), che narra di un individuo affetto da una drammatica e pericolosa psicopatologia. che si spaccia per uno psichiatra e Il testamento del dottor Mabuse (1923) in cui il dottor Baum, direttore del manicomio, conduce una doppia vita: di giorno fa lo psichiatra e di notte dirige una banda di criminali.

Troviamo la demonizzazione dello psichiatra in tanti altri film conturbanti, che insinuano il sospetto che, dietro l’apparenza di uno stimato psichiatra, si possa nascondersi un folle. Uno di questi racconti è Stati di allucinazione (1990) di Ken Russell, in cui uno scienziato si trasforma in un mostro psicopatico. Il lenzuolo viola (1980) di Nicholas Roeg, narra di uno psicoanalista che è un perverso necrofilo. Vestito per uccidere (1980), di Brian De Palma, racconta, con una serie di sequenze di alta suspence, la vicenda di uno psichiatra pazzo.

Un altro aspetto della contestazione contro psichiatri e psicologi, è quello di presentarli in preda alle angosce che li rendono vulnerabili. Mostrandoli come individui disturbati, la loro immagine professionale perde efficacia e gli spettatori si sentono più rassicurati. In Elettroschock (1964) di Denis Sanders, per esempio, è narrata la vicenda di una psichiatra, impersonata dall’attrice Lauren Bacall, che impazzisce.

Il film Per le antiche scale ( 1975) firmato da Mauro Bolognini, è imperniato sul tema dello psichiatra non sano di mente. Nel racconto, il primario di un ospedale neuropsichiatrico cerca di isolare il virus della follia; non per amore scientifico, ma perché è ossessionato dall’idea di essere egli stesso pazzo. Il medico ritiene di aver contratto il virus della follia, sia per contagio, essendo stato a lungo tra i malati mentali, sia perché nella sua famiglia vi sono delle tare mentali. Suo padre infatti è morto suicida, e sua sorella è degente nello stesso ospedale. L’ossessione del medico lo sconvolge sempre più fino a portarlo alla follia.

 

Ridere del terapeuta

Una vasta produzione cinematografica, invece, preferisce esorcizzare la follia. In certi casi, dunque, il matto non è più visto nella sua condizione inquietante, ma è tramutato in macchietta, che scatena il riso e l’ilarità impietosa degli spettatori, come nel caso di Scemo & +Scemo(1996) di Peter Farrelly.

Il film di Fallery è un vero compendio di demenzialità bonaria e clownesca, prodotto forse proprio per rasserenare gli spettatori. Infatti sembra che in questi casi gli sceneggiatori vogliano dire: "Se lo spettatore, dopo aver visto un film come questo, pensa che c’è qualcuno più svitato di lui, allora abbiamo portato a termine un’opera rassicurante". In fondo, tra i temi più graditi al pubblico, c’è proprio la derisione, esorcistica e catartica, per le difficoltà in cui è caduto il personaggio, rappresentato, a bella posta, maldestro e un po’ svitato; come se lo spettatore, tutto sommato si consolasse di non essere nella condizione del malcapitato.

E non solo il folle, ma anche il medico qualche volta è beffeggiato e demitizzato. Con questa operazione, il professionista della mente, ritenuto dai più un individuo conturbante che intimorisce e preoccupa, è presentato in tutta la sua fragilità e vulnerabilità, e ciò fa scaricare la tensione degli spettatori e fa prendere le distanze da un genere di medico che, nella realtà, impaurisce e sconvolge la fantasia popolare.

La contestazione alla psichiatria si articola, inoltre, anche mostrando il terapeuta della mente come personaggio imbranato e risibile, facilmente soggetto di scherno. E così, alcuni film narrano, in chiave farsesca, le avventure di psichiatri e di matti trasfigurati in ridicole maschere. Questo gruppo di pellicole è prodotto dall’industria dello spettacolo per rilassare la platea e cancellare nella gente la paura della follia. Equivoci, qui pro quo e situazioni farraginose e burlesche, mettendo in berlina sia il matto che chi lo cura, ne esorcizzano la pericolosità.

Psichiatri farseschi, più matti dei loro pazienti, si trovano in Il medico dei pazzi (1954), di Mario Mattioli, che, con gag grottesche ed equivoci grossolani, rende innocuo lo strizzacervelli.

Giocando sulle carenze affettive e sulle insicurezze di uno strampalato psicoanalista, il film di Francesco Nuti, Caruso Pascovski (di padre polacco) (1988) narra le vicende di uno psicoterapeuta abbandonato dalla moglie. Il medico viene a sapere che la moglie ha un amante, il quale altro non è che un cliente che egli ha in analisi per omosessualità. Lo stesso paziente, ignaro che la donna è la moglie del medico, racconta al terapeuta, con gran dovizia di particolari, le intimità sessuali con la signora. Lo psicanalista, che invece ha scoperto la tresca tra il paziente e la propria moglie, dopo quelle confidenze, crolla in una devastante crisi di gelosia e, con il cervello ormai in tilt, finisce con lo sparare come un forsennato in un supermercato. Il regista Nuti strapazza la figura dell’analista, mostrando, inoltre, con irriverente derisione, l’orripilante campionario di persone che frequentano lo studio di uno psicoanalista. Il racconto, denigratorio, è fin troppo irritante.

Una presa in giro più soft, si ha in Psicanalista per signora ( 1959) di Jean Boyer. Il film narra di un veterinario, il comico Fernandel, che diventa famoso per aver guarito, col buon senso, i disturbi psicologici di una donna che gli specialisti non avevano saputo curare. Il sorprendente successo spinge il veterinario a fare lo psicoterapista a tempo pieno. Per denigrare e rendere ridicola la conturbante figura del medico della mente, gli sceneggiatori hanno trasformato un veterinario, a quel tempo considerato il grado basso della classe medica, in psicoanalista, caricando così, nell’immaginario della gente, questa figura di grottesca ambiguità. Il messaggio è chiaro: persino un veterinario potrebbe far meglio di uno specialista della follia.

Sulla stessa sintonia è Un divano a New York (1998), di Chantal Akerman, che narra la vicenda di uno psicoanalista il quale, volendo trascorrere qualche tempo a Parigi, fa scambio del suo appartamento newyorkese con la dimora parigina di una signora francese che vuole per un po’ abitare a New York. Per una serie di equivoci, la signora francese viene scambiata per psicanalista e, la donna divertita dall’equivoco, prende in cura i malati assistendoli in modo più efficace dello stesso psichiatra.

In Lo strizzacervelli (1997), di Michael Ritchie, c’è comicità e satira che non vanno certo per il sottile nel prendere in giro quella categoria. Nel racconto, un malato di mente si sostituisce al suo psicoanalista, diventando una star televisiva. E anche se il meccanismo degli equivoci è un po’ scontato, il film è piaciuto al grosso pubblico, forse proprio per la sua irriverenza.

La fine della fine (1978) è un film di modesta levatura, con la regia dell’attore Burt Reynold, che narra le avventure tragicomiche in un manicomio gestito in modo grottesco. Sempre Burt Reynold, ma questa volta solo come attore, in I miei problemi con le donne ( 1983) di Blake Edwards, è un paziente che s’innamora della sua psicoanalista. Il film, scialbo e scontato, manca di credibilità, sebbene, paradossalmente, sia stato un vero psicoanalista, il dottor Milton Wexler (che a quel tempo aveva in cura il regista) ad aiutare Edwards nella stesura della sceneggiatura.

Terapia e pallottole (1998) di Harold Ramis, strappa alcune risate narrando la vicenda di un terribile gangster che, in preda alla depressione piange come un bambino e vuole essere curato da un imbranato e terrorizzato psichiatra, il quale invece cerca di rifiutare quell’incarico, ritenendo imprudente avere in terapia un pericoloso criminale.

Uno stravagante Jack Nicholson è l’esilarante protagonista di Qualcosa è cambiato (1997) di James Brooks. Il film, basato tutto su un brillante dialogo, narra le vicissitudini di un misantropo, con variegate sindromi affettive e ipocondriache, ma in pratica, rende risibile quel tipo di malato mentale.

 

Lo psichiatra minaccioso

Nell’immaginario collettivo, lo psichiatra è visto come colui che ha licenza di manipolare le menti, prerogativa che gli da’ un’allarmante valenza negativa. Ciò ha indotto alcuni registi a descrivere il medico della mente anche nei panni di un truce alleato del potere, una specie di longa manus dell’autorità politica, la quale, in qualche caso, come nelle dittature, per esempio, si serve di lui per sottomettere la popolazione più riluttante.

Questa preoccupante commistione tra potere e follia si trova in un film fantascientifico di Lang, Metropolis (1926), in cui l’autore racconta che un immaginario dittatore, Frederson, ha reso schiavo il suo popolo. La gente sopporta l’oppressione di Frederson perché spera che Maria, una mansueta ragazza, che ha un ascendente su Freder, il figlio del dittatore, la possa liberare dalla schiavitù. Ma Frederson, sospettoso del patto d’amicizia tra la ragazza, Freder e gli operai, commissiona a Rothwang, scienziato pazzo, un mostro-robot, che ha le sembianze di Maria. Il sosia viene programmato per creare zizzania negli ignari cittadini, che, non immaginando che si tratti di un tranello, credono nei nefandi consigli della falsa Maria, e rompono l'unità della popolazione. Il film tocca i temi della follia, del doppio (il robot pazzo e la donna reale) e della manipolazione massificata delle menti, sottolineando altresì quanto poco ci vuole per far esplodere la stupidità collettiva.

Una storia che narra la conturbante mancanza di deontologia è Analisi finale (1991) di Phil Joanou. Nel film, uno psicoanalista, l’attore Richard Gere, è coinvolto sessualmente da due seducenti gemelle; una è sua paziente, l’altra, con tendenze criminali, s’inserisce nel training senza che il medico se ne renda conto. Il messaggio dell’opera è fonte di inquietudine, anche perché viene fatto intravedere un deplorevole scenario all’ombra delle sedute terapeutiche, e ciò serve maggiormente a disinformare la fantasia popolare.

Lo stesso tema è trattato da Bugia allo specchio (1991) di Tim Hunter, che narra di una top model, innamorata del suo terapeuta, il quale ha un gemello, diabolico e cattivo, che, sostituendosi a lui nel set terapeutico, senza che né l’ignara paziente né il vero medico se ne accorgano, la seduce e ne fa la sua schiava. Anche in questo caso, sull’ambientazione del set psicoterapeutico vengono veicolate allarmanti paure, e si diffondono inesattezze e diffamatorie pericolosità a proposito del gabinetto dello psichiatra.

 

Il cinema portavoce della nuova psichiatria

Fortunatamente, però, se una certa cinematografia di bassa lega, ha rinforzato i pregiudizi, sulla cura e sulla deontologia degli specialisti, mostrandoli ora senza cuore e senza afflato umano, ora imbranati e in balia dei propri clienti, altre pellicole invece, cambiando prospettiva, descrivono e approfondiscono, senza preconcetti, i problemi più scottanti della psichiatria. Il vocabolario cinematografico è ricco di risorse e di mezzi d’espressione variegati, che consentono di analizzare gli aspetti più emblematici della follia. Un cinema più consapevole, riesce a realizzare così, con sufficiente realismo, personaggi psicopatologici credibili. Per rafforzare l’impianto culturale, gli sceneggiatori fanno ricorso a sociologi, psicologi, psichiatri, per essere guidati correttamente nella stesura dei testi con risvolti psichiatrici.

Inoltre, molti attori, prima di interpretare la parte di un malato di mente, seguono con attenzione i comportamenti di questo tipo di pazienti. L’attrice Lucia Bosè, dovendo impersonare nel film della Cavani, L’ospite, una donna rinchiusa in un lager manicomiale, frequentò a lungo il posto nel quale la storia vera era accaduta e visse tra quelle povere infelici, tanto che alla fine, per stessa ammissione della regista, "non ci fu bisogno di dire molto sulla protagonista del film. Lucia aveva avuto sotto gli occhi tutto ciò che doveva sapere per interpretare la parte"

La cinematografia segue spesso anche le tendenze psichiatriche e psicoanalitiche, nell'evoluzione delle teorie e delle pratiche terapeutiche. Qualche film, addirittura, ha affrontato temi scottanti, con singolare interpretazione della follia, contestando terapie e strutture. Ci sono film che pongono in discussione i metodi di ospedalizzazione, i tipi d’intervento sul cervello, la chirurgia devastante e l’eccesso di intervento farmacologico, entrando in una polemica così radicale, da negare persino la malattia psichiatrica come entità a sé stante, e ritenendola, invece, un prodotto della società alienante.

Il film La fossa dei serpenti(1947) di Anatole Litvak, anticipa i problemi della "nuova" psichiatria, e mostra soluzioni umanitarie per l’efficacia il trattamento. Il film ha come tema la inadeguatezza delle strutture psichiatriche, infatti Litvak narra i disagi dei malati causati dal sopraffollamento e dal tipo di trattamento, spesso inumano e freddo. Il film, prodotto negli anni Quaranta, contesta le terapie basate prevalentemente su elettrochoc e forme rudi di trattamento. Nell’opera, il dottor Kik, contro l’andazzo del tempo, prescrive a una malata la psicoterapia. Il regista mostra come, grazie all'analisi, la signora Virginia, (Olivia de Havilland) mettendo in luce i dilemmi irrisolti del proprio passato, capisce le cause, scatenanti, della propria follia. Quando venne prodotto questo film, la vecchia psichiatria era già "sotto accusa". L’inglese Roland Laing, l'italiano Franco Basaglia, l'americano Sullivan stavano gettando le basi dell'antipsichiatria.

Matti da slegare(1975), è un documentario realizzato all’interno del manicomio di Colorno, che illustrata il reinserimento sociale del malato, proprio come proposto dalle nuove tendenze. Lo sforzo cui tende il documentario è quello di far capire che il malato di mente non è un alieno e spinge a prendere persino in considerazione la possibilità che un pizzico di follia possa albergare, anche in parte, magari bene occultata, nei cosiddetti savi.

Su questa falsariga è Idioti (1998) di Lars von Trier. Nella vita il regista fa parte della comunità "Dogma 95", collettivo di autori danesi che praticano un’esistenza francescana, purezza dei sentimenti e si dicono in rotta con l’odierna, conturbante forma di greve quotidianità. Essi combattono inoltre certe tendenze alla superficialità che riscontrano nel cinema contemporaneo. Nel film di von Trier, un gruppo di persone, del tutto normali, si fingono idioti, e possono così rendersi conto del disprezzo e del razzismo della gente nei confronti degli handicappati. Il film è una forte contestazione contro la ipocrisia sociale che spesso porta alla alienazione.

Quattro pazzi in libertà ( 1989), di Howard Zieff, è la storia di alcuni malati di mente che si smarriscono a New York e che finiscono con lo scoprire, nel caos della Grande Mela, che i cosiddetti savi sono più matti di loro.

Alcuni registi, facendo proprie le istanze della nuova psichiatria, hanno disegnato la figura del vecchio psichiatra come strumento del sistema, che riordina le menti inquadrandole e modellandole, come vuole il potere, e divenendo garante dell’ordine costituito. E così, non poche opere delimitano la figura dello psichiatra e degli infermieri, in ambigui e pericolosi personaggi.

Un esempio è dato da Qualcuno volò sul nido del cuculo(1975), col quale il regista, Milos Forman, vuol dimostrare che i trattamenti violenti e anticonvulsivi servono solo a dominare il paziente, ma non a curarlo. La pellicola sottolinea pure che non è vero che i malati mentali siano persone senza cuore e senza cervello, come la massa tende a credere. Nel racconto, un gruppetto di matti riesce a dimostrare una certa sanità mentale e una umanità pari se non superiore ai "sani di mente".

A volte, la denuncia di un tipo di società senza cuore viene proprio da casi psichiatrici veri. Anche la televisione s’è assunto questo gravoso ma lodevole compito. Infatti è possibile trovare in alcune programmazioni Tv, documentari interessanti ed accurati che sottolineano l’aumento esponenziale dell’interesse del pubblico per i problemi della mente, questioni che qualche tempo addietro erano guardate con diffidenza se non con raccapriccio. Rai 3, in un dossier dal titolo Rosanna, le sue verità, per la regia di M. Gandin, andato in onda qualche anno addietro, narra l’incredibile vicenda di una donna, sana di mente, rimasta per molti anni in manicomio. Da ragazzina Rosanna viveva in una famiglia in cui il genitore era dedito all’alcool e la madre peregrinava in preda a crisi mistiche da un santuario all’altro. In assenza dei genitori, la giovinetta doveva accudire i fratelli; e poiché la famiglia versava in ristrettezze, fu anche mandata a servizio in città.

Ma non essendole stato mai insegnato come lavorare bene a casa, la giovanetta non soddisfece le esigenze delle famiglie dove prestava servizio e venne licenziata. I genitori, a quel punto, la ritennero una nullità. E poiché, dopo che ritornò in paese, Rosanna rivelava atteggiamenti indipendenti e giocava in piena libertà nei campi, i compaesani, temendo che potesse rappresentare una pericolosa e strampalata compagnia per gli altri bambini, la fecero rinchiudere in manicomio.

"Così ho potuto ricevere un buon pasto quotidiano", ha commentato Rosanna a Rai3. Ella rimase "dimenticata" nella fossa dei serpenti per quaranta anni, e solo grazie alla legge 180 poté uscire.

A sentirla parlare, con quell’aria riflessiva e pacatamente umana, è difficile immaginare come avessero potuta etichettarla "matta", ma, ciò che più sorprende è che non lo sia diventata dopo tanti anni di degenza.

A volte vi sono film che spiegano la dinamica di qualche tipo di disturbo mentale e descrivono psicosi, schizofrenia, stati nevrotici, aprendo un varco importante nella sensibilità di milioni di spettatori, perché fanno conoscere un campo ritenuto un garbuglio incomprensibile ed accessibile solo agli specialisti.

In Forrest Gump (1994), di Robert Zemeckis, la ragione umana è vista con una allegoria, come una piuma che ondeggia al vento, e non si sa a chi tocca la fortuna della saggezza o la sfortuna di perdere il senno. Il giovane Forrest, dotato di forte volontà e di un quoziente d’intelligenza che gli serve per attività che lo rendono un robot, riesce in molte attività anche meglio di altri. Il film è una critica radicale nei confronti delle istituzioni e della società accusate di esaltare qualità come la competitività e di essere, invece, indifferenti alla passività della mente. Così è la vita (1986), di Blake Edwards, commedia arguta, ma senza pretese, traccia con umorismo la figura di un ipocondriaco (l’attore Jack Lemmon) e quella di una madre ossessiva e castrante.

Morgan, matto da legare (1966), di Karel Reitz, vuol essere provocatorio, ed esalta la follia creativa. Al contrario, Oblomov (1979) del russo Nikita Michalkov, descrive il parassitismo psicologico. Nel film, il protagonista è un ricco possidente che vive tra l’infingardaggine e la passività morale. Questa carenza di entusiasmo, dovuta al taedîum vitae, lo rende apatico e del tutto simile al malato psichico.

 

Il cinema e ricerca psichiatrica

La follia, con i suoi significati simbolici, è entrata nell’orizzonte culturale del cinema sia come pretesto artistico, che come ricerca e definizione della malattia. Tuttavia, il viaggio intrapreso dalla industria dello spettacolo è certamente temerario; infatti in qualche caso gli sceneggiatori sono stati criticati quando non hanno adottato un autocontrollo rigoroso, creando così un prodotto mistificato. Si è temuto che, se l’industria del cinema affronta il tema della follia solo per fini spettacolari, essa possa allontanarsi dal rigore scientifico, creando confusione negli spettatori tra la categoria della finzione scenica e quella del documento scientifico.

Malgrado ciò, questa operazione creativa (e conoscitiva) ha affrontato, nei casi più impegnati, temi psichiatrici di ampio respiro, che non avrebbero potuto essere conosciuti dalle masse, che spesso sono disattente alla lettura. In ogni caso, i film sull’argomento hanno, quanto meno, il pregio di spingere lo spettatore ad addentrarsi in una problematica affascinante, ponendo una serie di interrogativi, che, altrimenti sarebbero sfuggiti all’attenzione dei più.

Affrontando il tema della schizofrenia, Repulsione (1965), di Roman Polanski, mostra l’insorgere della malattia e il suo culmine, nelle drammatiche sequenze in cui la protagonista malata, in preda ad allucinazioni, diventa una pluriomicida. Ma Polanski indulge un po’ troppo nelle esigenze sceniche e si lascia trasportare dal facile istrionismo che non sempre giova alla scientificità.

A volte qualche pellicola narra fantasiose e improbabili terapie per la cura delle malattie mentali.

Ne Lo strano caso dal dottor Kildare (1940) di Harold S. Bucquet, uno psichiatra, il dr Kildare, curando un malato con problemi mentali, risolve il caso mediante una overdose di insulina. Nel film, il paziente, dopo questa applicazione terapeutica, torna guarito alla sua vita normale.

Ottimista anche il film Patch Adams (1996) di Tom Shadyac, che racconta la vicenda di un medico, impersonato dall’attore Robin Williams, il quale è convinto della bontà terapeutica dell’allegria, e, malgrado lo scetticismo di altri medici, applica, con buoni risultati, la psicoterapia dell’ottimismo e della risata. Il film è biografico, perché prende spunto dalle vicende di un medico di Arlington, Hunter "Patch" Adams, che si è autointernato per capire meglio, vivendo assieme ai pazienti, i disturbi mentali e gli istinti suicidi dei malati. In Risvegli (1990), di Irwin Winkler, con R. De Niro, un medico sperimenta una cura per i malati affetti da encefalite letargica, i quali vegetano da anni, e, sorprendentemente, riesce a farne svegliare uno dal torpore. Ma il finale ha una nota un poco dolente, perché il malato, che sembrava tornato sano, rientra mestamente nel suo sonno mentale, com’era prima della "nuova" terapia. Il film è liberamente tratto da una raccolta di casi clinici di Oliver Sacks, il quale ha anche collaborato alla stesura della trama ed è andato più volte sul set quando venivano girate le scene più importanti.

Un’analisi dell’handicap è fatta in Rain Man-L’uomo della pioggia (1988), da Barry Levinson. Il film, condotto con meticolosità, risulta quasi un documentario. Il regista, infatti, ha curato di delineare le varie sfumature, e le sfaccettature dell’autismo, mostrando buona parte della gamma dei comportamenti di quel tipo di paziente. Ovviamente, l’autismo "vero", non la fictio cinematografica, come del resto qualsiasi disturbo mentale reale, rispetto a quello "narrato" dal cinema, è qualcosa di diverso, di tragicamente diverso. E tuttavia, che se ne parli con un linguaggio non del tutto tecnico e in termini accessibili ai più, che si possa accedere ad una certa cognizione della dinamica psicopatologica, che siano percepibili, magari nelle grandi linee, certi disturbi della mente, è un dato estremamente positivo ed un motivo in più per non additare a disprezzo la malattia mentale.

Interessante l’iter di Diario di una schizofrenica (1969) di Nelo Risi, film che, sulle prime, ebbe pochi consensi da parte degli ambienti specialistici. Risi racconta la storia vera di un soggetto schizofrenico, salvato dalla psicoanalista M. A. Sechehaye. Il regista era venuto a conoscenza di quel caso leggendo il libro della Sechehaye e ne era rimasto colpito al punto da chiedere a Cesare Musatti un aiuto per stilare la sceneggiatura. Musatti, però, espresse il suo scetticismo sulla possibilità di realizzare cinematograficamente una storia psichiatrica, ritenendola una operazione molto rischiosa dal punto di vista della "correttezza nosografica". Ma Risi non si diede per vinto, e ricorse alla consulenza di un altro psichiatra, Franco Fornari, col quale varò la stesura del film. In seguito, Musatti, avendo visionato il film ultimato, riconobbe che il regista aveva fatto un buon lavoro di sceneggiatura "psichiatrica". Il Diario di una schizofrenica venne anche presentato, nel 1970, al Congresso internazionale di psicoanalisi di Trieste.

 

La "dolce" follia

Ma, se da un lato la follia è stata intesa dagli sceneggiatori come accecamento senza scampo, dall’altro, in qualche caso, è stata considerata distributrice di verità ed anche di libertà dalle regole sociali che imbavagliano e legano gli individui in sterili schemi di comportamento. In sostanza, in qualche caso il cinema ha descritto la follia come espressione di sanità mentale, come opposizione a un mondo violento che non rispetta la sensibilità umana.

Che a volte siano scambiati per devianze mentali alcuni comportamenti un poco eccentrici, ma amabili e disinteressati, e che, in qualche caso, siano ritenute folli le sfaccettature dell’affabilità, è la tesi di Henry Koster, che, in Harvey(1950), racconta di un certo signor Elwood P.Dowd (ottimamente impersonato da James Steward), il quale "ha deciso", che in un mondo crudele, bisogna avere almeno un amico sincero. E poiché nella realtà non ne ha trovato, se ne "inventa" uno, un grande coniglio bianco, che chiama Harvey. Con questo immaginario animale Elwood Dowd dialoga, va a passeggio e frequenta i bar. Il protagonista del film è un uomo così amabile, indifeso e psicologicamente trasparente che riesce a insinuare, persino nella mente del direttore della clinica psichiatrica ove è stato ricoverato su invito della sorella, una sciocca e banale creatura senza umanità, che la compagnia di Harvey, può salvare dal grigiore di una vita insulsa.

Paradosso dei paradossi, il medico, che poi risulta un uomo senza veri amici, chiede a Dowd di "prestargli" il coniglio per avere, a sua volta, anch’egli un poco di compagnia.

In alcuni film come Accadde una notte(1934), o Mr Smith va a Washington(1939) di Frank Capra, i piccoli deliri fanciulleschi, le piccole manie degli strampalati protagonisti sono considerati comportamenti più sinceri ed "umani" degli ampollosi e falsi comportamenti di coloro che, considerati sani, in realtà, a ben guardare, non lo sono affatto. Capra assegna alla follia la funzione di un viaggio in qualche caso umano e illuminante.

 

Il cinema freudiano

Sulla teoria psicoanalitica il cinema si è particolarmente soffermato e sono molte le pellicole che hanno trattato il problema.

Già nel 1922, troviamo l’attore Will Rogers che recita, nel film One Gloriosus Day, la parte di un affabile professore di psicologia al quale la gente si rivolge per avere consigli sulla comprensione del proprio sé. Sull’onda della freudmania, a quel tempo circolava ad Hollywood una famosa canzone che scherzosamente diceva pressappoco così: "Non dirmi cosa hai sognato stanotte, perché ultimamente ho studiato Freud".

Le teorie dello psichiatra viennese e di altri psicoanalisti divennero di moda, ad Hollywood, grazie al salotto di Adeline Jaffe Schulberg, moglie del produttore cinematografico B. P. Schulgerg. Il suo "cenacolo" fu il punto d’incontro di cineasti, psichiatri, psicologi e psicoanalisti.

Marie Bonaparte, allieva di Freud, narra, nella sua biografia, che agli inizi del secolo Hollywood s’infiammò ben presto delle teorie freudiane, e che Samuel Goldwyn, proprietario della Metro G. Mayer, nel 1924 andò a trovare lo psichiatra viennese per chiedergli di collaborare alla stesura di alcune trame cinematografiche incentrate sulla teoria psicoanalitica. Freud, troppo occupato dai suoi studi e dal lavoro di terapeuta, declinò l’invito.

Lo psichiatra viennese non poteva prevedere che le sue idee sarebbero state propagandate, in modo tanto sistematico e capillare, proprio dalla cinematografia. E, sebbene il cinema non abbia portato sullo schermo, sempre in modo impeccabile, i principi freudiani, ha comunque contribuito, forse più dei saggi dello psichiatra viennese, letti solo dagli studiosi, a diffondere nelle masse la mentalità psicoanalitica.

Il cinema, utilizzando la teoria freudiana, anche con brevi allusioni, ha reso più comprensibile al vasto pubblico la dinamica dei disturbi psichici. Sull’onda del successo di questa operazione di diffusione del "freudismo", nel 1963, il regista John Huston portò sullo schermo la biografia del padre della psicoanalisi. Freud passioni segrete narrando il cammino del medico viennese per arrivare ad essere apprezzato dalla scienza ufficiale, avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni del regista, un affresco su Sigmund Freud e sulla psicoanalisi. Ma l’opera di Huston non è risultata pari alle aspettative, anche perché, spesso, indulge sia al mélo che al thriller, soprattutto quando affronta i casi trattati dal giovane Freud.

La commistione tra letteratura e freudismo ha portato molti sceneggiatori a stilare soggetti che hanno messo a fuoco l’analogia tra l’immagine cinematografica e quella onirica. La follia è accomunata al sogno, in quanto nel sogno è facile che emerga la dinamica psicopatologica. E poiché i sogni, sin dall’antichità erano ritenuti essenziali per intendere ciò che accade nello stato di veglia, anche la follia lancia, con la sua stravaganza ed originalità, simboli inquietanti per la comprensione del reale.

Nel rapporto tra cinema e sogno si sono cimentati molti registi. Danny Boyle con il suo Trainspotting (1996), Korosawa con Sogni (1990), Kathryn Bigelow con Strange days (1995), etc. Emblematico, al riguardo, è Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman, che sta a metà strada tra la recherche proustiana e l’analisi onirica psicoanalitica. Il film narra di un medico, un anziano luminare della medicina, apparentemente sereno, ma in realtà in crisi come marito, come padre e come professionista, che va alla ricerca del suo passato emotivo e, tra incubi e angosce, alla fine, "ritrova un equilibrio risanato".

In Images (1972), di Altman, il tema è quello degli inutili tentativi di una donna di liberarsi dei fantasmi della sua mente. Il film si snoda come discorso onirico, e mostra, con emblematiche immagini di fantasmi e di incubi, ciò che affolla la mente della protagonista affetta da una disturbo mentale che la porta a scambiare la identità delle persone e, in particolare, a confondere, nella fantasia, gli uomini che ella ha amato, fino a portarla alla tragedia.

Gente comune (1980), film che segna l’esordio alla regia di Robert Redford, esalta, forse anche troppo, la figura di uno psicoanalista. Il film toccando una corda molto sensibile del pubblico statunitense, ha ricevuto vari Oscar.

In Io ti salverò(1945), Alfred Hitchcok affronta il tema freudiano. Il film narra la vicenda del direttore di una clinica per malattie nervose, afflitto da gravi turbe mentali. Sarà la sua assistente, che, praticandogli una sorta di analisi selvaggia, lo tirerà fuori dall’abisso in cui era caduto. Io ti salverò esalta l’efficacia della terapia psicoanalitica, e mostra come, analizzando il passato, possano riemergere traumi a lungo rimossi, e far venire a capo dell’origine della malattia. Nel film, Gregory Peck, scombussolato protagonista, viene salvato da Ingrid Bergman, che lo spinge a ricordare il trauma rimosso. Hitchcok, in questo e in altri suoi film, tratta la psicoanalisi con un tocco simile al "giallo", ritenendo forse che l’indagine analitica, nello scandagliare l’inconscio, maneggia una materia inquietante al pari di un thrilling.

Uno straordinario quartetto si trova in un altro film di Ingmar Bergman, Come in uno specchio (1961). I quattro personaggi sono: Karim, da poco uscita dallo ospedale psichiatrico, suo marito, un medico alquanto freddo e scettico, il padre della donna, uno scrittore, che riduce tutto in termini di letteratura, e il fratello di Karim, al quale la donna è ambiguamente legata. Ognuno di essi vede negli altri l’incomprensione anche se spesso è ipocritamente celata tra le righe, e legge, come in uno specchio, anche la realtà del proprio malessere. Il film, ritmato con i sogni della protagonista, mostra allo spettatore "lo scopo" della malattia psichiatrica, e mette a fuoco il ruolo della famiglia nella formazione dei disturbi psichici. Bergman, come in tutti i suoi film, affronta anche questa volta problemi filosofici e morali, chiedendosi perché, nel disegno divino, ci sia anche la possibilità della follia negli esseri umani.

Sul filone freudiano è anche La strana voglia di Jean (1969), di Ronald Neame, tratto da un racconto di Muriel Spark, opera che era stata già adattata per il teatro. Il film sottolinea le tensioni e i desideri inespressi, le repressioni sottili e i traumi inconfessati che rendono la quotidianità difficile e poco vivibile, creando i risvolti nevrotici che Freud analizzò nelle angosce dei suoi pazienti.

A volte il cinema riesce a portare sullo schermo realtà "scomode" e insensate, che altrimenti sarebbe sgradevole comprendere nella loro nuda crudeltà senza il filtro dell’opera d’arte. Alla fine degli anni Cinquanta, nel piccolo centro di Plainfield (Wisconsin) viveva, come un eremita, un certo Ed Gein, che la gente considerava un maniaco. Quando, su segnalazione di alcuni cittadini, lo sceriffo andò a casa di Gein, trovò che quel cinquantenne "barbone" era in preda a confusione mentale, e che c’erano disseminati ovunque per casa resti umani. La polizia accertò che Gein aveva ucciso diverse persone. La sua prima vittima era stata, nel 1955, una donna, una signora divorziata e proprietaria di una taverna della zona. Lo scrittore Roberto Bloch, dopo aver letto sui giornali le efferatezze di Ed Gein, incuriosito dalla psicologia perversa dell’assassino, andò a trovarlo in carcere e ne trasse fuori il personaggio di romanzo, che intitolò appunto Psycho, opera che ebbe un sensazionale successo.

Alfred Hitchcock, intuendo che quella storia sarebbe stata, agli occhi del pubblico, il simbolo dell’aberrazione psicologica, dalla quale sarebbe emersa la figura del mostro, acquistò i diritti dell’opera letteraria per tramutarla in un film, Psycho(1960). In esso Hitchcock tratta la follia, questa volta di un giovane timido e voyeurista, ancora in chiave psicoanalitica, individuando le cause della malattia di Norman Bates (Antony Perkins), nell’autoritaria madre del protagonista, la cui invadenza avrebbe scatenato nel figlio gravi problemi sessuali. Il caso clinico ha il classico sdoppiamento della personalità, con complicazioni edipiche e fobie di vario genere. Sebbene il film ha la pretesa di essere la presentazione di una psicopatologia da manuale, il regista, però, piuttosto che fare appropriate riflessioni sulla follia, ha abbandonato le iniziali intenzioni specificatamente psichiatriche, e si è lasciato trasportare dal fascino della suspense cinematografica; e così il racconto di Pshyco si snoda seguendo le regole dello spettacolo d’effetto.

Il male oscuro (1989) di Mario Monicelli, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto, racconta la serie di malanni che il protagonista ha somatizzato a causa del suo irrisolto contrasto col padre. Sarà lo psicoanalista che lo aiuterà a sciogliere i nodi dell’ipocondria. Il film, schematico e didascalico, non ha lo spessore culturale del libro di Berto, né aggiunge molto a Viaggio con Anita (1978) dello stesso Monicelli, anch’esso incentrato sul tema del contrasto con i genitori.

Di maggiore consistenza intimista e con richiami psicoanalitici sono: 8 e ½ (1963) di Federico Fellini, regista grande indagatore dell’animo umano, dell’alienazione e della confusione del vivere, e Deserto rosso ( 1964) di Michelangelo Antonioni, che racconta, con il cromatismo delle immagini, la depressione psicologica e l’incapacità di venire fuori dalle sabbie mobili dell’animo. Nel film è sottolineato anche il disagio di vivere quegli spazi la cui architettura è disumanizzante.

E non è possibile ignorare chi, forse più di ogni altro ha amato e deriso amabilmente la psicoanalisi: il regista Woody Allen.

Allen, come uomo e come attore è impacciato, timido e frustrato, com’egli stesso ammette, anche, dice, a causa di una infanzia infelice. Woody Allen rappresenta, nella fiction e nella vita il personaggio emblematico delle crisi esistenziali del nostro tempo. "Ho alle spalle dieci anni d’analisi – ha detto una volta Allen – e il mio analista mi ha consigliato, se da qui a dicembre non guarisco, di andare a Lourdes".

Allen è un esempio di rigetto, di resistenza e di contemporanea, singolare, sottomissione alla psicoanalisi. In quasi tutti i suoi film questo autore, nel momento stesso in cui sembra che denigri il pensiero freudiano, si aggrappa ad esso per capire meglio il senso della vita. E se Allen mette in berlina la psicoanalisi e "strapazza", in quasi tutti i suoi film, l’immagine dello psicoanalista, tuttavia egli non riesce ad intendere i rapporti umani se non in chiave analitica. Ed in Allen è anche paradigmatico il rapporto tra creatività e patologia. Infatti, le sue dichiarate "difficoltà come uomo", sulle quali egli sempre scherza, e che si manifestano sia nella sua vita quotidiana che nei suoi film, sono anche i motivi del suo successo come artista.

 

La psichiatrica delle nuove frontiere

A mano a mano che nell’immaginario collettivo si è persa l’ancestrale convinzione che lo psichiatra è un personaggio oscuro e pericoloso, è subentrata l’idea che il compito del terapeuta è quello di prendersi amorevolmente cura del paziente ed aiutarlo anche con la forza della parola. Il cinema ha così individuato la nuova sensibilità nel campo della terapia delle malattie mentali, sottolineando che la liberazione dalla pazzia può avvenire, se il malato viene anche aiutato con una profonda empatia.

Ma in qualche caso, nei film è apparso lo stereotipo del medico che affronta la malattia psichiatrica non più con invasive terapie farmacologiche o con l’elettroshock, ma, essendo in linea col nuovo corso psichiatrico, si è trasformato da terapeuta freddo e senza cuore (come si riteneva che fosse una volta), in "grande mamma" che custodisce e difende il paziente.

Il grande cocomero(1992), di Francesca Archibugi, ha un efficace e moderno taglio narrativo. La trama si snoda nel rapporto intenso tra un giovane psichiatra e una ragazzina affetta da crisi epilettiche ricorrenti. Il legame affettivo instaurato tra i due durante la terapia, è un sentimento delicato, con momenti di intensa commozione, che farà bene sia allo psichiatra che alla paziente. Film gradevole e rispettoso sia della figura dell'ammalata che dello psichiatra.

Su questa falsariga, Senza pelle (1993), di Alessandro D’Alatri, narra la storia di un giovane schizofrenico, aiutato, "terapeuticamente", da una impiegata delle poste, della quale il malato s'innamora, avendo trovato in lei finalmente un essere umano che lo comprende. Lo schizofrenico vorrebbe ad ogni costo essere ricambiato, e la donna molto sensibile, sebbene sia sposata, comprendendo il dramma del giovanotto, si barcamena con grande tatto, aiutata persino dal marito, nel feeling con il malato; e così arriva a far capire al giovane che il rapporto con una donna già impegnata non è possibile, ma lo spinge amorevolmente ad entrare in una comunità. Qui il giovane s'innamorerà di una ragazza che frequenta quel luogo e che vede in lui, ormai fortificato dall'incontro con l'impiegata, la persona che potrà darle una mano d'aiuto.

In Sybil (1976) di Daniel Petrie, è raccontato il bellissimo rapporto tra una schizofrenica e la sua psicoanalista, che, alla fine, recupererà la malata dall’angosciante dissociazione.

L’handicap psichico visto in chiave affabile e bonaria è il tema di Ivo il tardivo(1995) di Alessandro Benvenuti. Il film mostra come si più essere più vicini alla follia dello stesso "tardivo", essendo conformisti e soggiacendo a triti luoghi comuni. Il regista lascia intendere che il conformarsi ai compromessi può essere anche questo un handicap psicologico. La variegata umanità di Ivo si scontra con le "normalità" di coloro che lo giudicano e che, in pratica risultano più duri, più egoisti, meno duttili e creativi di lui che è considerato matto. Il film sottolinea che chi non segue le idee convenzionali non è necessariamente fuori di testa. Può magari essere apprezzato proprio per le sue qualità creative e per le sue idee bislacche.

 

La follia sociale

Anche il binomio follia e guerra è ricorrente nella cinematografia. Cielo di fuoco (1968), di M. Forlatt, illustra la sintomatologia psicopatologica che si scatena in chi partecipa alla guerra aerea. I piloti che hanno come patologia la confusione mentale, vengono curati con la terapia del sonno e rimandati subito in guerra. Gregory Peck, generale duro e intransigente, chiede uno sforzo immane ai suoi piloti, e alla fine, quando il suo vice è abbattuto in una missione, verrà colto da un panico rimorso e il film si chiude con la ospedalizzazione di un uomo, il duro generale, che si riteneva immune da qualsiasi contagio psichiatrico.

Anche il Vietnam è stata un’occasione non solo per narrare la follia di cui sono colti i soldati nelle retrovie, ma anche per mostrare l’angoscia che, a conflitto concluso, resta indelebile nei reduci, e distrugge la serenità dei militari che non riescono più a vivere la quotidianità, come prima di essere stati arruolati.

Con Taxi drive (1976) di M. Scorsese, Il Cacciatore (1978) di M. Cimino, e Apocalypse Now(1979) di F. F. Coppola, si ha una variegata casistica di comportamenti paranoici e alienati, dovuti alla guerra.

Il film Tutti pazzi meno io(1966) di P. Sullek racconta quanto il mondo sia egoista e folle, Un soldato, Plumtick, è costretto a disinnescare una bomba depositata dai tedeschi per distruggere un piccolo borgo. Nella cittadina però sono rimasti solo "i matti", che, usciti dall'ospedale psichiatrico, circolano ignari della guerra, per le strade, mentre i cittadini sono scappati via.

Plumpick, non si accorge che gli unici abitanti del borgo sono gli alienati, e apprezza le loro doti di umanità e di affabilità. Addirittura egli s’innamora di una amabile e quieta ragazza appena uscita dal manicomio. Il soldato la trova adorabile e spontanea come nessun'altra donna che aveva incontrata prima. Il film, sottolinea che la differenza tra i matti e i savi è che questi ultimi si invidiano e si odiano, affrontandosi persino nei campi di battaglia, mentre i matti vivono in un mondo personale meno gravido di aggressività e di cattiveria. E così, cessata la guerra, i savi ritornano in paese, e i matti rientrano in manicomio, lieti di ritirarsi nella loro pace, e lontani da un mondo spietato.

Tema simile è trattato nel film Manicomio(1946) di Mark Robson, nel quale emerge evidente l’antitesi tra l’egoismo dei sani rispetto all’altruismo di coloro che vengono definiti matti. La narrazione mostra come spesso chi viene identificato come folle sia più umano, solidale e caritatevole di chi è considerato sano di mente. Il caso Raoul (1975) di Maurizio Ponzi, affronta il tema della schizofrenia come degrado mentale dovuto ad alterate condizioni sociali. Ma l’opera ha avuto diverse critiche, ed è stata considerata un pretenzioso saggio intellettualoide.

La fiammiferaia (1989) di Aki Kaurismaki disegna la condizione crudele della pazzia del mondo contemporaneo, e mostra come, anche senza accorgercene, siamo costretti a subire molte alienazioni. Il film Marat-Sade (1967) di Peter Brook, percorre il filone del rapporto tra follia e potere. In un manicomio, sotto la guida del Marchese di Sade, che vi è rinchiuso a causa della sua malattia mentale, i degenti allestiscono uno spettacolo per rappresentare l’uccisione di Marat da parte di Charlotte Corday. Ma, dopo un dibattito che mette a confronto le idee libertarie del rivoluzionario francese con quelle pessimiste ed individualiste di Sade, scoppia una furiosa diatriba. I matti, allora, con una scena di intensa violenza e concitazione, che a suo tempo fece molto scalpore, ribellandosi all’egoismo di Sade, regista dello spettacolo, si scagliano contro i guardiani per difendere la loro libertà d’espressione. Il film è il prodotto dei temi che erano in voga a quel tempo, ed in particolare, appunto, dello stridente rapporto tra l’autorità e la follia.

 

Follia, crimine ed horror

Nella cinematografia di massa non sempre l’immagine della pazzia appare libera da stereotipi. In qualche caso, un certo tipo di film ha contribuito a mantenere, e persino a creare, molti luoghi comuni sulla malattia. Vi sono infatti sceneggiatori che hanno rappresentato, in maniera goffa e scontata, le manifestazioni di squilibrio mentale, e, per fini spettacolari, hanno raffigurato la persona psichicamente anormale come individuo mostruoso, straripante di horror criminale, sperando, che, con tali caratteristiche, i film si sarebbero venduti meglio.

Per rendere scenicamente appariscente la follia e avere presa sullo spettatore, alcuni registi ricorrono anche alla fantascienza. Il folle, in qualche caso, è diventato un simulacro senza più individualità, e reso identico, tranne trascurabili variazioni, a personaggi consimili di altri film. Ovviamente, ciò va sempre a scapito di una seria analisi scientifica.

Una lunga serie di film, a cavallo tra follia criminale e horror, hanno dato vita ad un filone di sceneggiature, alcune buone, altre superficiali, altre del tutto inconsistenti, che scandagliano l’abisso più orribile dell’animo umano.

Tra gli esempi meglio riusciti, Frenzy di A Hitchcock, Alle radici della follia di M. Pattison, Follia omicida di C. R. Baxley, Schegge di follia di M. Lehmann, La pazzia di re Giorgio di N. Hytnero, La fossa dei peccati, di I. Rapper; L’inquilino del terzo piano di Roman Polansky, Girolimoni il mostro di Roma, di Damiano Damiani.

Molto noto, negli anni Quaranta, La scala a chiocciola (1946), di Robert Siodmak, in cui, un serial killer sulla falsariga dei mostri dell’espressionismo tedesco, funesta la città con una catena di omicidi di giovani donne. La regia, usando obbiettivi e lenti particolari, ha reso benissimo, con contrasti, chiaroscuri e deformazioni prospettiche, stati di incubo e di allucinazione, lasciando sorpresi gli spettatori nell’ammirare le grandi capacità narrative dell’immagine videocinematografica.

In Le due sorelle (1973), Brian De Palma narra la storia di due gemelle siamesi, separate chirurgicamente, di cui quella rimasta in vita assume spesso la psicopatologia che era della morta+ e alla fine diventa anche assassina. La storia è un rappresentativo esempio di identificazione con la personalità di un altro. Con Carrie, lo sguardo di Satana (1976), il regista De Palma, è nuovamente alle prese con la insanità mentale. Nel film è tracciato il profilo di una ragazzina che, con lucida follia, si vendica dei soprusi psicologici subiti dalla madre e dai fratelli.

In Lo specchio oscuro (1946), di Robert Siodmak, uno psichiatra, studiando il caso di due gemelle, una buona, Ruth, e l’altra in preda ad istinti assassini, s’innamora della prima, ma la seconda farà di tutto per prendere il posto di Ruth nel cuore del medico e fare impazzire la sorella.

Col film Suspence,(1961) di Jack Clayton, viene tratteggiata la sessuofobia delirante nel suo lento mutarsi in follia. Nel racconto, la protagonista, una istitutrice, osservando gli strani comportamenti dei due bambini ai quali deve accudire, si convince che essi sono succubi di due fantasmi (un guardacaccia e la sua amante, morti secoli prima). Il film mostra chiaramente che i due fantasmi non sono altro che la proiezione della personalità isterica e sessualmente repressa della governante. Nello sfondo tipicamente americano degli anni Settanta si staglia In cerca di Mr Goodbar ( 1977) di Richard Brooks, in cui una insegnate di una scuola per sordomuti vive uno stato schizoide, sdoppiata: di giorno maestra e madre modello, di notte insaziabile ninfomane in cerca di avventure. La storia, raccontata senza moralismi, indulge forse troppo nell’idea che la follia abbia risvolti sessualmente conturbanti; tuttavia è pur sempre una indagine sui risvolti che ha un certo tipo di educazione basata soprattutto sui sensi di colpa. La protagonista, afflitta da troppo "perbenismo" cerca di rompere con una società soffocante.

Riflessi in un occhio d'oro (1967), di John Huston, fa parte del filone follia e sessualità. Racconta di un maggiore dell'esercito, impersonato dall’attore M. Brando, paranoico, impotente e afflitto da pulsioni omosessuali, che è gelosissimo della moglie. Afflitto da idee deliranti di innocenza e purezza, uccide un soldato, che egli ritiene innamorato della donna, la quale però, senza che il maggiore-Brando lo sappia, in realtà è l'amante di un colonnello. Il film segue due filoni: l'angoscia psichiatrica dell'omosessuale che non riesce a dichiararsi a se stesso qual è, e la paranoica gelosia che può derivare dall'impotenza e dalla incomunicabilità con l'altro sesso.

I disturbi psichici di origine sociale

Nel cinema, in qualche caso, la follia è considerata non solo come malattia, ma anche come risposta all'ingiustizia sociale, all'oppressione e alla prevaricazione. Molti registi hanno sottolineato l’insorgere delle psicopatologie in stretta connessione con eventi dirompenti per la personalità.

La pazzia generata nell’ambito familiare è descritta da Fernando Arrabal sia in Viva la muerte (1971) che descrive la difficile infanzia di un ragazzino spagnolo succube della madre e di una zia ninfomane, sia in Andrò come un cavallo pazzo (1973), ritratto forte di madre castrante che scatena nei figli un’emotività molto vicina alla pazzia.

Fanny ed Alexander (1982), di Ingmar Bergman, narra la vita di due bambini, vittime del patrigno, un vescovo protestante che ha sposato la loro madre rimasta vedova. Il prelato li educa in modo repressivo e paranoico, perché spinto dalle proprie problematiche psicologiche che egli manifesta con persecutorie manie religiose e con un intransigente ascetismo imposto, anche nei confronti dei due piccoli figli della moglie. Interessante il film di Ken Loach, Family Life,(1971) che vuol dimostrare come il concetto di folle a volte possa essere solo un’etichetta, ingiusta ed insopportabile. Il racconto parte da un’amara realtà psichiatrica e narra le vicende di una madre borghese, autoritaria e ipocrita, che impone alla figlia, nubile, l’aborto per evitare uno scandalo.

La ragazza non vuole abortire e chiede aiuto al padre, ma questi è succube della moglie e pertanto la ragazza non riesce ad evitare che le venga tolta la creatura che porta in grembo. La protagonista, disperata, sentendosi psichicamente violentata, si rifugia nella solitudine. La madre per "liberarla dall’influenza del giovane che le ha procurato quel guaio" la fa ospedalizzare Avvilita sempre più dal sopruso materno, la figlia si ribella, ma un "truce psichiatra" rileva in quella rivolta i segni di un comportamento schizofrenico e la ricovera in ospedale, sottoponendo la ragazza a molti elettroshock. La ragazza con un ultimo guizzo di ribellione, fugge col fidanzato, ma viene riprese e internata per sempre.

Il film, ispirato alle teorie dello psichiatra inglese Roland Laing, è molto polemico e pertanto fin troppo di parte, e mette sotto accusa l’influenza deleteria di una madre perversamente moralista, che alla fine causa alienazione.

Precursore di Family Life, è il francese La fossa dei disperati (1958) di Jeorges Franju, disperato grido di libertà di straordinaria sensibilità e incisività umana. La trama racconta di un celebre avvocato, padre padrone, che fa richiudere in manicomio il figlio ribelle, facendolo passare per personalità instabile e psicopatica. Nella struttura ospedaliera il giovane si lega d’amicizia con un coetaneo epilettico ed entrambi tentano una fuga che però fallisce tragicamente. Anche Splendore nell’erba (1961), di Elia Kazan, mette il dito sulle deleterie intrusioni della famiglia e della società nell’individuo, invadenze che possono portare alla follia. Il film anticipa Familiy Life narrando dell’amore di due giovani rovinato dalle interferenze dei genitori. La madre della ragazza ossessiona la figlia perché questa resti vergine, e il padre del ragazzo, convinto maschilista, spinge il figlio, per non "farsi intrappolare", a non pensare all’amore, ma solo ad avvicinare donne facili.

L’ambiente familiare nevroticamente malsano che fa da cassa di risonanza alle patologie dei componenti del nucleo, è descritto da Filippo Ottoni in La grande scrofa nera (1972).

Il film Pazza,(1989) di Martin Ritt, che si avvale di una splendida Barbara Streisand, fa emergere il tema della nevrosi da incomprensioni familiari. Una prostituta ( la Streisand) uccide un cliente per legittima difesa e si rifiuta di seguire il consiglio dei suoi genitori di passare per matta ed evitare la pena. Ella chiede un regolare dibattito in aula giudiziaria, che si tramuta in un processo all’ipocrisia del perbenismo borghese.

Contro il perbenismo è anche il film È stata via (1989) di Peter Hall, che fa vedere come una moglie insoddisfatta e una vecchietta anticonformista, quest’ultima reduce da 50 anni di manicomio, che si sono legate da un comune spirito d’indipendenza, vengono scambiate per malate di mente proprio perché rifiutano i luoghi comuni ai quali è legata la società.

 

Come la psichiatria utilizza l’immagine cinematografica

Il cinema "serio", al pari del romanzo e del teatro, si è dimostrato uno strumento d’esplorazione dell’animo umano. Molti film hanno messo in crisi il reticolo di certezze sociali e psicologiche, squarciando, con consapevolezza lancinante, barriere e resistenze create dai luoghi comuni, e facendo vedere quanto sia incerto il limite tra normalità e follia. Questo impegno culturale ha dissolto la mitologica, assoluta credenza della incontestabile sanità mentale di chi "ufficialmente" non è riconosciuto matto.

E se la cinematografia ha utilizzato il tema della follia e la professione dello psichiatra come base narrativa di ariosa suggestione, anche la psichiatria, incrociando e invadendo il campo dell’arte cinematografica, si serve sempre più dell’immagine filmica per registrare la dinamica psichica, per focalizzare gli aspetti psichiatrici dei pazienti e per documentare, attraverso variegate sequenze del vissuto patologico, l’esperienza terapeutica psichiatrica.

Il cinema abbraccia la percezione immediata dell’animo, e si sviluppa nel campo dell’immaginario con uno scandaglio psicologico che permette di raggiungere una condizione privilegiata, perché emette ed assimila messaggi, grazie alla registrazione audiovisiva, di una efficacia singolare. La presa emozionale che produce l’immagine cinematografica, legata a vari fattori, permette di operare in situazione quasi subliminale. Il messaggio cinematografico è assimilato, evocato, spostato, in variegate situazioni spazio-temporali come il materiale onirico, e come il sogno penetra in profondità

Il cinema è diventato sempre più uno strumento di esplorazione psicologico e psichiatrico d’interesse primario. Una riprova in tal senso viene dai convegni che hanno avuto nel cinema e nella videoregistrazione i loro temi principali. Uno di questi è stato Psichiatria Cinema e Videocomunicazione, Immagini della mente, organizzato a Roma, nel 1992, dal prof. Paolo Pancheri. Il meeting ha fatto il punto sull’utilizzazione nella ricerca psichiatria, mediante l’acquisizione e la registrazione della dinamica emotiva nelle patologie mentali con l’immagine videocinematografica.

Al convegno romano sono stati presentati molti filmati sui vari aspetti della psichiatria, dai problemi pertinenti la comunicazione di gruppo, alla documentazione nel campo delle neuroscienze, allo studio e presentazione di malattie specifiche, come l’epilessia, l’anoressia, la schizofrenia. Contributi tutti interessanti e tra gli altri, da citare, quello di E. Gabrici sulla narcoanalisi che presenta tre casi clinici, drammatici e di particolare interesse perché sono registrati i più tragici momenti degli antichi traumi rivissuti dai pazienti durante le sedute.

Un altro filmato, di F. Russo, R. Vari, R. Palma, M. A Russo, mostra colloqui con pazienti schizofrenici. Nel filmato dell’americano J. Stossow è introdotto e illustrato il disturbo ossessivo-compulsivo differenziandolo dai disturbi psicotici. L’attacco di panico è ben sintetizzato da W. Procaccio e M. Contini in un filmato di 13 minuti che mostra anche un paziente con una manifestazione agorafobica.

Sono state, inoltre, analizzate nella registrazione video, per meglio essere studiate in seguito, applicazioni terapeutiche come l’elettroshock, l’insulinoterapia, etc. Anche gli interventi riabilitativi sono stati registrati nei video con dovizia di particolari.

In Malattia mentale e inserimento nel mondo del lavoro di M. Provenza e altri A. A., è presentata l’attività riabilitativa del paziente schizofrenico. G. A. Patella ha filmato una sequenza interessante che mostra la psicodiagnostica di Rorscharch, effettuata secondo una rigorosa metodologica dinamica.

Immagini di un setting di psicoterapia della famiglia di C. Loriedo analizza questo tipo di terapia con ottime riprese che illustrano i significati delle sedute terapeutiche. Anche l’ippoterapia è documentata da un video di C. Consolaro e F.Garonna. Al meeting l’équipe catanese del Prof. Vincenzo Rapisarda, ha presentato un lavoro dal titolo Video e Psicopatoplogia, (di Vincenzo Rapisarda e Sergio Paradiso) che mostra come mediante i filmati sia possibile presentare disturbi psichiatrici da utilizzare come strumento didattico.

In un altro interessante incontro tra cinema e psichiatria, a Venezia, nel 1996, nell’ambito di un convegno su "Psicoanalisi e Cinema", organizzato dal Comune e dalla Scuola Europea di Psicoanalisi, il discorso tra cinema e follia è stato anche molto vivace.

Apprezzato e discusso è stato il film Stalker ( 1979) di Andrei Tarkovskij, denso di significati simbolici, il cui tessuto narrativo si compone di una esile trama la quale non è che un pretesto per il vero racconto. Il film affronta, con una straordinaria parabola visiva, l’ignoto, il rischio e l’imprevedibilità dalla psiche umana; una lotta questa, che la tiene in bilico tra fantasia e il crollo psicotico.

Il meeting ha preso spunto dall’analisi dell’individuo creativo per giungere ad un’ulteriore riflessione sul significato della pazzia.

La creatività, vista come espressione di una fase ottimale dello sviluppo psicologico, è stata da sempre oggetto dell’attenzione di molti registi, e in molti casi essa è stata anche un interessante spunto per un avvincente parallelo tra arte e follia. Nell’episodio intitolato "Corvi", del film Sogni (1990) di Akira Kurosawa, sono ricostruiti gli scenari delle opere di Van Gogh, nei quali il pittore (impersonato da Scorsese) si perde in preda alla sua follia creativa. E anche Kean (genio e sregolatezza) (1956) di Vittorio Gasmann, sia pur con tutti i suoi limiti, è un esempio di questa commistione tra arte e pazzia.

Ma torniamo agli incontro tra cinema e follia, per sottolineare quello intitolato Cinema e Psicoanalisi, organizzato dal Centro Veneto della Società Psicoanalitica Italiana, che si è tenuto a Marzo 1999 a Padova. Il meeting ha affrontato, come tema principale, il rapporto generazionale, così espresso: Il padre, un affetto e un ruolo da riscoprire.

Durante il convegno sono stati proiettati alcuni film per approfondire il problema della figura genitoriale.

Tra essi, Kolya (1996) del cecoslovacco Jean Sverak, che ha proposto la figura del padre "materno". Shine di Scott Hicks, in cui un padre finisce per ricostruire in famiglia l’atmosfera opprimente e folle come gli era capitato di viverla nel campo di concentramento in cui era stato internato.

Doddy nostalgie (1990) di Bertrand Tavernier, che analizza i complessi rapporti tra padre e figlia.

Insomma, come dimostrano tanti congressi, ormai la psichiatria si avvale sempre più dell’ausilio del mezzo cinematografico, sia attraverso opere dell’industria dello spettacolo che descrivono le dinamiche della personalità e gli interstizi della mente, sia mediante una produzione cine-video che le stesse strutture psichiatriche vanno assemblando per meglio analizzare, studiare e memorizzare le occasioni psicopatologiche più interessanti.

 

Conclusione

In una società pigra e, in fondo, piuttosto cinica, gli itinerari psichiatrici del cinema hanno messo in crisi la nozione di normale e di patologico, che era servita, in passato, a proteggere certi desueti valori tradizionali, certi tabù e certe tendenze giansenistiche, aprendo un varco sempre più arioso e liberatorio, e mettendo in crisi tutte le etichette.

L’innovativa attenzione per i casi della patologia mentale è paragonabile, se si vuol far un riferimento culturale al passato, alle grandi correnti di riflessione come i dibattiti che avvenivano sulla peste nel Medioevo, le argomentazioni sul libero arbitrio che c’erano nel ‘400 e nel ‘500, e il problema della schiavitù della gleba che si pose alla fine del ’700.

Il cinema, dunque, si è assunto l’incarico di trasmettere nozioni di base sui percorsi del cervello. E così lo spettatore ha preso coscienza delle perturbazioni dell’uomo comune, e del progressivo aumento di nevroticità in una società che vive, senza catarsi liberatorie, sempre più in tensione e sempre meno rilassata.

A volte il cinema ha alterato, per finalità sceniche e commerciali, l’immagine di malattie come la psicosi o la schizofrenia, esasperando o in parte falsificando il concetto di disturbo mentale. Tuttavia non v’è dubbio che però ha denunciato la miopia e l’atrofizzazione narrativa di molte stucchevoli concezioni a proposito di sanità mentale e di pazzia che, in passato, erano state utilizzate per "tranquillizzare" e per chiudere gli occhi nei confronti di una drammatica realtà che si voleva tenere ad ogni costo nascosta.

Da quando le desuete nozioni di follia e di sanità mentale sono state messe in crisi dagli stessi psichiatri e dagli intellettuali, il mescolare le carte, l’avvicinare il normale al patologico e viceversa, è stata una operazione rischiosa, ma purificatrice e salutare.

E se è vero che, in qualche caso, v’è stata una certa tendenza a banalizzare la follia con facili esemplificazioni e che, con un esercizio a freddo e magari a volte dilettantistico, si è presentato al pubblico, a volte, un modello patologico progettato più per far effetto che per essere somigliante alla realtà, è pure vero, però, che sono stati prodotti dall’industria cinematografica anche opere raffinate, che hanno descritto le psicopatologie con una mentalità psichiatrica ricca e consapevole. Tali opere hanno fatto uscire il cinema dalle vecchie, collaudate e rassicuranti trame, denunziando l’ineluttabile esistenza, nella mente umana, di ambiguità latenti o manifeste, sulle quali, prima di questa ventata, di s’era cercato di stendere un pietoso silenzio.

Per concludere si può dire che la cultura cinematografica in fatto di psichiatria, anche se in qualche modo banalizzata, è una forma apprezzabile di divulgazione, che pervade e stimola l’interesse della masse per queste tematiche.

Parole e concetti come trauma, nevrotico, complesso di Edipo, inconscio, alienazione, narcisismo, rimozione, paranoia, sublimazione, lobotomia, etc., sono entrati nel gergo comune soprattutto, proprio, attraverso il cinema e la televisione, che hanno di fatto operato un significativo aggiornamento culturale. Non dimentichiamo, infatti, la grande refrattarietà della gente a prendere in mano un libro, e la facilità con cui, invece, va a cinema o accende il televisore.

La mente umana, che un tempo le inadeguate infrastrutture e i luoghi comuni, tendevano a mistificare, oggi è sempre meglio denudata e analizzata da sceneggiature, a volte spietate, ma che tuttavia riescono a stimolare la riflessione degli spettatori, anche dei più indolenti.

Infatti le vaste possibilità esplicative insite nel mezzo cinematografico sono un potenziale d’indagine che coinvolge e attrae e che, se condotte con corretti ed adeguati indirizzi di ricerca, possono diventare un utile strumento di cultura.

Era forse questa l’unica possibilità, in un campo che richiede grande specializzazione, per poter ottenere una consistente divulgazione orientativa.

 

Riassunto

L’industria cinematografica, sin dai primi anni, si è interessata alla psicopatologia, le cui complesse tematiche ben si adattano ad essere narrate nello schermo, ed ha utilizzato, per esprimere la malattia mentale, tutti i mezzi tecnici espressivi tipici della ripresa filmata. Infatti, la sequenza filmica può dare un’efficace rilevanza emblematica all’Imago della psiche, sottolineando a mezzo di metafore tutte le sfaccettature esistenziali.

Sebbene, in qualche caso, la pazzia dei personaggi cinematografici sia stata "romanzata" per esigenze sceniche e di produzione, e il malato mentale sia stato "bloccato" in una specie di cannovaccio, tuttavia sono molte le pellicole che, non essendo incappate nello stucchevole cliché convenzionale, esprimono, anzi, in chiave psichiatrica, i variegati e conturbanti aspetti della follia.

La vasta produzione filmica che ha affrontato la tematica psichiatrica ha impresso un forte impulso culturale nelle masse, mettendo finalmente in crisi i luoghi comuni sulla follia.

Ma se la cinematografia ha utilizzato ampiamente il tema della follia, la psichiatria, a sua volta, da anni si serve sempre più dell’immagine registrata per focalizzare gli aspetti psichiatrici dei pazienti e documentare, attraverso l’osservazione del vissuto patologico, la ricerca e l’esperienza terapeutica.

 

Summary

From its first years, the movie industry has been interested in psychopathology since the complex themes of psychopathology were found to be well suited for the big screen. In order to portray mental illness, the movie industry has utilized all expressive means available to film making. A movie excerpt can easily use metaphors to underline the existential facets of the psyche.

In some movies, mental illness has been rendered in a "novel-like" fashion in order to accommodate technical and production needs, and therefore the person suffering from mental illness has been locked in a stereotypical role. However, there are many film stories that describe faithfully the various and perturbing aspects of mental illness without using tedious and conventional "cliches". This large film production has helped the audience to understand psychiatric topics and has reassessed the ordinary view about mental illness. While the movie industry was utilizing psychiatric topics, psychiatrists have started to take advantage of the technological advances in video recording to document objectively psychopathology research and therapeutic settings.


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Saggio comparso in:

Formazione Psichiatrica, Anno XX, n° 3-4- Luglio-Dicembre 1999

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Giuseppe Paradiso

 

ARTE,  CREATIVITÀ  E  FOLLIA

 

1) Premessa, 2) L'angoscia dei creativi, 3) I personaggi "matti" e la letteratura della follia, 4) La follia e le arti figurative, 5) La follia e la musica, 6) Gli inventori e la stravaganza, 7) Il suicidio dell’artista, 8) Conclusioni, 9) Sommario,10) Bibliografia

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1 Premessa

Nelle culture storiche primitive, coloro che dichiaravano di essere in comunicazione con l’aldilà, che "vedevano" gli spiriti e che dicevano di essere in contatto con forze sconosciute o che esternavano fabulazioni incomprensibili, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei. In ogni caso, i pensieri disturbanti che affollavano la loro mente, non erano affatto ritenuti sintomi di malattia. In passato, l’atteggiamento della collettività nei confronti di coloro che erano affetti da tali difficoltà psicopatologiche, alquanto frequenti, era dunque diverso da quello odierno. Innanzi tutto il fenomeno delle manifestazioni mentali relative alla follia, non venne ritenuto una infermità: gli stati di possessione, le psicosi e le autoipnosi venivano considerati inquietanti rituali magici che assolvevano alle più disparate funzioni, religiose o secolari e pertanto non erano classificati come malattie della mente; erano, semmai, ritenuti interventi "divini" e si supponeva che ciò che nasceva dal delirio fosse la pista privilegiata per arrivare alla verità.

I Giudei, al tempo del Nuovo Testamento, pensavano che i demoni entrassero dentro gli uomini e che questa fosse la causa dei disturbi epilettici, del sonnambulismo, delle esternazioni psicopatologiche e anche di malattie quali la cecità, il mutismo, etc.

L’atto di Gesù che guarì gli ossessi fu considerato un evento divino, e nessuno ipotizzò che si trattasse, visto il grande carisma del Nazareno, anche di un intervento psicoterapeutico. Un antico esempio di descrizione di stati psicopatologici si trova nel libro Primo di Samuele, che riferisce del re Saul in preda a stati psichici che la medicina odierna definirebbe nevrotici. Il primo re di Israele, colpito da quelli che la psichiatria contraddistingue come disturbi ossessivi, passa da atti di ossequio verso David a improvvise persecuzioni nei confronti del suo pupillo, essendo geloso di quel giovane che era tra i più amati del regno. Saul, alla fine, dopo essere stato sconfitto dai Filistei, in un impeto di rabbia, si suicida.

Si narra che Ippocrate curasse i malati di mente lasciandoli per una notte al centro del labirinto di Epidauro, l'antica città greca dedicata ad Asclepio medico dalle prodigiose arti di guaritore. Qui, dopo un'esperienza di crisi, dovuta anche al contatto con la divinità, molti di essi si liberavano, per una forma di catarsi abreativa, dei loro fantasmi mentali.

Uno dei libri più antichi di psicoterapia, è, senza averne l'aria, l'opera Le Tusculane di Cicerone. Il grande oratore romano, contro le sofferenze psicologiche, propone la "cura filosofica": "Il metodo per guarire sia l'afflizione che le altre malattie dall'animo è far vedere che esse sono dovute tutte ad un'idea sbagliata. È appunto questo l'errore che la filosofia s'impegna ad estirpare" "Le malattie dell'anima sono prodotte tutte quante dalla mancata obbedienza alla ragione".

Anche quando la follia fu ritenuta una malattia, si reputò che fosse dovuta a colpe morali, o a violazioni di divieti religiosi o sociali, oppure che si trattasse di una espiazione per azioni commesse dai malati o dai loro ascendenti. In passato, le malattie più temute erano la tubercolosi, la sifilide e, soprattutto, la lebbra; e solo quando, nel secolo XV, essa regredì, nei lebbrosari, ormai svuotati, vennero rinchiusi i poveri, i vagabondi, i delinquenti e le "teste pazze", ritenuti tutti socialmente pericolosi. Infatti, secondo il Dörner, la personalità del folle era incompatibile con le nuove esigenze produttive, perché il modo di agire di chi era "fuori di testa", del tutto libero da legami e da leggi, contrastava con la mentalità mercantile e borghese. Era quella una incompatibilità che, invece, non era stata mai riscontrata nella economia agraria e nella cultura medievale. Per tale motivo, dunque, la follia, a partire dal Quattrocento, prese la via dell’esclusione e dell’internamento; e quelli che, nel periodo medievale, avevano liberamente circolato per strada, in preda ai loro fantasmi, chiedendo l’elemosina, gridando, camminando nudi per strada, dal XV secolo in poi, a causa del profondo rigetto sociale adottato nei loro confronti, furono rinchiusi in affollate e fatiscenti strutture. Lo squilibrato venne emarginato ed esiliato, e, nelle ossessioni della gente, l’orrore della demenza prese il posto della paura della lebbra; sicché i matti furono trattati come i lebbrosi, e ciò soprattutto per nascondere il loro degrado psicologico e fisico. I lebbrosari divennero pertanto i serbatoi della demenza, e si popolarono anche di vagabondi, di mendicanti, di indigenti, di deformi; vi furono rinchiusi persino coloro che si occupavano di stregoneria, quelli che avevano tentato il suicidio, gli atei (dei quali si temeva il potere destabilizzante), i sifilitici e, ovviamente, anche gli alienati veri e propri. In quei "ricoveri", non si praticavano terapie, e solo in qualche raro caso v'era una specie di "intervento etico", perché la malattia mentale era accomunata al peccato. I manicomi allora divennero luogo di redenzione dei peccati e la degenza in quei posti rappresentò l’anticipazione della pena eterna.

A causa di tanta confusione nosografica, nei lebbrosari-manicomi venivano internati assieme agli individui che sragionavano, i malati di lue, gli omosessuali e gli "immorali", perché restassero chiusi entro argini "sicuri", allo stesso modo degli "eccentrici" che venivano messi in gattabuia e controllati con misure di polizia. Trattamento che in molti casi perdurò anche nell'età contemporanea.

La alienazione, nel tentativo di esorcizzarla e rimuoverla, venne anche derisa e beffeggiata; ma in ogni caso si trattò dell'approccio a un fenomeno complesso, anche perché non si poteva ignorare che l'insanità della mente non era, come la lebbra, solamente una malattia fisica: essa mostrava connotati esistenziali non riscontrati in altri malanni. E pur nondimeno, come per la lebbra, si cercò di scacciarla con rituali di purificazione, tant'è che spesso si andava al di là del consentito, e gli insensati venivano frustrati e malmenati, in molti casi, anche per divertimento pubblico. Inoltre venne in uso l'abitudine di affidare i matti ai marinai, che li caricavano nelle stive e li abbandonavano in isole deserte.

E così, quando nel Rinascimento non si poté più ignorare il fenomeno della malattia mentale, il folle divenne una figura ambigua, mostruosa, animalesca e delirante, insomma l’espressione della malvagità. E non solo le manifestazioni schizofreniche e quelle paranoiche, ma anche quelle che oggi chiameremmo nevrotiche, assunsero valenze conturbanti. I malati non furono più considerati, come prima, gli unti dal divino ed allora, persi i connotati che un tempo erano stati loro attribuiti, e che li avevano resi simili agli sciamani e ai veggenti, essi apparvero come creature degli inferi, come la quintessenza della vittoria del Male sul Bene.

Ma la dissennatezza, sebbene temuta, ha anche affascinato, ed attorno ad essa, si è sviluppata una nutrita letteratura: Tristano, spinto dalla passione per Isotta, diventa folle. Ofelia e Lorelai rappresentano altre sfaccettature della irragionevolezza e Orlando diviene furioso quando viene a conoscenza del tradimento della donna che egli ama.

Però, a volte, si prestava ascolto anche a chi delirava e così, gli "indiavolati", e coloro che, per il loro stato mentale alterato e non più frenato dalle convenienze e dai nessi comuni, vivevano in libertà e senza ipocrisie, divennero protagonisti di emblematiche leggende popolari. La follia, se pur intesa come accecamento senza scampo, fu in qualche caso considerata anche distributrice di verità non più imbavagliate dalle convenzioni. Infatti, il comportamento balzano era ammirato perché andava contro corrente: il matto denunziava la fallacia di alcune credenze e mostrava quanto la vita fosse fatua e insensata. Lo stato mentale alterato, con la sua esperienza tragica, cosmica, cominciò dunque a minacciare alcune evidenze; le osservazioni bislacche del matto misero a nudo incongruenze e insensatezze, che la collettività aveva prima ritenuto modelli ragionevoli e fecero notare come gli uomini fossero deboli e meschini di fronte alla vita.

Il bisturi della demenzialità, mettendo dunque in evidenza le insensatezze della collettività, divenne indispensabile ausilio per comprendere meglio le sfaccettature dell'animo umano. Jean-Étienne Esquirol agli inizi dell'Ottocento affermava che la follia è la malattia della civilizzazione, gettando così, assieme alle basi della psichiatria, anche quelle per un collegamento tra questa patologia e alcune espressioni della cultura.

Con la nuova psichiatria (e soprattutto con Sigmund Freud) i sogni vennero considerati importanti strumenti di conoscenza e la mente delirante, con i suoi simboli inquietanti, venne accomunata alle manifestazioni oniriche. Lo studio dell'alterazione mentale ricevette un forte impulso e si intuì che pazzia e ragione possono avere punti di contatto, anche se con contorni molto sfumati, tanto che l'insensatezza può includere un’intrinseca ragione e la ragione può fondarsi su un pizzico di eccentricità. Si dovette ammettere che la normalità non ha una direzione unica, né un cammino sicuro: essa è incerta, problematica e si scoprì che spesso l’insensatezza regna sovrana, laddove, invece, dovrebbe essere il regno della cosiddetta "normalità.

Nell’Età contemporanea, grazie all'aggiornamento degli studi, deposti il disprezzo e la condanna del malato di mente, si è compreso che il matto riflette, amplificate e deformate, le immagini delle nostre passioni e che l'esperienza della confusione mentale si può trovare nei parametri della vita quotidiana. Angoscia e malinconia diventano allora polarità del vissuto, e sono sperimentazioni umane fondamentali. A quel punto la malattia psichica assume una posizione decisamente inquietante: e la posta in gioco è discernere l'origine, tra determinismo corporeo e dimensione filosofica, tra localizzazione cerebrale e matrice esistenziale; un intrigo che continua, purtroppo, a non essere ben chiaro e definito.

E a tal proposito, bisogna chiarire che, indicando un certo tipo di follia a volte presente nell'individuo creativo, non ci si riferisce, ovviamente, a quella condizione della malattia mentale che è del tutto arida e in cui la mente è spenta, piatta, improduttiva, a quello stato psichico che è senza sbocco di pensieri, che appiattisce e spegne l'individuo, ma a quella forma vivace d'esaltazione, dinamica, traboccante di giudizi e di pensieri (anche se fuori dalla realtà), di ideazioni inconsuete, ma dense di correlazioni, di osservazioni sofferte. Insomma, quel genere di follia che potrebbe, anche se impropriamente, essere definita "creativa" perché produce materiale mentale che non è irrilevante, che non è scarso d'interesse né è amorfo; anzi è stimolante perché induce a dare risalto ai segreti che si nascondono dietro gli interstizi della mente alterata, le cui logiche "illogiche" emergono da "voli mentali senza rete".

E ci riferiamo alla follia di personalità reali come Strindberg, Van Gog, Schumann, Jean Genet, François Villon, ed altri geni, oltre che di personaggi immaginari come Don Chisciotte, Amleto, etc.

Henri F. Ellemberg chiama addirittura sindrome nevrotica creativa, quella che Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, definì melanconia leggera, "che partorisce le cose dolci", e che sarebbe una spinta utile per arrivare alla buona produzione artistica. Xavier Francotte, sull’onda del romantico sturm und drang, intravide, per primo, correlazioni e legami tra genialità e sregolatezza. E Silvano Arieti ritiene che: "A volte l'artista riesce a produrre fantasie tali da uguagliare, quasi, il sognatore oppure è capace di "quelle orge di identificazione" tipiche degli schizofrenici", e più oltre Arieti afferma ancora: "Nella psicopatologia, nella normalità come nella creatività, vi è la possibilità di ravvisare somiglianze e analogie". Il trovare e l'esprimere concordanze strane e suggestive tra le cose, può essere semplicemente il frutto di scoperte creative o il sintomo di una ideazione paranoide.

Arieti prendendo ad esempio alcune poesie di Victor Hugo, sottolinea che il poeta, così come anche il malato mentale combina "sintesi imprevedibili" che non verrebbero in mente a nessuna persona "non creativa". E a tal proposito mostra come Hugo rapporti, con paragoni suggestivi ma inconsueti, le stelle a fiori di una eterna estate, a gigli d'inverno, a gocce del sangue di Adamo, etc. etc.

Kay Redfiel Jamison sostiene che scrittori, artisti e musicisti sono più soggetti a disturbi dell'umore di altre persone. Inoltre Jamison afferma che negli artisti soggetti a disturbi maniaco depressivi si riscontrano cicli di alta creatività. In altri termini, in particolari soggetti dalle alte capacità cognitive, i disturbi dell'umore farebbero aumentare la produzione artistica. Infatti, sostiene Jamison, quando c'è depressione essa mette in dubbio, fa esitare, ma quando esplode la mania, essa fa reagire, con vigore e sicurezza, e crea atteggiamenti impetuosi spingendo l'artista alla creatività.

Ernst Kris, a sua volta, è del parere che l'arte non sia solo il prodotto dell'inconscio, e che l'artista utilizzi, per creare, processi che avrebbero luogo soprattutto nel preconscio, come la condensazione e la sostituzione.

Guido Morpurgo Tagliabue ha scritto un saggio dal titolo emblematico: La nevrosi austriaca (Kafka, Roth, Musil) che propone un inquietante dilemma sulla possibilità dell'esistenza di un'atmosfera nazionale nevrotizzante, che emerge soprattutto nei rappresentati più insigni di quella nazione. Il tema, del resto, fu intuito dallo stesso Freud. A complicare ancor più i nessi e la struttura della alienazione, la letteratura, il teatro, il cinema, la pittura e la musica l'hanno spesso "adottata", trovandola di capitale importanza perché offre tematiche e spunti di grande rilievo. Secondo alcuni, addirittura, il rapporto tra psicopatologia e creatività potenzierebbe l’ispirazione, facendola uscire dalle maglie dell’accademismo e spingendola a librare verso nuovi percorsi.

Nelle arti figurative, la follia è rappresentata in modo consistente. Agli inizi del Novecento fece discutere il caso della "pittrice" Aloysia, donna di discreta cultura (la cui condizione mentale andò deteriorando fino a far diagnosticare per lei una demenza precoce), che visse quaranta anni in manicomio, ove realizzò opere che sono state esposte nei più importanti musei del mondo.

La follia, ammessa dunque nel regno della pittura, della poesia e delle meditazioni, della musica, ha trovato grandi spazi nelle tematiche della cultura moderna e contemporanea.

Miguel de Cervantes mostra come la vanità della vita possa essere messa a nudo proprio da personaggio come Don Chisciotte, grazie alla sua balordaggine, e alla sua esperienza vissuta in una dimensione chimerica. E il drammaturgo siciliano Luigi Pirandello sottolinea come la stravaganza dei suoi personaggi metta a nudo le ipocrisie e le insensatezze della società.

Chi può negare che il mondo non sia il luogo dell’irragionevolezza e dell’assurdo, piuttosto che del buon senso e della logica? Con questa presa di coscienza, i modelli convenzionali, le idolatrie, le violenze psicologiche e i rituali paranoici, vengono riconosciuti come espressioni di un mondo instabile e vacillante, in bilico tra il compromesso e l’intransigenza, tra l’altruismo e l’egoismo, la passionalità e la moderazione.

In molti casi, l’arte è diventata un deterrente contro l’espandersi dell’angoscia e della insensatezza della vita. L'efficacia terapeutica della pittura come quella della musica e della scrittura, è stata riconosciuta da tempo. Allora il connubio tra creatività e alienazione si è fatto sempre più intrigante. François Villon elemento psicopatologico, asociale, ma genio fenomenale, compose quasi tutte le sue opere rinchiuso in una galera-manicomio. Il drammaturgo francese Jean Genet, grazie alla passione letteraria, subì un positivo cambiamento: da criminale si trasformò in apprezzato poeta. Per Jean Jacques Rousseau, per Friedric Nietzsche, per Ezra Pound, e per tanti altri, il processo creativo divenne una barriera, una difesa dalla depressione, e, in alcuni casi, l’occasione per ristabilire coesione al proprio Sé. Il regista Alais Resnais guarì dalla propria malinconia con una serie di sedute analitiche ma, soprattutto, girando il film L’anno scorso a Mariembad. Ingmar Bergman confessò: "Ero depresso, mi trovavo in una situazione difficile, lontano dal mio paese, e girando Un mondo di marionette ho trovato un modo, una forma molto precisa per trasformare la mia sofferenza in qualcos'altro". E anche Federico Fellini raccontò che, allorquando sentiva venire meno l’entusiasmo creativo, e gli si presentava l'uggia della vita, si sottoponeva a sedute analitiche. Quel genere di "medicina dell’anima" gli giovava a chiarire le proprie angosce, ma più d'ogni cosa, affermava il regista, gli ridava l’ardore creativo che lo stimolava a produrre nuovi film.

Woody Allen ha ammesso di essere di tanto in tanto depresso, ma ha pure affermato che, anche quando si sente giù, non smette di dedicarsi al proprio lavoro creativo: "È questo il modo migliore per rendere proficua l’ansia".

Dalle opere di Edvard Munch e di Paul Klee, si possono rilevare la tensione psichica, i motivi ossessivi e l’angoscia che sono presenti nella loro vita. Henri Laborit, illustre scienziato e scrittore, è del parere che la "fuga nell’immaginazione" sia il modo migliore per allontanare l’angoscia. Secondo Laborit l'evasione più efficiente è la creatività. Coloro che meglio degli altri riescono a fronteggiare l'angoscia sono gli artisti e i grandi geni i quali, tuffandosi in un mondo tutto loro, posso essere indipendenti dalle convenzioni e liberarsi dalle afflizioni.

Ma anche i fruitori della creazione artistica, detto per inciso, ricevono dei vantaggi terapeutici immergendosi nella contemplazione dell'opera d'arte. Lo psicoanalista Charles Rycroft, rifacendosi anche ad una affermazione di Geraldine Pedersen-Krag, afferma che il grande interesse per le trame poliziesche potrebbe essere dovuto alla capacità che ha questo genere di racconto di ridestare, e nel contempo quietare, vecchie angosce e sensi di colpa, dovuti alla osservazione della scena primaria. Rycroft afferma che il lettore, tramite il detective, che rappresenterebbe simbolicamente la curiosità infantile, cerca di dominare l'antica esperienza traumatica, rivivendola attivamente e vincendola. In altri termini, chi scrive o chi legge romanzi polizieschi, troverebbe, dunque, un effetto catartico nei confronti della inconfessata ostilità verso i genitori.

Anche la musica può avere effetto liberatorio: Ludwig van Beethoven si è salvato dall’abisso della disperazione e dalla solitudine che gli procurava la sordità, creando opere immortali. Wolfgang Mozart nel 1790 cadde in una grave depressione ed ebbe un lungo periodo di disgusto, tanto che non riuscì più a scrivere quasi nulla. Per reagire all'apatia che lo stava uccidendo cominciò a lavorare al Quartetto per archi in re maggiore, K539. La creatività gli ridiede entusiasmo e lo salvò dalla disperazione. Un altro tipico esempio di purificazione creativa ci è dato dalla esperienza di Hector Berlioz, il cui carattere tumultuoso, passionale e tormentato, trasse consolazione nella musica. In una lettera al padre, Berlioz scrisse: "Ho trovato solo un modo per soddisfare completamente questa immensa brama d’emozione, e questo modo è la musica; senza di essa, sono certo, non potrei continuare a vivere". Lo scrittore Graham Greene, soggetto a lunghi periodi di depressione, si chiedeva come potessero sfuggire alla alienazione, alla melanconia, e al timore panico coloro che non scrivono, che non dipingono, che non compongono. E il poeta Robert Lowell così s’espresse in una lirica: "Guarire è forse un’arte / o l’arte un modo per guarire".

Purtroppo, però, non sempre il lavoro creativo ha potuto avere un ruolo nella guarigione: geni e artisti come Paul Gauguin, Pior Ciaikovskij, Vladimir Majakovskij, Cesare Pavese, Ernst Hemingway, e altri, dopo avere fronteggiato per anni col diversivo della creazione ansie e inquietudini esistenziali, alla fine, non potendo più addomesticare i loro impulsi e i loro pensieri perniciosi, sono precipitati nel baratro.

Molti esseri eccezionali sono incappati, come del resto accade a uomini e donne comuni, in drammatiche difficoltà psichiche. Il poeta Raymond Roussel è morto per una overdose di barbiturici. La penosa malattia mentale di Antonin Artaud, poeta, regista e attore francese, lo spinse alla morte.

Ma, a parte i casi estremi, l’arte stimola un processo di ri-creazione del proprio Sé, e trasforma il materiale inconscio da negativo in positivo. Secondo Melania Klein, l’arte, sublimazione simbolica e riparatoria, sarebbe il mezzo più articolato e soddisfacente per alleviare le sofferenze psicologiche. L’ispirazione dell'artista, si rifornisce nella cassaforte del rimosso, in quel mondo privo di legami reali, persino bislacco e del non senso, dal quale viene fuori la linfa genuina della creatività. L’arte, dice C.G. Jung, risultato di un processo di "pescaggio" interiore, rende disponibile, in forma letteraria, musicale, pittorica, l'inconscio collettivo più profondo. Il costrutto creativo emerge da un processo simile alle libere associazioni, e con esse, a volte, riappaiono i percorsi psicopatologici dell’inconscio.

Sebbene non esistano dati sicuri e incontrovertibili sulla connessione tra psicopatologia e creatività, si può ipotizzare che la creazione artistica sia un mezzo per fronteggiare l'afflizione della vita.

In fine, a volte, come nel caso del romanzo Il pazzo dell’armeno Raffi (Ediz. Agop Agopian 1835-88), la stravaganza è vista come salvaguardia sociale. Nel racconto, un volontario, Varda, spacciandosi per matto, riesce a sfuggire da Bayasit assediata dai Turchi, per raggiungere il generale zarista Dez-Gukassof e chiedere aiuto affinché la città venga liberata dall’assedio. E quanti, pur non essendo assediati da nemici reali, ma da conturbanti fatti della vita, non si "spacciano" per nevrotici, o addirittura per esaltati, per creare una barriera difensiva e protettiva contro le avversità della vita?

2 L'angoscia dei creativi

La maggior parte della gente crede che l'artista sia una persona avulsa dalla realtà quotidiana, svagata, e persino "fuori di testa". Ma in realtà la creatività non necessita inevitabilmente della spinta psicopatologica; se ciò non fosse vero, bisognerebbe dimostrare come mai, molti geni, la cui vita interiore non è stata toccata dalla psicopatologia, abbiano raggiunto eccelse vette creative. Tuttavia, poiché un elemento importante della creatività è l'immaginare, il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, o quanto meno lo sceverare problemi complessi, tutto questo può polarizzare molto l'attenzione degli individui creativi, facendoli sprofondare in pensieri, che, a causa della loro difficoltà, diventano totalizzanti.

E poiché il genio, osservando ciò di cui gli altri non si accorgono, non sempre è in sintonia con le stesse cose di cui s'interessa la gente comune, è visto come privo delle reali qualità pratiche, e dotato soltanto di un'attitudine a vagare con la fantasia e l'immaginazione. Eugenio Montale, in una intervista rilasciata a Ferdinando Camon, affermò che tutti i creativi, proprio perché tali, sono molto spesso in crisi esistenziale, ma ciò non inficerebbe minimamente la creatività: "Gli altri dicono che i poeti sono pazzi: io dico che pazzi sono i non poeti". Ma, a parte il pensiero di Montale, non c'è dubbio che è sempre esistito il sospetto, e magari il mito, che l'individuo creativo sia, se non un po' matto, quanto meno distolto dagli interessi quotidiani.

Si racconta infatti che l'assorto Einstein, poiché non badava al proprio aspetto, senza rendersene conto, si mostrò alcune volte in pubblico con scarpe di fogge e colori diversi l'una dall'altra. E il filosofo Arthur Schopenauer era così distratto che spesso, dopo essersi seduto a tavola, dimenticava di mangiare il pasto che gli era stato servito, e, in preda ai pensieri creativi, s'alzava, senza aver toccato cibo. Anche Isaac Newton pare fosse alquanto sventato, soprattutto quando era troppo assorto nei suoi pensieri, così come lo era Beethoven, il quale, vivendo spesso da solo a casa, combinava un sacco di guai nel proprio appartamento. Di Salvator Dalì si racconta che, senza avvedersene, un giorno uscì da casa in pigiama per recarsi all'inaugurazione di una sua mostra.

Tuttavia, se l'artista, s'interessa per lo più di ciò che maggiormente lo solletica intellettualmente, questo non significa che egli sia "fuori dal mondo": è solamente impegnato in problemi diversi da quelli dell'uomo della strada. Tuttavia non si può escludere che l’ispirazione geniale sia a volte rinforzata dalla psicopatologia, come si può evincere da alcune biografie nelle quali appare chiaro che alcuni artisti sono infiammati da un furore creativo, totalizzante e a volte anche ossessivo.

Ma credere che vi sia un legame indispensabile tra esaltazione e creatività è un punto di vista forse troppo romantico: infatti, nell’Ottocento, si riteneva che la fonte più attiva dell’ispirazione fosse la sregolatezza; tuttavia è fuor di dubbio che i creativi "vedono" e "sentono" più in profondità, anche se lo sgomento del vivere è presente anche nelle altre persone.

Michelangelo, scrive il suo biografo Romain Rolland, fu preda del genio come nessuno mai. La sua "era una frenetica esaltazione, una vita formidabile racchiusa in un corpo e in un'anima troppo deboli per contenerla. Viveva in un continuo furore. La sofferenza di questo eccesso di forza lo gonfiava, lo costringeva ad agire, ad agire senza posa, senza un'ora di pace. Egli stesso scrisse che si sfiniva nel lavoro". Questo morboso bisogno di creare costringeva Michelangelo ad accettare più ordinazioni di quante non ne potesse condurre a termine. Egli lavorava di giorno e di notte, quasi con disperazione e questa eccitazione degenerava in una vera e propria mania.

Sigmund Freud in un’analisi postuma della personalità di Leonardo da Vinci, e basandosi su un ricordo d’infanzia del grande artista, sul suo "mancinismo", su alcune opere pittoriche, e su alcuni scritti dell’artista, ravvisò un rapporto edipico intenso tra Leonardo e la madre che avrebbe "disturbato" la serenità leonardesca. Il saggio freudiano non ebbe molta fortuna sia perché lo psichiatra viennese si basò su una traduzione errata del racconto del sogno di Leonardo, fatta da Marie Herfeld, sia perché le sue considerazioni finali apparvero romanzate e forzate piuttosto che scientifiche. Tuttavia, l’impegno posto da Freud nella ricerca della psicologia dell’artista pose le basi per indagini di questo tipo, cosa allora ancora poco consueta!

L'instabilità emotiva è una delle afflizioni che colpiscono la persona creativa. Il giurista ed economista milanese Cesare Beccaria, ritroso ed ipersensibile, era ipocondriaco e vedeva pericoli ovunque. Quando venne invitato a Parigi, per una serie di conferenze da tenere a proposito dei delitti e delle pene, a causa dell'improvviso isolamento in cui si venne a trovare nella capitale della Francia (egli era abituato a vivere in famiglia ed ebbe diverse crisi di panico dovute al vivere da solo) e forse anche a causa dello stress per il successo inaspettato, si creò in lui una vera e propria situazione di panico, che fece crollare il suo instabile equilibrio emotivo e lo indusse a fuggire via dalla capitale francese, abbandonando gli impegni per tornare nella quiete della casa. La sua decisione sollevò le ironie e i sarcasmi dei francesi che lo avevano invitato, la condanna del Verri per quella paurosa e meschina fuga e la disistima della stessa moglie, che riversò su di lui aspri rimbrotti.

Alessandro Manzoni fu sempre inquieto e malinconico, e lo dimostrò anche con una serie di malesseri ipocondriaci. Le sue fobie nevrotiche tra cui la paura di viaggiare, gli impedirono di raggiungere la figlia Matilde, che, morente lo supplicò di recarsi da lei per incontrarlo per l'ultima volta. Lo scrittore le assicurò che avrebbe pregato per lei ma non andò a trovarla, bloccato com'era da tutte le sue pastoie emotive. Manzoni era figlio di Giulia Beccaria e di Giovanni Verri, ma quest'ultimo non volle riconoscerlo e Alessandro ebbe un'infanzia solitaria e senza grandi affetti, cosa che certamente influì sul suo carattere alquanto depresso. Nello scrupoloso e circostanziato studio condotto da Vincenzo Rapisarda sulla psicologia del Manzoni, lo studioso individua nello scrittore "una organizzazione prenevrotica della personalità, con alcune fobie, peraltro quasi sempre controllate da meccanismi difensivi e da manovre controfobiche", ma esclude che tale psicopatologia possa avere limitato, all'infuori di alcuni episodi, la normale vita di relazione e il comportamento sociale dell'autore dei Promessi Sposi.

Benvenuto Cellini fu invece paranoico, e tuttavia, chissà, forse quel disturbo lo rese ancor più creativo. Orafo, scultore e scrittore, egli fu singolare testimonianza di artista folle e orgogliosissimo. Megalomane ed egoista, Cellini, confuse spesso l’individualità con l’egotismo delirante, e si ritenne il "legislatore di se stesso"! "Conversando con Dio", egli si convinse che il Padreterno lo avesse incoraggiato a "fare ciò che sentiva di fare". Cioè, anche ad eliminare quelli che, a suo giudizio, riteneva fossero ostacoli alla piena realizzazione della sua arte. Cellini si spinse al punto di uccidere le persone che pensava fossero d’intralcio alla manifestazione del suo genio!

Il neuropsichiatra tedesco Ernst Kretschmer nel suo volume dedicato agli Uomini geniali afferma che, quando si sottrae all’uomo di genio il tratto psicopatologico, spesso non resta che un uomo qualunque. Questa considerazione, in passato, ha fatto scattare, in qualche artista che avrebbe avuto bisogno di una psicoterapia, il timore che, una volta guarito dai disturbi emotivi, avrebbe perso l’estro artistico.

Ma questa affermazione appare un pregiudizio superato: Umberto Saba, per esempio, confessò che "la guarigione" gli ridiede il calore interno che animò il meglio della sua poesia. Infatti la fine della nevrosi portò a Saba una maggiore sicurezza di sé, un nuovo amore per la vita e il risorgere dell'ispirazione. Scrive Michel David che in Saba si può osservare uno dei più notevoli esempi dell'utilità della psicoterapia su un artista. "Il poeta non ne fu ucciso, ma rinnovato in senso positivo". David è anche del parere che "l'incontro con un buon psicoterapeuta avrebbe aiutato Pavese a vivere".

Camille Claudel, sorella maggiore del poeta e drammaturgo francese Paul Claudel, pittrice e scultrice, allieva e amante di Auguste Rodin, visse gli ultimi trenta anni della sua vita in manicomio. Camille, nemica delle convenzioni, era uno spirito libero, anticonformista e mal si adattava alle ipocrisie della società del tempo. Questa formidabile personalità indipendente ha affascinato la fantasia di vari scrittori che ne hanno fatto un'eroina in varie opere, tra cui, l'ultima, quella di Dacia Maraini dal titolo Camille, che è un monologo inframmezzato da voci esterne, che rappresentano il punto critico tra normalità e delirio.

Camille Claudel visse gli anni del ricovero in solitudine, senza ricevere mai la visita della madre, con la quale era in rotta sin da quando era ragazza, né quella dell'indaffarato fratello, come ella racconta nel suo epistolario, nel quale è anche possibile seguire, passo passo, in un clima di rigetto claustrofobico delle convenzioni sociali, il trapasso mentale dalla normalità alla disperazione.

Lo scrittore Italo Svevo, anch'esso grande indagatore della psicologia umana, risolse le sue angosce, perché riuscì a sedare l'ipocondria, la claustrofobia, gli ossessivi complessi di colpa, di cui era afflitto, dopo una serie di colloqui "terapeutici" con l'amico Edoardo Weiss, padre della psicoanalisi italiana. La coscienza di Zeno, romanzo autobiografico, apre il capitolo dei romanzi psicoanalitici, e consente a Svevo di dare una interpretazione dell'uomo in crisi, nell'ambito di una fenomenologia patologica dell'Io-coscienza.

Flaubert nel suo Memorie di un pazzo, opera dal tono autobiografico, pone l’accento sull’afflizione provata dal protagonista per un mondo irragionevole e torbido. Il libro, ispirato a fatti realmente accaduti, è narrato come se Flaubert, mentre lo scriveva, seguisse le proprie crisi ciclotimiche, cioè attraverso esaltazioni e sconforti. L’autore, con auto ironia, definì questi stadi emotivi di cui soffriva "il grottesco triste della mia personalità". Una tristezza che creava domande angosciose sull’infinito, sull’eternità, sull'essenza del male.

Anche Spleen, poesia di Charles Beaudelaire tratta dalla raccolta I fiori del male, descrive gli stati depressivi del suo autore. La parola spleen, in inglese, indica tristezza, disperazione e incapacità a mantenere un rapporto attivo col mondo. A questi stati d’animo, Beaudelaire dedicò varie liriche, tra cui Albatros, in cui il poeta espresse la sua estraneità esistenziale ad un mondo inospitale, con un distacco pari all'esilio dell’alienato che soffre il dramma dell’incomprensione. Però l'angoscia del vivere stimolò Baudelaire, che spesso si comportava da megalomane e narcisista, a vivere intensi e "allucinanti" episodi creativi.

Ludwig van Beethoven affermava di provare una sorta di pazzia che lo spingeva a creare e, se non riusciva a produrre, egli cadeva in depressione, balbettava, piangeva, e smaniava. Quello di Schumann è, poi, un vero caso patologico: egli "sentiva le voci interiori" che gli dettavano le note e i ritmi necessari per creare le composizioni musicali. Sua moglie Clara scrisse che il compositore a volte si svegliava durante la notte e sentiva le imprecazioni dei demoni che lo accusavano d’essere un peccatore e gli predicevano l’Inferno. Schumann sobbalzava e gridava impaurito affermando che "animali feroci" gli saltavano addosso e lo laceravano con i loro artigli. Anche Gaetano Donizzetti, a causa di una serie di sventure familiari, perse l'estro creativo, e, sebbene, in seguito, la vena gli sia tornata con La Figlia del reggimento, con Poliuto e con La favorita, i dispiaceri e lo stress per i parziali insuccessi di Don Sebastiano, di Caterina Cornato e de Il duca d'Alba, oltreché la non riuscita cura di una malattia che aveva contratta da tempo, la sifilide, affrettarono prima la sua paralisi e poi la sua demenza. Mali che gli fecero trascorrere, per un assurdo decreto prefettizio, un anno di segregazione presso una casa di salute di Ivry, fino a quando, per intervento di varie autorità politiche, gli fu concesso di tornare al paese natale, dove poco dopo morì. Era affetto da vari sintomi ossessivi compulsivi il critico d'arte e lessicografo inglese Samuel Johnson, il quale per molti anni della sua vita fu costretto, dalla sua malattia, ad eseguire dei lunghi rituali prima di poter essere libero di fare qualcosa di concreto nella sua giornata. A volte, il comportamento rituale si ripeteva quasi di continuo, in altri casi, invece, lo scrittore riusciva ad avere lunghi intervalli di quiete.

Precarie furono anche le condizioni mentali dello scrittore irlandese Jonathan Swift, uno degli spiriti più rappresentativi del XVIII secolo. Il moralista che beffeggiò le incongruenze umane finì i suoi giorni in preda a crisi ossessive: all'inizio era sembrata una defaillance della memoria, ma in seguito si rivelò una crisi maniacale con perdita dell’intelletto.

Nel poeta Jean Nicolas Arthur Rimbaud la severità educativa scatenò ribellioni spietate e istinti autodistruttivi. Arthur, sottoposto all'educazione ipocrita e sferzante della madre, donna severa, arcigna e incapace di vera tenerezza, considerò la famiglia l'annientamento di qualsiasi libertà. Sebbene assalito da paure ed ossessioni, Arthur a sedici anni, detestando la rigida educazione cattolica, sentendosi oppresso dall'ambiente borghese, che riteneva stupido e meschino, esplose in una furiosa rabbia che gli fece rifiutare ogni regola. Contro la religione, che considerava la peggiore manifestazione della ipocrisia, Rimbaud scrisse parole durissime. Alla fine, colto da profondo disorientamento, fuggì a Parigi e andò ad abitare a casa di Paul Verlaine. Ma nemmeno lontano da casa Rimbaud riuscì a cancellare il suo devastante passato. E sebbene non abbia accettato mai più le regole che gli erano state imposte, e malgrado fosse vissuto fuori dagli schemi della odiata borghesia, Arthur non riuscì ad affrancarsi del tutto dalla società che egli detestava. E così, dopo essere vissuto in Somalia, ad Aden, in Abissinia e nel Sudan, ancora vittima della schiavitù della madre e malato di cancro, ritornò drammaticamente a casa. Al pari dell'amico Rimbaud, l'altro poeta "maledetto", Paul Verlaine visse in modo disordinato, nevrotico, da alcolizzato e da barbone.

Lo scrittore Hermann Melville soffriva di violenti sbalzi d’umore e passava da momenti di grande socializzazione a episodi di morbosa chiusura in se stesso, durante i quali non riusciva a lavorare, ossessionato dalla paura della morte e in preda al più cupo pessimismo. Konrand Lorenz raccontò che, quando era costretto a deviare le sue abitudini, manifestava un senso d'insicurezza e un palese nervosismo. Infatti confessò che, per esempio, se dopo avere percorso per un certo numero di giorni e in modo regolare le stesse strade per fare un certo tragitto, era costretto a prendere un altro itinerario, per arrivare allo stesso posto, provava un senso di ansietà.

Il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, genio precocissimo (si dice che a quattro anni avesse già letto, e con profitto, Le Mille e una notte ) considerato un prodigio di scienza e di filosofia, era affetto da malinconia ciclica e da stati visionari, che invano cercò di curare con l’oppio. Su figlio Hartley, anch'egli poeta, animo trasognato e decadente, si diede pure lui al bere, e visse gli ultimi anni della sua esistenza passando dalla depressione all'ubriachezza. Percy Bysshe Shelly, le cui idee di libertà ne fecero un esempio luminoso contro le banali convenzioni e un modello di avversione nei confronti di ogni dispotismo, era conosciuto come il poeta combattente perché partecipò, tra il 1820 e il 1821 a vari moti rivoluzionari. Ma Shelley fu tormentato tutta la vita da visioni, da attacchi isterici, e, molto probabilmente, anche da transitori deliri.

Pur non ipotizzando che coloro che sono dotati di qualità artistiche eccezionali hanno una maggiore incidenza di problemi psichici della massa, bisogna constatare che nel furore creativo degli artisti a volte si intravede la psicopatologia. Kafka soffrì disagi psicologici e difficoltà relazionali. Proust sopportò gravi angosce e preoccupazioni ipocondriache. La depressione assalì a più riprese sia Masaccio che Gauguin.

All'eccentricità molto vicina alla patologia non sono sfuggiti illustri spiriti come i poeti John Keats, George Gordon Byron e Heinrich Heine; come le scrittrici Florence Nightingale, Elizabeth Browning, Victoria Sackville-West, Annemarie Schwarzenbach; storici quali Michel Foucault ed Henri Pirenne, scrittori come Walter Scott , Robert Burns, Walt Witmann, musicisti come Gustave Malher, Cole Porter, tanto per citare alcuni esempi nel mare magnum della stravaganza delle personalità geniali.

Il poeta boemo Rainer Maria Rilke, che diede una svolta profonda nel gusto letterario del suo tempo, visse sul limite del baratro schizofrenico. E particolare fu anche l'esperienza del poeta francese Henri Michaux, che, abbandonati gli studi di medicina, s'imbarcò in un cargo e s'adattò a fare anche umili mestieri, con l'unico scopo di vivere una vita diversa dalla solita monotonia "borghese" e tirare fuori il proprio estro poetico. Ma la poesia non lo appagò, e Michaux cercò di esplorare fino in fondo il rapporto che c'era tra ciò che gli pulsava dentro e la l'alterazione mentale. Così egli, con l'assunzione controllata di allucinogeni, si procurò "turbamenti sorvegliati", "per scoprire i sintomi profondi della psicosi" che, era convinto, fosse in lui, come in ogni altra persona creativa.

Michaux credette di riconoscere dentro di sé i sintomi del disturbo mentale dopo avere ingerito fortuitamente una dose di mescalina, e si convinse che ogni individuo possiede dentro di sé i pericolosi percorsi del delirio, basta solo sollecitarli. In seguito Michaux sperimentò, assumendo sperimentalmente quella sostanza allucinogena, tutta la gamma delle sensazioni che fanno parte del mondo della squilibrio mentale e, da personalità altamente creativa qual era, lavorò al suo progetto fino ad ottantaquattro anni compiuti, redigendo di volta in volta le sue varie scoperte nel campo del pensiero psicotico.

Nelle sue Memorie di un neuropatico, il presidente di Corte d’Appello di Dresda in pensione, Daniel Paul Schreber, sebbene malato di mente, poté narrare i deliri paranoici che lo affliggevano, raccontando, con dovizia di particolari, l’insorgere e il progredire del suo male. L’opera che Schreber pubblicò a proprie spese nel 1903 fu segnalata da Jung a Freud nel 1910 e indusse lo psichiatra viennese a studiare il caso analiticamente, riportando le osservazioni a proposito della malattia di Schreber in un famoso lavoro sulla paranoia. Freud ritenne che Schreber, malgrado fosse tanto malato, avesse una personalità di alto livello spirituale, e che fosse un intelletto insolitamente acuto e capace di finissime osservazioni psicopatologiche; insomma, secondo il padre della psicoanalisi, nella personalità di Schreber, convivevano senza intralciarsi lo scrittore e il paranoico.

Nella raccolta di racconti dal titolo Kleisleriana, di Ernst T. A. Hoffmann, lo scrittore, musicista e poeta tedesco che visse suggestionato da fenomeni telepatici, convinto di essere in grado di operare lo sdoppiamento del proprio Io, e di potere autoipnotizzarsi, rievoca immaginazioni raccapriccianti e cupe fantasie. Dando vita a paurosi e grotteschi fantasmi, il narratore trasforma l'esistenza in uno smarrimento e in una afflizione continua, in un perenne terrore di perdere la ragione. Nei racconti citati, l’angoscia diventa rapimento estatico, esaltazione profonda dell’animo umano e da questa esplosione evocativa, emergono i motivi centrali da cui era ossessionato Hoffmann: la telepatia, lo sdoppiamento psichico e gli stati patologici della psiche, temi che egli descrisse con l'intento di terrificare i lettori. L’effetto è originale, ma lo psichiatra che avesse potuto analizzare Hoffmann, avrebbe certamente diagnosticato in quelle fantasmagorie spettrali, i segnali inquietanti di un animo turbato. E Hoffmann insisté sul tema dello smarrimento della ragione anche in un’altra opera, Il mago Sabbiolino, in cui descrive le turbe mentali del protagonista innamorato di una bambola meccanica.

Lo scrittore austriaco Joseph Roth, fortunato autore di molti successi come La leggenda del santo bevitore, La marcia di Radetzky, Hotel Savoy e Fuga senza fine, finì i suoi giorni di clochard, suicida a Parigi. Il suo fu quasi un destino di famiglia: il padre di Roth, era morto alcolizzato in un ospedale psichiatrico.

Joseph Roth era nato in Galizia e sin da ragazzo si rivelò subito come uno spirito depressivo, misticheggiante e mitomaniaco, tant'è che nei suoi libri e nella sua vita egli esibì la progressiva sconfitta dell'uomo davanti all'esistenza. Herman Kesten, nella biografia dello scrittore, lo ricorda, ormai ridotto un barbone, vagare per Parigi in preda all'alcol.

Figura inquietante e singolare fu anche quella del poeta portoghese Fernando Pessoa, la cui personalità anzi, le cui personalità, sia letterarie che psicologiche, furono molteplici, quasi a indicare una scissione dell'Io (il poeta fu anche ricoverato in una clinica per qualche tempo per una crisi depressiva).

Ad ogni libro che scrisse, Pessoa si attribuì un diverso pseudonimo, come a voler significare che era stata una sezione della sua personalità ad aver creato quell'opera. E, cosa ancor più singolare, che mostra non solo la molteplicità della personalità artistica del poeta, ma anche, in qualche modo, il frantumarsi dell'uomo reale in tante personalità diverse, Pessoa redasse, per la presentazione di ognuna dei suoi lavori, una biografia distinta ed indipendente del fittizio autore, a volte del tutto diversa e in contrasto con le altre. Poiché la produzione del poeta portoghese vide la luce quasi tutta postuma, la sua decisione di scindere i diversi aspetti della propria personalità d'autore sotto nomi fittizi, fece credere che le varie opere alle quali Pessoa attribuì nomi di autori presi dalla fantasia (Alvaro de Campos, Alberto Caerio, Bernardo Soares, Riccardo Reis, Antonio Pacheco), fossero davvero da attribuire ad altrettante persone reali, e solo in seguito si seppe che erano "proiezioni" psicologiche di uno stesso scrittore.

Karl Jaspers in uno studio condotto sulla personalità e le opere del drammaturgo Johan A. Strindberg, le cui opere (come nel caso de Il gioco del sogno e Tempesta) privilegiano l'immaginario e gli aspetti più sconnessi della vita, al posto del reale e della logica, descrive lo scrittore svedese, come ipersensibile, timoroso di sbagliare, particolarmente vulnerabile alle pressioni esterne, e affetto da un "Io" malfermo, e predisposto alla teatralità.

Johan August Strindberg soffriva di somatizzazioni allo stomaco, aveva insonnia accentuata e, ciò che più conta, era affetto da deliri di persecuzione, per cui si delineò, nei suoi confronti, una diagnosi di schizofrenia. Il rapporto del drammaturgo svedese con le donne fu problematico e ambiguo, come testimonia uno degli scritti che compongono la sua autobiografia in cui descrive la deleteria e contrastata relazione con la prima moglie, la baronessa Siri von Essen ; eppure, malgrado le sue esperienze deliranti, le sue allucinazioni, quando Strindberg creava non perse mai il senso critico e rimase sempre autore di altissima qualità drammatica. E così, sebbene questi sintomi inquietanti facessero parte indissolubile del suo universo mentale, Strindberg fu un apprezzato drammaturgo e un letterato di primo piano. E ciò fu dovuto al fatto che, malgrado tutto, lo scrittore svedese non perse mai la facoltà di riflettere, e a dispetto dei suoi sintomi spettacolari, la sua personalità non rimase né isolata, né avulsa dal mondo, né separata dal reale.

Umberto Galimberti, riferendosi proprio allo scrittore svedese, afferma che bisognerebbe rivedere l’opinione secondo cui la malattia mentale rappresenta solo il disfacimento emotivo e psicologico. Del resto, un pizzico di follia, afferma Galimberti, probabilmente, si trova anche nell'uomo comune. Di ciò è convinta anche la scrittrice Mary McCarthy, che fa dire a un personaggio del suo romanzo Il Gruppo: "Tutti i neurotici sono piccoli borghesi. E viceversa. La pazzia è troppo rivoluzionaria per loro. Non sono capaci di arrivare fino in fondo. Noi pazzi siamo gli aristocratici delle malattie mentali".

Karl Jaspers s'interrogò sulla possibilità, che arte e sregolatezza, in alcuni casi, avessero un percorso parallelo. Quando egli analizzò le opere e la personalità del filosofo Emanuele Swedenborg trovò che, sebbene quell'autore avesse reagito al clima in cui era vissuto, era rimasto in bilico tra empirismo e misticismo. Questa sua complessa e tormentata esistenza fu la molla che mise in moto la creatività ma anche la malattia mentale del filosofo svedese.

Swedenborg, quando era stato oramai riconosciuto come scienziato di rango, cominciò ad avere visioni. Agli inizi, egli ritenne che questi disturbi fossero "una estrosa esperienza", e ne parlò anche in pubblico; ma, accortosi ben presto che il suo stato mentale destava sospetti, divenne cauto, "per evitare di essere considerato matto". Il filosofo affidò ai suoi diari le descrizioni suggestive delle "visioni" e della allucinazioni che "lo portavano verso l’Infinito". Alla fine, in cerca di pace, Swedenborg, si chiuse in se stesso e consacrò la sua vita alla teosofia e alla religione.

Il musicista Michail Ivanovic Glinka, che con tanto entusiasmo diede vita alla corrente orientale della musica russa e cercò di riformare il canto ecclesiastico russo, quando si sentì profondamente amareggiato dall'incomprensione dei suoi compatrioti, cadde in depressione. A causa della sfiducia che s'era impadronita di lui, per anni non compose più nulla, e solo verso la fine della sua vita tornò in qualche modo ad essere creativo.

In preda a incubi e visioni fu spesso anche Edgard Allan Poe. Lo scrittore americano visse un’esistenza disordinata, dedito all’ubriachezza e ad insensate avventure economiche che lo mandarono sul lastrico. Poe alternava periodi di delirante perdita della ragione a stati di lucidità. E se tale genere di vita non può essere definita esemplare, fu forse proprio questo disordine, questo vagabondaggio psicologico, questa mancanza del senso delle radici che fecero maturare in Poe un modo di narrare nuovo che aprì inedite prospettive nella letteratura americana. Scrisse Poe ad un amico: " Mi hanno definito pazzo, ma non è ancora risolto il problema se la follia sia o meno la forma più elevata di intelligenza, se molto di ciò che è illustre, se tutto ciò che è profondo, non sgorghi da una malattia del pensiero, da atteggiamenti della mente esaltati a spese dell'intelletto generale". Poe, considerato il padre di quel genere narrativo del terrore che verrà chiamato "giallo", per ironia della sorte, come accadeva ai protagonisti nei suoi romanzi, fu trovato moribondo in una strada di Baltimora.

Altra vicenda amara fu quella che travolse l'autore de Il giardino dei Finzi-Contini. Dalla moglie e dai figli di Giorgio Bassani fu chiesta l'interdizione dello scrittore perché gli fu diagnosticata una demenza progressiva. Ma se, sul principio, questa vicenda ebbe il sapore di una querelle familiare dovuta a contrasti patrimoniali, in seguito, Bassani, uno dei migliori scrittori italiani del dopoguerra, fu sempre più "fuori di testa", tanto che, pare, non riuscisse a riconoscere e a ricordare nulla del suo passato.

Una vicenda a cavallo tra il giallo e la manifestazione di squilibrio è quella che vide protagonista il filosofo e scrittore Louis Althusser, pensatore conosciuto in tutto il mondo e quasi un mito nella Francia del Novecento. Althusser ebbe una gioventù travagliata; fu oppresso dalla madre, subì una serie di ricoveri psichiatrici causati anche dagli eventi bellici e da traumi esistenziali. A trent’anni conobbe e sposò la vivace Hélène, che, affetta da gravi turbe emotive, era però di intelligenza spumeggiante. La donna avviò lo scrittore al sesso, all’ateismo, alla politica e alla libertà di pensiero. Althusser in una delle "consuete sedute in cui praticava alla donna la fisioterapia", mentre massaggiava il collo della moglie, che giaceva mollemente a letto, non s’accorse che ella aveva ormai gli occhi fissi e la lingua uscita tra le labbra. Quando s'accorse di ciò che era accaduto, Louis inorridito balbettò in preda alla disperazione: "Ho strangolato Hélène?!".

Dopo essere stato arrestato, il filosofo, che era in stato confusionale, venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ma quell'uxoricidio rimase un gesto di stampo pirandelliano: in realtà, difatti, non si poté mai appurare se si fosse trattato di una disgrazia o di omicidio intenzionale o preterintenzionale.

Per parte sua, Althusser dichiarò che non poteva escludere nessuna ipotesi perché, disse, in quel frangente, la sua mente aveva avuto un vuoto, uno smarrimento o, forse, una distrazione. In seguito, la creatività, che era in lui, rimase sempre fervida, lo aiutò a venire fuori dalla depressione causata da quella tragedia.

Un altro famoso scrittore, l’americano William Burroughs, si trovò coinvolto in una vicenda altrettanto inquietante, anche se forse, più paradossale. Il romanziere, che era spesso affetto da crisi depressive, cercava di attenuare la propria angoscia accompagnandosi a giovani efebi. A volte, per fronteggiare la disperazione, s’imbottiva di droga. Nel 1951 un evento tragico segnò la sua vita: egli uccise con un colpo di pistola la moglie Joan Vollmer alla presenza del figlioletto. Burroughs sostenne però che s'era trattato d’un incidente. Egli affermò, infatti, che stava "giocando", come aveva fatto altre volte, al Guglielmo Tell, e che, mentre puntava l'arma contro la donna, era partito un colpo accidentalmente. Come nei libri di Burroughs s’incontrano personaggi allucinati, anche quell’incidente sembrò una delle strambe storie narrate dallo scrittore. William Burroughs venne processato ed espulso dal Messico; ma lo psicologo H. F. Heyson, nominato dal Tribunale, aveva invece proposto che lo scrittore fosse ricoverato in manicomio. In seguito, Burroughs, dopo essersi stabilito a Tangeri, scrisse i suoi libri migliori: La scimmia sulla schiena e Il pasto nudo. Lo scrittore confessò che aveva lavorato freneticamente ai suoi romanzi per "dimenticare" ciò che era accaduto a Città del Messico.

La serie degli autori che in un modo o nell'altro hanno avuto a che fare con crisi psichiche è molto nutrita. Tutto il pane del mondo è la cronaca di una vita passata tra l’anoressia e la bulimia. L’autrice, del romanzo, Fabiola De Clerq, ha vissuto sia l’una che l’altra patologia, ed ha scritto con minuzia di particolari la cronaca della sua malattia. Il libro è diventato uno dei più sconcertanti documenti sul caso ed un prezioso aiuto per quanti vivono o hanno vissuto tale esperienza o convivono con persone affette da questa patologia.

Anche La Matta è un romanzo frutto di esperienza personale: l'autrice, la statunitense Joyce MacIver, descrive l'esistenza di una giovane incapace di controllare i propri impulsi e di proteggere il proprio corpo. Il libro è l’amara autobiografia, in forma di diario intimo, di una donna condannata a diventare vittima di uomini brutali. L’autrice confessa che nel romanzo La Matta sono descritti i sette anni più difficili della sua vita. Ed inoltre, nella protagonista del romanzo, la MacIver ha compendiato tutte le donne che finiscono per diventare matte a causa degli stress procurati da un mondo crudele e senza amore.

Sulla medesima lunghezza d’onda, è Viaggio attraverso la follia che Mary Barnes ha scritto con l’aiuto di un giovane psichiatra, Joseph Berke. Nel libro è raccontato il doloroso cammino di una quarantenne che cerca di recuperare la propria "ratio" e di uscire dall’inferno dell’alienazione.

Karl Jaspers ipotizzò che da alcuni disturbi mentali, possono nascere opere incomparabili "così come una perla nasce dal difetto di una conchiglia". Secondo quel filosofo- psichiatra la esaltazione psichica non solo non intacca la creatività ma non appanna nemmeno il giudizio critico indispensabile per portare avanti un'opera d'arte. A sostegno di questa tesi Jaspers afferma che il decorso della malattia mentale di Van Gogh corrisponde ai vari cambiamenti dell’intensità e dello stile creativo del pittore. Van Gogh, sempre a parere del filosofo tedesco, rimase critico ed obbiettivo anche durante i periodi più gravi della sua patologia, il che farebbe supporre, che, malgrado la malattia, gli sia rimasto un permanente equilibrio nell’apprezzamento della propria creatività.

Uno dei massimi geni della danza del primo Novecento, Vaslav Nijinsky, grande ballerino e coreografo, ha scritto pagine sconvolgenti nel proprio diario. All'opera Nijnsky affidò il suo ultimo urlo creativo, prima di precipitare nel delirio. Nijnsky, grande interprete e ideatore di balletti, realizzati in modo leggendario, come Sacre du Printemps e L’après midi d’un faune, nelle pagine del suo Diario, confessò di sentire delle voci, di dialogare con esse, di provare strane sensazioni extracorporee, e di percepire come se il proprio Io "andasse in pezzi".

Il "caso" Nijinsky, la sua lucidità artistica e la sua esaltazione appassionarono i più grandi psichiatri del tempo, da Binswanger ad Adler, da Bleuer (il quale gli diagnostico la schizofrenia), a Sigmund Freud che studiò attentamente il caso. Questo genio della danza, che interpretò magistralmente Spectre de la rose, il Fauno, il burattino di Petrushka, per anni si nascose dietro quei personaggi sperando che con quella trasfigurazione emotiva potesse raggiungere la catarsi; ma egli purtroppo tentò invano di sfuggire e di evadere dalla banalità del quotidiano e dai guai personali. Dopo la disperazione per la rottura col suo grande amore, il giovane Sergej Djaghilev, il ballerino cercò un poco di pace sposando Romola de Pulszky, donna intelligente e comprensiva che seppe prendersi cura di lui per tutta la vita. Ma, come scrisse in proposito C. G. Jung, che conosceva la vicenda del ballerino, l’esaltante esperienza umana e artistica di Nijinsky era troppo grande per essere fronteggiata dalla carente preparazione culturale, e dalla fragile conformazione psichica dell'artista, sicché, alla fine, Nijinsky "andò in mille pezzi come un vaso". La vita di Nijinky ripropose dunque il dibattito sul rapporto tra la malattia mentale e la creatività. E a proposito della vita del ballerino russo, Jung si chiese: "Si può chiamare questa una malattia? È una domanda alla quale mi guarderei bene di rispondere". Jung era inoltre del parere che la follia non sia una necessità indispensabile per la produzione artistica; egli riteneva che, tutto al più, un pizzico di esaltazione possa diventare, in qualche caso, elemento propulsore o deflagrante, ma non per questo essa è la condizione essenziale dell’opera d’arte.

Del resto, ogni persona creativa, ogni artista, proprio perché più sensibile, più attento e più concentrato in una intensa attività intellettuale, possiede come un sismografo emotivo molto reattivo e, forse anche più fragile della media, per cui ha un grado di sopportazione limitata e proprio per tale motivo è soggetto a dubbi, stati d’animo, ossessioni, angosce ed egoismi smodati, che rientrano anche nel quadro della psicopatologia.

Emblematica è pure la "confessione" di Roland D. Laing, il grande psichiatra scozzese, colui che diede una svolta alla psichiatria contemporanea, il quale racconta che sin da ragazzo era affetto da un'asma psicosomatica, disturbo che gli rimase anche quando divenne una celebrità. "Le conferenze mi terrorizzavano: me la facevo addosso, cominciavo a tremare, mi andava via la voce, perdevo il filo di quello che stavo cercando di dire, mi prendeva un attacco d'asma sul palco".

Una grave crisi psichico-esistenziale coinvolse la scrittrice Agata Christie che, dopo un forte stress, causatole da una vicenda personale, scomparve per diversi giorni, senza dare notizie di sé. La polizia la trovò che vagava in stato confusionale in un viale dei giardini pubblici e la riaccompagnò a casa, ma la scrittrice non seppe dire mai dov'era stata in quei giorni e cosa avesse fatto in tutto quel tempo.

Altro esempio di crisi esistenziale e depressiva è quella della scrittrice Margaret Drabble, autrice di vari romanzi, la quale ha dichiarato di avere ereditato in pieno "la grave malinconia materna". Infatti, sua madre, laureata a Cambridge e ottima studiosa, quando subì il divieto di salire in cattedra, che allora vigeva per le donne sposate, addolorata per l'assurdo spreco del proprio talento, finì i suoi giorni in una tetra depressione. Inoltre, Margaret Drabble è stata protagonista assieme alla sorella, anch'essa scrittrice e conosciuta con lo pseudonimo artistico di Antonia Byatt, di una lunga querelle di gelosie, di rivalità e di invidie causate dal fatto che entrambe fanno lo stesso mestiere, e tutto questo, a suo dire, l'avrebbe reso ancor più pessimista e sfiduciata.

In quanto al romanziere Rudolf Ditzen, conosciuto con lo pseudonimo di Hans Fallada, egli ebbe una gioventù rattristata dal senso di colpa causatogli dall'avere ferito gravemente a duello un compagno di studi. Quel dolore spinse Hans a tentare il suicidio e, in seguito, peggiorate ancor più le sue condizioni, venne ricoverato in una clinica per malattie nervose. Da quella situazione esistenziale così compromessa, lo scrittore venne fuori, oltre che con cure appropriate, anche grazie all’aiuto di una donna, Anna Lorten che, come egli affermò, "aveva ridato la speranza ad un uomo che era senza più speranza".

Alcune coppie di artisti famosi, come quelle formate da Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, da Pitigrilli e Amalia Guglieminetti, dalla poetessa Sylvia Plath e dal marito Ted Hughes, della scrittrice Iris Murdoch e dal critico John Bayley, e quella omosessuale costituita da Vita Sackville e Virgina Woolf, sono state una mistura esplosiva perché, essendo rappresentate da personalità molto creative, nessuno dei partner che componeva il ménage accettò mai alcuna intrusione nel proprio lavoro, nemmeno da parte del compagno o della compagna. Molte di queste coppie vissero la loro unione disturbata dall’invidia, dal rancore e dalla stizza per la reciproca concorrenza artistica, ed hanno posto fine, in un modo o nell'altro, burrascosamente alla loro relazione.

La vicenda Scarfoglio-Serao si trasferì, tra diatribe e rancori, in tribunale, e così pure la burrascosa unione Pitigrilli-Guglielminetti, ma in questo caso, la poetessa finì, per qualche tempo, in manicomio. La coppia Sackville-Woolf, ebbe un tragico epilogo col suicidio di Virgina. E stessa fine si diede la Plath. In quanto ad Iris Murdoch, splendida artista ma impietosamente contrastata dal marito, la sua mente si perse definitivamente nelle nebbie dell'Arzheimer.

Ma la coppia più folle fu quella formata dai coniugi Francis Scott Fitzgerald e dalla moglie Zelda Sayre, entrambi dotati di quel genere di carattere che Freud definì fallico-narcisista, cioè egocentrico, plateale, sempre in cerca di notorietà e continuamente proteso ad attrarre l'attenzione della gente con qualsiasi mezzo. Con un simile programma di vita, era inevitabile che i due corrodessero in breve le loro esistenze, tanto più che entrambi erano dediti all'alcol. Francis e Zelda vissero la loro breve stagione artistica e umana in un radicale anticonformismo, in un'atmosfera anticonvenzionale ma nel contempo apertamente autodistruttiva. E così, malgrado i grandi successi letterari, dopo anni di sperperi economici, vissuti nel lusso e tra una sbornia e l'altra, le personalità dei coniugi Fitzgerald arrivarono ad uno stato di quasi totale disintegrazione. Francis era in continua lotta col l'alcolismo e Zelda, la più debole dei due, finì definitivamente in una clinica per malattie mentali. Lo scrittore che era stato il simbolo dell'età del jazz, e che, all'uscita del suo primo romanzo, aveva venduto 40.000 copie in un paio di settimane, morì in povertà a soli 44 anni.

Nevrotico e tormentato fu anche Thomas Mann. Egli approfittò sfacciatamente della signora Mayer, moglie di un industriale americano e sua grande ammiratrice, la quale, affascinata dalle sue opere, lo adorava. Mann si mostrò interessato alla Mayer quel tanto che bastava per ottenere l’aiuto finanziario che ella non gli negò mai. Ma il romanziere tedesco non confessò mai all'amica la propria omosessualità, motivo per cui non volle mai incontrarla. Infatti, Mann era terrorizzato che si venisse a conoscere la sua particolarità sessuale, e paventando questo, aveva non poche angosce. All'amica, Mann, propinò la romantica idea di un’amicizia escusivamente epistolare, senza un incontro fisico tra loro, "perché ciò rendeva più puro il rapporto".

La Mayer, lusingata di tanta "finezza d'animo", accettò la condizione imposta dall'amico, e, ignara dei veri motivi che avessero spinto il suo idolo a fare quella scelta, non chiese mai di incontrarlo.

Cecil Todes, un medico sudafricano, psicanalista allievo di Anna Freud, che esercitava in Inghilterra, colpito a 39 anni dal morbo di Parkinson, ha raccolto in un volume le sue esperienze psichiche. L'avere annotato con cura il decorso della malattia, scrivendo quotidianamente tutte le sue sensazioni di malato, è stata la forza propulsiva e creativa che gli ha consentito di fronteggiare quel grave problema.

Bisogna allora interrogarsi se la malattia mentale in qualche caso non divenga motore inconsapevole della creatività e spinga la mente ad espandersi oltre i confini nei quali, la persona "normale" non s'addentra. Wilhelm Reich si spinse oltre i confini della scienza con le sue sperimentazioni. Egli annunziò, partendo dalla sua forse un po' troppo bislacca teoria dei bioni di avere scoperto un metodo per assorbire le "radiazioni cosmiche", che impiegava sui suoi pazienti. Questa affermazione fece scattare un'indagine da parte del tribunale. Reich rifiutò con disprezzo qualsiasi ingerenza della Corte nel suo operato, e venne condannato a due anni. Finì i suoi giorni in carcere.

Girl interrupted è un libro autobiografico, interessantissimo, scritto da Susanna Kaysen, che fu un best-seller, e che rievoca il periodo trascorso dall'autrice, appena diciassettenne, in una clinica psichiatrica dopo un tentativo di suicidio. Il libro narra fatti che accaddero intorno agli anni della contestazione giovanile (1967-69 circa), epoca di inquietudini, di incertezze esistenziali, di confusioni di ruoli e di ricerca dei diritti e delle libertà della persona, in cui una giovane, l'autrice, travolta dalle incertezze sulla propria identità e in dubbio su ciò che è la vita, finisce col ritenersi davvero matta e si fa internare, per poter ritrovare se stessa. Susanna è un test interessante perché descrive mirabilmente l'esperienza delirante, con introspezioni e riflessioni geniali, a volte anche autoironiche.

Ed allora, analizzando tante opere esemplari, ci si chiede se sia possibile ipotizzabile che genio e follia facciano parte di una struttura mentale similare, in cui la prima è la facciata favorevole, e l’altra quella negativa. La pulsione "geniale" talvolta è simile alla ossessione e spinge l’artista alla creatività, alla smisurata ambizione, al tormento intellettivo; tutte situazioni equivalenti della esaltazione mentale. E così, sulla base di queste considerazioni, dopo aver parlato di creativi folli, passiamo ad esaminare alcuni casi di folli che sono diventati creativi.

Uno di questi è Mattio Lovat, che, troppo povero per mantenersi al seminario, non divenne prete, come avrebbe desiderato, ma calzolaio. Ricoverato nel manicomio di San Servolo, perché, a causa della sua malinconia religiosa, si era castrato e crocefisso, Lovat divenne famoso per la memoria indirizzata al tribunale di giustizia e per le notazioni che scrisse sulla sua degenza e sul suo stato mentale. La sua "lucidità" giuridica e morale fu a tal punto sensata che scrisse al tribunale annunziando che per volontà divina sarebbe dovuto morire in croce. In questo modo scagionava e preveniva qualsiasi sospetto affinché la responsabilità della sua morte non ricadesse su persone innocenti. Il suo caso venne presentato alla comunità scientifica da Cesare Ruggieri. Altra vicenda emblematica è quella di Martino Mosca, ospite anch'egli, a più riprese, di vari manicomi, che analizzò, in alcune pagine, con competenza, la propria malattia. Egli, nella corrispondenza col Priore di San Servolo descrive e analizza con lucidità la propria malattia.

Il conte Carlo Abriani, che a causa delle sue crisi mentali venne internato in una struttura manicomiale, scrisse alla direzione di polizia criticando le condizioni in cui vivevano i degenti, stigmatizzando l'assistenza medica e contestando la legittimità di alcune procedure d'internamento con espressioni memorabili. Pagine molto toccanti redasse anche il nobile inglese John Thomas Perceval, figlio del Primo Ministro di Sua Maestà, che, contro la sua volontà, a 29 anni, venne rinchiuso in manicomio. Nei suoi diari, opera in 2 volumi, dal titolo A Narrative, Perceval racconta i meccanismi dei suoi incubi, le sue allucinazioni, i tormenti e i suoi deliri, descrivendo mirabilmente la sensazione di "scollamento" e quello "stare in due posti contemporaneamente" che era il risultato della desincronizzazione della sua mente dal suo corpo. In seguito, a mano a mano che la sua psicosi si quietava, Perceval intravide una possibilità di guarigione e scrisse lettere di fuoco ai giornali e al governo, criticando la situazione in cui vertevano i malati mentali e chiedendo una assistenza più umana. Perceval fu infatti uno dei primissimi oppositori al ricovero manicomiale. Altro caso emblematico quello di John Custance, che soffrì di ripetuti cicli di mania e di depressione, e che scrisse, su consiglio del proprio psichiatra, quello che divenne un importante studio sulla sua malattia, Wisdom, Madness and Folly, opera molto apprezzata da vari psichiatri del tempo e in particolare da Jung che lo invitò a Zurigo perché voleva conoscere l'autore di quell'interessante volume. Dopo l'incontro con lo psichiatra svizzero, Custance affermò d'avere avuto una occasione meravigliosa, che gli aveva dato una grande carica. A proposito di lui Henri Michaux ebbe a dire: "Sono davvero rari i pazzi all'altezza della loro follia".

Silvano Arieti riferisce di una poetessa che sperimentava occasionalmente stati schizofrenici, le cui poesie a volte rassomigliavano a "insalate di parole" mentre altre volte avevano una genuina bellezza. Tuttavia, dice Arieti, queste poesie erano sempre di difficile comprensione, "come gran parte della poesia moderna", ed erano a volte delle metafore poetiche a volte delle osservazioni deliranti.

Darold H.Treffert, nel suo saggio Isole della mente esamina alcuni casi di idiots savants, di persone cioè che, malgrado i loro handicap psichici, hanno mostrato di essere straordinarie, dotate di geniali facoltà. Si tratta ora di un ragazzo incapace di comunicare anche le idee più elementari, ma dotatissimo nell'estrarre la radice quadrata di cifre ad otto zeri, ora di una cerebrolesa con non comuni attitudini musicali, ora di un giovane dal quoziente intellettivo inferiore a cinquanta e pur nondimeno capace di creare perfette opere d'arte con la creta. E tutto questo, in sintonia con l'osservazione fatta dallo psichiatra Hans Asperger, il quale notò e descrisse una sindrome, che poi prese da lui il nome, non tanto insolita, per cui individui con disturbi psichici gravi si dimostrano per altri versi dotati, fino ad apparire dei talenti, e ciò malgrado le loro imperfette capacità mentali generali.

Un caso sul quale la scienza ancora non s'è pronunziata ma che si presenta interessante, quanto meno come fatto di cronaca, è quello posto all'attenzione dal giornale Le Monde, e riportato da La Stampa. Si tratta dell'edizione di un libro dal titolo La bambina porcospino, che, edito in Germania nel settembre del 1999, e tradotto in francese dalle Editions Imago nel dicembre dello stesso anno, è divenuto un best-seller. Questo libro è una specie di autobiografia, che, pare, sia stata dettata, o è meglio dire suggerita?, da Katia Rhode, una ragazza autistica di 28 anni, assistita da anni con un particolare metodo che favorisce la comunicazione, alla madre, una professoressa di lingue che lo ha "tradotto" in testo in modo leggibile. La ragazza, che abita ad Erkelenz, vicino Colonia, ricorda alla lontana il personaggio del film di Barry Levinson, Rain Man, ma è più chiusa nell'handicap, più ripiegata nel suo involucro di sofferenza, dal quale non è mai uscita, non potendo vivere un'esistenza che abbia una parvenza di normalità. Appena nata Katia è vissuta in una incubatrice, e, dopo un anno e mezzo, i medici diagnosticarono che la piccina era autistica e che aveva anche un ritardo mentale. In seguito, quando Katia divenne più grande, la ortofonista Anne-Marie Vexiau riuscì a creare un ponte "simbiotico" con la ragazza, e questa "apertura" psicologica ha funzionato a tal punto che anche la madre di Katia è potuta entrare "nel mondo" della figlia, il che le ha consentito di poter annotare "i sentimenti" della ragazza e di tradurli in un libro.

A questo punto c'è da chiedersi se si tratta di approccio prodigioso o di una mera illusione, nella quale è caduta una madre che spera di capire la figlia handicappata. L'articolista di Le Monde afferma che Alain-Julien Bellaïche, direttore di un centro che si occupa di giovani autistici, intervistato sul caso Katia Rhode, pur manifestando qualche scetticismo e una certa perplessità sull'inquietante questione, ha tuttavia affermato che: "a volte i soggetti autistici riescono a fare cose inimmaginabili".

 

3 I personaggi "matti" e la letteratura della follia

La pazzia è dunque oggetto dell’attenzione non solo degli studiosi del cervello, ma anche di scrittori, filosofi, musicisti e pittori. Nel mondo antico e in quello classico, invece, essa suscitava scarsa interesse perché l’arte era considerata espressione di sentimenti corali, religiosi, drammatici o sociali, e solo di tanto in tanto, qualche autore e poche opere s’addentrarono nei meandri della mente, con lo scopo principale di analizzare la follia dei protagonisti.

In passato, dunque, per un motivo o per l'altro, si ritenne che gli uomini agissero spinti da imperscrutabili stimoli esterni, e che fossero condizionati dal fato, considerato come un burattinaio. La pazzia non faceva notizia, e il mondo dell’assurdo, che si trovava un po’ ovunque nella quotidianità, non impressionava più di tanto. Per secoli, infatti, la follia è stata ritenuta una manifestazione bizzarra, singolare, causata dagli avversi eventi della vita, dal destino, e finanche dal disegno divino, come punizione per i vizi e i difetti dell’uomo. Ma, in ogni caso, sfuggì l’occasione di fare una denunzia "teatrale" della alienazione, come si fa ai giorni nostri, nei quali essa è accreditata come status esistenziale, come situazione aberrante e ambigua del pensiero oscuro e disordinato.

Nell'antica Grecia, per esempio, assieme all’assemblea del popolo e ai tribunali della giustizia v’era il teatro, che era considerato fonte di comunicazione pubblica; ma fare teatro, in origine era, in un certo senso, svolgere un’attività politica e storica (vedi per esempio I Persiani di Eschilo), e i temi delle rappresentazioni erano soprattutto i tragici conflitti tra l’eroe, il popolo e il tiranno; in periodi successivi, vennero affrontati altri grandi temi, come quelli del dramma dei rapporti umani. In ogni caso, però, erano trascurate le modalità psicopatologiche, tranne casi eccezionali come quello dell’atroce vendetta di Medea, descritta magistralmente da Euripide, non indicata come manifestazione di follia, ma come tragico sviluppo di una situazione drammatica.

Il committente dell’opera teatrale era spesso la stessa polis, che imponeva all’autore alcune linee guida nella narrazione. L’intromissione dello stato impediva agli autori la possibilità di spaziare con gli argomenti. Il tragediografo ateniese Frinico venne multato di mille dracme perché aveva "depresso il popolo" portando sulle scene un’opera poco edificante, la Presa di Mileto, nella quale venivano ricordate le sventure della città che era stata il simbolo della rivolta ionica.

Fatto curioso è che nessun autore greco dell’antichità, anche quando narrava le gesta folli di personaggi insensati, attribuiva al pensiero di quei protagonisti una psicopatologica rilevante. Ciò che più importava nel teatro era celebrare il culto funebre degli eroi, l’epica e le narrazioni di carattere sacro e civile. L’azione teatrale aveva toni ispirati e grandiosi, perché vi potesse essere, nella scena, un sorta di introduzione del soprannaturale. Ma le stranezze e le incongruenze delle vicende narrate dai tragici greci non sfuggirono a Platone, il quale fu del parere che le tragedie non dovevano essere rappresentate di frequente, perché, secondo il filosofo greco, esse potevano nuocere alla mentalità e alla educazione della popolazione. Un allievo di Platone, Polemone, spinse il concetto del maestro alle estreme conseguenze e invitò a sua volta i propri allievi ad esercitarsi ad assistere alle rappresentazioni tragiche praticando una sorta di autocontrollo, in modo da rimanere del tutto distaccati dal pathos che esse esercitavano, e non esserne coinvolti, evitando così di essere "resi peggiori" dallo spettacolo al quale assistevano. Scrivono V. Rapisarda e S. Di Dio che la passione per il teatro, dei Greci e degli Ateniesi in specie, fu una mania, una specie di furore. E infatti Atene spendeva per il teatro somme enormi. Nelle Dionisiache agrarie e urbane, nelle feste dette Lenaia, in quelle panelleniche di Olimpia, di Delfi e, insomma, in ogni ricorrenza di rilievo, in Grecia, si davano degli spettacoli teatrali.

Le rappresentazioni classiche hanno esercitato sempre un grande fascino, dovuto al carattere universale del loro pathos e al fatto che era possibile individuare in esse motivi psicopatologici. Gli spettatori s'interessano alla sorte dei protagonisti, perché riconoscono in essi sofferenze riscontrabili nella quotidianità. Freud, infatti, prese spunto proprio dalle tragedie greche per mettere a punto alcuni aspetti della sua teoria sulle nevrosi e sulle psicosi. Edipo, Elettra, Oreste, Antigone, Clitennestra e tutti gli altri protagonisti del dramma antico sono figure emblematiche che simboleggiano l'angoscia dell'individuo costretto a sottostare a vicende imposte dall'intervento soprannaturale. Oreste, "moralmente" obbligato dall'ineluttabile necessità di compiere la vendetta, è, in seguito, travolto da atroci deliri e torturato da insanabile rimorso. Edipo, schiacciato da avvenimenti che gli ha imposto il fato, disperato sconta un castigo dovuto a responsabilità che non gli competono, e si acceca per cancellare la tragica verità. Elettra, vittima dell'attaccamento morboso alla figura paterna, si lascia distruggere dall'odio e dalla gelosia verso la madre. Antigone, tormentata dal contrasto insanabile tra sottostare alla legge o trasgredire per compiere un atto pietoso, ancor giovane trova la morte. Clitennestra, convinta che suo marito abbia fatto uccidere la figlia Ifigenia, porta a termine la sua vendetta, ma resta schiacciata dalla sua stessa reazione. Scrive V. Rapisarda che "la figura di Oreste, chiuso in un circolo, che non ha uscita, inchiodato nel suo destino, nel miasma, che è insieme colpa e pena, male fisico e male morale…".

Traghikos significa spaventoso, orribile, e il termine mette a fuoco l'inestricabile inferno in cui l'uomo precipita, spinto dall'autoritarismo di leggi spietate, dall'obbligo di rispettare consuetudine assurde, dall'inesorabilità del fato, dal carattere vincolante della vendetta e persino da un'ottusa religiosità, tutte circostanze responsabili di angosce, di turbamenti mentali, di forti sensi di colpa, che, alla lunga rendono inevitabile la follia.

Le tragedie esprimevano dunque impulsi e sentimenti presenti nell'animo degli spettatori. Si trattava di stati d'animo che la gente aveva difficoltà a verbalizzare nella quotidianità e che solo in teatro potevano essere espressi, contribuendo così, come in un set psicoterapeutico, a dare sfogo ad emozioni altrimenti represse per opportunità sociale. I greci avvertivano in modo drammatico la ineluttabile finitezza del destino individuale e tuttavia essi erano fortemente individualisti, avevano un'alta opinione di se stessi, anche se, nel contempo, percepivano il drammatico senso d'insicurezza e la fragilità del destino umano, sempre in balìa del fato. Un fato, che, anche se non consciamente, era avvertito ed equiparato ad una ineluttabilità molto simile alla insensatezza. Questo spiega perché le tragedie incarnavano il paradigma della situazione dolorosa, del provvisorio e dell'insicurezza, ma anche della follia.

Le ossessioni, le situazioni paranoiche e le convinzioni irrazionali evidenziate nel palcoscenico, coinvolgevano gli spettatori i quali, nella vita quotidiana, vivevano, consciamente o meno, le medesime drammatiche sensazioni che ritrovavano nella azione scenica. Ma questo stimolava una sorta di psicoterapia catartica collettiva che trasformava in finzione scenica le angosce e i sensi di colpa che gli spettatori avevano "dentro" di loro. I greci erano un popolo di soldati avvezzi a frenare la propria aggressività, ma, in certi casi, sentivano il bisogno di lasciarsi andare a forme di estrema crudeltà. Così, nelle rappresentazioni delle tragedie si compiva un benefico travaso psicologico, l'aggressività interna agli spettatori "passava" al palcoscenico, e liberava la gente di tutto quello che di "mostruoso" aveva dentro.

La civiltà romana non seguì la scia drammatica dei tragici greci, e, tranne qualche autore, come Livio Andronico, che produsse qualche opera tragica alla maniera greca, come Ennio, che scrisse alcune tragedie sulla falsariga di quelle euripidee, e come Seneca, con il suo Medea, la letteratura latina non approfondì molto il tema della follia. La rivoluzione culturale di Virgilio è incentrata nella narrazione di un eroe, Enea, che diversamente da quelli greci, impersona la coscienza etica senza mai cadere nel baratro della follia, come accadde, per esempio, a Oreste o ad Elettra. Il fatto è che i romani avevano minori attitudini alla speculazione filosofica, ma nel contempo erano più consapevoli che l'equilibrio psicologico è l'unica via percorribile per diventare grandi eroi. Didone, la regina folle, è tratteggiata, dal latino Virgilio, in tutta la sua miserevole figura di perdente, piuttosto che nella sua grandezza tragica, come l'avrebbero potuta descrivere gli autori greci.

Anche l'Età medievale, anche se per motivi diversi, non identificò l’insensatezza come unità nosografica. Nella concezione medievale, il folle era un invasato dal demonio, e la sua era ritenuta una situazione di estraneità che esorbitava la natura umana, per cui non restava che esorcizzarla. Dante Alighieri considerava la pazzia una condizione di diversità, distaccata dalla natura umana e che ripugnava anche al senso estetico. Nel Medio Evo, dunque, la pazzia non rappresentava la testimonianza di un dramma umano, ma una situazione che snaturava l’essere che ne era colpito, perché posseduto da forze sconosciute.

Nella letteratura e nel teatro del Rinascimento venne meno il significato drammatico, tipico della rappresentazione greca, e l’azione scenica passò alla narrazione di storieT eroiche e morali, o a sfondo sacro, tema che s’andò accentuando nell’era della Controriforma per l’influenza esercitata nella cultura dai gesuiti. Ma ci furono voci isolate, come le novelle del domenicano Matteo Bandello, le quali, a differenza delle opere dell’Alighieri e del Boccaccio, che raccontavano personaggi sicuri di sé, goderecci, e inseriti nella comune realtà, furono invece popolate da personaggi dalla psiche malata, introversi, irresponsabili, maniaci, ipocondriaci, dementi. I protagonisti del Bandello hanno vita abnorme, inconsulta, guidata dall’inconscio e sono segnati da un destino stravagante, irretiti da una ragnatela inestricabile, che li spinge a soluzioni tragiche, spesso immotivate. Bandello scopre che la frattura fra l’uomo e la vita porta alla alienazione. Le pagine del narratore cinquecentista sono piene di eccessi, di stravaganze, di anomalie, di passioni sovrabbondanti, di sensi incontenibili, e persino di omicidi e di suicidi, atti estremi delle psiconevrosi che pervadono i personaggi.

I tipi psicopatologici inseriti nella narrazione del Bandello sono guidati dalla nevrosi e si comportano, di conseguenza, secondo uno schema patologico. Le novelle di questo autore sono ricche di tipi "umorali", che hanno comportamenti strani, che considerano la vita un agone interminabile, "che solo a pensarlo vengono le vertigini". La quotidianità, per Bandello, riserva passioni che emergono dall’inesauribile serbatoio della psicopatologia della mente umana e che condizionano e guidano gli eventi. In altri termini, a poco a poco, nella letteratura entra la quotidianità, e i protagonisti non sono più i grandi eroi del passato, ma gente comune, dai valori provvisori, limitati, investita spesso, come del resto può accadere nella realtà, anche dalla fenomenologia psichiatrica, e tutto ciò sembra che esalti una specie di eroicità alla rovescia. Individui alienati dalla società ed esclusi dalla storia, destinati spesso a fallire miseramente, ma per ciò stesso più veri degli eroi del passato e più umani, diventano i protagonisti della letteratura e del teatro.

Adriano Banchieri, verso la fine del ‘500, firmò una commedia in forma di madrigale, dal titolo La pazzia senile, e la cui prima edizione si ebbe a Venezia nel 1598. L’opera, ora scherzosa, ora sentimentale, ora triviale, narra le vicende bislacche e lunatiche di un vecchio mercante, tal Pantalone, il quale, innamorato di una cortigiana che lo respinge, finisce col comportarsi da matto.

E così, se la civiltà greca esaltò l’uomo come centro del dramma, con i suoi vizi e le sue virtù, mostrando solo i risvolti titanici del protagonista, se il teatro medievale si incentrò su i rapporti tra la religione e le masse, l’epoca shakespeariana e il teatro moderno e contemporaneo, invece, hanno approfondito le vicissitudini mentali, riconoscendo la psicopatologia e indagando all’interno dell’animo turbato. La follia, nel teatro moderno, a differenza di quello greco, non fu più dovuta al Fato o al volere degli dei, ma causata dall'assurdità della vita e dalle meditazioni stesse dell'uomo. Insomma, mentre nella tragedia greca l'uomo veniva spinto alla pazzia dall'esterno, nel dramma post-ellenico la follia sgorga dall'interno dall'uomo. L’amara e tragica demenza di Re Lear, la stravaganza aggressiva e delirante di Enrico IV, l'evanescente vaneggiamento di Ofelia, l’insanità, lucida e "ragionata", di Amleto, la frenesia ossessiva di Otello e la dissennatezza agghiacciante e colma di deliri, di Macbeth, sono esempi di drammaticità che viene fuori dalla stessa condizione umana.

Ma la follia non è solo un’esperienza tragica: essa può essere una via d’uscita per superare la vanità della vita. L’olandese Erasmo da Rotterdam ne tessè l’elogio, sostenendo che l'alienato, per quanto insensato sia, possiede più senso comune e sragiona meno delle cosiddette persone ragionevoli.

In Francia, a partire dal secolo XVII, soprattutto con Corneille e Racine, la rappresentazione teatrale si svincolò dalle antiche tematiche e passò alla narrazione di sottili giochi psicologici, che mettono a fuoco la grandezza e la miseria della condizione umana. Ma i due autori non arrivarono a descrivere la psicopatologia, ma solo la psicologia dei personaggi, e lo fecero al fine di conferire un significato morale. Molière, invece, con Il Malato immaginario, Il Misantropo e altre commedie similari, affrontò, anche se bonariamente, i temi di una psicopatologia diffusa nel costume sociale e forse poco avvertita dai più. Del resto, ancora oggi, a ben guardare, l’insensatezza che si trova all’interno della vita quotidiana, e che si nasconde dietro molteplici aspetti, consueti e poco appariscenti è difficile da snidare.

Alla fine del XVIII secolo, quando si scoprì che la frontiera dell’immaginario può confinare col delirio e si cominciò a capire che certi comportamenti e certi impulsi non sono più attribuibili al destino o spiegabili con le intromissioni divine, ma causati dalla psicopatologia, si poté finalmente capire che il momento extralogico, istintivo e passionale è un fattore ineluttabile dell’esperienza, altrettanto incisivo della stessa saggezza.

E così, a poco a poco nella letteratura e nel teatro, cominciò ad affacciarsi il tema della alienazione, e l’equilibrio oggettivo dell’esistenza, così com’era nell’ideale antico e in quello umanistico, si è definitivamente frantumato. Il folle, sfidando e ridicolizzando i sani di mente, mette in crisi certezze e stabilità metafisiche. L'alienazione rende il destino dell’uomo non più fisso, prevedibile, istituzionalizzato, come un tempo; ma lo rende volubile, in mano alle circostanze, agli umori e agli stati d’animo, che sono mutevoli, imprevedibili, ed enigmatici.

Gli scrittori rappresentano, con le figure della pazzia, tutta la gamma più terribile e più grande della condizione umana, e allora la stravaganza non suscita solo spavento, ma anche rispetto. Lo spettacolo teatrale, manifestazione e rappresentazione della realtà, a poco a poco si è adattato ad analizzare la mente dell'uomo. Il palcoscenico, espressione della vita e celebrazione degli stati d’animo quotidiani, è diventato meditazione e "lettura" di caratteri, di costumi, di comportamenti per una più approfondita comprensione dell’uomo. Il teatro, come il manicomio, può essere la platea più accreditata per presentare la maschera della eccentricità, e così, nell'azione scenica, il matto, con i suoi comportamenti e le sue osservazioni, stimola la riflessione sull'ampio capitolo della mente umana.

Scrive Vittorino Andreoli che: "Il teatro della follia trova il suo "pubblico" nella curiosità-paura verso tutto ciò che è diverso, ma non totalmente estraneo da non appartenerci. Verso la follia c'è un bisogno di difesa, ma anche un desiderio di conoscenza, di partecipazione teatrale". Secondo Jacques Lacan, i complessi sono personaggi di una commedia dell'arte, perché ogni individuo recita secondo un canovaccio e secondo ruoli predefiniti sia la propria maschera civile, che i propri malesseri mentali. La rappresentazione teatrale della alienazione e il teatro della vita sono dunque, per Lacan, congiunti indissolubilmente. Una connessione che è sottolineata anche dallo psichiatra Jean Esquirol, il quale organizzava spettacoli teatrali con attori presi tra gli alienati, e dallo psicologo Jacob. L. Moreno che inventò lo psicodramma come situazione catartica.

Allora fu chiaro che le passioni, sottratte al controllo della ragione, e fomentate dalla stravaganza, sono componenti della vita. E la pazzia è l’ineluttabile rovescio della medaglia: quasi come un’alternativa alle consuetudini e ai luoghi comuni. Questa nuova prospettiva ha portato alla ribalta, nella letteratura moderna, il segreto e l’intimità dell’anima, i sentimenti più nascosti - e non per questo meno essenziali – che garantiscono la comprensione del personaggio. Questa angolazione narrativa, ha messo a nudo, scavando nella coscienza, quanto di cupo e di dissennato coesiste nell’animo umano e vive, nascosto e frammisto alla dimensione "del normale".

Nella commedia di Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore così si esprime il personaggio del padre: "Lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non hanno neppure bisogno di parere verosimili; perché sono vere".

Trafiggere l’insipienza della vita, utilizzando riflessioni temerarie può essere un’operazione rischiosa, ma in qualche caso, è proprio la stravaganza che crea una "protezione" contro le inestricabili contingenze della quotidianità, sicché la sregolatezza, nella dimensione artistica, ha il potere di metabolizzare ciò che c'è di più nefasto nella vita ed allora la follia perde quel senso di pericolosità e di precarietà che le si attribuisce, e testimonia, anzi, la drammaticità della vita.

La cultura, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative, presero a descrivere la vita tenendo presente anche l’alienazione. Le opere di Erasmo da Rotterdam, Gaetano Donizzetti, Arrigo Boito, Luigi Eugène Jonesco, Woody Allen, Jngmar Bergman, Alfred Hitchcock, Edvard Munch, etc., sono esempi della attenzione rivolta agli squilibri dell'animo umano.

E che altro sono le opere del siciliano Luigi Pirandello, se non vicende che chiarificano, per mezzo del filtro della follia, il significato della vita? Su tale falsariga, vi sono anche i Racconti di varia follia, di un altro siciliano, Salvatore M. Musmeci, il quale traccia un diagramma dei vari tipi di insensatezze che si nascondono ora negli atteggiamenti della società perbene, ora tra l'ipocrisia di certi comportamenti, ora attraverso i luoghi comuni. In ogni caso, afferma l'autore, si tratta sempre di aberrazioni misconosciute, perché una persona può essere vittima di patologie fisiche, ma c'è un netto rifiuto, da parte del malato o degli stessi parenti, a riconoscere la malattia psicologica, che suscita reticenza ed omertà in tutti, perché è considerata una infamia da nascondere.

Nell'opera del poeta tedesco Sebastian Brant, che ha come titolo La nave dei pazzi, i passeggeri rappresentano tutte le classi sociali, tutti i mestieri e tutti i tipi umani, ed in ognuno di essi aleggia una forma di squilibrio, e con ciò l'autore ha voluto sottolineare che la irragionevolezza alberga non solo negli interstizi mentali del singolo ma anche nelle strutture sociali. La pazza di Chaillot, opera teatrale frutto della intelligenza acuta e colta del francese Jean Giraudoux, è un ritorno alla medievale allegoria della lotta tra il Bene e il Male, in bilico tra ragione e stoltezza. Anche in altre opere Giraudoux dà la sensazione di saper penetrare nell’universo schizofrenico, elaborandolo in forma d’arte.

Complesso e pieno di sfaccettature è il dramma in prosa Il pazzo di Dio dello scrittore spagnolo José Echegaray, che venne rappresentato nel 1900, con un discreto successo. L’opera racconta la vicenda di una ricca vedova, Fuensanta e dell’avvocato Gabriel, un altruista e umanitario personaggio, un poco matto, che ella ama e vorrebbe sposare. Ma il loro progetto è ostacolato dai parenti della vedova che perderebbero col matrimonio della zia i diritti sul patrimonio della loro ricca parente. Essi allora mettono in guardia Fuensanta facendole sapere che il promesso sposo ritiene di essere Dio, creatore e signore di tutto. Malgrado ciò i due si sposano, ma sono perseguitati dalla malvagità dei parenti; e a quel punto comincia il vaneggiamento nella mente di Gabriel.

Insinuato il dubbio che la vita non si possa spiegare se non facendo ricorso anche all’insensatezza, in maggiore o minor misura, presente in ogni essere umano, si è dovuto riconoscere che un pizzico di demenzialità è insita nella natura umana, tant'è che la perdita della ragione può essere considerato un incidente di percorso, una delle possibilità della vita, un momento irrazionale dell’esperienza, altrettanto incisivo quanto la "saggezza".

A mano a mano che si analizza la follia, e si cerca di definirne i contorni, i confini tra essa e la normalità diventano sempre meno distinti, tant’è che, ad intermittenza, l’una può sostituirsi all’altra. La alienazione diventa allora la manifestazione ultima del fallimento umano ma anche la dimostrazione che solo entrando "nella logica" della follia è possibile adattarsi all’insensatezza dell'esistenza.

Partendo da questo punto di vista, molte opere d’arte testimoniano, con personaggi eccentrici, la psicopatologia della vita quotidiana e, in qualche caso, da esse si può desumere la stravaganza e le esperienze psicopatologiche dei loro autori, il che conferma quanto la vita e l’arte convivano con l'esaltazione e la dissennatezza.

Smarrite le vecchie, ipocrite certezze e varcata la soglia proibita della trasgressione, i maniaci diventano allora i nuovi eroi della letteratura. "Talvolta l’artista ha una capacità di creare immagini quasi paragonabili a quella del sognatore, o quella capacità di darsi a "orge di identificazione" che ha lo schizofrenico", scrive Silvano Arieti.

L’agonia della normalità è più evidente a mano a mano che si affina la sensibilità psicologica la quale vanifica le vecchie sicurezze e ne denunzia i limiti e i pregiudizi. Bizzarria e demenzialità anticonformista e stravagante, a volte, sono l'unico mezzo per affrontare quei drammi dell'esistenza che l’ipocrisia sociale cerca di eludere o addirittura di ignorare, e si pongono come cartina di tornasole per mettere in luce la pericolosità di alcune devastanti credenze che, invece, il pregiudizio esalta. Ma quando si rinnega il deformante rispetto dei pregiudizi e si riconosce al destino dell’uomo un’alternativa, una imprevedibilità che rimette in discussione tutto ciò in cui si è creduto, allora chi sovverte i vecchi criteri di giudizio è considerato squilibrato. Tuttavia è il "matto" che può scrollarsi da dosso la presenza ingombrante, granitica, inalterabile delle imposture, e può navigare in un piano separato, che lo mette in qualche modo al riparo dal doloroso mondo quotidiano. A quel punto, la follia, può essere una mediazione tra l’infelicità e il bisogno di fantasia, e può diventare parte integrante dei sogni, delle ambizioni e delle chimere. Corrodendo i valori tradizionali, essa sconvolge la ritualità quotidiana, crea dissonanze stravaganti, rimescola l’inesauribile serbatoio della vita, e suscita nuovi punti di vista.

È forse un errore di prospettiva intendere la follia, come qualcuno fa, una sorta di disumanizzazione: essa è, invece, il punto di maggiore umanizzazione della tragedia umana. Essa vanifica la rigida maschera della prosopopea e combatte i fantasmi della consuetudine. Poetica farneticazione è quella di Don Chisciotte, con la quale Cervantes fa vedere come l’umanità sia prigioniera dei luoghi comuni e della vanità. Don Chisciotte crede fermamente nei simulacri e nei miti della socialità e, ritenendosi cavaliere degno di rispetto, impegna la sua vita e si pone come protagonista allucinato del suo sogno; ma quando rinsavisce, il cavaliere perde l’estro e la esaltazione chimerica. Dissolto il suo delirio, gli viene meno anche la vita stessa, essendo per lui soffocante e deprimente la piatta realtà quotidiana.

Altra figura emblematica quella del protagonista della commedia della scrittrice statunitense Mary Chase, Harvey. Il signor Elwood P. Dowd, (così si chiama il personaggio principale di Harvey) crede di andare a spasso con un coniglio bianco, che chiama Harvey, ed egli, sebbene sia considerato un po’ tocco, riesce ad estasiare la gente con la sua affabilità e il suo altruismo. Don Chisciotte ed Elwood sono entrambi lontani dalle convenzioni, rifiutano il pragmatismo piatto e banale della vita quotidiana, si lasciano trascinare dalla fantasia, dalla libertà e penetrano così nel cuore della gente.

Nel volume di racconti Le Horla, di Maupassant, v’è, all’inizio, un episodio in forma di diario, in cui un individuo annota la terrificanti fantasie che gli vengono in mente, ossessionato dalla presenza di un essere soprannaturale al quale ha dato il nome di "Horla". Costui è, secondo l’autore del diario, un essere superiore che si è impossessato dei pensieri dello scrittore fino a renderlo suo schiavo. Il manoscritto di Maupassant, ad un certo punto, s’interrompe bruscamente, come se il protagonista della storia fosse colto dalla confusione mentale e non potesse continuare a scrivere. Il racconto si svolge in un incubo, e mostra il vagabondaggio della ragione, la sterilità maniacale e il disperato e frenetico bisogno di certezze, che qualcuno ha visto collegati alla salute psichica di Maupassant, come una impressionante confessione e una testimonianza dello squilibrio mentale dello scrittore. E in Suicides, una delle novelle del volume Le sorelle Rondoli, lo stesso autore pone con accenni disperati l'angoscia del vivere, che ottenebrò precocemente il suo animo.

Nel romanzo Storia di una capinera, Giovanni Verga, anticipa nella prefazione, che l’idea di mettere quel titolo all’opera gli venne dopo aver osservato una capinera che era morta in gabbia non perché non avesse da mangiare, ma perché aveva sofferto la mancanza di libertà. E così, la protagonista del racconto, destinata dalla matrigna ad essere reclusa in un convento, dopo avere gustato, in una breve pausa della sua reclusione, le gioie della libertà, di nuovo costretta a ritornare in convento, soffre lo strazio della definitiva e lugubre monacazione, che la porterà al delirio e alla morte.

In preda all’alienazione è anche il personaggio di Marina in Malombra di Fogazzaro. La protagonista del racconto, che possiede una morbosa spiritualità, dopo aver trovato in un cassetto alcuni ricordi di una sua antenata, una certa Cecilia, che fu segregata dal marito geloso, s’immagina d’incarnare l’anima della defunta, e di rivivere le fasi principali della esistenza della sua antenata. Il passaggio significativo verso il delirio avviene quando Marina crede di riconoscere nello zio con cui vive, e dal quale si ritiene perseguitata, la reincarnazione del marito della parente defunta. Marina "vede" inoltre, in Corrado Silla, il segretario dello zio, l’anima dell’amante di Cecilia. E così, impersonando fino in fondo l’avventura dell’antenata, ella si concede a Corrado, per esercitare, in nome di Cecilia, una vendetta contro il marito di costei.

Corrado, dimentico della fidanzata Edith, cade nella trappola tesagli dalla voluttuosa e sensuale Marina. Ma ella, travolta dalle proprie elucubrazioni, impazzisce ed uccide l’amante, suicidandosi poi in segno di espiazione.

Il capitano John Silver, chiamato gamba di legno nella banda Flint, protagonista del romanzo L’Isola del Tesoro di R. L. Stevenson, mostra evidenti segni di squilibrio. Esso è il personaggio più complesso del racconto: a prima vista sembra un uomo buono e affabile, ma presto rivela la ferocia natura della personalità, capace di macchiarsi di efferati delitti. Sulla nave da lui comandata vi sono due partiti, quello di Silver e quello di Livesey e Trelawuney. Quando Silver si accorge che è tutto perduto e capisce che non può arrivare al tesoro, si accorda con i nemici, tradendo gli amici.

Robert L. Stevenson continua a parlare di follia nel romanzo Lo strano caso del dr Jekyll e del signor Hyde, che egli scrisse nel 1886, e che è il racconto di un caso di sdoppiamento della personalità. Il dottor Jekyll, persona dabbene, si trasforma in mister Hyde, quando viene sopraffatto dall’inconscio. L'opera che alla sua prima comparsa in pubblico fu definita demoniaca, è una narrazione di sapore psicoanalitico, e mette in evidenza l’influenza dell’inconscio sulla personalità.

Personaggio psicopatico è anche quello creato dallo scrittore Robert Bloch, come protagonista del romanzo Psycho, che vide la luce verso la fine degli anni Cinquanta e che ebbe tanto successo da essere adattato dallo sceneggiatore Joseph Stefano per un film di Alfred Hitchcock. La trama delinea un interessante caso clinico di sdoppiamento della personalità, per cui, un giovane voyeurista, vittima di una madre autoritaria, assume le due facce del Bene e del Male.

Altro personaggio che incarna tutta l'irrazionalità della mente umana, è Lafcadio Wluiki, il protagonista de I sotterranei del Vaticano di André Gide, un tipo molto perfezionista che addirittura si colpisce con un punteruolo per punirsi ogni qualvolta compie qualcosa di deludente rispetto alle proprie attese, e così, per realizzare qualcosa di assolutamente singolare, arriva a commettere il delitto perfetto, gettando uno sconosciuto dal treno senza alcun motivo.

Joseph Conrad mescola nel romanzo La follia di Almayer un'incredibile serie di elementi fantastici, di leggende, di spunti esoterici e, sebbene appesantita da questo guazzabuglio, l’opera mantiene una sua validità. Nonostante Conrad non abbia la forza epica di Melville, tuttavia, nello squilibrio mentale di Almayer aleggia drammaticamente l’inconoscibile e l’inafferrabile che sovrasta ogni impresa umana. Conrad amava narrare ambienti e terre lontane, esotiche, e il personaggio principale, l’olandese Almayer, è il simbolo della sconfitta e della disperazione che si conclude con la follia.

Nel romanzo di Charlotte Brontë, Jane Eyre, la moglie del signor Rochester, è pazza e il marito la tiene segregata in una stanza della casa, lontana dalla vista di tutti. L’altro personaggio femminile è Jane Eyre, un’orfanella vissuta nella disciplina del collegio, che ha imparato quanto possano essere duri e spietati i parenti. Rochester, innamoratosi della giovanetta, che aveva fatto venire a casa perché gli facesse da governante, quando ella diventa la sua promessa sposa, per non turbarla le serba gelosamente nascosto il triste segreto d’essere unito ad una donna fuor di senno. Ma quando Jane viene a conoscenza del segreto del signor Ronchester, sconvolta fugge via da quella casa in cui una matta è tenuta segregata. Jane Eyre è un racconto morboso e drammatico, ma ha il merito di avere introdotto nella narrazione letteraria il problema della follia infiltrata nell’ambiente familiare.

Lo squilibrio mentale, che si nutre di una esistenza romantica, è cantato dal poeta Ivan Ivanovic Kozlov nel poema La folle, in cui lo scrittore russo narra il desino di una giovinetta che, nel suo delirio intermittente, crede di ravvisare in ogni passante l’innamorato che l’ha abbandonata. La disperazione della fanciulla è alla fine attutita dall’incontro con un poeta, al quale ella narra la propria sventura.

Caligola, l'ambiguo protagonista del romanzo di Albert Camus, incarna la filosofia dell’assurdo: l'imperatore romano, ormai consapevole che il mondo in cui vive è illogico, malgrado la terribile coerenza e intelligenza che egli manifesta, si comporta inevitabilmente da persona delirante. Egli, che aveva sperato di divenire un principe generoso, distrutto dalla prematura morte dell’amata Drusilla, si rende conto che nulla nel mondo ha senso e decide di liberarsi d’ogni regola. Comprendendo che la felicità e l’immortalità non possono essere di questo mondo, Caligola, deluso, inizia a vaneggiare, trascinato dalla demenza, e immagina di diventare simile agli dei. E così, ritenendo irragionevoli, moralmente insensibili ed immorali gli abitanti dell'Olimpo, Caligola ne introietta le medesime peculiarità e si comporta, al pari degli dei, in modo crudele e ingiusto. L'imperatore spera così facendo di dimostrare la propria potenza e la propria "libertà" d'azione e, paradossalmente, ritiene che possa persino compire un'azione "pedagogica", rivelando anche alle vittime quanto sia assurdo il mondo. E così, per restare coerente alla propria "stravaganza", il giovane imperatore manda a morte il padre del suo amico Scipione, ma questi, pur toccato profondamente dalla sorte del proprio genitore, è dilaniato da un angoscioso dubbio: non sa se odiare l’assassino del padre o manifestare nei confronti dell'amico tiranno, che riconosce essere oramai squilibrato, una comprensione psicoanalitica. Infatti Scipione intravede, nella dissennatezza dell'amico, il dramma causato da una imperscrutabile ferita psicologica, e quando Caligola cade sotto i colpi dei congiurati, egli si dissocia, e rinunzia alla vendetta, comprendendo quanto il mondo sia fatalmente e insensatamente crudele.

Nella novella Gli orologi del senese Federico Tozzi, scrittore di fine Ottocento, anarchico, socialista e in seguito divenuto nazionalista, la figura del venditore di limoni è descritta con tutte le sfaccettature di una dolce follia intrisa di improvvisi scatti polemici e umori non duraturi. Lo scrittore Hermann Merville, animo tormentato a causa di un’adolescenza molto travagliata, sin da piccolo dovette guadagnarsi da vivere e la sua vita fu tutto un lungo vagabondare. L’amicizia con Hawtorne segnò una tappa importante nella vita dello scrittore, che, dopo quell’incontro, pubblicò Moby Dick, il suo capolavoro. Moby Dick è un racconto dalla complessa e polivalente simbologia, nel quale spicca la personalità del capitano Achab, personalità devastata dal drammatico bisogno di lottare contro forze di cui si sente vittima. "Quella vedova matta di sua madre gli diede un nome biblico in accordo con la sanguinosa strage che la profezia gli riserba: l’uccisione della balena" (Achab, come tutti sanno, fu il mitico re d’Israele, famoso per i suoi meriti guerrieri). Nel romanzo di Merville il capitano Achab insegue simbolicamente attraverso i mari inesplorati della sua mente la causa della propria sofferenza. Si tratta di una sfida orgogliosa, titanica, ma è anche una manifestazione di delirio autodistruttivo.

Folle è pure il protagonista del romanzo Frankestein, o il Prometeo moderno, di Mary Shelly Wollstonecraft. Frankestein è un personaggio mostruoso, prodotto dalla scienza, il quale, una volta composto in tutta la sua interezza e raggiunta la vitalità, uccide il luminare che lo ha "ricostruito" pezzo per pezzo.

Anche lo scrittore gallese Richard Llewellyn ha affrontato più volte il tema della follia, e lo ha fatto in Com’era verde la mia valle, ed anche nel dramma Penna avvelenata.

Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, è un romanzo ambientato nella Costa Azzurra, in cui viene evocata la vita dissipata ed elegante dei primi decenni del secolo XX. Lo scrittore americano, tipico rappresentante della narrativa di quel tempo, mescolava nei suoi romanzi fantasie e avvenimenti realmente accaduti. E difatti, la moglie del protagonista del romanzo, è matta come lo era anche Zelda, moglie dell’autore, la quale, dopo i primi collassi nervosi e i primi ricoveri, e dopo essersi rovinata con l’alcol, finì in un sanatorio. Il romanzo, di Fitzgerald, fin troppo autobiografico, riesce a dare una interpretazione particolare della alienazione, vista come lotta tragica ed epica.

Italo Calvino, narrò in La giornata di uno scrutatore la vita che si svolge in un manicomio. Lo scrittore, che in precedenza aveva affrontato i temi della vita sociale italiana negli anni del miracolo economico, mise a nudo l’orrore della ambiguità morale e il dissidio insanabile tra l’ideologia e la vita, attraverso la deformazione fisica e morale prodotta dallo sconvolgimento mentale.

Nel romanzo Gli anni perduti, Vitaliano Brancati descrive, con appropriata e minuziosa analisi psicologica, lo sprofondare nel baratro del delirio, passando dall’angoscia esistenziale alla demenza, di Enzo De Mei, fratello di Rodolfo, uno dei protagonisti del romanzo. Enzo, spiega il Brancati, aveva dimostrato sempre una grande curiosità per i matti, e li aveva osservati e aveva studiato le loro mosse, i loro pensieri. E un giorno, ad un tratto, "il riso sbottò fuori con un rumore infernale. Enzo, con una mano si copriva la faccia, con l’altra si sosteneva il ventre in modo che resistesse al martellio che veniva giù dal petto" (…) "Enzo sembrava che volesse buttar fuori dal petto, fuori dal proprio essere un impaccio, per espellere il quale tuonava e avrebbe tuonato quel riso, come la tosse quando vuole espellere un chicco d’uva andato di traverso" (…) "l’impaccio di cui Enzo si era liberato con quei colpi di riso, era né più né meno che il senno", e così, alla fine, il De Mei era diventato una creatura "che non faceva più parte degli uomini".

L’interesse per gli sviluppi esistenziali della alienazione, Brancati lo manifestò anche in un altro romanzo, Paolo il Caldo, nel quale il narratore siciliano descrisse, con amara e seria ironia, le stramberie dello zio Eduardo.

Il romanzo dello psichiatra C. Terron, Lavinia tra i dannati, del 1959, segnala il rinnovato interesse per le nevrosi. Ad esso si affiancano anche altri romanzi come Una lunga pazzia di A. Barolini, e Il memoriale di P. Volponi, una delle opere del genere più riuscite, che ripropone il tema dell'alienazione mentale con aspetti umanitari e sociali toccanti. Ottiero Ottieri, nel racconto Sua maestà l'encefalo, indaga sulla psicologia del malato, e con Memorie dell'incoscienza approfondisce le tematiche psicoanalitiche cercando di farle quadrare con il sistema del pensiero marxista. Antonio Zanzotto, scrittore poco conosciuto fuori dal Nord Est d'Italia, ma attento lettore di Jung, di Freud e di Binswanger, oltre che vicino agli psichiatri d'avanguardia, cerca di rendere chiare le cause che condizionano la nevrosi con due bei lavori: Esistere psichicamente e Prima persona. Interessante è anche Il mondo psicotico di Lara, un romanzo-documento scritto da Cesario Romano, che racconta il cammino di una sua paziente in cerca di una redenzione creativa.

Il Male oscuro di Giuseppe Berto testimonia come la "malattia dell’anima" possa colpire inesorabilmente l'esistenza d'un individuo soprattutto se suscitata dalle tensioni della vita familiare. Protagonista del romanzo è lo stesso autore, che racconta la storia del lungo contrasto col proprio genitore. Il romanzo è un viaggio psicoanalitico nel tentativo di sanare l’angoscia prodotta dalle incomprensioni e dai dissidi dello scontro generazionale tra padre e figlio. L'incontro con la psicoterapia fu per Berto una necessità, e, grazie a tale esperienza, egli poté narrare con un taglio letterario le varie facce delle nevrosi. Il successo del Male oscuro è dovuto al fatto che l'autore ha posto l'accenno sulla spiritualizzazione di un male che era impropriamente denominato "esaurimento nervoso" e che fino d'allora era inteso dal grosso pubblico solo come una afflizione fisica. Marnie è un romanzo di Winston Graham che ha tutto gli ingredienti psicoanalitici per entrare nell'area della neurosi: la cleptomania come compensazione per la carenza affettiva, la sessuofobia derivata dall'avere assistito nell'infanzia a scene di violenza, la rimozione di un fatto traumatico accaduto prima dell'adolescenza. Tutto questo viene risolto, anche se forse troppo semplicemente, tramite le associazioni d'idee, gli acting-out e una specie di analisi selvaggia che un marito, conscio di avere sposato una donna sull'orlo dell'abisso mentale, adotta, per salvare la moglie che ama. Il racconto tuttavia è valido perché, oltre a indicare i motivi della nevrosi, segnala addirittura i mezzi terapeutici per risolverla. Innamoratosi di questa trama, Hitchcock la fece sceneggiare a un esperto del campo, Jay Presso Allen, e diede vita al film Marnie che, se non ha certo gli attori più credibili ed idonei per impersonare le parti dei protagonisti, tuttavia ha contribuito, assieme all'altro film del regista inglese, Io ti salverò, non poco alla diffusione tra le masse del metodo psicoanalitico.

Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni è una visione del disordine, della frammentazione, della delirante loquacità di coloro che vedono continuamente sbriciolarsi la realtà in seducenti ed implacabili suggestioni oniriche. Cavazzoni analizza la ricorrente perdita di senso, il malessere e lo sconforto della solitudine, che scolpiscono la mente dei ricoverati in strutture psichiatriche. Le immagini dei personaggi, un po’ tocchi, del romanzo, sono una messinscena allusiva e straordinariamente suggestiva di un mondo che non è solo quello che è rinchiuso nei manicomi. Cavazzoni lascia intendere che l’invasiva intossicazione di convinzioni sociali strampalate, di pregiudizi devianti, non si trova esclusivamente all’interno delle mura protette del manicomio, ma circola, con una certa disinvoltura, anche tra la gente comune. Nelle città formicolanti di individui lunatici, di tipi che inseguono deliri sociali, di persone che credono di comunicare, e invece si scambiano dialoghi insensati, si svela la fragilità della mente umana, proprio come "dentro le mura".

Mario Tobino, medico con propensione letteraria, ha scritto vari romanzi dal taglio psichiatrico. Il primo fu Le libere donne di Magliano, che vide la luce nel 1953; il secondo, Per le antiche scale, anch’esso sull’alienazione, Tobino lo scrisse nel 1972 e, negli anni Ottanta, lo psichiatra-scrittore portò a termine Il manicomio di Pechino. Un po’ in tutte le opere di Tobino, la mano dello psichiatra e quella del narratore s’intersecano e si completano. Nella prefazione a Le libere donne di Magliano, suo primo libro dedicato all’universo psichiatrico, l’autore afferma d’avere scritto quell’opera per dimostrare che i matti sono creature degne d’amore e nella speranza che siano trattati meglio. Tobino suggerisce di parlare con i malati per liberarli dalla preoccupazione del loro stato, e costruire così un ponte affinché sani e meno sani possano dialogare.

L’altro libro, Per le antiche scale, narra la solitudine e l’angoscia quali temi centrali della sofferenza psichica, un dolore che trova riscatto in parte solo trasfigurandosi in poesia. Il manicomio di Pechino è il diario dell’esperienza dell’autore quand'era direttore del manicomio di Maggiano. Anche questo romanzo denunzia l’incomprensione e il profondo divario che separa il malato dal mondo e indaga con pietà e acuta psicologia, l’amara condizione di chi è affetto da disturbi psichici.

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è un altro impareggiabile ritratto di personaggio nevrotico, come lo è pure il romanzo Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, che è un affresco umano e drammatico di rapporti nevrotici, sadomasochisti, di rancori ossessivi, di mitomanie. Il libro di Palazzeschi narra la vita di due sorelle ricamatrici, che sono travolte dal trambusto emozionale causato loro dal nipote Remo. Colpite dalla presenza vitale di quel giovane, quando egli le abbandona per recarsi in America, le sorelle comprendono d'essere state "ferite" dalla dipartita di Remo, e, chiudendosi in una sofferta nostalgia, la loro vita si colora di tutta la gamma di capogiri, vertigini, fugaci abbandoni, espressioni nevrotiche, che sottolineano i misteriosi turbamenti dei loro animi doloranti per la perdita dell'oggetto d'amore.

Singolare è pure il romanzo Follia di Patrick McGrath in cui uno psichiatra narra la conturbante vicenda che accade all'interno di un tetro manicomio criminale, e cioè la passione tra Stella Raphael, moglie di un altro psichiatra ed Edgard Stark, un artista che è detenuto nella struttura carceraria perché colpevole di un efferato uxoricidio. Ma a mano a mano che procede l'analisi del caso clinico del pittore, si fa anche luce sulla storia cupa e tormentosa che lega l'artista a Stella, e si delinea una realtà inquietante e beffarda, certamente molto diversa da quella che le apparenze lasciavano intravedere. E così, ancora una volta, si può constatare come la follia sia un paravento che a volte può nascondere verità scomode e crudeli.

Commedia dell’assurdo, e a tratti artificiosa e cerebrale, è Da mezzogiorno a mezzanotte, scritta dal drammaturgo tedesco Georg Kaiser. L'opera è composta da una rapsodia di scene eccentriche e suggestive, che hanno gli accenti irrazionali tipici dell’espressionismo. Come è noto, la visione del mondo degli espressionisti ben si presta alla descrizione della follia, poiché fonda la propria indagine soprattutto "sul mondo profondo ed interiore" dell’individuo.

Il favore incontrato da Lo straniero di Camus è forse dovuto alla singolarissima figura assurda e ambigua del personaggio principale che, all’indomani della morte della madre va a fare i bagni di mare, inizia una relazione irregolare e si reca a cinema per ridere con un film comico. Il personaggio è un esempio della "bella indifferenza" che caratterizza la psiche disturbata.

Conturbante è anche il testo teatrale Toyer, (Il giocattolo) scritto negli anni Settanta dall'americano J. Mc Kay, e rappresentato a Broadway con grande successo. In esso si narra di un serial killer, che ha paura della femminilità e che per questo motivo lobotomizza le donne che desidera, riducendole a bambole, a giocattoli. Una psichiatra s'imbatte in quel mostro, senza però sapere di essere a contatto con l'uomo che tutta la città cerca, e tra loro due s'instaura un rapporto molto ambiguo, dove i ruoli si confondono, per cui, ad un certo punto, sarà difficile individuare chi è il più forte e chi il più debole dei due, chi è il sano e chi è il folle.

In altro testo teatrale dal titolo House of Games, si trova implicata, anche questa volta, una psichiatra, che viene travolta dal contatto col mondo demenziale degli incalliti giocatori d'azzardo. Si tratta di un'opera del commediografo americano David Mamet, portata anche in cinema dallo stesso autore nel 1987. La protagonista della storia, una valente strizzacervelli, scopre, nel gioco, quei piaceri che si era sempre negata; ma si tratta di una esperienza che la donna non riesce a dominare e che le sfugge di mano, tant'è che la trascina in una pericolosa parabola. L'opera di Mamet, come già quella di Mac Kay, vuole dimostrare che si può cadere nell'abisso dell'insensatezza pur partendo da posizioni mentali che dovrebbero garantire, come nel caso di una professionista psichiatra, un buon margine di resistenza psichica. Denso di situazioni tragicomiche e magari assurde, il volume della triestina Marina Mander, Manuale di ipocondria fantastica, traccia interessanti figure di malati psicosomatici e di sindromi pschiatriche poco comuni, e talvolta, addirittura paradossali.

Lo scrittore austriaco Arthur Schnitzer, amico e fervente seguace delle teorie di Sigmund Freud, maestro nell’esplorazione interiore dei personaggi che portava nei suoi romanzi e molto preparato dunque nell’arte di fissarne i caratteri, in La scena dell’addio, mostra come la paura della realtà può indurre al lento sottrarsi al mondo esterno e a concentrarsi esclusivamente su quello interiore.

Ma uno dei temi più sentiti è il rapporto e lo scontro generazionale, che a volte assume toni drammatici e si evolve in azioni folli e sconsiderate, come nel caso de Il figlio del drammaturgo tedesco Walter Hasenclever e di Parricidio di Arnold Bronnen, che spingono fino alle estreme conseguenze, fino a pervenire ad atti insensati, l’odio covato dai figli nei confronti dei genitori. Interessante è pure la tematica della protagonista della commedia di Hermann Bahr, L’altra, una donna che ha una doppia personalità, essendo incapace, nonostante ogni sforzo, di sfuggire all’attrazione di un uomo del quale ella è succube. Nel teatro di Ionesco la follia si muta spesso in autoironia; in Pirandello è un escamotage intellettuale alla ricerca della verità; nel mondo shakespiriano è una deflagrazione universale. Tutta questa letteratura tratteggia la pazzia, nell'inevitabile viaggio della quotidianità, come dolorosa solitudine e "soluzione finale" dei problemi dell’esistenza. In ogni caso, il personaggio matto, con la sua stoltezza, vive l’esperienza di controsensi e di verità rivoluzionarie sicché la follia appare come il rovescio della medaglia della discrezione, della prudenza e del silenzio. Il personaggio toccato da questa disgrazia, deride, aggredisce e frappone una distanza invalicabile tra sé e gli altri. Il suo distacco è alienazione, ma è anche una presa di coscienza di dolorose e stridenti verità, che "la persona comune" preferisce ignorare.

Di ben altra "pasta" è, invece, l'amaro romanzo di Pascale Froment, Ti ammazzo, che prende spunto dalla storia di Roberto Succo, matricida e parricida, il quale si suicidò poi nel carcere di Vicenza. Questa truculenta vicenda ha ispirato anche il drammaturgo Bernard-Marie Koltès. Sullo stesso genere, e forse più intenso e disperato, perché scritto direttamente dal padre dell’assassino, è il libro Mio figlio assassino di Lionel Dahmer, il medico di Milwaukee che scoprì come suo figlio Jeff si fosse macchiato di alcuni dei crimini più orrendi commessi negli Usa, tra gli anni Ottanta e Novanta. Scrivendo quel diario-romanzo, il dottor Dahmer ha confessato di augurarsi di avere contribuito, in qualche modo ad aiutare a fare capire le motivazioni che possono essere alla base di un cervello malato. Infatti, raccontando la vicenda che si svolse nella sua famiglia, Dahmer spiega che, in un primo tempo, le bizzarrie e gli atteggiamenti anomali del figlio non li aveva giudicati come qualcosa di particolarmente anormale, in quanto, nel corso degli anni si era abituato a convivere con le stranezze del suo ragazzo e non riusciva più ad obbiettivarle realisticamente e a capirne la pericolosità. Sebbene il male del giovane figlio di Dahmer fosse pericoloso, l’abitudine quotidiana ad esso, in un certo senso, lo aveva reso invisibile ai familiari.

E ancora più conturbante è il diario di Jack lo squartatore, rinvenuto a Liverpool, nei confronti del quale il criminologo Robert Smith e altri studiosi portano prove abbastanza convincenti che possa essere davvero "lo sfogo" di un perverso criminale, intelligente, acuto, buon conoscitore dell'animo umano, che, tra il 1888 e il 1889, si macchiò dei cinque delitti di Whitechapel e che inizia la propria confessione con queste parole: "Forse nella mia mente tormentata desidero che qualcuno legga questo e comprenda…".

4 La follia nelle arti figurative

La follia è stata tratteggiata anche nelle tele di insigni pittori, i quali, stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, hanno ritratto l’alienazione con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile, nell’ambiguo e nella diversità.

Creatività pittorica si riscontra anche nelle opere di artisti alienati, come nel caso di Adolf Wölfi vissuto trenta anni in un ospedale psichiatrico, costellando la sua vita di tele affascinanti, o di quel "Carlo", studiato da vari psichiatri, le cui opere sono esposte al Museo Guggenheim di Venezia o della pittrice Aloyse, già citata, la cui produzione pittorica si trova in gallerie e musei rinomati. Tutte queste opere dimostrano che anche nei malati di mente può esistere una produttività artistica e una creatività, esternate con mezzi espressivi non inferiori a quelli degli artisti sani. Ciò fa supporre che l'arte scaturisce da tensioni emozionali molto vicine alla sofferenza della follia.

A parte gli artisti schizofrenici, molti rappresentativi maestri della pittura hanno raffigurato l'aspetto conturbante della demenza. In questo filone troviamo il fiammingo Hieronymus Bosch, con i quadri La cura della pazzia, La nave dei folli, e Tentazione; Lucas Cranac il Vecchio col suo dipinto La malinconia, l’olandese Pieter Brueghel con l'efficace Grieta la folle, e Gli storpi, in cui i visi disumani non sono solo un handicap fisico. Il tema del suicidio "esistenziale" narrato da I dolori del giovane Werther ha ispirato un'incisione di J. Amand, che ha ritratto Lotte che consegna la pistola a un messo di Werther.

La matta bestialità è stata, invece, tratteggia da un altro pittore fiammingo, Dirck Bouts, che, al Louvre, nel pannello dell’Inferno, ritrae figure mostruose di animali folli e deliranti, come quei barbagianni con i corpi di rospo che si mescolano alla nudità dei dannati. Anche lo spagnolo Velasquez dipingeva idioti e folli. E del tedesco Martin Schongauer è celebre la serie delle Dieci vergini sagge e stolte.

Il tema della maliconia è ripreso da Cesare Ripa, che la vede e la ritrae nelle sembianze di una donna vecchia e mesta.

La follia venne disegnata anche da un altro tedesco, Stephan Lochner, in un grottesco Giudizio Universale, in cui la insanità mentale si manifesta come se la natura, improvvisamente impazzita, producesse mostruosi animali tra cui farfalle con la testa di gatto, uccelli con le ali prensili come mani.

E la demenza, riprodotta sotto forma di animale impazzito e deforme, l'ha effigiata pure il pittore tedesco Mathis Grünewald, il quale, nella Crocifissione ha disegnato volti e figure tragiche con espressioni maniacali e deliranti. Nella Tentazione, l'immagine della sregolatezza è esaltata dall'infuriare di demoni balzani e mostruosi. In tutte queste opere l’autore mostra il suo particolare interesse per i disturbi mentali.

Albrecht Dürher tratteggiò, in una incisione su metallo, la "melancolia", e questo tipo di sofferenza fu anche il tema di un altro grande incisore tedesco Hans Baldung, detto Grien, il quale riportò in alcune delle sue opere anch'egli il tema düreriano.

Il pittore Francisco Goya y Lucientes ha rappresentato la malattia mentale, in molte opere, tra cui, una, davvero emblematica, il Cortile dei folli, in cui lo squilibrio mentale è effigiato da corpi nudi, rinchiusi in una fossa dei serpenti. Il pittore spagnolo ha anche simboleggiato i disturbi dell'umore nel quadro Cronos divora i suoi figli. Il Goya, colpito da un ictus quando aveva quarantasei anni, ed esasperato anche da una improvvisa sordità (dovuta forse ad una lesione sifilitica), divenne sempre più di carattere irascibile anche perché s’era sentito "abbandonato" dalla Corte spagnola, che gli aveva preferito Vicente Lopez, e, disilluso da quel voltafaccia, era caduto in depressione. Per allontanare lo spettro della malinconia, il Goya dipingeva con tremenda furia creativa, quasi che fosse un invasato, e raffigurava tragedie epocali, incendi e ospedali dei pazzi, temendo di finirci un giorno o l'altro anche lui. Allucinanti sono i dipinti della "Quinta del sonno" in cui vivono lugubri visioni, così come pure terrorizzanti sono le "Stramberie" (o "Sogni"), serie di acqueforti dal contenuto fosco e allucinante. E anche i disegni a sanguigna e le incisioni dei "Disparates" (Le assurdità, le Follie, le Ossessioni etc.) sono immagini che esprimono paranoie.

I pittori hanno raffigurato dunque la alienazione quale rivelazione di una natura tenebrosa, infernale, ma anche come affascinante spazio segreto, sradicato dalla banalità della iconografia comune: ciò che viene fuori dal delirio era già nella natura. Gli incubi del norvegese Edvard Munch, che possono essere "letti" psicoanaliticamente quale denuncia di un animo travagliato, in cui l’angoscia metafisica trova l'espressione nelle torbide immagini, nell’esperienza tragica di un delirio espresso da visi disumani. L'urlo è giustamente considerato come l'esempio tipico di esplosione di una psiche esasperata. Con il quadro intitolato Angoscia, in cui è manifesto il dramma di una donna in preda a quella sensazione dolorosa, il pittore norvegese reitera l'importanza esistenziale dell'ansia, alla quale dà un taglio metafisico, che viene rappresentato in una forma espressionista e nel contempo realistica.

Pittori e scultori di ogni tempo hanno fatto della pittura e della scultura lo specchio della loro anima, esattamente come gli scrittori, i poeti e i musicisti. Conturbanti, per esempio, dal punto di vista psicoanalitico sono le varie rappresentazioni del Martirio di San Sebastiano, effigiate da artisti come Antonello da Messina, Piero della Francesca e Mantegna, con raffigurazioni di quel giovinetto legato e trafitto da frecce che gli penetrano nella pelle e gli producono ferite sanguinanti, e che sono cariche di valenze ambigue, allusive persino di fantasie proibite e intrise di profondi significati di sofferenze e di desideri sessuali rinnegati. La cura della follia è una bellissima e rappresentativa incisione che fa parte dell'opera Récueil des plus illustres proverbes, esposta alla Bibliothèque Nationale di Parigi e fa vedere alcuni degli "interventi" che nel passato si effettuavano per favorire le espulsioni dal corpo delle contaminazioni che comportano la malattia mentale.

E come non tacere allora anche la "confusione" che s'incontra oggi nelle opere moderne, con quella dissoluzione delle forme, che non è altro che l'espressione di quel caos interiore che tende a concretizzarsi in immagini e colori discordanti, come se si trattasse di ambiguo e sempre più contraddittorio status mentale, come una nevrosi esistenziale che si concreta in deformazioni prospettiche e in forme arzigogolate ed irreali. Un tempo si credeva che la pittura fosse imitazione della natura, vedi il periodo delle forme perfette che quasi si ispiravano al mondo delle idee platoniche o lo stadio del chiaroscuro rinascimentale o quello dell'arabesco Roccocò. Ma da quando l'analisi della mente si è allargata includendo anche la psicopatologia della creazione, si è cominciato a celebrare l'arte figurativa come espressione dell'interiorità dell'artista, come qualcosa di misterioso e di magico. Picasso, tanto per fare un esempio, spogliò la realtà dalla materiale apparenza, sacrificando la verosimiglianza in favore di realtà spirituale e i colori dei suoi quadri non furono più quelli della natura, ma quelli dell'anima, i quali trasmettono l'accento personale, comunicato concretamente attraverso immagini che riproducono l'inconscio, e su questa linea anche Bosch, Chagall, Braque e altri hanno fatto, della pittura, l'espressione delle contraddizioni e delle angosce dell'essere umano.

Contraddizioni ed angosce che si possono "leggere" come l'immagine di un particolare mondo spirituale, proprio nei disegni dei malati mentali. Questo genere di estrinsecazione espressiva è favorita dai terapeuti, perché rappresenta uno dei momenti d'incontro più importanti con l'inconscio del malato.

Nel descrivere l'arte degli schizofrenici Karl Jaspers afferma che in essa, espressione particolarmente emblematica della vita psichica, c'è soprattutto la tendenza a dare "la rappresentazione di un insieme del mondo e dell'essenza delle cose". E infatti, conversando con i malati autori dei disegni, Karl Jaspers rilevò che è possibile "venire a sapere che spesso le cose più semplici sono piene di significato simbolico e di fantastici arricchimenti". E, sottolinea sempre Jasper, analizzando, pur nella loro primitività, le immagini di questo tipo di autori, a volte, grazie ad una straordinaria chiarezza d'espressione e ad una sconcertante intensità di significati, ci si può imbattere in realizzazioni, fatte da pazienti, che hanno una pregevole efficacia.

 

5 La follia e la musica

L'uomo comune, nell'Antichità, nel Medio Evo e nel Rinascimento si pasceva soprattutto di conoscenze che gli provenivano dalle immagini visive e dall'orecchio, più che dalla letteratura. E se a questo si aggiunge che un tempo l'esperienza quotidiana con l'alienazione era consueta, in quanto la si riscontrava in individui che girovagavano nelle strade e nelle piazze, sembra molto strano che la musica non abbia mai "commentato" la follia (così come ha fatto per altre circostanze umane), e che non abbia fatto apertamente una "irruzione" in quel campo.

Premesso questo, viene allora spontaneo chiedersi, dal momento che la musica ha interpretato non solo esperienze naturali come le stagioni, i giochi d'acqua, i canti degli uccelli e così via, ma anche stati psicologici come la tristezza e la passione, se è possibile che essa possa esprimere anche psicopatologie e sentimenti "inconsci", trasmettendoli ed individuandoli in particolari composizioni.

In particolare, è da chiedersi se la musica possa comunicare il linguaggio della alienazione e dello squilibrio con delle note, degli accordi e dei ritmi, che siano in grado di far conoscere ciò che passa nella mente di una persona psichicamente malata, così come fa la letteratura, per esempio, e come qualcuno ha però ritenuto di rilevare nelle dissonanze di Schönberg, le quali sembrano assumere la forma dell’angoscia, con un linguaggio musicale vicino alla tensione catastrofica della frenesia.

Scrive Albert Wellek che il tema della psicologia della musica non è stato mai molto approfondito e che, in ogni caso, è stato affrontato in modo sistematico sono a partire dal 1931, con il volume Musikpsychologie, di E. Kurth che può essere considerato un pioniere in questo tipo di studi, seguito dai musicologi Géza Révész nel 1946 e R. Francès nel 1958. Kurth allude ad uno spazio "emotivo" musicale, che si fonda sulla espressione emozionale determinata dalla musica. Studiando il fenomeno "musica", dal punto di vista psicologico, Wellek rileva che alcune persone sono più portate ad apprezzare il contrappunto mentre altre, invece, provano maggior trasporto per la musica armonico-timbrica. Questa analisi ha portato al tentativo di fare una "tipologia" degli ascoltatori-fruitori ed anche dei creatori-musicisti. I risultati, però, non sono stati molto incoraggianti, in quanto molto generici, sia per ciò che riguarda la psicologia dell’ascolto che anche per quello che concerne la psicologia della creazione musicale. Ma nella creazione musicale è forse difficile poter caratterizzare psicologicamente quali sono le motivazioni della funzione ispirativa-emotiva e quali quelle della funzione tecnico-creativa. Tuttavia, qualcuno, come il musicologo J. Bahle, ha sottolineato che si possono rilevare delle creazioni concepite quasi in stati di sogno, come accadde, secondo quello studioso, per certa musica di Schubert.

C'è anche chi è del parere che, essendo la musica soprattutto armonie, cadenze e assonanze, le quali caratterizzano la composizione ritmica, essa possa contenere modulazioni e risonanze, che rappresentano tutte le sfaccettatura dell’animo umano, compreso il delirio. Walter Mauro ritiene che l'improvvisazione del jazz, con la sua libertà polifonica, rappresenta un magico rituale, in cui confluiscono "in diretta" percezioni dell'inconscio. Il jazz, sempre secondo Mauro, trasmetterebbe l'emozione del musicista provocando una eccitabilità collettiva, alla quale non è possibile sfuggire. Passando ad altro genere musicale, Theodor W. Adorno si diceva convinto che il terrore che le note di Webern diffondono deriva dal fatto che la sua musica dà forma ad una sorta di angoscia, che porta sgomento e sensazioni catastrofiche. Forse anche le musiche medievali che venivano chiamate "danze dei folli", avevano qualcosa di conturbante che in concreto si avvicina ad un genere musicale capace di esprime l'alterazione mentale.

Si potrebbe allora sostenere che dissonanze, assonanze, improvvise mutazioni del ritmo, possono anche essere emblematici simboli della irrequietezza psicopatologica?

Lo psicologo-antropologo Imre Hermann ha rilevato che per mezzo della musica si può "entrare in sintonia" con il delirio: egli ha osservato che, dopo una notte di ritmicità ossessiva, alcune popolazioni tribali, travolte da musiche ossessive, finiscono con l'essere in trance. Si tratta di ritmi spontanei e di pantomime musicale, con i quali i primitivi ritenendosi invasati dal demone, manifestano la loro esaltazione ossessiva. Ma andando oltre, Imre Hermann addirittura sostiene che vi possa essere una certa concomitanza tra talento musicale e disturbi psichici, quali feticismo, esibizionismo, travestitismo, anche se poi egli si affretta ad affermare che "il frequente collegamento tra musicalità e perversione non significa che tutti i musicisti e tutte le persone dotate musicalmente siano malate". Malgrado Hermann presenti vari esempi storici, per avvalorare la sua tesi, non si trovano al riguardo serie conferme cliniche della sua attendibilità.

Sebbene, come si vede, vi potrebbe essere una vasta materia di studio da approfondire a proposito della possibilità di trovare il legame profondo che unisce l'inconscio alla musica, gli psichiatri, gli psicologi e gli psicoanalisti non si sono addentrati a sviscerare il problema, e ciò forse proprio perché lo stesso Sigmund Freud dimostrò una chiara mancanza di interesse in questo campo. Per di più, sembra che, al disinteresse degli strizzacervelli per la musica, corrisponda, anche da parte degli stessi compositori, una certa indifferenza (o dovremmo chiamarla forse impossibilità?) ad esprimersi con accordi musicali che evochino la pazzia. Infatti ciò che lascia più perplessi è che anche quei musicisti che concepiscono la musica come linguaggio "dei sentimenti, delle passioni o degli stati d'animo", e sono molti, da Schumann a Debussy, da Respighi a Smetana, da Sibelius a Berlioz, a Liszt, e tanti altri, nessuno di essi si è mai cimentato a scrivere musica che esprima stati di follia. Eppure, secondo Pichon-Rivière, un musicologo che s’interessa di psicologia, la musica è, in termini psicoanalitici, la forma più regressiva di sublimazione.

Una limitazione, questa, che probabilmente potrebbe derivare dal fatto che il connubio tra la musica, arte astratta e svincolata da un oggetto, e narrazione del reale, è una operazione complessa, e dai risultati alquanto ambigui. Infatti, il tema di una melodia (cioè il significato reale di un brano) è insito nella melodia stessa. La forza della musica sta proprio nell'essere un insieme di riflessioni possibili, nel far meditare senza parole, nel poter essere interpretabile in vari modi, e per ciò stesso, non si può riconoscere, per essa, una unica ispirazione contenutistica che la esaurisca, come invece accade nella scrittura o nella pittura, nelle quali è possibile rendere adeguatamente manifesto l'argomento.

"La musica di un quartetto di Beethoven mi commuove e mi fa pensare, ma non saprei esprimere con le parole che cosa vuol dire. È piena di senso per me, ma forse non "significa" nulla", così si esprime Denis Gaita, psicoanalista e musicologo. La musica, precisa ancora Gaita, è intelligibile, ma intraducibile, tant'è che è impossibile una visione semantica dell'ascolto musicale. Intatti i tentativi di assimilare la musica a sistemi semantici per produrre un "vocabolario" semiologico musicale, sono in parte falliti, e questo anche perché la "traduzione del contenuto" della musica in parole sarebbe in ogni caso riduttiva. Anche se ciò non esclude, teoricamente, che la musica possa descrivere la follia con mezzi propri, tanto per fare un esempio, con gli stridenti accordi di un violino o con il cupo timbro emesso da una corda sola di violoncello, o, ancora, con le note ansimanti di una tromba, che emergono da un freddo silenzio, suoni tutti che possono evocare la solitudine della alienazione.

E non si può tacere che il puntare sulla simbologia musicale è una operazione "rischiosa", perché, ogni qualvolta si è preteso fare della musica a soggetto o della musica che abbia un tema, o quando un musicista si è imposto d’imitare eventi naturali come il mormorio delle acque o il canto degli uccelli, o altro, il risultato è stato quello di una banale parodia, o quanto meno una forzatura. Difatti la struttura della musica a programma o, se si vuole, descrittiva, non si identifica inequivocabilmente con gli avvenimenti evocati. Afferma Giovanni Pasqualino "se la Patetica di Ciajkovskij si fosse chiamata "la Dolorosa" o "la Triste", se la scintilla sia venuta dalla voglia di morte o dalla cupa réverie del compositore, che cosa realmente sposta nella struttura musicale della sinfonia?". E in realtà, ogni spettatore può "sentire" ciò che vuole in un "pezzo", anche se quel pezzo musicale è identico per tutti dal punto di vista delle note. "Sono le note e l'effetto sonoro che esse producono - afferma Pasqualino - l'unica componente reale ed analizzabile della musica" e ciò perché, se da un canto la musica è abbastanza intelligibile, dall'altro essa è generalmente intraducibile.

Così, continuando a dire, chi mai potrebbe, infatti, indovinare, senza conoscere preventivamente il titolo, ascoltando per la prima volta le armonie dei Quadri di un’esposizione di Mussorgski, che, secondo quanto esplicitato dalla intestazione, esse rievocherebbero scene dipinte su tela? Solo a posteriori, e per suggestione, è possibile immaginare di riconoscere, in quelle note, rievocazioni di celebri squarci pittorici. Un esempio molto indicativo a tal riguardo, è citato da Albert Wellek, che riferisce di un esperimento fatto da Ernst Krenek a proposito della Synphonie fantastique di Berliotz, che nelle intenzioni del compositore dovrebbe rappresentare l’ansia di un uomo perseguitato da una idea terrificante che lo spinge alla follia. Ebbene, quasi nessuno degli ascoltatori riuscì a individuare le intenzioni del musicista. Ciò fa pensare che la musica abbia un’ampia gamma di opzioni in fatto di interpretazione dei suoi significati, e, così, se una marcia o una ninna nanna possono essere facilmente individuabili, perché "di uso comune", in quanto alla interpretazione di stati mentali espressi dalla musica, il discorso diventa difficile e problematico (almeno fino ad oggi) .

Ed inoltre, quando si vuole appioppare a brani musicali autonomi un commento parlato, quest'ultimo risulta spesso del tutto inappropriato, e parimente si fallisce quando si vuole interpretare una musica con immagini visive, come fece Walt Disney, che ebbe l’idea di "commentare" alcune musiche d’autore per mezzo di cartoni animati, i quali, pur essendo molto belli in sé, "commentando" celebri brani musicali finirono col banalizzarli e svalorizzarli dal punto di vista della estetica dell’ascolto musicale.

La musica, dunque, difficilmente si può identificare in argomenti concreti, e ciò perché il linguaggio musicale è svincolato dalla verosimiglianza. Essa di rado riesce davvero a modellarsi e ad identificarsi con un argomento o ad evocare situazioni extramusicali, come potrebbe essere la follia, con i propri mezzi armonici, anche se la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono può creare un formidabile pathos, così come accade anche con l’accordo di settima diminuita.

E ritorniamo a dire che, essendo la musica un linguaggio astratto, essa non può rappresentare mai nulla di concreto, e forse nemmeno stati d’animo particolari. Infatti alcuni preludi di Chopin trasmettono, indifferentemente, secondo come vengono percepiti dalla sensibilità del singolo ascoltatore, sofferenza, angoscia, o magari dolcezza e pace. Chi non è a conoscenza che alle note iniziali della Quinta sinfonia di Beethoven sia stato attribuito il significato dei colpi del "destino che bussa alla porta" a causa di quell’insistente ritmo cadenzato, non trova affatto tale significato. E nemmeno testimonia alcun significato psichiatrico la sonata detta "La Follia" di Arcangelo Corelli, o magari il Capriccio bisbetico di A. Falconieri, sebbene abbiano un richiamo esplicito nel titolo, come, invece, fanno in realtà i quadri di Munch, di Bosch, di Brueghel, di Bouts, etc., nei quali, è possibile "leggere" l’angoscia.

La Follia di Corelli infatti è semplicemente una variazione sul tema di una danza spagnola e, pur avendo un nome che spicca per un certo calore appassionato, non ha nulla a che vedere, con la pazzia così come non ha rilevanza alcuna, da quel punto di vista, il Capriccio bisbetico di A. Falconieri, che è semplicemente una forma di danza a struttura binaria.

C’è chi, invece, individua nel fandango il genere di musica spagnola "creata" per rappresentare la pazzia, e lo ritiene dunque uno dei pochi esempi da citare come esternazione ritmico-musicale di stati d’animo patologici.

Dopo quanto s'è detto, è comprensibile la riluttanza dei compositori, i quali, anche a causa della inadeguatezza del mezzo tecnico, non cercano di rievocare nel pentagramma la follia, contrariamente di come accade nel campo letterario e delle arti figurative.

Si può ipotizzare che l’assenza di musiche che evochino la follia dipende anche dal fatto che al compositore, di solito, non serve prefiggersi un determinato contenuto: la buona musica non ha necessariamente un soggetto. Anzi, nella musica non ci sono significati, non c’è altro da capire che la stessa musica. "La musica si fa e basta", afferma Denis Gaita. Difatti, spesso, il titolo attribuito al brano è posticcio e appiccicato non dall’autore, tant'è che non sempre si è certi che quella interpretazione contenutistica, che si evince dal titolo, era nelle intenzioni del compositore, come, per esempio nel caso della sonata detta Gli addii o nel caso de Il chiaro di Luna di Beethoven.

Bisogna però sottolineare che quando vi è una trama, un'azione scenica, cui la musica fa da supporto, piuttosto che essere essa stessa una forma di narrazione, si limita ad accompagnare il racconto. Tanto per fare un esempio, nel caso dell’aria "Mira Norma ai tuoi ginocchi" la musica rafforza il significato delle parole e l’azione. Ma in altri casi, accade che la melodia non rimanga solo come semplice rinforzo dell’azione scenica, ma acquisti un proprio e indipendente valore espressivo, tant'è che è solo in apparenza che la recitazione e lo svolgimento musicale procedono parallelamente, e ciò perché si ritiene, forse impropriamente, che l’una sia indispensabile all’altra. Ma in realtà la composizione musicale non ha bisogno del palcoscenico, tant’è che molte arie vengono cantate senza perdere nulla anche se sono prive della scena.

Tuttavia è più facile seguire la melodia descrittiva, come quella lirica, piuttosto che immergersi nella musica astratta, come nel caso del genere sinfonico e cameristico, che, forse proprio per questo, hanno meno seguaci. Ed allora si può capire che la concettualizzazione della follia, con armonie e disarmonie musicali, può essere inquietante, essendo preferibile ascoltare melodie che evocano stati d’animo che rientrano pur sempre nelle suggestioni psicologiche consuete. E questo perché non tutti sono disposti a "subire" emozioni prodotte da motivi sonori che emergono dall’universo del "cervello rotto".

Inoltre, poiché si può progredire nella comprensione di un brano musicale solo dopo attente audizioni e ripetuti approfondimenti ed analisi, in ogni caso, le difficoltà di penetrare all’interno della struttura dei significati di un'armonia, di un ritmo e di una melodia comporta che chi ascolta musica dovrebbe conoscerne il linguaggio e avere una preparazione specifica per intenderla in tutti i suoi aspetti. E ciò, malgrado la musica sia, assieme all’arte delle immagini, la sensazione più comprensibile con la più vasta risonanza emotiva sia presso i selvaggi che nelle popolazioni civilizzate.

Anzi, in certi casi, ascoltare dei suoni aiuta a controllare l’ansietà, perché con il canto, sia il primitivo che l’occidentale riescono a padroneggiare le proprie angosce, essendo spesso la melodia e il ritmo esperienze catartiche. Cantare serve a liberare energie, ed ascoltare musica, soprattutto se si tratta di suoni melodiosi, sono ambedue espedienti terapeutici che sciolgono i grumi affettivi bloccati nel profondo. Insomma, la musica può fronteggiare ma anche esprimere piccole e grandi patologie, sicché comporre musica può essere rilassante, ma può diventare un modo per esternare dolorosamente angosce e turbamenti psichici.

Beethoven, la cui vulnerabilità emotiva era ben nota, compose musica perché voleva partecipare dell’assoluto e, grazie alle sue opere possenti, egli affermava di sentirsi vicino alle entità onnipotenti. Beethoven scrisse, come spiega Giordano Fossi, le opere più belle proprio quando divenne sordo, forse proprio spinto da un impeto narcisistico compensativo. E lo stesso accadde a Bedrich Smetana e a Gabriel Fauré, per citare altri esempi, per i quali, la minorazione dell'udito divenne uno stimolo e una sfida a continuare a creare nel campo musicale.

E sempre secondo Giordano Fossi, il silenzio musicale di Giacomo Rossini, che perdurò per quasi quaranta anni, sottolinea il lutto edipico, nel quale cadde il musicista, dopo la morte della madre adorata.

Musicisti come Cole Porter, Irving Berlin e Charlie Parker hanno sofferto disturbi psichici più o meno intensi che li hanno costretti al ricovero per qualche periodo della loro vita, e tuttavia per molti di loro la musica ha avuto anche una funzione terapeutica. A tal proposito, un'esperienza singolare ebbe Franz Liszt il quale venne invitato alla Salpêtrière per osservare quali effetti avrebbe sortito il suo virtuosismo sonoro su una degente che mostrava predisposizione alla musica. La sperimentazione fu ripetuta, invitando, di volta in volta, alcuni concertisti famosi di quel tempo, ma, secondo François Leuret, lo psichiatra che promosse l'iniziativa, "non è sufficiente ascoltare musica, occorre farla". In altri termini, non basterebbe la semplice posizione passiva dell'ascolto, bisogna spingersi nell'operosità creativa, per avere un maggiore giovamento dalla musica.

Ma se la follia non è entrata a far parte della struttura della composizione musicale, essa è stata invece molto utilizzata dai grandi compositori di opere liriche, ai quali non sfuggì l'interesse e il fascino che la follia aveva sulla gente. Così molti di essi la rappresentarono e la narrarono nelle loro storie. In questi casi, però, la follia è stata trattata dai musicisti come complemento dell’intreccio, e il racconto delle patologie avviene tramite la funzione scenica, non per mezzo del pentagramma, il quale, semmai, accompagna l’evento psicopatologico. La follia, in moltissime opere, non è protagonista della struttura musicale, ma solo dell’intreccio scenico.

La descrizione dell'alienazione, è rappresentata a piene mani nella lirica e la troviamo nella scenografia e nei testi che narrano di Ofelia, protagonista femminile dell’Hamlet (1868) di Thomas Ambroise Charles Louis (1811-1896), e ancora nell’Elvira de I Puritani di Bellini che, volendo sposare Arturo Talbo, ma credendo di essere tradita, cade nello smarrimento e finisce con l’impazzire. E Lucia di Lamermour, di Donizzetti, va fuori di senno dopo aver ucciso il marito Arturo, come anche la protagonista dell’opera Il Pirata di Bellini, Imogène, che impazzisce quando viene a sapere che Gualtiero, che ella ama, viene condannato.

Nel Macbeth di Verdi si trovano stranezze mentali come il sonnambulismo di Lady Macbeth, le visioni di fantasmi di Macbeth, i soliloqui e i dialoghi, tutte permeate dall'insanità mentale. Troviamo la follia altresì in Anna Bolena di Gaetano Donizzetti, nel Boris Gudonov di Modesto Musorgskij, e nelle varie Medea: quella di Giovanni Pacini, quella di Vincenzo Tommasini e di Paul Bastide.

Stravagante e squilibrato è anche il personaggio di Nerone nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi; e non è certo sana di mente la protagonista dell’opera Dinorah di Mayerbeer che smarrisce il senno e la memoria. E ancora, Margherita, nel Mefistofele di Boito, che muore pazza perché ha ucciso il bambino che ha avuto da Mefistofele, e fuor di senno è certamente la protagonista dell’opera Nina o sia la pazza per amore (1789) di Giovanni Paisiello. E il musicista siciliano Pietro Antonio Coppola (1793-1877) ha scritto anch'egli un'opera, La pazza per amore ( 1835) la cui protagonista è un po' matta.

Una posizione a parte merita il Parsifal di Wagner, che riprende modificata l'antica leggenda medievale, e in cui il giovane Perceval, "puro folle" (così è traducibile il suo nome dall'arabo), dopo essere vissuto in un primo tempo in solitudine e sotto l'ombrello edipico della madre, la abbandona, facendola morire di dolore, e si riscatta dal quel senso di colpa, ma anche da quella inconsapevole malia, cercando Dio, con una aspirazione incerta e conturbante, tramite il misticismo simbolico del Graal. Essere uomini, impara a sue spese il giovane Perceval, significa errare ed espiare. Lo scrittore Thomas Mann notò quanto fossero bizzarri e poco comuni i personaggi del Parsifal: un mago, Klingsor, che si è evirato, una donna, Kundry, che è una creatura ibrida, donna fatale e nel contempo Maddalena pentita, un sovrano, Amfortas, sofferente per i suoi peccati volontari, che invano invoca la morte perché si è reso colpevole. E forse nell'ambivalenza di tutti questi personaggi bislacchi e nello stesso tempo nella loro natura profonda sta il fascino dell'opera wagneriana.

Anche la musica leggera s’interessa alla follia, e un caso davvero emblematico, a tal riguardo è la canzone di Don Backy, Sognando, cantata da Mina, che racconta la vita e la disperazione di una matta. Altro esempio si ha nella musica del jazzista Charles Mingus, che ha scritto un brano, in collaborazione col proprio psicanalista, la cui tradizione dall'inglese suona più o meno così: Mi sarebbe piaciuto essere figlio della moglie di Freud, per conoscere meglio la psicoanalisi.

In conclusione, sebbene la musica abbia un impianto semantico del tutto differente dalla letteratura, dal teatro e dalla pittura, perché i ritmi, le melodie e gli accordi, restano pressoché astratti, mentre la scrittura e la pittura, si prestano a una più realistica descrizione dei contenuti e dunque possono uscire dalla ambiguità dell’astrazione, è possibile ipotizzare che la psicopatologia stia entrando a poco a poco, anche nella cultura musicale, tant'è che, lavorando con le nuove esperienze timbriche, i compositori moderni possono tramutare gli accordi tonali in squarci di angosce, provocando, attraverso la immensa gamma della musicalità, la percezione della follia.

Luca Francesconi con la sua composizione per grande orchestra intitolata Wanderer, impostata con l’uso insistente e tematico della dissonanza, sembra proprio viaggiare su questa lunghezza d’onda. Infatti, to wander significa sia vagabondare che divagare e vaneggiare. E difatti Francesconi sembra narrare con la musica il delirare della mente. Il precursore di questa ricerca può essere ritenuto Schönberg che, con la sua avventura nel mondo dell’atonalità, è stato in grado di offrire una tensione e una ricchezza timbrica spregiudicata, sbalordendo lo spettatore con quel gareggiare di suggestioni emotive sempre più travolgenti e usate per sottolineare l’innegabile marasma del mondo. Anche certe composizioni di Luciano Berio, il quale ha rifiutato l'ordine formale precostituito e non ha accettato l'instaurazione di rapporti tonali classici, può darsi che colmino, in qualche caso, con le punte avanzate di un linguaggio musicale lampeggiante e senza nesso apparente, lo spazio "del tutto irrazionale" che mancava alla musica, consentendo all'inconscio di produrre stimoli che portino ad un genere di sonorità del tutto diversa dalla consueta composizione classica.

Ed è all'americano John Cage che si devono sistemi di notazione "irrazionale" che puntano sulle reazioni imprevedibili del lettore-esecutore, sistemi utilizzati dai cosiddetti compositori "aleatori". Insomma, il vecchio sistema tonale, o scala d'ottava, che permetteva un certo grado di prevedibilità in ogni musica, per cui la composizione musicale rendeva gli accordi tali da indurre l'ascoltatore ad essere in grado di "possedere" una composizione, non si ritrova più in questo tipo di nuova musica, la quale ha cercato di rendere, invece, i suoni sotto il segno di una libertà assoluta e secondo leggi non più riconoscibili.

Non è questa, forse, in un certo senso, la stessa "libertà" di cui usufruisce la follia?

 

6 Gli inventori e la stravaganza

Arte e scienza, afferma Martin Kemp, sono pressoché indiscernibili, in quanto l’esperienza estetica e quella cognitiva sono un tutt’uno, come ha dimostrato l’attività creativa di Leonardo da Vinci. E così, stranezze e bizzarrie, alienazione e atteggiamenti maniacali non si riscontrano solo negli artisti, il cui genio, per definizione, si pasce della sregolatezza tipica dei creativi, ma si rilevano anche nei protagonisti della scienza, nei grandi inventori, nei filosofi, negli ideatori di grandi scoperte tecniche, in coloro che approfondiscono i più intimi segreti della natura. Insomma, gli scienziati, che, dovendosi raccapezzare nel caos dell’universo, sono tenuti ad essere "mentalmente" chiari e disciplinati, per rendere più efficace il loro sapere e per approfondire la ricerca sistematica, in molti casi, pur essendo persone "di primo piano", hanno sorpreso per qualche tratto balzano nel loro carattere.

E così, infatti, è accaduto che, innescato il sacro fuoco del lavoro di ricerca scientifica, il furore creativo ha travolto l’esistenza di alcuni apprendisti stregoni, conducendoli nell’antro infernale della esaltazione, della frenesia aberrante e in deliranti vaneggiamenti, come accadde, alla fine del XVIII secolo, allo scopritore dell’uranio, Martin Klaproth, che, ad un certo momento della sua esistenza smarrì la via della ragione.

Il grande pedagogista Jean Jacques Rousseau, autore de L’Emilio e del Contratto sociale, è un esempio di genio strampalato, il cui stato mentale potrebbe essere definito bordeline. Eppure le sue opere sono di grande valore e su di esse si basano spesso la sociologia e la pedagogia moderna. Rousseau era affetto da crisi paranoiche e fu ossessionato, tutta la vita, da idee persecutorie che lo resero inviso a chiunque lo frequentava. Secondo René Laforgue, la malattia del filosofo ginevrino si manifestava sotto tre diversi aspetti: esibizionismo, pulsione irrefrenabile alla confessione e mania di persecuzione. Rousseau aveva un incontenibile bisogno di scrivere non solo perché ciò gli procurava autostima ma perché egli si considerava un redentore, e, di conseguenza, s'era posto il compito di migliorare l’umanità col suo trattato pedagogico l’Emilio.

Inoltre Rousseau aveva uno spasmodico bisogno di mettere a nudo le bassezze dell'animo umano e di guardare così in faccia la miseria della condizione individuale, cosa che fece nelle sue Confessioni; il terzo tratto caratteriale di Rousseau, afferma Laforgue, scaturì dalle sue infelici esperienze dell'infanzia, i cui traumi gli comportarono una aberrante paura d’impotenza e il timore panico di una omosessualità più o meno latente.

E, a questo proposito, passando ad altro autore, è noto che Johann Joachim Winckelmann, fondatore dell’archeologia, visse in modo drammatico la propria omosessualità. Winckelmann cercava di nascondere quella passionalità carnale che egli avvertiva verso il corpo maschile (a quei tempi essere omosessuali poteva far insorgere problemi con la giustizia), adducendo come scusa, per la sua necessità di compiacersi della bellezza virile, l'avere appreso durante gli studi liceali il fatto che un tempo, sommo ideale della Grecia classica, era stato il corpo umano maschile. Ma l'interesse del famoso archeologo per il corpo maschile, soprattutto quando si trattava di quello di un giovane che corrispondeva all’ideale "classico" della bellezza e della nobiltà (kalòs kagathòs), era aumentato vieppiù in età avanzata, e ciò aveva spinto Winckelmann a praticare in modo sempre più disinibito i rapporti omosessuali. Qualche tempo prima di morire Winckelmann scrisse ad un amico, esplicitandogli il proposito di prendere con sé e di educare un giovane perché potesse fargli compagnia nella tarda età. Per ironia della sorte, sebbene l'archeologo avesse cercato di nasconderla, la sua omosessualità venne in luce traumaticamente, quando, nel 1768, con grande scalpore, si ebbe la notizia che colui che ha avuto una parte di primo piano nel risveglio dell’amore per la cultura classica, era stato strangolato da un giovane col quale, in precedenza aveva cenato in intimità, e col quale era andato a letto.

Per una serie di circostanze venne scoperto e, in seguito, condannato l’assassino dell’archeologo. Il giovane omicida, prima di essere giustiziato, affermò che aveva compiuto quel gesto perché si era sentito troppo "oppresso" dalle attenzioni del suo anziano amico.

Il filosofo Friedrich Nietzsche, uno degli uomini più intellettualmente vivaci dell'Ottocento, mente lucida e illuminata, morì, purtroppo, a cinquantasei, a causa di una malattia mentale che lo ridusse in breve tempo ad una larva umana. Infatti, negli ultimi anni della sua vita rimase quasi inebetito. E un altro grande filosofo dell’Ottocento, capostipite dell’esistenzialismo, il danese Sören Kierkegaard, era spesso affetto da crisi maniaco-depressive e ossessionato da paure ipocondriache e da allucinazioni. Kierkegaard, per sua stessa ammissione, affermò di avere dissipato l'ingente patrimonio ereditato dal padre, perché il dilapidare tanto denaro gli dava una esaltante ebbrezza e si era dimostrato l'unico antidoto per fronteggiare le insopportabili crisi depressive che lo assalivano. E tuttavia, malgrado questi gravi disturbi, o forse proprio per questo, Kierkegaard fu grande indagatore dell'animo umano, in pratica uno dei grandi psicologi dell'era moderna. Vincenzo Rapisarda gli riconosce il merito "di avere affrontato per primo il problema dell'ansia in una prospettiva esistenziale" e, inoltre, di avere proposto una definizione del concetto di ansia come "paura senza oggetto", che, in pratica, è la espressione con la quale a tutt'oggi viene identificata l'ansia.

Studiando la vita degli scienziati, gli psichiatri E. Plank & R. Plank, e A. Storr, hanno rilevato, per esempio, che le tendenze caratteriali che inducono a scegliere l'atteggiamento positivo verso la matematica derivano da un processo sublimatorio, utilizzato dall’Io per risolvere problemi di ambivalenza.

Secondo Storr, infatti, Isaac Newton, cercò sempre di minimizzare la propria depressione, dovuta al fatto di essere stato abbandonato da piccolo dalla madre, compensando quella carenza affettiva con lo studio delle scienze matematiche.

In seguito, sempre secondo Storr, Newton divenne permaloso, e ossessionato dalla paranoica paura che altri si appropriassero delle sue scoperte scientifiche. Anche Biagio Pascal, a causa della perdita della madre, fu uno spirito depresso, ed ebbe la tendenza alla ricerca nel campo della fisica e della matematica, perché quella scienza, comportando un grande impegno mentale, lo distraeva dai guai psichici. Ma in Pascal, secondo Sporr, l'operazione di rimozione non ebbe esito del tutto positivo dal momento che le carenze affettive gli determinarono disturbi psicosomatici gravi e apatia sessuale. A causa di quei disagi psicoemotivi Pascal rifiutava qualsiasi sostituto della madre, cibo compreso, il che lo portò anche all'anoressia. In quanto al sesso, poi, la ferita edipica allontanò il filosofo dalle donne. Pascal, inoltre, avvertiva una strana "debolezza alle gambe", che gli derivava probabilmente da una somatizzazione, e che era forse un modo per esprimere il desiderio di essere tenuto in braccia dalla madre, cosa che gli era mancata da bambino.

Lo scienziato cecoslovacco Kurt Göedel, fu internato più volte in ospedali psichiatrici, per depressione e a volte anche perché in preda a crisi di paranoia. Eppure Göedel fu uno dei più grandi studiosi di logica matematica di tutti i tempi. Egli, nel 1930, dimostrò che l’uomo ha raggiunto i confini della logica classica. E tuttavia, pur avendo tanta "lucidità" mentale e sebbene la sua sia stata una impresa scientifica poderosa, mai riuscita a nessuno studioso prima di lui, Göedel passò buona parte della sua vita nei manicomi. Altra mente di alto livello, ma, a dir poco, eccentrica, fu John von Neumann, ideatore di un tipo complesso di calcolatore elettronico. Neumann era capace di leggere un libro e poterlo riferire anche dopo molto tempo, parola per parola; e malgrado ciò a volte "non ci stava più con la testa": era distratto e svagato, tanto da perdere "la bussola" e da non sapere più nemmeno rientrare a casa, perché dimenticava dove abitava.

Anche un grande genio come Albert Einstein ebbe atteggiamenti, a dir poco strani se non nevrotici. Nel periodo in cui Albert convisse con Milena Maric, nacque loro una bambina, ma il fisico non volle riconoscerla come propria figlia perché temeva che sua madre Pauline Kock, non avrebbe accettato che il suo Albert avesse figli ad di fuori del matrimonio. Per ciò, la bambina venne data in affidamento, e di lei Albert non ne seppe più nulla. Altro atteggiamento strano il grande fisico lo manifestò quando, qualche tempo dopo che s'era sposato, scrisse una lettera a Milena, ingiungendole, con un vero e proprio diktat demenziale (che compromise la loro relazione), di sottostare ad un menù di comportamenti affinché "la loro convivenza non sfociasse in alterchi". Questi erano alcuni degli ordini impartiti dal marito verso la moglie convivente, anch'essa una scienziata: "I miei vestiti e la mia biancheria devono essere tutti in ordine; i tre pasti dovranno essere serviti regolarmente nella mia camera; rinuncerai ad ogni relazione con me, oltre a quelle richieste per mantenere le apparenze in società; non mi chiederai di passare il mio tempo a casa con te; non mi devi chiedere di uscire o fare viaggi assieme; devi lasciare immediatamente e senza protestare la mia stanza o il mio studio quando ti chiedo di andare via; non mi rimprovererai perché non mostrerò affetto per te; dovrai rispondermi subito quando ti parlo; etc".

Qualche mese dopo Milena abbandonò il marito e andò a vivere in Svizzera.

Anche tra gli studiosi della psiche si annoverano insigni personalità che hanno patito sofferenze esistenziali. Alcuni di essi hanno confessato di essersi interessati ai problemi psicologici perché avevano avvertito che i disagi che riscontrano i nevrotici, sono spesso più o meno simili ai problemi di cui soffre l'umanità. Del resto, afferma Binswanger che, paradossalmente, per capire al meglio un alienato bisogna avere vissuto, almeno per qualche momento, quella condizione.

E così non si può tacere che Sàndor Ferenczi, tra i primi grandi psicoanalisti fondatori della scuola freudiana, allievo e pupillo di Sigmund Freud, il quale lo riteneva suo successore al comando della Società Psicoanalitica, verso la fine della sua breve esistenza ebbe crisi depressive, fobie e manifestazioni nevrotiche, che indussero Ernest Jones, a diagnosticare per il collega Ferenczi una psicosi latente. Anche allo psichiatra Otto Rank, uno studioso che aveva molto contribuito agli studi psicoanalitici, venne riscontrata una forma di psicosi, e a causa di ciò venne invitato a dimettersi dalla Società Psicoanalitica Viennese. E ancora: Fritz Perls, autore di un fondamentale trattato sulla Gestalt, fu soggetto, com'egli stesso ammise, a svariati periodi di depressione ed ad atteggiamenti paranoici, il che lo portò al desiderio di studiare e combattere questi stati psicopatologici, per cui fondò in California The Esalen Institute. Anche Melanie Reizes Klein, personalità di spicco nel movimento psicoanalitico delle origini, dietro la facciata di psicoterapeuta impeccabile "aveva una vulnerabilità da bambina, unita a una coscienza di sé da persona pienamente matura". Da ragazza, Melanie, pur non essendo stata toccata da drammi angosciosi, ma essendo dotata di una sensibilità, di una intelligenza e di una acutezza psicologica non comuni, aveva sofferto, per alcune circostanze della sua vita, più di quanto non avrebbe patito se fosse stata una persona meno reattiva. I punti cardini che condussero la Klein a una sensibilità molto vicina al disturbo dell'umore furono il rapporto con una madre invasiva e oppressiva, l'avere avuto un padre che si disinteressava dei figli e della famiglia, e i litigi con i due fratelli. In seguito, i suoi disturbi aumentarono a causa del mancato feeling col marito, Arthur Klein, uomo che la Reizes aveva sposato per pura convenienza e dal quale presto divorziò. Tutti questi eventi produssero in Melanie una infelicità che si tramutò ben presto in una depressione che la donna cercò di curare prima nella clinica svizzera di Chur, e, in seguito, quando ella aveva trentadue anni, si sottopose a terapia psicoanalitica con Sandor Ferenczi. Conclusa favorevolmente la psicoterapia, Ferenczi introdusse la Klein nell'ambiente psicoanalitico, facendola partecipare al congresso che si svolse a Budapest, ove, l'ex paziente poté incontrare Freud e in seguito a ciò aprire con lui un proficuo dialogo che, qualche tempo dopo, la portò a diventare membro della Società Psicoanalitica.

In quanto ad Alfred Adler, il quale era convinto che vi fosse uno stretto collegamento tra la spinta creativa e il complesso d’inferiorità, si può mettere in correlazione il suo tipo di ricerca col suo vissuto personale. Analizzando l'evoluzione psicologica di Adler, appare chiaro che la sua teoria deriva anche dalla sua vicenda personale: infatti, quando Alfred era giovane, venne colpito da varie e gravi malattie, quali, tra le altre, rachitismo e asma, il che gli creò un "complesso d'inferiorità" che emerse soprattutto nella prima parte della sua vita. L'influenza di tale sofferenza è evidenziata sia nel tipo di ricerca condotta in seguito dallo scienziato, come anche nella teoria che Adler sviluppò. Egli difatti ritenne che vi fosse il complesso d'inferiorità all'origine di ogni nevrosi. Conoscendo i disagi giovanili di Adler, è dunque possibile associare al periodo più delicato della sua vita l'origine delle sue teorie psicologiche e il senso delle sue ricerche.

C. G. Jung, spirito sensibile e in parte anche suggestionabile, risentì molto del forte impegno psichico profuso nella sua attività di elaboratore di nuove scoperte scientifiche, tanto che egli visse in una situazione drammatica quando credette persino di udire delle voci che gli parlavano. Da questa situazione psicopatologica Jung si salvò perché immaginò di essere guidato da quella che chiamò "l'idea forte", la quale gli consentì di constatare che era stimato dai pazienti, dalla comunità e dalla propria famiglia.

La tensione psichica creativa non risparmiò gravi stress nemmeno al padre della psicoanalisi. Sigmund Freud, che era molto narcisista ed aveva un carattere accentratore, riusciva quasi sempre a contenere la sua ira quando veniva a contrasto con qualcuno, ma in tre casi, forse perché troppo travolto emotivamente, lo scienziato arrivò persino a svenire. In due di queste vicende, il fatto avvenne dopo uno scontro frontale col pupillo, C. G. Jung.

La prima volta accadde nel 1909, a Brema: i due erano a pranzo, e Jung s'intestardì a raccontare storie di cadaveri e di mummie, argomento che diede ai nervi a Freud, il quale si arrabbiò esageratamente e svenne. Quando si riprese, Sigmund Freud giustificò il suo mancamento affermando che aveva ritenuto che quell'insistente parlare di morti su cui s'era dilungato Jung, gli aveva data la sensazione che il suo allievo avesse un desiderio di morte verso di lui. Del secondo svenimento di Freud, anche questa volta la causa fu Jung. Il fatto accadde dopo che tra i due si sviluppò, durante un Congresso, una vivace discussione causata dal risentimento manifestato da Jung nei confronti del maestro perché questi non era andato a trovarlo quando andò a Zurigo per incontrare Ludwig Binswanger. Freud spiegò a Jung che se non era andato a trovarlo non era stato per scortesia, ma perché aveva avuto fretta di tornare a Vienna. Dopo quel battibecco Freud era molto scosso anche perché, poco dopo ebbe un altro contrasto con Jung e Riklin, e li rimproverò di avere divulgato alcuni articoli senza avere accennato al suo nome. Jung replicò dicendo che non gli era sembrato necessario apporre il nome del maestro, considerato quanto egli fosse conosciuto. A quel punto, Freud, tra l'imbarazzo e lo sbigottimento generale, svenne.

La terza volta Freud svenne nell'Acropoli di Atene. Questo episodio pare sia dovuto alla grande emozione avvertita dallo scienziato per essere al cospetto di quella magnifica opera del genio greco, che egli aveva tanto desiderato vedere, e forse, anche a causa dell'agitazione che comparve improvvisamente alla sua mente, sollevata, forse, per associazione d'idee, dal problematico rapporto che Freud ebbe col padre.

In realtà però si trattò di episodi marginali, che certamente non mettono in dubbio le qualità psicologiche di quel grande scienziato, ma che tuttavia sottolineano come qualsiasi personalità creativa è esposta a stress intensi, e che, a volte, vi sono incidenti emozionali che non possono essere evitati, nemmeno se si è un personaggio della levatura di Sigmund Freud.

Cesare Musatti, da grande dissacratore qual era, mise idealmente anche Sigmund Freud sul divano analitico. Musatti provava gusto non tanto nell'abbattere, quanto nell'umanizzare i grandi scienziati e mostri sacri della psicologia. Nel caso di Freud, l'averlo posto sul lettino psicoanalitico significò ben altro per Musatti: era un voler dare maggior credito alle scoperte freudiane, dimostrando che nemmeno chi ha inventato quel tipo di ricerca, come qualsiasi altro individuo, creativo o meno, può dirsi esente da un pizzico di nevrosi. Afferma E. Neumann, che nella persona creativa è presente una forte tensione psichica che fa vivere in una dimensione più ampia ma più "pericolosa". E lo psicoanalista Aldo Carotenuto aggiunge che si possono realizzare opere di valore universale solo quando si è immersi nella dimensione fantastica fino a raggiungere contenuti universali. Lo psicobiologo Freeman Dyson, una delle menti più fervide dell’University’s Plasma Physics Laboratory di Princeton ha affermato: "La nostra università è piena di pazzoidi sul punto di fare qualcosa di grandioso che passerà alla storia. Perché non si dovrebbe essere folli? La Natura è folle. Mi piacerebbe vedere più gente stramba qui all’Istituto".

 

7 Il suicidio dell’artista

Il suicidio, afferma, Claude Sigismond, è un atto denso di significati, non una malattia; è un atto umano, e può essere una fuga, un ricatto, l'espressione di un lutto, un atto disperato e persino un atto d'aggressività. Ogni uomo, afferma Sigismond, per condurre la propria esistenza appronta un certo numero di strumenti psicologici, che costituiscono il puntello e la propria strategia di vita. Quando, per caso, vengono meno alcuni (o buona parte) di questi sostegni, l'individuo avverte un senso di fallimento, che può essergli fatale. Malgrado possa sembrare assurdo, tutta l'umanità subisce da sempre il fascino malefico del suicidio. Ed è l'incapacità di capirsi, la depressione, la disperazione o i dissapori con se stesso e con gli altri, o il credere di non essere stato ben valutato, che più o meno consciamente inducono a volte a cercare "la fine". In un certo senso, vi è una subdola cultura del suicidio (come si evince dal detto: "meglio la morte che il peccato!") e inoltre vi sono anche forme mistificate di suicidio. Chi assume sostanze tossiche, dalle droghe alle sigarette, da certi anabolizzanti a sostanze micidiali per l'organismo, non cerca forse, anch'egli, consciamente o meno, il suicidio? E i kamikaze giapponesi, i Crociati che morivano in guerra "perché Dio lo vuole!", i fedayn Islamici che imbottiti di tritolo fanno esplodere la carica che hanno addosso, sicuri di finire nel giardino di Allah, non sono esempi di suicidi? E persino i "martiri", cercando di sfuggire ad una forma di vita che non accettavano, preferivano morire piuttosto che abiurare; così facendo, in sostanza, essi "lasciarono ad altri la responsabilità di por fine alla loro vita" ovverosia cercarono una forma, sebbene impropria, di suicidio.

I propositi suicidi restano, inoltre, a volte celati per anni nelle pieghe più recondite dell’animo umano. Fortunatamente, quasi sempre, si mutano in sfoghi autocommiserativi che compensano l'avvilimento causato da una sconfitta.

A volte, però, l'artista disperato che smarrisce la ragione, spinto dalla depressione, pone in atto l'insano progetto, ritenendolo utile ad evitare qualche, vera o presunta, umiliazione nei confronti del proprio talento. Ma sarebbe oltremodo azzardato indicare una connessione tra lo snervante logorio della creatività e il suicidio, anche se, tuttavia, alcuni geni si sono tolta la vita, col pretesto che gli è sfuggita la gloria, o hanno posto fine ai loro giorni come estremo atto ideologico causato dalla coscienza dell'insipienza della condizione umana.

La psichiatra americana Nancy Andreasen ha condotto un accurato studio sui parenti di trenta scrittori e artisti, confrontandoli con un gruppo equivalente di individui che non avevano legami con artisti. La studiosa ha constatato che nei ceppi familiari dei geni che presentano disordini mentali, i disturbi psichici sono frequenti anche nei parenti e, anzi, spesso, i genitori di persone creatrici, mostrano evidenti alterazioni psicopatologiche. Tanto per fare qualche esempio: due fratelli di Henry James erano malati di nervi; Theo, il fratello prediletto di Van Gogh e la sorella Wilhelmina furono ricoverati più volte in manicomio; e un altro fratello di Vincent, Gérard, si suicidò giovanissimo. Il padre di Ernest Hemingway, uno zio e una zia dello scrittore si suicidarono. Ernest Hemingway visse in bilico tra depressione e narcisismo di macho e, malgrado il profondo realismo, il senso della combattività, l’amore per la vita che si trovano nelle pagine delle sue opere, finì i suoi giorni suicida.

Forse fu la tensione emotiva, l’eterna inquietudine che egli si trascinò dalla nascita a fargli scrivere pagine bellissime, ma che fu anche la causa della sua fine. In quanto al filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, che trascorse in convento un lungo periodo di depressione, due suoi fratelli si suicidarono.

Tuttavia, se in qualche caso la depressione è il prezzo che qualche individuo paga per affinare la propria creatività, non bisogna generalizzare e ritenere il suicidio come fenomeno comune tra gli artisti e tra i pensatori. Infatti, se in alcune famiglie di artisti suicidi è stato accertato che vi erano componenti del nucleo che soffrivano di depressione, questo non autorizza ad affermare che ciò si riscontra in tutte le famiglie di persone creative. Infatti è probabile che una tendenza alla depressione e al suicidio possa rilevarsi pure in famiglie meno note, ma poiché una simile indagine, non trattandosi di casi di persone culturalmente interessanti, sfugge alle statistiche, il fatto è stato riscontrato "prevalentemente" nelle famiglie dei creativi.

E che il suicidio del creativo faccia notizia, lo si rileva anche nell'antichità. In passato, infatti, se questo insano gesto veniva compiuto da un artista era considerato quasi un symbol. Tito Lucrezio Caro e Marco Anneo Lucano si diedero la morte, e Catone Uticense, prima di darsi la morte, volle leggere alcuni passi del Fedone di Platone e poi si trafisse il petto con la spada.

E si diede la morte anche l’architetto Francesco Borromini, uno degli artefici degli splendori della Roma seicentesca, il quale si suicidò trafiggendosi con una spada. Prima di perdere definitivamente i sensi, con grande sangue freddo, l'architetto dettò ad uno scrivano, per filo e per segno le fasi del suo gesto e le sue ultime volontà. E tuttavia, prima che avesse messo in atto quella sciagurata risoluzione, nulla lasciava prevedere quel gesto del Borromini, nemmeno il fatto che di tanto in tanto l’angosciasse una fastidiosa forma asmatica, che di notte non lo faceva dormire e che frustrava la sue forze; per il resto egli lavorava sodo, con fervore e con ingegno, anche se, negli ultimi tempi, era ossessionato da funesti pensieri e da una strana forma di gelosia per le proprie opere.

Nella seconda metà del ‘700 si suicidò, a diciassette anni, il poeta Thomas Chatterton, e si diede la morte un altro poeta, il quarantacinquenne Thomas Lovell Beddoes, eccentrico e stravagante personaggio della prima metà dell’Ottocento,

Macabro fu il suicidio di Gérard de Nerval, scrittore forse poco conosciuto agli inizi dell’Ottocento, ma apprezzato in seguito dai surrealisti e valorizzato anche da Marcel Proust. Gérard de Nerval, a causa della sua depressione, in un primo tempo venne rinchiuso in una clinica. In seguito, dopo essere stato dimesso, egli si tolse la vita in un modo grottesco: venne ritrovato appeso con una corda al collo alle sbarre di una finestra in un sordido vicolo di Parigi, con un cappello a cilindro ben piazzato sul capo.

Lo scrittore surrealista René Crevel, animo tormentato e artista di talento, del quale rimangono personaggi tragici, scarni, allucinati, al pari della sua stessa conformazione psichica, dopo una drammatica esistenza, "trovò pace" togliendosi la vita. A molti surrealisti il suicidio sembrò quasi una conclusione obbligata. Uno di essi, Jaques Rigault scrisse, prima di metterlo in pratica, che "il suicidio è una vocazione". Il suo gesto venne copiato da altri "colleghi" surrealisti, come Drieu La Rochelle e Jacques Vacché. Qualcuno ha voluto trovare nell’ideologia stessa del surrealismo la coscienza del vuoto che porta all’abisso della fine, in quanto, come sosteneva Paul Valery, il surrealismo edifica per abbattere, e crea personaggi allucinati che si specchiano nel nulla. E fu la straziante incomunicabilità che spinse il poeta Vladimir Majakovskij al suicidio. Il poeta russo cercò di farsi apprezzare nella sua terra, ma, paradossalmente, ritenne di essere sempre più artisticamente lontano dalla comprensione dei suoi concittadini. Inoltre, a indurlo a quel folle gesto, contribuì anche il fatto che non poté rassegnarsi ad essere stato abbandonato dalla sua Lili Brik.

La commistione romantica tra creatività e amore infelice, è una miscela esplosiva in ogni tempo. Il giornalista Jean-Louis Bory del Nouvel Observateur, quando aveva trent'anni, ammise in una intervista che da giovane aveva rischiato il suicidio per un mal d’amore, gesto che non evitò, quando ne aveva sessanta, perché, depresso, s'era messo da parte e non era riuscito più ad interessare la giovane Bory, con la quale era vissuto alcuni anni e che lo aveva lasciato essendo stanca dei suoi continui malumori.

Ma ciò che può indurre l’artista alla rottura con la vita dipende da varie circostanze: il cantautore Luigi Tenco si suicidò per non aver avuto successo al Festival di Sanremo. "Morire è meno faticoso, meno snervante e fa soffrire meno" aveva detto sotto l'effetto dell'angoscia del perdente, Luigi Tenco. Tentarono di togliersi la vita, per lo stesso motivo, anche Anna Identici e Armando Stula. Uguale sorte quella di Iolanda Gigliotti, Dalida, che si suicidò nel 1987, a cinquantaquattro anni, dopo tanti successi, forse perché ossessionata dalla paura di diventare grassa, ma soprattutto perché temeva d'apparire sorpassata. Nel 1972 si suicidò Henri de Montherlant, scrittore membro della Accadémie française, perché paventava di diventare cieco.

Per essere stato bocciato dagli editori o dal pubblico, si tolse la vita lo scrittore Guido Morselli e lo stesso motivo indusse al suicidio lo scrittore Franco De Longis, il quale, dopo avere pagato, invano, pagine e pagine di giornali italiani e stranieri, per pubblicizzare il suo romanzo Il cerchio, non riuscì mai a piazzare la sua opera. E forse fu proprio a causa dei dissapori con l’editore e con i critici, che si suicidò l’autore di Il maestro di Vigevano, Lucio Mastronardi. Identica fine quella del drammaturgo Heinrich von Kleist le cui delusioni per i mancati successi artistici, si sommarono alle angosce esistenziali, fino a indurlo, ineluttabilmente, al gesto disperato, che compì assieme alla sua fedele amica Henriette Vogel.

Emilio Salgari, invece, pose fine ai suoi giorni per un motivo del tutto indipendente dalla sua professione: egli era affranto e desolato per ricovero improvviso della moglie in manicomio. E fu anche fortemente turbato dalla morte della moglie, l'antropologo Géza Róheim, studioso che applicò la psicoanalisi alla comprensione delle culture umane. Egli, in pratica si lasciò morire, non essendosi più ripreso dal dolore per quel lutto. Lo scrittore Jack London, che ha affascinato con i suoi romanzi d'avventura generazioni di lettori, si diede la morte a quaranta anni.

Spesso, al suicidio, qualcuno arriva per gradi, o dopo tentativi, come accadde al poeta operaio ungherese Attila Jòzsef e allo scrittore russo Sergej Esenin. In qualche caso, invece, è paradossalmente l’arrivo del successo inaspettato, come nel caso dello scrittore Carlo Michelstaedter, che produce un crollo emotivo che porta all’insano gesto. Altre volte, è il drammatico passato, mai "metabolizzato", che induce a spezzare il cerchio angoscioso e insopportabile, come nel caso di Primo Levi, il quale fu travolto dalla ineliminabile, dolorosa sindrome dell’olocausto.

In quanto allo scrittore giapponese Yukio Mishima, dopo avere affrontato nei suoi libri le passioni più torbide dell’umanità, scelse il suicidio come fuga dalla ipocrisia della vita. E il regista James Whale, ossessionato dalla incipiente vecchia, si tolse la vita a 68 anni, perché abbandonato dal suo ultimo amore, il venticinquenne attore Pierre Foeghel. Akira Kurosawa, il grande regista giapponese, tentò il suicidio dopo l'insuccesso commerciale di Dodes'ka-den, il film che ritrae la società giapponese odierna, soprattutto quella composta dagli emarginati. L'opera, non compresa dal grosso pubblico e osteggiata dalla critica fu un fallimento e il regista, dopo il tentativo di togliersi la vita, profondamente depresso, rimase in disparte per cinque anni.

In quanto a Virginia Woolf, molto probabilmente, ella fu stimolata proprio dalla problematicità esistenziale, che accompagnava la nevrosi di cui era affetta, a scrivere opere di grande levatura letteraria. Ma quella insopportabile tensione fu forse lo stimolo che la indusse a porre fine ai suoi giorni. Anche la settantenne Elsa Morante, costretta per molti mesi a letto dopo essersi rotto il femore, depressa ed avvilita a causa di un improvviso peggioramento delle sue condizioni, tentò il suicidio aprendo il rubinetto del gas. Tentò il suicidio, perché più volte ferita nell'orgoglio, anche una scrittrice femminista e contestataria, Mary Wollstonecraft, la quale si gettò dal ponte Putney nel Tamigi, e venne salvata a stento da alcuni pescatori.

La malinconia ha distrutto un artista di talento come Nino Ferrer, indimenticabile interprete di tante canzoni. Egli si era ritirato nel Sud della Francia, aveva preso a dipingere, stava scrivendo la sua biografia, e ad un tratto, senza lasciare qualche rigo di commiato alla moglie, con un colpo di fucile alla tempia mise fine alla sua esistenza. E nemmeno dello scrittore Arthur Koestler, che si suicidò a Londra, si conoscono i motivi di quel gesto. A quel tempo Koestler era ancora uno scrittore di successo e, in apparenza, aveva avuto tutto dalla vita. Forse il movente che lo spinse a porre fine ai suoi giorni, secondo alcuni, deriverebbe dal fatto che lo scrittore coltivava "particolari" propensioni sessuali e, in ogni caso, Koestler sicuramente perse la tramontana a causa dell’eccesso nel bere. Si suicidò anche lo scrittore peruviano José Maria Arguedas, con un colpo di pistola alla tempia. Prima dell'insano gesto scrisse un toccante biglietto che fece recapitare al rettore della facoltà dove insegnava: "Me ne vado perché sento di non avere più l'energia e l'ispirazione sufficiente per continuare a lavorare, vale a dire per giustificare la mia stessa vita"

Nella metà del Novecento, morì suicida anche il pittore di origine russa, Nicolas de Staël, che da Pietroburgo era emigrato prima in Polonia e poi s'era stabilito ad Antibes, ove aveva ottenuto la cittadinanza francese. De Staël fu un animo tormentato: le sue ricerche cromatiche, la tecnica del colore saturo di luce, furono ritenute tra le più interessanti della pittura contemporanea e tuttavia ritenendo di non essere sufficientemente apprezzato, caduto in depressione, si tirò un colpo di pistola. Anche un altro pittore, più o meno in quel periodo, Sergio Romiti, che era entrato in "rotta di collisione" con i critici perché non l'apprezzavano, dopo aver smesso di dipingere per alcuni anni, travolto da una delle sue crisi depressive, a 72 anni mise fine anch'egli alla ossessiva necessità di essere valutato come grande artista.

E suicidio sensazionale fu quello dello scrittore Otto Weininger che a ventitré anni pose fine alla sua esistenza, sparandosi platealmente nella stanza dove, tanti anni prima, era morto Beethoven. Il clamore di quel gesto contribuì ad aumentare vertiginosamente le vendite di Sesso e carattere, opera che egli aveva da poco dato alle stampe. Suicidi "eccellenti" furono anche quelli del pittore Richard Gerstl, dello scrittore Stefen Zweig, del poeta Josef Weinheber.

Il fondatore del positivismo, Auguste Comte, a 28 anni, manifestò crisi di malinconia e deliri di grandezza, tanto da dover essere internato. Egli tentò due volte di togliersi la vita, e la seconda volta addirittura dopo la dimissione dall'ospedale del dottor Esquirol. Anche Guy de Maupassant cercò, ma senza esito, di porre fine ai suoi giorni; e ci provarono, ma non vi riuscirono, lo scrittore Henry James e il filosofo Ludwig Wittgenstein.

Una vita alla ricerca della bella morte, fu quella dello scrittore Antoine de Saint-Exupéry, il cui presentimento-desiderio era di entrare nella leggenda con una fine che facesse scalpore. L'attore hollywoodiano James Cardwell, dopo un lungo periodo di depressione dovuta all'insuccesso di alcuni film nei quali non brillò particolarmente, si suicidò. La stessa sorte ebbe l'attore Grant Withers, che si suicidò a causa del fallimento della sua carriera.

Una nutrita casistica di suicidi la troviamo anche tra le scrittrici: Mary Shelley, Virginia Woolf, la russa Marina Cvetàeva, le poetesse Anne Sexton e Sylvia Plath, ed anche tra le attrici: Daniela Rocca, Diane Arbus, Jeanne Seberg, Margaret Sullivan, Peg Entwistle, Carol Landis, Anna Maria Pierangeli, Margaux Hemingway. Inoltre posero fine ai loro giorni la cantante Mia Martini e la francese Jeanne Hebuterne, pittrice di un certo talento, e giovane compagna di Amedeo Modigliani, che si gettò dalla finestra il giorno dopo la scomparsa dell’artista italiano.

Al dramma del suicidio non sono sfuggite nemmeno personalità che, per la loro professione, si sarebbe ritenuto che fossero immuni da questo tipo di pulsione. A metà del XX secolo, lo psicoanalista Paul Federn, autore di un trattato fondamentale sulle psicosi, affetto da un cancro alla vescica, preso dal panico, e temendo di dovere soffrire fisicamente, si suicidò. Vittorio Benussi, uno dei primi psicologi italiani morì suicida, così come, molti anni dopo, anche lo psichiatra e psicoanalista, Bruno Bettelheim, che, colto da crisi depressiva, pose fine alla propria esistenza. Si suicidò anche il sociologo Jacob Levy Moreno, l'inventore dello psicodramma, perché ormai si riteneva un malato inguaribile.

Nessuna malattia pare che affliggesse Alan Mathinson, matematico e filosofo inglese, che tuttavia decise di suicidarsi senza scrivere un rigo di spiegazione e senza che nessuno mai avesse potuto prevedere quel gesto.

Spesso è l’età avanzata che induce gli artisti a porre fine alla loro vita. Così fecero l’attore Charles Boyer, a 78 anni, l'attore George Sander, e il pittore Bernard Buffet, uno dei protagonisti della stagione dell’esistenzialismo, che troncò la sua esistenza a 71 anni.

Imprevedibile anche il suicidio del novantaduenne filosofo Roberto Ardigò, uno dei più significati rappresentanti del positivismo. L’editore Fortunato Formìggini, amareggiato dagli ostacoli frapposti alle sue iniziative editoriali, concluse a sessanta anni, con un tragico gesto, la sua vita gettandosi dalla torre della Ghirlandina a Modena; e a 67 anni, pare per motivi sentimentali, si è suicidato l’attore Luigi Pistilli.

Qualche artista, dopo aver bruciato la propria vita nel vano tentativo di appagare la propria ansia creativa, trova nel suicidio il gesto che mette fine alla logorante, tragica solitudine dell'essere un genio. Una conclusione, questa, tragicamente suggestiva e poeticamente romantica, che si evidenzia in un certo numero di suicidi tra i creativi, e che può far ritenere sia un gesto alquanto comune nell’ambiente dell’arte; ma in realtà, il suicidio dell’artista, non è un evento più frequente di quello che si registra che fra la gente comune.

Chi ritiene che l’artista sia più portato al suicidio dell’uomo della strada, sostiene che ciò dipende dalla tensione creativa, che sarebbe la via privilegiata per arrivare alle vette supreme, ma che corrode il sistema nervoso, e sarebbe anche causato dalla spasmodica competizione che s'innesca tra l'intellettuale e i suoi concorrenti.

Forse a causa di una visione più acuta della realtà, forse per quel navigare al disopra delle nuvole, che fa apparire tragica e magari strampalata la vita delle creature sovrane. Ma si tratta quasi sempre, invece, di individui le cui energie mentali tendono ad ottenere una comprensione della vita più ricca, più sensibile, più carica di esperienze. Probabilmente è inutile, se non impossibile, cercare un paradigma filosofico che possa inquadrare tutte le motivazioni del suicidio. In ogni caso, però, se si possono trovare mille giustificazioni e mille pretesti, difficilmente si può affermare che sia una costante tendenza degli artisti, sebbene, come s'è visto, vi siano vari esempi di personalità creative morte suicide.

 

8 Conclusioni

Forse è ipotizzabile che follia e genialità abbiano alcuni percorsi mentali comuni. Anche sul genio incombe, come a ristabilirne l’umanità, la spada di Damocle della stravaganza che, in verità, è uno stato particolare, diverso dalla psicopatologia, ma è una inquietudine che rende la sensibilità del creativo ineguagliabile.

Il poeta Novalis affermava che solamente colui che ha un animo profondo può scivolare nella follia. Secondo Novalis, la pazzia geniale non è quasi mai disordine delle idee, incoerenza, rottura con la realtà; essa è sofferenza che produce fantasie, esplosioni creative, innovazioni, eccezionali fantasticherie e, in qualche caso, esaltazioni narcisistiche. J.P.Sartre, scrivendo la vita di Jean Genet, affermò (forse un po' troppo drasticamente): "il genio non è un dono innato, bensì la via di uscita per certi individui disperati"

"Pazzo e cane senza padrone e mostruoso", si definiva Pier Paolo Pasolini, testimone sperduto per le strade della periferia romana, in preda ad una situazione d’angosciosa estraneità. Provocatore, pubblico accusatore, critico acuto e spietato, condusse una genere di vita che finì col portarlo in un vicolo cieco nel quale trovò la morte.

Scrisse Joseph-Ernest Renan che la storia dell’umanità dovrà essere esaminata attraverso lo studio delle umane follie, dei sogni e delle allucinazioni che si ritrovano in ogni pagina dello sviluppo dello spirito individuale e collettivo.

E Giovanni Cassano riporta un lungo elenco di artisti, scrittori e gente di spettacolo affetti da turbe psicologiche, da angosce, da distimie, da depressioni. Lo stesso Cassano ricorda il parere del dottor Louis Bertagna, molto noto in Francia come lo psicoterapeuta degli artisti, il quale afferma: "di fatto non esiste un solo essere eccezionale che non faccia almeno una depressione".

E tuttavia, in qualche caso, quando la fatalità colpisce l’uomo di genio, sebbene a volte si tratti delle stesse disavventure che capitano anche ai più, di tali accidenti egli ne approfitta per farne materia della propria arte. Le migliori sinfonie Beethoven le scrisse negli anni della sua disperazione dovuta al sopraggiungere della sua più assoluta sordità, ed Haendel, quando divenne cieco, disperato e quasi ammattito per quella infermità, intensificò la sua produzione.

La follia colse Torquato Tasso quando aveva trentacinque anni. Il poeta, visse la sua esistenza in preda a squilibri psicologici, fino al contrastato amore per Eleonora D’Este, sorella di Alfonso d’Este, che era il suo munifico pigmalione; una passione, quella per Eleonora, che si rivelò nefasta, perché, sentendosi colpevole di "tradimento", il poeta provò un forte ansietà e, temendo la persecuzione perché si credeva mal gradito dal Duca Alfonso, fu colto da un tale accesso di demenza furiosa, che venne imprigionato; e tuttavia, dopo un primo momento di sbigottimento, si mise a scrivere e così il dolore del poeta si tramutò in opera letteraria. Lo psicoanalista Hans Sachs, che studiò i fondamentali problemi dell'estetica, ne L'inconscio creativo sostiene che la fonte della creatività è l'inconscio, il quale sarebbe il punto di partenza di ogni produzione artistica. Ma la creatività rappresenta un'arma a doppio taglio; perché sono tante le creature che nutrono o hanno nutrito sogni di gloria e speranze di notorietà, che hanno lottato con tenacia per emergere e per dominare; ma le loro biografie sono, a volte, cosparse d’insensatezze, di gesti squilibrati che segnalano più che il naufragio della ragione la resa davanti alla complessità dell'essere.

Gli uomini e le donne dall’ingegno vigoroso e poliforme, che emergono dalla moltitudine per creare un capolavoro o per formulare teorie innovative, a causa delle continue tensioni emozionali e creative, sono creature "a rischio", e il loro destino è in bilico tra le scoperte titaniche e il precipizio della alienazione.

Ma esistono limiti di sicurezza, nello sforzo della creazione, al di là dei quali il pensiero può perdersi? La sofferenza psichica che l’artista subisce nel momento della creazione quando oltrepassa il livello di guardia, può produrre disturbi psichici? Oppure il genio è genio proprio perché ha superato la soglia di sicurezza?

Forse, non vi è creatività senza angosce, senza sofferenze, senza rischi, senza inevitabili ferite nell’animo. "Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non di fatto, per uscire dall’inferno" ha scritto il poeta e regista Antonin Artaud.

Da uno studio degli psichiatri Hagop e Kareen Akiskal, che lavorano a S. Diego (California), condotto su venti scrittori, poeti e scultori europei, si rileva che i due terzi degli individui intervistati presentavano tendenze ipomaniache o ciclotimiche, e molti di essi avevano avuto più o meno gravi forme di depressione.

Secondo Freud esistono molti individui geniali che hanno gravi squilibri psichici ma ne esistono di quelli che possono essere definiti assolutamente normali. I primi, secondo lo psichiatra viennese, sono avvantaggiati dalla parte rimasta intatta delle loro personalità, e riescono ad essere creativi "nonostante" la loro struttura nevrotica o psicotica, gli altri, invece, sono creativi, proprio perché non hanno nessuna parte alienata nella loro struttura psichica.

Schopenauer era del parere che il genio vede le cose in maniera diversa da tutti gli altri. A. H. Maslow ritiene che la persona creativa sia un tipo particolare e speciale di essere umano che deve essere considerato nel suo complesso e non frammentariamente.

Sul problema dunque, se vi sia una correlazione tra intelligenza e creatività, gli studiosi non sono tutti d’accordo. Secondo Silvano Arieti benché le persone creative siano intelligenti, un quoziente intellettivo eccezionalmente alto non è essenziale per la creatività.

Bisogna inoltre tenere presente che la possibilità concreta di scoprire le pieghe più recondite della mente e della struttura empatica di un artista o di un inventore non sempre è esente da errori e da arbitrii d’interpretazione, soprattutto quando si tratta di analizzare artisti del passato. L’interpretazione psicologica di una personalità di questo genere dipende dalla quantità e dalla qualità delle notizie che si possono avere sulla sua vita, oltre che dall’analisi delle sue opere. Walkup, sottolineando forse troppo l’importanza della visualizzazione dei creativi scientifici, arrivò a dire, senza solide basi, che i grandi pensatori nel campo della scienza hanno una immaginazione visiva quasi allucinatoria. Cesare Lombroso, cercò di provare che molti geni avevano avuto gravi malattie mentali, ma per molti casi da lui riferiti è ben difficile essere certi che si trattasse di psicosi e non di "stranezze" da creativo. Lombroso infatti pose troppo l’accento sulle qualità negative dei grandi uomini e, nel suo trattato sul genio e la pazzia, accomunò Molière, Händel, Petrarca, Flaubert, Ampère, Comte, Pergolesi, Donizetti e tanti altri in quadri clinici di conclamate neuropsicosi.

A. C. Jacobson, sostiene invece che i tratti patologici ostacolano la creatività e che le persone creative che ne sono affette producono le loro opere migliori nei periodi in cui sono più sani. Ma è pur vero, come afferma un allievo di George Devereux, François Laplantine, che dipende dalle varie culture decidere chi è pazzo e chi non lo è.

Anche Havelock Ellis, studiò il rapporto tra creatività e follia attraverso un considerevole materiale biografico (lettere, manoscritti, racconti di terzi) e le opere di molti autori, trasse la conclusione che, sebbene il genio sia a volte anche un po’ folle, non si può sostenere una teoria che ritenga la genialità una forma di pazzia.

I quadri di Salvator Dalì, per esempio, fanno scoprire, così come i suoi scritti, i tratti di una personalità geniale, anche se un poco matta: "… tutti gli uomini sono uguali nella loro pazzia, … la pazzia costituisce la base comune dello spirito umano", afferma il grande pittore spagnolo che certo non può essere considerato matto, sebbene, come egli stesso ha scritto, anch'egli aveva una sua "paranoia personale".

La chiave di lettura del processo creativo, e forse della vita in sé, molto probabilmente è quella che ci fornì proprio Salvator Dalì, il quale la racchiuse in un concetto abbastanza semplice: "se non sei un po' matto, in questo mondo finirai con l'impazzire".

 

9 Sommario

Alcuni grandi ingegni hanno attraversato, in vari periodi della vita, gravi crisi esistenziali. Rimbaud, Burns, Kafka, Scheber, Althusser, Burrougghs, Van Gog, e altri hanno avuto drammatiche difficoltà psichiche, ma molti di essi, fortunatamente, ne sono venuti fuori utilizzando la creatività come deterrente contro l’angoscia. Il genio, sia esso un letterato, un filosofo, uno scienziato, o un artista, poiché vede il mondo in maniera diversa dagli altri, soffre maggiormente le incongruenze e le insufficienze del suo tempo. E sebbene ciò gli dia la possibilità di anticipare nuovi modelli e magari di essere un rivoluzionario, tuttavia, questa esperienza lo rende e lo fa sentire differente dalle persone comuni.

La letteratura, il teatro il cinema e le arti figurative descrivono la drammaticità della vita tenendo sempre presente l'alienazione che si trova in molte circostanze della vita. E così, dai personaggi come Don Chisciotte, Re Lear, Enrico IV, Achab, Dinorah, Lucia di Lamermour, Medea, Grieta e tantissimi altri usciti dalla fervida fantasia di scrittori, musicisti, pittori, impariamo che la logica può contenere anche un pizzico di insensatezza, così come la follia può racchiudere una punta di ragione. E questo connubio intrigante tra creatività e follia, tra razionalità e assurdità, non solo ha prodotto suggestive opere d'arte, ma ha anche fatto comprendere che un pizzico di follia è inevitabile in molte circostanze della vita.

Summary

Some people of great genius have suffered existancial crises during their lives.

Rimbaud, Burns, Kafka, Scheber, Althusser, Burrougghs, Van Gog and other have had severe psychological difficulties. Many of them were able to overcome their problems using creativity as a remedy against existential anxiety. The genius, whether phylosopher, scientist or artist suffers greatly the incongruent aspect of his time because is able to observe the world in an unconventional fashion. Although the genius is often an innovator, and revolutionary thinker,his uncommon experience of the world makes him/her feel different from the common people. Literature, theatre, cinema, and all liberal arts describe the drama of life as the alienation inherent to many events of daily living. When we read of Don Quijote, King Lear, Enrico IV, Achab, Dinorah, Lucia di Lamermour, Medea, Grieta and many others described by writers, musicians, painters we learn that logic thinking may include a bit of nonsense, as well as madness may contain aspects of reason. The intriguiging coupling of creativity and madness, of rationality and absurdity produced interesting works of art but let all of us aware of the inevitable madness of many life circumstances.

 

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IL  VIDEO NELLE TECNICHE DELL’EDUCAZIONE E DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA E PSICOSOCIALE

 

Ricerca clinica e  possibilità terapeutica

 

A partire dal 1882, nella  clinica di Charcot, all’ospedale della Salpêtrière di Parigi, il dottor Albert Londe, su espressa indicazione del grande psichiatra francese, fotografò i malati di mente.

L’intuizione  di Charcot di  fotografare i degenti durante tutto il periodo di ricovero fu una vera rivoluzione perché  l’immagine fotografica migliorava l’informazione nei riguardi del malato:  si potevano  visionare  e confrontare  immagini relative ai vari periodi di degenza e avere così un quadro nosografico più completo.

Le fotografie scattate in quel periodo sono un testimonianza importante perché, a quell’epoca, la malattia psichiatrica  era  relegata in un “cantuccio” e ritenuta un dramma infamante di cui vergognarsi. La raccolta fotografica voluta da Charcot assume così, oltre che il  valore di strumento di indagine scientifica, anche quello di una documentazione storico-nosografica  sulla condizione della follia tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo.

Con l’avvento della videoregistrazione computerizzata, diverse strutture universitarie stanno sviluppando progetti di ricerca che uniscono  gli sforzi degli psichiatri e dei neurologi con quelli dei programmatori di software per costruire piattaforme virtuali in grado di trovare soluzioni alternative da utilizzare per alcuni disturbi come le fobie, gli stati ansiosi, e patologie similari. Una équipe di psichiatri, assistiti da  ingegneri informatici, stanno studiando, nel Dipartimento di Psichiatria di Chapel Hill (Usa), la possibilità di realizzare software per  ambienti virtuali tridimensionali “molto semplici” e perciò idonei a mettere a proprio agio i  bambini autistici, i quali potrebbero imparare ad utilizzare  con un videocasco  gli oggetti virtuali, primo passo per potersi  in seguito “mettere in contatto” con quelli reali.  

Anche nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Catania, la tecnologia video comincia a svilupparsi, grazie alla iniziativa del Prof. Vincenzo Rapisarda che, affiancato da una équipe di medici psichiatri e di specializzandi,  intende sperimentarla, insieme alla tecnologia  multimediale, come mezzo diagnostico e riabilitativo.
Nell’Istituto universitario catanese si trovano già attrezzature sofisticate; una di queste è il casco-video-virtuale che, unito al computer e a software dedicati può “riprodurre” situazioni che possono aiutare i pazienti  ad affrontare certi tipi di disturbi.
Con la ripresa video, inoltre,  è possibile creare un archivio delle varie comunicazioni verbali e non verbali dei pazienti, il che può dare un quadro esaustivo dei loro disturbi. Le  “annotazioni” , memorizzate  nel supporto magnetico o nel computer, permettono di studiare  mimica, espressioni verbali e non verbali, stati d’animo e comportamenti che possono consentire, in seguito, un’ accurata indagine  psicopatologica .

Tuttavia, è importante che il “caso” venga ripreso  senza forzature  e che il procedimento narrativo comprenda anche i momenti di stasi psicopatologica oltre a quelli di alterazione.

In ogni caso le immagini devono essere  “leggibili”,  per chiarezza ed espressività,  in modo da mostrare tutta la  multiformità degli aspetti psicopatologici. Il paziente che viene ripreso dalla telecamera, si sente gratificato e  si rende disponibile: ciò concorre alla riuscita dell’operazione videografica.

Premesso che, ovviamente, non è possibile “fare miracoli”, tuttavia, l’immagine video si può collocare anche tra gli interventi riabilitativi perché, col mezzo audiovisivo, il paziente esprime il proprio vissuto emozionale, fissando gli aspetti della realtà che lo interessano e  sottolineando i disturbi che lo affiggono.  Nell’autosservazione, le capacità di riflessione aumentano e si creano anche  procedure terapeutiche utili.

Con  più sedute di ripresa la variegata sintomatologia evidenzia sia il  percorso patologico che quello terapeutico. I disturbi da attacchi di panico, i tic, l’agorafobia, la claustrofobia, ripresi col mezzo video e presentati al paziente che ne è affetto, gli  consentono di  esaminare la propria patologia e di fissarne gli aspetti più salienti in modo obbiettivo e distaccato,  dandogli indicazioni utili  per affrontare il problema. La video ripresa serve anche a migliorare la partecipazione alla vita di gruppo. E particolare rilievo hanno, nella psicoterapia della famiglia, le immagini registrate delle sedute, perché mostrano “con obbiettività” le interazioni tra familiari,  pazienti e terapeuti.  Nel rivedere la dinamica della seduta tramite i  filmati, pazienti e familiari sono spesso in grado di prendere coscienza dei loro coinvolgimenti psicologici. E anche i terapeuti, in tal modo  possono gestire in maniera  più corretta  il training  e   riconoscere i propri eventuali  errori.

L’immagine visiva evidenzia meglio le manifestazioni non verbali della comunicazione intersoggettiva, e fa scoprire i messaggi che il soggetto invia attraverso il proprio corpo, messaggi che, rivedendo la ripresa, lo stesso paziente può percepirli chiaramente e in modo cosciente.

Come accade per una partita di calcio, osservata alla moviola, il rallenty fa cogliere  sfumature che in “diretta”  sfuggono;  e il  paziente, dalle proprie manifestazioni sintomatiche, può individuare in modo realistico i propri disturbi e arrivare ad un un certo insight ; il ché  gli consente tra l’altro di trovare il modo migliore di gestire e forse anche di imbrigliare la propria psicopatologia. 

Confrontando in fine le riprese girate durante tutto l’arco della terapia, si può capire meglio l’evoluzione e l’andamento del disturbo nel paziente.

Sarà anche il caso di riprendere le attività ricreative come il canto, la pittura,  la recitazione, la danza, attività che impegnano i pazienti in una serie di esercizi e mansioni  che  distolgono l’iter parassitario della loro mente e che  fungono da cartine di tornasole per evidenziare i lati più fragili e sensibili delle  loro personalità. Filmare queste attività, significa avere la possibilità di studiare meglio il paziente e perché ciò avvenga nel migliore dei modi, è necessario che il paziente sia libero di esprimersi e di “impersonare” il ruolo che più gli è congeniale.

Lo psicodramma, utilizzato a fini terapeutici, serve a far esprime liberamente le ostilità, le paure, le tendenze nascoste, fungendo  da terapia abreativa.  E poiché non sempre, durante la recitazione, il soggetto arriva all’insight, solo  rivedendosi sullo schermo potrà assaporare con senso critico il proprio  vissuto scenico.

Nel rivedere il modo come canta, nell’analizzare la propria recitazione e i propri esercizi fisici,  il paziente può migliore la comprensione del proprio sé,  può valutare la propria mimica, la propria gestualità e arrivare ad un’esperienza che, senza l’immagine registrata, gli sarebbe certamente mancata.

Sarà fruttuoso registrare, come ulteriore fonte di indagine clinica, anche le reazioni, i  silenzi,  i giudizi che il  paziente esprime  osservando la propria immagine sul televisore.

I soggetti che presentano  disturbi  nella sfera dei rapporti con gli altri, spesso ignorano l’entità della propria patologia; ed è con la ripresa video, che si possono rendere conto del grado della propria incomunicabilità. L’immagine video, stimolandoli a prendere coscienza e a riflettere sulle loro incongruenze; alla fine  potrebbe essere un utile insight per migliorare le relazioni di gruppo.

Non bisogna però  focalizzare  i difetti, ma occorre che sia il paziente a rilevarli  anche perché, altrimenti, potrebbe sentirsi “accusato”, scoraggiarsi  ed abbandonare l’esperimento.

Poiché ogni linguaggio “tradisce” la mentalità, il modo di vivere e persino le pieghe più recondite dell'animo, stimolando i pazienti  ad utilizzare essi stessi il mezzo video, essi manifesteranno gusti e  scelte che fungeranno da utile strumento diagnostico e terapeutico. 

Infatti, dal tenore delle riprese girate dal paziente si può capire se egli è timido, voyeurista, sentimentale, narcisista o ossessivo.  L'immagine è linguaggio comunicativo dai grandi poteri semantici ed è  perciò un importante strumento  di metaforizzazione della realtà.

Infatti, analizzando, per esempio,  le foto di Charles Lutwidge Dodgson  (in arte Lewis Carroll) incentrate  su immagini di bambine, emerge il disagio del puritano matematico nei confronti della sessualità e si comprende la scissione del suo Io, sempre diviso tra erotismo e religiosità. Facile è pure intuire, dalle foto scattate da Wilhelm von Gloden, che fotografò molti efebi, le tendenze di quel barone fotografo, il cui studio taorminese fu l'apoteosi della sua omosessualità.

Sull’uso della telecamera da parte dei pazienti, il concetto base è che  nel momento in cui  diventano fruitori attivi del processo creativo, il loro filmati diventano espressione delle loro esigenze ed inoltre servono loro anche per capire  i loro stessi disturbi.

 

 

Professionalità nell’ulitilizzo della ripresa video a fini clinici e rieducativi

 

Bisogna tenere presente che è inevitabile e necessaria  una certa  competenza  nel campo della videoripresa e del montaggio, perché nulla è  più banale che pensare di ignorare la grammatica fotografica. Infatti se chi riprende non ha alcuna idea né della tecnica né di ciò che vuole ottenere, il risultato  finale è  la saga del kitsch.

Lavorando con la telecamera bisogna evitare la pigrizia mentale e  fruttare al massimo  la creatività; non riprendere immagini confuse, disordinate e poco chiare che impediscono una lettura corretta del filmato.

Anche se non si richiedono  risultati da opera d’arte, tuttavia non  bisogna nemmeno essere sgrammaticati.

Perché la ripresa sia corretta, l’operatore dovrà sfruttare l’illuminazione, saper registrare il sonoro con più soggetti e avere rudimenti tecnici di montaggio, adoperare le apparecchiature con familiarità, senza tentennamenti e, soprattutto,  prevedere il risultato finale, poiché, dominando  il mezzo tecnico, si può fronteggiare qualsiasi situazione.

Importante è anche l’approccio col soggetto, il quale  deve essere sempre messo a proprio  agio. Infatti, al cospetto della telecamera chiunque tende a  irrigidirsi e ad assumere pose innaturali;  ma quando si instaura un clima favorevole, le riprese  procedono senza troppi intoppi, soprattutto  se non si utilizza il mezzo video in maniera “aggressiva”.

Nell’insegnare ai pazienti ad usare la telecamera bisognerà spiegare che è uno dei mezzi di espressione più completi, e che, pertanto, non dev'essere banalizzato. In questo senso, sarà pedagogica e riabilitativa una opportuna  alfabetizzazione video, che insegni ad usare la telecamera così come si insegna a scrivere.

Affrontare la realizzazione di un'opera videografica significa apprendere  la recitazione, la gestualità, il gusto dell'inquadratura, la connessione tra musica e stati d'animo, l'atmosfera, il ritmo della narrazione, il dialogo etc.

Si possono girare piccoli filmati, assegnando ai pazienti brevi parti; e sarebbe opportuno che i pazienti  partecipassero a tutte le fasi della lavorazione e fossero presenti anche durante il montaggio: tutto questo lavoro di gruppo sarà utile alla socializzazione e ai rapporti interpersonali.

Facendo in modo che siano anche  i soggetti ospedalizzati a filmare qualche scena, si  stimoleranno, oltre le loro capacità creative, quelle cognitive e  mnemoniche e ciò farà loro comprendere l'ambiente, la natura e la società in cui vivono.

Vale la pena di togliere i pazienti dalle ruminazione sterile,  eliminare la loro noia, mettere in moto la loro fantasia. Forse non tutti gli ospedalizzati saranno in grado di portare a termine il progetto, ma sarà stato sempre utile tentare di migliorare le loro capacità. 

Dare credito alle qualità personali del paziente affidandogli la realizzazione video, significa anche  ricostruire la sua autostima, spronarlo ad avere   fiducia in se stesso, cancellare una parte la sua emarginazione e mostrare che può essere capito, stimato e trattato come “persona”.

 

 

 

Riassunto

 

L’idea iniziale di Charcot di fotografare i degenti dell’Ospedale della Salpêtrière per avere un quadro nosografico-storico relativo a vari periodi  di degenza ha posto le basi  per ampliare gli spazi di utilizzo delle immagini. In seguito, col migliorare delle tecnologie fotocinevideo esse sono state adoperate non solo a fini diagnostici ma anche  a fini terapeutici.

Un progresso ulteriore è rappresentato dalle  registrazioni visive ed auditive dei comportamenti dei malati, che  consentono agli operatori psichiatrici un più attento esame delle variegate sintomatologie. E così, grazie alle nuove tecnologie, si possono aiutare i pazienti ad affrontare alcuni disturbi  di carattere psicologico e psichiatrico.  

Trattandosi di  nuove sperimentazioni, è inevitabile che gli operatori  del settore psichiatrico, che intendono servirsi di queste nuove strategie terapeutiche, debbano avere una certa competenza delle nuove tecnologie. Infatti, senza un corretto approccio con le apparecchiature,  i risultati  potrebbero essere scarsamente utilizzabili.

Inoltre, il consentire l’uso della telecamera ai degenti che sono in grado di farlo, mette in moto un processo creativo-abreativo molto utile sia ai fini diagnostici che terapeutici.

 


Abstract

 

 Charcot’s starting idea  of taking  photographs of the patients of the “Hopital de la Salpêtrière” in order to obtain  a historic-nosographic summary concerning different periods  of  their staying in hospital, has laid down the basis for widening the range of utilization of the patients’ pictures.

   Later on, the photocameratape technologies getting better, they have been used not only for diagnostic, but also for therapeutic aims.

   A further  success has been represented by the audiovisual recording of the  patients’ behaviour; and this has given the psychiatrists the opportunity of observing more attentively the different symptomatologies.

  So, thanks to  new technologies, we can help patients to front some psychological and psychiatric troubles.

  As the psychiatrists deal with new experimentions it’s clear that, willing to use these new therapeutic  strategies, they must have  a real competence

in new technologies.

  In fact, without a right competence  in the  use of these equipments, they could reach  scarce results

   Moreover to allow the camera use to the patients who are able to do, helps them to begin a very useful process in diagnostic and therapeutic fields.

 

 


 

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In Formazione Psichiatrica     n° 3-4 anno 2000

VIOLENZA  GIOVANILE  E  CRUDELTA’ ANCESTRALE

 

Un male oscuro sembra gravare sul nucleo domestico: la famiglia è dunque un valore a rischio? 

In Italia, negli ultimi  anni, i reati commessi in famiglia da giovani sono in  crescita. Mentre dal 1945 al 1975 si erano registrati una decina di parenticidi commessi da minori o da giovanissimi, nel ventennio 1975-95 la cifra è salita a 53  (di  questi, 25 sono avvenuti al Nord Italia, 18 al Centro e 10 al Sud). Dal 1995 al 2001 si sono avuti oltre venti casi di omicidi di minori in famiglia. I giovani che hanno commesso delitti familiari sono in una età compresa tra i sedici e i venticinque anni e sono più maschi che femmine. Ma quando le donne  commettono questo genere di crimini lo fanno anch’esse in maniera efferata.

Ecco alcuni  orribili episodi di violenza giovanile  avvenuti  all’interno della famiglia: nel 1974 il ventiduenne Giuseppe Meli, che a quel tempo era in servizio militare, rientrando a casa per una licenza, dopo aver  litigato col fratello Antonio, di 19 anni, lo ha ucciso e ne ha fatto scomparire il cadavere in un canale. La polizia scoprirà casualmente, dopo ventisei anni, attraverso il diario dello stesso Giuseppe, che è diventato nel frattempo un barbone, ciò che è successo tra i due fratelli; nel 1981  Roberto Succo ha soppresso il padre e la madre senza apparenti motivi; nel 1985 Massimo Bosso a Biella ha massacrato il padre con colpo di  spranga;  Giuseppe Carretta, dopo avere sterminato nel 1989  padre, madre e fratello, per ben nove anni è riuscito a far perdere le tracce di sé; nel 1986 Stefano Diamante, ventiseienne, assassinato la madre, la preside Silvana Petrucci, a seguito dei rimproveri per non avere sostenuto gli esami  all’università; nel 1998 Riccardo Colombo a Giavera del Montello, ha soppresso madre e fratello «colpevoli – così affermò l’omicida - di avere sbagliato la dichiarazione dei redditi»; Nadia Frigorio, a San Michele Extra, ha strangolato la madre; Pietro Maso,  a Montecchia di Crosato,  il 16 aprile del 1991 ha massacrato con l’aiuto di tre amici i propri genitori; nel 1992,  Giovanni Rozzi, a Cerveteri,  complice un amico, ha soffocato i suoi genitori mentre dormivano;  Carlo Nicolini, a Giavera del Montello, nel 1995 ha sterminato  i suoi genitori a fucilate; Paolo Gagliano,  nel 1997 ha soppresso  i genitori e il cane che stava con loro. Nel 1975, la diciottenne Doretta Graneris, aiutata dal fidanzato, ha assassinato padre, madre, fratello e nonni, senza avere mai spiegato il perché di quell’insano gesto. Nell’agosto del  2000, il trentatreenne Potito Conte, giovane violento ed ubriaco fu accoltellato dal fratello Nicola di 29 anni.  Nel 2001, Paolo Pasimeni, colto da  un raptus di paura, ha accoppato il padre, docente universitario,  per nascondergli  di non avere sostenuto alcuni esami  all’università;  a Ghemme, nello stesso periodo, nel novarese, la ventunenne Barbara Barbero e il suo fidanzato, Angelo Martinetti di 19 anni,  hanno tentato di uccidere la madre della ragazza per futili motivi: la vittima si è difesa ed è riuscita a salvarsi. Nel marzo 2001, a Pompei, la signora Marina Allocca, madre di tre ragazzi,  è stata strangolata dal figlio maggiore, Alessandro, di sedici anni, che da tempo le rimproverava di essere la causa del divorzio col padre per cui tra i due da tempo non correvano buoni rapporti.

E una terribile storia di degrado ha fatto scoppiare un  dramma domestico ancora nel marzo 2001: al centro della vicenda i continui litigi tra il trentottenne Paolo Magazzù, aiuto cuoco, e la vecchia madre settantenne con la quale conviveva in un tugurio. L’uomo,  spesso alcolizzato, da tempo bastonava la madre, la quale però non l’aveva mai voluto denunziare. I vicini avevano più volte convinto Paolo, che non voleva più vivere con sua madre, a tenerla ancora con lui. E ciò fino a quando, dopo un’ultima lite, l’uomo l’ha massacrata barbaramente a pugni e pedate. 

Un altro crimine giovanile agghiacciante, accaduto però al di fuori dell’ambito familiare, ma  che ha trasformato due giovani vite in  un deserto, è stato commesso da due ragazze, Anna Maria Botticelli e Maria Filomena (Mariena) Sica, le quali,  dopo aver preparato freddamente l'omicidio,e senza alcun motivo apparente, hanno soppresso  l'amica Nadia Rocca.

Casi simili a questi  si riscontrano nelle cronache degli ultimi anni anche in altri paesi, quasi che “uccidere” possa essere considerata una scorciatoia per risolvere i problemi che sorgono in famiglia. Gli Usa vantano un terribile primato al riguardo: ogni anno, dicono le statistiche, sono circa trecento gli episodi del genere. Nel 1989, una vicenda sembrò riassumere quanto di più atroce può accadere in una famiglia: i fratelli Menendez massacrarono entrambi i genitori, e, durante il processo,  “giustificarono” la loro efferatezza affermando che la madre aveva impartito loro una educazione spietata e  il padre aveva abusato di loro sessualmente e psicologicamente per anni. 

Un altro “giovane perbene”, Ronald  De Feo, qualche anno dopo, massacrò padre, madre e fratelli, e non si è mai potuto appurare perché lo abbia fatto.

Si tratta di atroci episodi,  commessi da adolescenti e giovani senza alcuna risonanza emotiva,  con straordinaria freddezza, come se fossero indifferenti e incapaci di capire cosa abbiano fatto e senza alcuna presa di coscienza e pentimento;  lo stesso isolamento affettivo e distacco dai sentimenti che, a Novi Ligure,  nel febbraio  2001 ha spinto la sedicenne Erika Di Nardo, aiutata dal fidanzato, il diciassettenne Omar, ad  uccidere la  madre e il fratellino. Una “freddezza” che ha fatto dire ad Erika, ad un  parlamentare che era andato a trovarla in carcere: «Speriamo che con quel che è successo non perda l’anno scolastico».

È possibile che, dietro tanta glaciale ferocia vi sia invece un eccesso incontrollabile di emozioni e di frustrazioni, con  una conseguente incapacità a governarle, sino a far scatenare reazioni così forti e poi a nasconderle anche a se stessi con una impassibilità fittizia.

 

 

Necessità di salvare le apparenze

Sebbene non si possa ignorare che tra parenti e consanguinei non mancano tensioni e rancori, si cerca di mascherare lo sconquasso emotivo familiare con una maldestra  finzione di perbenismo e di tranquillità. Si tratta di strategie di “copertura” che hanno radici culturali profonde e che tendono ad occultare le conflittualità familiari, che, di certo, sono più estese di quanto le statistiche non sottolineino. Infatti, proprio nella quotidianità domestica si possono sviluppare e moltiplicare tensioni, astii, perturbamenti,  dovuti a incomprensioni, a “piccole” ma continue situazioni di gelosia, a persistenti mancanze di rispetto della privacy e della personalità, a punizioni umilianti, e ad altre significative prevaricazioni. Infatti, in nessun luogo come nel nucleo domestico sono permesse tante violazioni del rispetto della persona, ed è tollerata una gradualità di violenza che sarebbe ritenuta inaccettabile in qualsiasi altra struttura sociale.

La giornalista Brunella Giovara, a proposito della violenza tra le mura domestiche, riferisce lo sfogo di Andrea, un perito chimico di trent’anni, che lavora in un’azienda alla periferia di Milano. Andrea racconta alla giornalista che le aggressioni, le provocazioni, il sadismo di suo padre sono stati, per oltre dieci anni, l’inferno per lui e per suo fratello. Se  la moglie cercava di farlo ragionare, l’uomo diventava più furioso.  Mentre  in pubblico questo padre  era una persona piacevole, ben inserita, e mostrava di avere molti interessi, in casa era violento con le parole e con i fatti, e teneva tutta la famiglia sotto una morsa psicologica gelida e terrificante. «Ricordo punizioni terribili, completamente sproporzionate. Mio padre era ossessionato dalla sua infanzia trascorsa in un collegio molto severo. A me ha detto che meritavo il collegio o il riformatorio». Il padre legava i figli a letto e li prendeva  a cinghiate. Quando aveva diciassette anni, Andrea, fattosi più risoluto, disse a suo padre: «Un giorno o l’altro ti ammazzo». E l’intervistato confessa alla giornalista: «Nessuno al di fuori di noi sapeva cosa stava succedendo a casa».

Si tratta di una delle tante storie, di quelle che comportano la perdita del senso di sicurezza, la perdita del senso di sé. Come questa, coperte dalla privacy e dal segreto domestico, ce ne sono molte, in cui padri padroni maltrattano i familiari, in cui  madri lamentose ed ossessive fanno dei figli individui nevrotici e ansiosi. Quella narrata da Giovara è emblematica, e serve da esempio per capire cosa può anche accadere in una famiglia. 

In alcuni casi le conseguenze di queste  trasgressioni alla civiltà del rispetto non tardano a farsi sentire nei giovani, i quali manifestano la loro ribellione con l’indisciplina e il disinteresse allo studio, il mutismo e l’accidia nei confronti dei genitori, le reazioni psico-corporali, come l’obesità, l’anoressia, e le manifestazioni psichiche più evidenti come un’accentuata timidezza o un’eccessiva aggressività sportiva. 

Liebowitz sostiene che in alcuni casi vi può essere un’incapacità neurologica a gestire la frustrazione e  la rabbia, e definisce questo disturbo disforia isteroide, che, decifrando il senso dalle parole greche, significa difficoltà a sopportare umiliazioni e avvilimenti, e che si traduce in un turbamento del tono umorale ed affettivo. Si tratterebbe, in pratica, della sindrome che manifestano le persone che non resistono agli stress emozionali, le quali, quando si sviluppa questa sindrome,  provano uno stato di disagio che produce una  tensione che può far evolvere il rapporto in una situazione infernale.

E tuttavia, nell’ambito del nucleo domestico non è insolito che  si venga a costituire una specie di omertà, che occulta il palcoscenico quotidiano di tensioni e drammi e crea una barriera di silenzio nei confronti di tutti gli estranei, impedendo così che appaiono all’esterno fenomeno disgregativi.  

Inoltre, poiché è difficile ammettere che il seme della violenza, insito nella natura umana,  possa essere coltivato anche nelle famiglie e  possa evolvere in maniera  devastante,  quando si evidenziano crimini domestici che no n possono essere occultati,  si  cerca di accollarne l’origine ad eventi esteriori alla dinamica familiare.

Non  potendo negare che fenomeni tanto efferati accadono anche nelle comunità familiari “perbene”, e non volendo smascherare la causa recondita di questi incidenti,  si fa ricorso a spiegazioni di comodo, attribuendone la responsabilità alla eccessiva permissività concessa dalla società agli adolescenti, oppure al consumo di droga, o alla violenza in Tv, o colpevolizzando la Scuola (che non fornirebbe modelli adeguati), o all’influenza delle amicizie “devianti”, o, se si tratta di giovani  in età da lavoro, attribuendone la colpa alla mancanza di esso.  Ciò contribuisce a mantenere un’immagine della famiglia rassicurante e accattivante, in cui  papà, mamma e figli appaiono felici esibendo  sorrisi e affettazioni di circostanza.

La gente non ha voglia di approfondire e conoscere  come stanno davvero le cose al riguardo, tant’è che  mostra stupore e sbalordimento, quando accadono avvenimenti estremi come quelli testé ricordati. Alla presenza di fatti del genere,  si può avere trepidazione e amarezza,  ma non  meraviglia. E tuttavia, c’è chi tende a rimanere con gli occhi chiusi alla realtà. Probabilmente anche la famiglia Di Nardo, distrutta nel febbraio del 2001 dall’insano gesto di una figlia, in passato aveva  rigettato, come assurda,  l’idea di essere scalfita da un  dramma domestico. 

«La mia più grande amica è mia sorella», scriveva proprio qualche giorno prima d’essere ucciso dalla sorella Gianluca De Nardo.

L’agghiacciante vicenda di  Novi Ligure, in cui la sedicenne Erika e il suo fidanzato, il diciassettenne Omar, hanno massacrato proditoriamente la madre e il fratello della ragazza, porta ad analizzare ulteriormente  il problema della ferocia  umana, cioè a capire come può accadere che il nostro cervello operi anche con  modalità delittuose.

 

 

La violenza familiare non è solo quella minorile

Se è difficile  stabilire  a priori cosa funziona e cosa non funziona in una famiglia, ciò che è più drammatico ed insensato è non rendersi conto che le tragedie familiari possono esplodere in qualsiasi contesto.  Per inciso, se non si vuole mancare di obbiettività, bisogna sottolineare che, oltre alla violenza dei figli nei confronti di adulti e parenti, esiste anche  l’efferatezza degli adulti  sui minori:  neonati  abbandonati nei cassonetti della spazzatura, sgozzati “perché facevano troppo chiasso”, massacrati per non affidarli al  partner,  uccisi “per fare uno sgarbo” al coniuge. E ancora: bambini precipitati nel vuoto tra le braccia di un  genitore suicida, che li trascina con sé nell’abisso; bambini legati al letto perché non girino per casa quando i genitori sono assenti.

C’è poi la feroce violenza che si consuma tra coniugi, con omicidi per gelosia, pestaggi e stupri all’interno della coppia, fino ad efferatezze imprevedibili, come ciò che avvenne nel 1984, a Chester. In questa ridente cittadina inglese,   John Frederich Perry, per non acconsentire al divorzio chiesto dalla moglie Annabel, che, secondo la sentenza del  tribunale, gli sarebbe costato la somma di 15.000 sterline da versare alla donna, la uccise, e, dopo aver sezionato il cadavere, lo disperse giorno dopo giorno in una discarica. Ma, non avendo fatto in tempo ad occultare tutti i “pezzi”, Perry  non poté impedire che gli agenti di polizia, che cercavano la donna  scomparsa, trovassero alcuni resti di Annabel nel suo frigorifero.  

Nell'epoca dei progressi della medicina, delle scienze e della tecnologia, l'umanità, per certi versi,  affonda ancora nell'età della pietra. Si avverte un forte senso d’insicurezza leggendo le quotidiane  cronache criminali:  una studentessa che passeggia all’università  viene freddata da un colpo di pistola sparato da chi sa chi; una  suora è assassinata da alcune ragazze senza una spiegazione; una ragazza viene uccisa dall’amica più intima, la quale, “curandole” il raffreddore, le somministra un potente veleno nella minestra; a Cologno Monzese una donna è stuprata  da un giovane ventiquattrenne  per strada tra due cassonetti della spazzatura,  e nessuno le corre in aiuto, anzi, due giovani di passaggio, la deridono e la insultano; a Sesto San Giovanni, Roberto, studente di diciassette anni, ha sgozzato la propria ragazza, Monica, anch’essa studentessa, di sedici anni, con un colpo di temperino, e in tasca aveva un biglietto d’amore per lei.

Lo sfascio dell'umanità appare più paradossale se si pensa all'enorme progresso in cui viviamo.

La violenza si verifica nella giungla metropolitana come nelle campagne, nel mondo industriale e in quello contadino, e non si tratta  di delitti commessi solamente da gente  appartenente a classi sociali emarginate, ma anche da persone di buon livello sociale ed intellettuale. La storia e la cronaca sono lastricate  di emblematici,  sanguinosi  drammi domestici,  tragiche prove dell’efferatezza della mente umana, in cui è anche possibile decifrare disturbi emotivi, che sfociano in violenze nella famiglia.

E ciò accade  anche quando tutto in superficie sembra tranquillo. In realtà, gelosie nascoste, risentimenti celati, ostilità che covano nell’inconscio se tirati troppo alla lunga fanno  esplodere  sconsiderate crudeltà. Per capire l’origine di tutto ciò bisogna risalire alla storia dell’umanità, e metterne a nudo   pregi e  difetti, luci ed ombre, virtù e deficienze.

 

 

 

 Il cervello primitivo

Quando accadono eventi così violenti e improvvisi, esplode l’indignazione  e si leva  la condanna. Aldus Huxley ritiene che vi sono persone che utilizzano l’odio come una reazione compensatoria, se non addirittura  appagante, sicché,  quando  tipi del genere accumulano una forte energia aggressiva, si lasciano trascinare a comportamenti feroci. E anche Fromm è del parere che spesso «l’uomo agisce con crudeltà e distruttività traendone una immensa soddisfazione». E pur tuttavia, per una sorta di autodifesa collettiva, si tenta di “rimuovere” l’esistenza di  tanta spietatezza nell’essere umano, e non si vuole riconoscere che l’umanità possa cadere così in basso. Si preferisce invece  parlare di malattia mentale e di fatalità. 

Ma se si vuole veramente  tentare di capire i motivi  di tanto sconquasso, bisogna convenire che esiste una aggressività, una crudeltà, una brutalità  psicofisiologica. Essendo il cervello dell’uomo, come si presenta attualmente, il risultato dell’evoluzione di un aggregato di strutture, molte delle quali ebbero origine all’alba della vita sulla terra, esso è condizionato dagli elementi arcaici primitivi, elementi che di conseguenza sono modellati a strutture comportamentali alquanto selvagge. Analizzando la psicologia dell’aggressività dell'individuo, si può presumere che questo malcostume  affondi le radici in un passato ancestrale, del quale l’umanità non si è ancora liberata. In quel “contenitore” che  è la mente, si può trovare di tutto, anche la scheggia assassina.

Secondo P.D. McLean il cervello umano sarebbe formato da tre cervelli soprapposti, dei quali i primi due sono retaggio dei rettili e dei mammiferi. Ha affermato a tal proposito Rita Levi Montalcini: «Studi sull’architettura e sulla configurazione dei centri nervosi dei tre cervelli hanno posto in rilievo, nel cervello dell’uomo, l’esistenza di costellazioni  nucleari interconnesse da circuiti nervosi non dissimili da quelle del cervello dei rettili».

La Montalcini si è chiesta se  non vi siano nel comportamento dell’uomo componenti comuni non soltanto ai mammiferi, ma anche ai vertebrati inferiori. La parte più recente del cervello dell’uomo,  la corteccia,  è quella che  ingloba le parti più primitive – sostiene la scienziata – ed è come un manto ripiegato in mille circonvoluzioni, ma sotto questo mantello corticale dell’uomo, permane in qualche modo anche il cervello del rettile.

In  pratica, solo la corteccia, sede della ragione, è la sezione più squisitamente umana del nostro cervello; ma quando la mente perde il controllo critico, essa regredisce a livelli  primitivi,  ed emerge la zona più ancestrale del cervello, quella di cui si servivano i nostri bis-bis-antenati. A quel punto la natura selvaggia ha il predominio e  l’individuo commette crimini efferati.

Secondo Vittorino Andreoli vi è una relazione tra aggressività e alcune parti dell’encefalo come il bulbo olfattivo, l’ippocampo, i nuclei del setto, e quelli del rafe nel pavimento del quarto ventricolo e l’amigdala. Ciò denunzierebbe un retaggio di comportamenti primitivi fissati nel nostro patrimonio fisiologico, che si riflettono anche in quello psicologico.

Già in passato, Konrad Lorenz e A. Storr erano del parere che l’aggressività è deterministicamente un comportamento spontaneo non solo negli animali ma anche nell’uomo.  K. Lorenz riferisce che agli inizi del ‘900, il fisiologo W. B. Cannon, cercò di spiegare il complesso meccanismo fisiologico dell’aggressività, assegnandogli come sede principale l’ipotalamo. In condizioni non estreme la corteccia,  affermò Cannon, inibirebbe questa attività ipotalamica; ma allorquando si scatena una pulsione iraconda incontrollabile, l’inibizione si attenua e l’ipotalamo ha via libera nel provocare il meccanismo fisiologico di base della aggressività. Si tratta di affermazioni fatte in un periodo in cui l’indagine scientifica cerebrale non utilizzava ancora i mezzi diagnostici più evoluti dell’ultima generazione. Oggi, che la ricerca è più evoluta, si hanno anche delle conferme. Grazie a nuove tecniche di ricerca, N. C. Andreasen afferma  che l’ipotalamo  contiene i centri che regolano l’aggressività e che pazienti che hanno disturbi affettivi possono soffrire di uno squilibrio nell’asse ipotalamico-surrenale-ipofisario: ciò creerebbe una scarsa adattabilità allo stress.

Sono  molti i tentativi di localizzare nell’encefalo le funzioni psicologiche (Paul  Broca, Franz Gall, Karl Wericke),  ma a tal proposito, sia Oliver Sacks che  A. R. Luria  sono  propensi a ritenere che singole aree cerebrali possano essere incluse in diversi tipi di sistemi funzionali, arrivando così al concetto di  polivalenza funzionale delle strutture corticali.

Luria, in particolare, afferma che per analizzare  l’attività aggressività dell’individuo, si deve indagare su un complesso polifunzionale che si basa su elementi, tra loro correlati ma anche altamente differenziati,  non solo fisiologici ma anche psicologici e storico-sociali. Afferma infatti lo scienziato russo: «Conquista fondamentale della psicologia contemporanea può esser considerato il rifiuto delle posizioni idealistiche che nelle funzioni psichiche vedevano l’espressione di un principio spirituale, diverso da ogni altro fenomeno naturale, e il rifiuto all’approccio  naturalistico  che nei processi psichici non vedeva se non proprietà naturali del cervello umano».

Un’altra via interpretativa della interconnessione encefalo-violenza, è riferita da Vittorino Andreoli,  il quale afferma che secondo alcuni studiosi, «l’encefalo è un sistema organizzativo che sarebbe in grado di integrare un sapere genetico e uno acquisito, storico». In altri termini,  l’esperienza è in grado di modificare l’encefalo, il quale, a quel punto, organizzerebbe   una struttura biologica così come impone l’ambiente.

In ogni caso però, e indipendentemente dalle localizzazioni delle funzioni mentali, non si può ignorare che nel “contenitore” del cervello esistono, latenti, quei comportamenti ancestrali o acquisiti,  che sviluppano aggressività,  brutalità, odio, ferocia e violenza, e che sono tutte  reazioni di cui si è servito l’essere primitivo. Queste modalità di reazione possono restare inattive per tutta una vita, ma, per una serie di fattori concomitanti e scatenanti, possono essere  rimessi in funzione.   

Il bambino che si comporta in modo crudele con gli animali, l’adulto che uccide per un sorpasso, il soggetto che replica in maniera aggressiva e sproporzionata ad una minaccia (vera o supposta), non sono che “risposte” ancestrali,  non inibite da una efficiente educazione e da un valido controllo di sé. 

Partendo da queste considerazioni, è forse possibile formulare l’ipotesi che il cervello umano, la cui base originaria affonda le radici in una struttura atavica, a volte può agire aderendo del tutto alla propria natura originaria, a volte, invece, se ne distacca. E questo accade secondo le esperienze  e le sollecitazioni occorse nella esperienza del singolo e in conformità alla sua resistenza personale alle pulsioni.

Scrive infatti la Montalcini: «Nel percorso della specie umana si alternano periodi di progresso e di oscurantismo. Nelle fasi migliori il rettile nascosto nei meandri della massa grigia cerebrale rimane silenzioso(…). Nei periodi di oscurantismo il rettile esce dalla tana (…)».

L’Io, per un istinto di sopravvivenza innato, tende a “difendersi dalle aggressioni” (vere o presunte, fisiche o psicologiche)  e, di conseguenza,  a reagire  per allontanare i pericoli (reali o immaginari) che ritiene incombano su di lui. Ma poiché l’essere umano, a causa delle parti più ancestrali del suo encefalo, ha a “disposizione” metodi anche feroci “di difesa”, quanto più teme che il pericolo abbia poteri distruttivi, tanto più utilizza meccanismi primordiali di difesa. Soprattutto se la personalità è debole, vacillante,  e se i suoi “controlli civili” sono corrosi, può accadere che essa faccia ricorso a reazioni primordiali, distruttive  e  brutali. In quanto ai giovani, dal momento che la corteccia prefrontale raggiunge la sua maturazione tra i 18 e i 20 anni, prima di quelle date essi non solo hanno minore capacità di controllare le emozioni,  ma anche la valutazione delle loro azioni non è  in una fase di piena maturità. Ne consegue una maggiore irruenza e una inadeguata possibilità di controllo dell’impulsività, assieme a un accentuato  amore per il rischio.          

Allora si può dire che, sebbene il  cervello umano sia passato dai  400 grammi iniziali alla  dotazione attuale di circa 1450 grammi, l'umanità non  adopera ancora questo meraviglioso strumento nel migliore dei modi.  Infatti all'evoluzione della materia cerebrale non è seguito un buon uso della ragione, il cui baricentro a volte si sposta, per motivi ignoti, verso comportamenti primitivi, e così l'uomo, trascinato dall'impulsività, si comporta da stolto e in maniera  crudele, non essendo stati ancora del tutto  bloccati i meccanismi  del cervello primitivo.

Per questo motivo non è possibile ignorare o minimizzare l’esistenza della ferocia e dell’aggressività nell’essere umano: non riconoscendola, o peggio ancora, soffocandola con prepotenza, non si raggiunge lo scopo di eliminarla.

Come afferma Levy-Bruhl, di fatto la nostra attività mentale è insieme razionale e irrazionale, e la prelogica del primitivo coesiste con la logica dell’essere evoluto. Si deve allora tentare di far funzionare al meglio la ragione e di ridimensionare l’aggressività, facendola defluire in comportamenti più utili, sublimandola, insomma, mediante un’educazione appropriata.

 

 

Nella mitologia, nelle letteratura, nella storia,  l’umanità presenta  una  sequenza di ferocie

Secondo i racconti delle religioni e della mitologia, la storia dell’umanità è cominciata davvero male: Caino, primogenito della prima coppia, Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele essendo geloso di lui; Absalon uccise il fratello Amnon per vendicare il torto che questi aveva fatto a Tamar (Samuele. Libro II, 13); Jefte fece voto che se avesse sconfitto gli  Ammoniti, avrebbe  sacrificata la prima persona che sarebbe venuta incontro a salutarlo, uscendo da casa sua. Poiché, rientrando a casa dopo la vittoria, fu proprio la sua unica figlia che gli andò incontro, il voto fatto alla divinità venne adempiuto da Jefte, addirittura con il coraggioso consenso della ragazza (Giudici 11: 29-40); i Cananei, per ingraziarsi la divinità, sacrificavano i figli e le figlie bruciandoli senza esitazione (Deut.12:30-31).

Euripide ha suscitato l’orrore per l’infanticidio perpetrato da Medea sui propri figli,  Shakespeare ha reso famosi i drammi familiari di Amleto e  di Macbeth.  Emblematica è la vicenda dei fratelli Tieste e Atreo, i quali, secondo la tradizione orale, narrata poi dalle tragedie di Sofocle e di Euripide, uccisero il fratellastro Crispippo. Poiché Tieste gli sedusse la moglie, Atreo, divenuto re, invitò il fratello a pranzo e per vendicarsi del torto subito, gli servì come pasto le carni dei figli di Tieste. Questi, avendo saputo di cos’era composto il cibo che gli aveva approntato il fratello, fuggì via maledicendolo. Dall’unica figlia che gli rimase in vita, Pelopia,  Tieste ebbe un figlio, Egisto, che, quando fu grande,  uccise Atreo e vendicò il padre.

Altra coppia fratricida, quella di Etéocle e Polinice, figli di Edipo, che si uccisero reciprocamente in duello durante l’assedio di Tebe.

In quanto all’eroe della epopea omerica, Ulisse, dopo essere tornato ad Itaca e avere ripreso il suo posto di re, venne ucciso da Telegono, il figlio che l’eroe greco aveva avuto dalla maga Circe. Il giovane era andato a Itaca a trovare il padre, ma, poiché non conosceva chi fosse, essendo entrato per caso  in diverbio con lui, lo uccise. Un episodio al quale di certo si ispirarono altri autori greci, e in particolare Sofocle, per la leggenda di Edipo, il quale, come si sa, uccise il padre, mettendo in atto la maledizione di Pelope.

Vicende, queste, alle quali certamente si riferì Sigmund Freud, che probabilmente le prese come prototipi classici di quel parricidio pre-storico, inteso come atto violento della conquista del potere da parte dei figli. «L’eroe che si ribella al padre e in qualche modo lo uccide». Nell’orda primitiva, afferma Freud, il progenitore era il modello invidiato e temuto dai figli. Uccidendolo e divorandolo essi non solo ritennero di aver realizzata l’identificazione col genitore, ma anche di averne acquisito la forza.      

Teresa Raquin, di Zola è una delle opera più emblematiche sulla ferocia familiare. Ad essa si è ispirato cento anni dopo il  regista Bob Rafelson,  che, ne Il postino bussa sempre due volte, ha descritto con quanto indifferenza  si possa arrivare ad uccidere il coniuge.

Gianluigi Ponti e Ugo Fornari sottolineano che persino i racconti più innocenti, contengono a volte storie truculente. Si ricordi per esempio Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, storia scritta nel XVII secolo, in cui l’Orco, personaggio ricorrente di tante favole, uccide per il piacere di uccidere. Nelle favole dei fratelli Grimm, viene ripresa l’idea cannibalica di mangiare i bambini, come  nel racconto di Hänsel e Gretel.   

Non è escluso che mito e  favole siano la reminiscenza e la narrazione di fatti umani avvenuti in epoche primordiali e ricordati dalla tradizione orale, o quanto meno, che siano la oggettivazione di vicende suggerite dall’immaginazione, dai desideri, dalle paure dell’umanità. Mito e leggende narrano “i segreti dell’anima”, e quelli della vita sociale dimenticata e rappresentano dunque  un lato “della storia psichica dell’umanità”.     

Ma anche le cronache di vita reale testimoniano, da sempre,  l’esistenza di una inusitata ferocia contro l’infanzia: negli scavi di Cartagine si sono ritrovati scheletri di bambini sacrificati dai genitori alla dea Tanit e così pure sono stati rinvenuti copiosi resti di sacrifici infantili presso gli Egizi, gli Aztechi, gli Incas e gli Ewe, antica popolazione  dell’Africa.  

La crudeltà ha avuto anche come oggetto le donne,  le minoranze etniche,  i “diversi” e gli estranei al gruppo. Violenza e ferocia sono mezzi di sopraffazione di chi è al potere,  di chi non  accetta le idee altrui.

Guerre sanguinarie tra Stati,  massacri in nome delle religioni, brutalità criminali nei confronti di popolazioni inermi, sono all’ordine del giorno da che mondo è mondo. 

Alcuni episodi emblematici evidenziano che persino popoli civili hanno commesso efferatezze inimmaginabili. Basti ripensare ai Latini che  distrussero la città di Veio e ne sterminarono gli abitanti perché facevano "concorrenza". In quanto alla "grande Roma", essa   ripeté il medesimo livello di violenza contro i Volsci, i Sanniti e contro Cartagine. Gerusalemme fu messa a ferro e fuoco dai Crociati che praticarono  una vera e propria "pulizia etnica".

Due secoli  prima di Cristo, la dinastia  Qin sterminò le popolazioni degli staterelli cinesi che le si opponevano e divenne un "Grande" impero. Gli spagnoli del civilissimo re Filippo trucidarono i "moriscos" di Spagna, perdendo così, tra l'altro, una stirpe civile e molto utile per le sorti della nazione. Orribile fu anche il massacro degli Ugonotti,e quello delle popolazioni indigene americane da parte degli Europei conquistatori. E come non vedere nella castrazione dei bambini utilizzati perché cantassero nelle chiese e  nei teatri, anche un atto di inaudita violenza? E come ignorare l'odio esternato nelle persecuzioni tribali,  religiose, politiche  e razziali, sin dall’origine dell’umanità? 

Per secoli, prima e dopo il Medio Evo, anche nei Paesi considerati più “civili”,  la criminalità spicciola, soprattutto giovanile, ha imperversato, con feroce teppismo, nei borghi, nelle campagne e nelle città, senza che nessuno potesse difendere la popolazione da quei manigoldi. Erich Fromm sostiene che «la sete di sangue può impadronirsi delle masse umane». A causa della loro struttura caratteriale, dice Fromm, certi gruppi  aspettano o creano situazioni tali da consentire l’espressione della distruttività.   

Infatti, non si può dimenticare che, per centinaia d’anni, un pubblico in  delirio e pieno di entusiasmo, si è infervorato e si è divertito a vedere l’orribile spettacolo delle sanguinarie lotte dei gladiatori. L’origine di questa truculenta manifestazione non è datata  nella Roma imperiale,  ma  si colloca più indietro nel tempo, e cioè, nel V° secolo prima di Cristo, presso gli Etruschi. Secondo le credenze popolari, lo spettacolo di morte dei gladiatori era stato richiesto dai defunti che avevano bisogno che scorresse del sangue per placare le loro anime. Dal tempo degli Etruschi,  e fino alla fine dell’Impero romano, milioni e milioni di persone, in tutti quei secoli,  “godettero” quello spettacolo  di morte, di ferocia e di crudeltà che veniva rappresentato nell’arena. E non si pensi che lo spettacolo non appassionasse anche le donne, alcune di esse era anche gladiatrici. Ma il fatto più saliente è che i gladiatori erano oggetto del desiderio della signore romane, che, si racconta, in molti casi, erano anche le più sanguinarie tra gli spettatori. Durante gli scavi di Pompei, a riprova della passione femminile per la violenza dei gladiatori, si è trovato, nel luogo dove era la caserma di quei combattenti, lo scheletro ingioiellato di una donna: probabilmente una matrona romana colta improvvisamente dall’eruzione del 79 d. C., mentre era in intimità col suo amante.

Si potrebbe allora dire che, in quanto a crudeltà, l’essere umano non si è fermato a quella dei rettili e degli animali primitivi, i quali, uccidono solo per sopravvivenza. L’uomo, invece,  – afferma Fromm – ha una più vasta gamma di interessi vitali, perché non deve sopravvivere solo fisicamente, ma anche psichicamente. Ogni elemento che perturba il suo equilibrio psichico è considerato una minaccia altrettanto vitale, per cui  l’uomo tende a conservare anche  il proprio schema di orientamento. L’aggressività difensiva ed offensiva umana ha dunque uno spettro più ampio di quello animale. Non solo, ma, come si è ricordato a proposito degli spettacoli truculenti del circo, l’essere umano arriva persino a dilettarsi  con la visione della morte.   

Secondo  Fromm,  l’uomo, è «forse il più feroce fra tutti gli animali», e , per una condizione paranoidea, allorquando percepisce un oggetto come una minaccia alla propria sopravvivenza - anche se in sé e per sé illusoria, ma  “psicologicamente reale” -  è portato a combatterlo e a distruggerlo. 

Meccanismo,  dice Fromm, che si rileva nelle tribù primitive, quando, morto un membro del gruppo, si immagina che la morte sia dovuta ad influenze magiche nefaste della tribù concorrente. Ciò scatena l’odio e la necessità di annientare la tribù straniera.

Anche questo è un punto di riferimento per capire la sopravvivenza  ancestrale della ferocia nei confronti ”degli altri”.

Se crudeltà e violenza fanno parte dell’orizzonte mentale dell’uomo,  ciò ovviamente non significa che tutti gli uomini siano nella stessa misura crudeli e violenti;  solo che non si può negare che quelli che si dimostrano più sanguinari fanno, purtroppo, anch’essi parte del genere umano.

 

 

Come  educare: autoritarismo o autorevolezza?

Se è vero che non ci sono rimedi sicuri contro l’esplosione della violenza, una cosa è  certa:  bisogna acquistare una concreta sensibilità nell’intuire quali tensioni possono comportare conseguenze deleterie e capire che dissapori e animosità possono creare un danno irreversibile. In famiglia, infatti,  si deve essere attenti  ai retroscena dell’affettività ed è necessario  interpretare i silenzi e le fantasticherie,  rispettare l’umanità e la sensibilità anche dei più piccoli, oltre che mantenere una continua  disponibilità ad allontanare  malintesi e  ostilità, risentimenti e rancori. 

Quando invece, nel contesto domestico si rigira  il coltello nella piaga,  prima o poi  si arriva all’esplosione che meraviglia e stupisce.

Se la sede originaria dell’aggressività e della  violenza è nella struttura più profonda del cervello, ciò non significa che non è possibile trovare meccanismi inibitori idonei a trasformare l’essere primitivo in un persona sociale. Infatti, l’educazione converte l’individuo primigenio in protagonista  civile.

Vi sono tanti modi di “educare”: la maniera più positiva ed opportuna  è quella di impartire una formazione che susciti valori e programmi di vita dagli alti contenuti, una cultura intellettiva insomma che, trasformando profondamente la personalità, sviluppi il senso critico, la ragionevolezza, induca alla presa di coscienza, e apra la strada alla maturità psichica.

Spesso, invece, viene dispensato un tipo di insegnamento che trasla solo “informazioni”,  istruzioni,  indottrinamenti che insegnano in modo meno impegnativo, e che fanno  memorizzare  le buone maniere ma non attivano la coscienza si sé e il senso profondo e filosofico dell’esistenza. Si tratta di “istruzioni” che riguardano soprattutto i comportamenti più che le idee,  il sapere più che l’essere.

Vi è una forma ancora più superficiale di educare, la quale addestra senza  sviluppare capacità autonome di valutazione o affinate prese di coscienza. L’individuo “addestrato” si uniforma agli insegnamenti ricevuti e scarta meccanicamente ciò che gli è stato inibito;  egli si  adegua  all’autorità  per pura sottomissione. In questi casi, non viene sviluppata la formazione di un “Io” maturo, e può accadere che il soggetto,  in particolari condizioni di stress e di disagio, abbandoni “l’apprendimento ricevuto”,  e lasci via libera agli impulsi più ancestrali.

Quando si afferma che un individuo è «bene educato», non sempre è precisata la tipologia pedagogica: c’è educazione ed educazione, e non tutti adottano quella più efficace.

In ogni caso, la peggiore forma d’educazione è quella che si basa sull’emotività degli “educatori”, e che procede ora con permissivismo ora con estrema severità, creando una confusione “schizofrenica” nella mente dei giovani.

È questo il motivo per cui molti di essi non hanno idee chiare sulla vita, sul loro comportamento, su ciò che è possibile fare e su ciò che non può essere fatto.  

 

 

L’avventura della gioventù nei secoli

Una constatazione di carattere sociologico evidenzia che, a partire dalla seconda metà del Novecento, con la fine dell’autoritarismo  si è sviluppata una maggiore  permissività nei confronti della gioventù, tolleranza che era mancata durante l’Ottocento. Ciò può indurre a ritenere  che la violenza giovanile dipenda dal tramonto del rigorismo, e che basterebbe riattivare l’educazione rigida per ripristinare la «docilità» giovanile. Ma questa è una affermazione che deve essere ponderata  con attenzione. Innanzi tutto sperare di ripristinare il rigorismo di stampo ottocentesco sarebbe un’utopia, perché la liberalizzazione che ha inciso profondamente su tutte le strutture civili, non riguarda solo l’educazione, anzi, si può dire che alla pedagogia è arrivata di riflesso.

Infatti, se si osserva la Storia, non si può dimenticare che, nell’era del colonialismo, delle dittature, del nazionalismo esasperato, dell’autoritarismo, del servilismo psicologico dei dipendenti, tutto era improntato all’autoritarismo.

In sintonia con i tempi, i politici avevano un’aria sussiegosa e truce, come se, qualora fossero stati colti in atteggiamento più rilassato o addirittura gioioso, perdessero di credibilità: Mazzini, Cavour, Rattizzi, Ricasoli, Crispi, Bismarck, Metternich, e tanti altri, mostravano di sé un’immagine seriosa e “autoritaria”.  Tutto ciò si ripercuoteva anche a scuola, ove  il maestro era una figura severa, incapace di un sorriso e nella iconografia familiare borghese, ove  le anziane zie, spesso nubili,  le vecchie nonne, arcigne tutrici della morale sessuale, i padri di famiglia, alteri e  seriosi, erano sempre pronti al rimprovero e a zittire i giovani che  volessero dire la propria idea.

Oggi tutto questo è in parte scomparso: anche l’aspetto dell’uomo politico è mutato: egli deve essere allegro, aperto, solare;  bisogna che ispiri fiducia col suo sorriso. I politici degli ultimi decenni, da Tony Blear, a  Bill Clinton, da Chirac a Gorbaciov, hanno avuto facce distese, spesso in atteggiamento sorridente. Parimenti, anche i maestri sono più affabili con gli alunni, così come pure zie e nonne hanno dimesso i vestiti scuri e il cipiglio di un tempo; ed anche i padri vanno in giro in jeans e sfoderano ampi sorrisi accattivanti. Alla vecchia atmosfera rarefatta si è sovrapposto un clima più disteso ed egualitario come forse non era mai accaduta dall’origine dell’umanità.

Ciò sottolinea  l’esistenza di una ampia rivoluzione libertaria e antiautoritaristica a tutti i livelli. Persino la Chiesa, che, nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, era stata molto rigida, ha allentato la morsa, ed è più permissiva ed indulgente con i giovani, tant’è che le iniziative per mettere a proprio agio la gioventù non  mancano.

Non  si può ignorare che un forte colpo all’autoritarismo è stato impresso dall’ultimo grande conflitto mondiale, al quale parteciparono attivamente,  anche con azioni belliche,  ragazzini e adolescenti,  i quali combatterono, assieme agli adulti, in piazza o alla macchia, e subirono gli sfasci di una guerra atroce e logorante.

Durante la guerra, bambini, ragazzi e adulti furono accomunati nella stessa sorte, subirono bombardamenti e deportazioni. E così, con la fine delle ostilità, anche i giovani, che avevano passato tanti guai assieme agli adulti, divennero protagonisti sociali.

Che un nuovo rilievo abbia  preso la gioventù, si deduce dalla tendenza, riscontrata in quasi tutti gli Stati, che ha portato ad abbassare a diciotto anni l’età per esercitare il diritto di voto.

Insomma, a partire dalla seconda metà del Novecento, in Occidente,  la gioventù non viene più ritenuta, come era accaduto nell’Ottocento autoritario, uno stadio dello sviluppo in cui l’essere umano è ancora impreparato del tutto alla vita,  incapace  di gestire la propria esistenza  e di comprendere i fatti sociali e politici;  ma come un periodo molto attivo dell’essere umano, un’età che consente di essere già integrati nei processi quotidiani di globalizzazione.

Questa trasformazione non poteva non riflettersi anche nei rapporti familiari, che sono stati intesi in modo del tutto  diverso dal passato, a favore di un maggior rispetto e di un maggiore interesse per le idee e le attività  dei giovani.

Il passo efficace verso una minore oppressione dispotica è avvenuto allorquando coloro che da giovani avevano sofferto i disagi del conflitto mondiale, decisero di non essere a loro volta autoritari, come era stata, nei loro confronti, la generazione precedente. Essi  capirono che, dal momento che avrebbero voluto che gli adulti rispettassero la loro emancipazione (cosa che non tutti erano riusciti ad ottenere), ora che loro erano diventati  genitori, avrebbero dovuto rispettare  la personalità dei propri figli. E così, l’enorme distanza storica, che  in passato aveva caratterizzato le generazioni dei genitori da quelle dei figli, si ridusse di parecchio. 

La seconda metà del Novecento sdoganò, dunque, la gioventù europea dalle secche in cui era stata relegata  per oltre cento anni  e  la riportò ad una specie di par condicio. Ma,  senza la mano pesante dell’autoritarismo ottocentesco, l’irruenza e la violenza giovanile ripresero il sopravvento, così come era accaduto prima dell’Ottocento.

Infatti uno dei problemi sociali del Medio Evo e delle epoche successive ad esso, fino al XIX secolo fu proprio l’irruenza devastante della gagliardia giovanile, che imperversò nelle città e nelle campagne. Fu anche per poterla  ingabbiare che ebbero luogo le Crociate, nelle quali  confluì la forza dirompente di una gioventù sbandata e senza futuro. 

Nel Cinquecento e nel Seicento, le Compagnie di Ventura usufruirono  a piene mani del contributo di una gioventù ruspante e senza meta. In quei secoli, il ruolo educativo della famiglia fu limitato, perché buona parte della prima infanzia i figli la passavano presso le balie, e l’adolescenza la trascorrevano nella bottega di un artigiano o al soldo di qualche condottiero che li intruppava nel proprio  esercito.

Il Settecento fu un secolo di transizione. In esso si concretizzò quella che è stata chiamata la “pedagogia nera”. La sociologa Katharina Rutschky  ha definito pedagogia nera una  raccolta di antichi precetti pedagogici, di norme educative a livello quasi delirante che certi perversi "educatori" consigliavano per sottomettere  i loro pupilli. La pedagogia nera è l’ingerenza falsamente pedagogica e l’imbonimento di pregiudizi e di norme di pseudogalateo che  arrecano danno alla personalità. Su questa scia di farneticazioni, nell’Ottocento si fece strada la convinzione che i bambini si dovessero piegare  con le batoste, anche perché,  essendo marchiati fin dalla nascita dal peccato originale, era  necessario ridurli in soggezione con qualsiasi  mezzo per frenare l'istinto peccaminoso congenito.  

Nel "Secret Diary of W. Byrd" del secolo XVIII si racconta che quando il piccolo figlio del servo di Byrd cominciò a bagnare il letto, il padre gli fece bere ogni volta una pinta d'urina. Dopo alcune di queste "punizio­ni esemplari", afferma l’autore del libro, il piccolo smise di urinare la notte.

Un orripilante esempio di pedagogismo nero è il trattato scritto dal dottor Schreber, padre di quel paziente affetto da paranoia analizzato da Sigmund Freud. Libri come  quello di Schreber ebbero successo e  fecero della crudeltà e dell'insensibi­lità verso l'infanzia il credo pedagogico di molti "educatori" di quel tempo. Leggendo le folli idee pedagogiche del dottor Schreber,  è evidente  che egli, con il suo pazzesco modo di intendere l'educazione, ha certamente fornito una spinta alla paranoia del figlio.

L'educazione nell'800 si basava dunque sulla convinzione che l'amore dei genitori verso i figli si manifestasse trattandoli non solo in modo rigido, ma addirittura quasi crudele. Ogni violenza psichica verso i bambini era irrilevante e ai genitori era concesso qualsiasi tipo d'intervento, anche il più brutale, se sostenevano di operare per il «bene» dei figli.

J. G. Kruger, altro pedagogista nero in voga tra il Settecento e l’Ottocento, affermava che i genitori sono autorizzati «a scacciare  la violenza con la violenza  perché così si rafforza la  considerazione che i figli hanno dei genitori, senza la quale non sarà possibile educare in alcun modo». Leggendo le farneticanti pagine di questi assurdi  "pedagogisti", sembra di trovarsi in mano un bollettino di guerra. Nella metà del XVIII secolo, Johann Sulzer, altro educatore  nero, scrisse che si può  far uso della violenza perché,  sostenne, con il passare degli anni i bambini dimenticano tutto ciò che è occorso loro durante la prima infanzia.

Il dispotismo era l’humus sociale che imperversava in ogni campo, da quello politico a quello del lavoro, e fu preso a modello anche dai genitori europei, che finirono col riversare sui figli un addestramento che non lasciava spazio allo sviluppo della personalità matura, perché  imposto in modo autoritario e  senza badare alle esigenze giovanili.

Nei paesi occidentali, agli inizi dell’Ottocento, il ruolo della famiglia e della parentela assunse un peso determinante, ma  divenne anche la sede privilegiata di formalismi, di luoghi comuni, di affermazioni da accettare e da non verificare. Gli adulti strutturarono la vita dei figli con una serie di doveri come mai era accaduto prima di allora ed inoltre non diedero alla gioventù alcuna possibilità di contraddittorio. 

Questo rigorismo, se da un lato spense gli ardori e le stravaganze giovanili che avevano in precedenza assillato generazioni di adulti, dall’altro si trasformò  in un crogiolo, a mala pena mascherato, di tensioni, di  malumori e di rancori, che spense l’iniziativa personale, e in molti casi portò alla nevrosi.

Scrive la psicologa Alice Miller che le persecuzioni sul piano fisico, praticate in un lontano passato sui bambini,  dall'Ottocento in poi furono sop­piantate da forme di crudeltà psichica,  appena mascherate dietro il termine eufemistico di "educazione". La famiglia ottocentesca, creando un distacco generazionale, perse l’occasione di “educare” in maniera consona  i figli.

Nei paesi non europei, questo genere di cultura pedagogica ottocentesca influì poco; cosicché, oggi non possiamo  meravigliarci della violenza dei niños delle favelas, dell’asprezza e della durezza dei ragazzi nelle metropoli extraeuropee,  dell’aggressività e della brutalità dei giovani mercenari orientali ed africani  addestrati militarmente: si tratta di  masse giovanili che non hanno mai avuto un’educazione sul genere di quella che, nel diciannovesimo secolo, imperversò in Europa. La violenza che ritroviamo nei niños sbandati che vivono una vita violenta nelle strade e nelle campagne, è rivolta all’esterno della famiglia perché col nucleo familiare  il rapporto è estremamente labile;  per cui essi  non subiscono alcuno stress da una struttura, quella familiare, che in quei Paesi  è quasi assente: essi rivolgono la loro aggressività nei confronti della gente che trovano in strada, contro i gruppi concorrenti,  che sono gli unici “interlocutori” della loro esistenza giornaliera.

In Occidente il problema è di tutt’altra natura: l’irruenza giovanile  si sviluppa nei confronti della famiglia, interlocutrice dei giovani occidentali, come la strada è l’interlocutrice dei ragazzi del Terzo Mondo.

Ma la violenza nella famiglia non è dovuta esclusivamente al sopraggiunto permissivismo. Lo attestano storie domestiche sanguinose, accadute proprio in periodi di maggiore rigidità educativa. Si tratta di orribili misfatti familiari, tutti collocati  in periodi non certo di lassismo educativo, anzi, tutt’altro. 

Infatti, anche le cronache redatte proprio in periodi di forte autoritarismo, narrano di efferati crimini familiari. Ecco alcuni esempi: nel XVI secolo, a Roma,  Beatrice Cenci, fanciulla molto bella e di nobile famiglia,  assieme ad un sicario, uccise nel sonno il proprio padre, che certo non era uno stinco di santo. La vicenda fece molto scalpore, anche perché fu lo stesso papa, Clemente VIII, che, riconosciuta la colpevolezza della donna, la mandò a morte. Un caso di parricidio, questo, che gli scrittori Percy B. Shelley e  Stendhal  hanno raccontato e reso celebre con due loro romanzi; nel XVI secolo, Marie de Brinvilliers-D’Aubray, avvelenò il padre, conte Antoine Dreux d’Aubray.

Nel 1720, la figlia dell’avvocato Francio Blandy, avvelenò il padre che non voleva che si sposasse con l’uomo che lei amava ma che non era piaciuto al genitore; in Francia, verso la fine dell’800, un signora della borghesia, Adelaide  Bourcer avvelenò il marito e la figlia;  nel 1892, la dodicenne Lizzie Borden, fino a quel momento ritenuta una ragazza modello di una famiglia perbene, massacrò a colpi d’ascia il padre a la madre. Nel 1960, a San Francisco,  Ann Duncan, una signora il cui aspetto era quello di una borghese della media società, essendo morbosamente attaccata al figlio, assoldò due sicari perché facessero fuori la giovane nuora, Olga Kupcyzk, “rea” di avergli portato via il “suo” Frank. 

Nel 1954, in Nuova Zelanda, la sedicenne Pauline Parker, aiutata dall’amica del cuore, Juliet Hume, uccise a colpi di mattone la madre, che voleva separare le due ragazze, temendo che fossero legate da un’amicizia lesbica.

Nel 1957 il ventenne K. Horst uccise a Francoforte il padre l’odontoiatra Otto Horst, e la matrigna, perché non  aveva perdonato al padre d’aveva divorziato. Nell’agosto del 1958, l’industriale tedesco D. Gerdts noto esponente dell’alta società di Amburgo, uccise la moglie, più giovane di lui di ventisei anni, e la suocera. Nel 1960 una anziana signora di Norimberga, di una famiglia agiata, Josephine  Fischold, ritenuta fino ad allora correttissima e  irreprensibile, recise la gola al figlio Rudolf, per dissapori familiari. 

Come si può rilevare, a giudicare da questi e da moltissimi altri casi, quando scatta irrefrenabile il conflitto emotivo e la furia dei sentimenti, i comportamenti violenti ed esasperati si possono manifestare anche in famiglie apparentemente immuni da aberrazioni e da turbamenti morali. 

 

 

Un sistema educativo adeguato deve sopperire alla transizione dal sistema coercitivo a quello  permissivo

Se anche nei periodi di maggiore rigore sono stati registrati efferati delitti, ciò dimostra che  non è sufficiente adottare  semplicemente un sistema pedagogico rigido per avere la serenità familiare.

Esistono alcune caratteristiche psichiche dell’animo umano, che, se non sono controllate dalla  maturità emotiva, possono dare luogo a comportamenti efferati. Se a ciò si aggiunge la difficoltà di sottrarsi, nell’ambito del nucleo familiare, alle inevitabili tensioni e conflittualità, non è difficile desumere quali sono i motivi che fanno esplodere le  violenze.

E così, se è pur vero che la maggiore libertà  ha  dato  corso a una flessione della ubbidienza, fino ad arrivare alla ribellione, ciò è potuto accadere  anche perché, tolti i blocchi e la repressione, la gioventù non  ha ricevuto, in alternativa, un adeguato sistema  educativo che potesse frenare l’irruenza propria della giovinezza e la ferocia del “retrobottega” della mente umana: l’autoritarismo dei genitori non è stato sostituito da una adeguata autorevolezza.

I giovani, non  più sottoposti ad una istruzione severa e non più  inibiti da un addestramento  duro e a volte anche arrogante, venuta meno la paura dell’autorità, non hanno incontrato alternative all’indottrinamento di un  tempo, e, liberi da vincoli e senza sufficiente maturazione, hanno  dato via libera a  reazioni violente. Ciò che prima era inibito dal tabù dell’autorità, è diventato, secondo loro,  legittimo e realizzabile.

Giovani e giovanissimi credono di essere nel giusto (e in molti casi lo sono) quando contestano la società con le sue contraddizioni. Ma ciò che essi non riescono a valutare è l’impossibilità di riformare, come vorrebbero, la struttura sociale  in un batter d’occhio. E così, in una società permissiva, i giovani, perse le inibizioni, sono tornati ad essere agguerriti e aggressivi come prima dell’Ottocento.

La rivoluzione sociale che è in atto, non trova in sintonia adulti e giovani: i tempi adattativi degli adulti sono più lenti di quelli  dei giovani, i quali sono più pronti ad assorbire la evoluzione della comunità Questo crea un accentuato divario tra le generazioni; tant’è che i genitori spesso non comprendono i figli, che, invece,  si sono subito adeguati alle nuove frontiere  del villaggio globale.

I giovani, educati un tempo con rigore dispotico, non azzardavano alcuna ribellione, ma quando è venuta meno la repressione, rimossi i blocchi dittatoriali, hanno perso le inibizioni. La maggiore libertà ha avuto alcuni effetti benefici, tuttavia, poiché  non sempre  è impartita una educazione razionale, basata sul dialogo e sulla maturità,  può accadere che oggi i giovani siano più esposti al pericolo di  stravaganze e di violenze. 

Ed allora, era meglio l’autoritarismo?

Nemmeno questa sembrerebbe la strada più opportuna, se è vero che l’Ottocento, periodo di maggiore autoritarismo educativo, ha prodotto, più di qualunque altro secolo, individui nevrotici. In molti casi l’autoritarismo, schiacciando la personalità, ha generato individui frustrati o  belve inselvatichite dalla rabbia; ma di converso, una gestione  troppo  assillante dell’amore genitoriale  può essere  dannosa tanto  quanto l'abbandono e la disaffezione. Pur essendo atteggiamenti antitetici, autoritarismo e accondiscendenza  sono fonti di disagio esistenziale, di paure  e di  inquietudini.

È dal carattere degli adulti e dal loro modo di educare che derivano la maturità o la caparbietà, l'irragionevolezza o la serenità, l'immatu­rità affettiva o l’equilibrio interiore, la gracilità psichica o la forza d’animo dei loro figli.  Quando le situazioni che affliggono gli adulti vengono "riversate" sui figli, si creano "corti circuiti" emozionali e  psicologici che restano impressi nella vita dei minori.

Purtroppo, spesso la transizione dal rigore educativo alla accondiscendenza pedagogica,  avviene nell’ambito delle singole famiglie, con una specie di fai da te educativo, incontrollato e privo di riscontri. Spesso la famiglia non è in grado di promuovere  l’educazione dei sentimenti, anzi, in qualche caso, sollecita, senza volerlo, una vera e propria confusione dei sentimenti. L'amore possessivo dei genitori, paradossalmente,  può soffocare la libertà e affliggere la vita di bambini e adolescenti. L'individuo deve invece  essere  aiutato a maturare,  e solo dopo cesserà di essere un bambino per  diventare un membro della comunità. Spesso s’incontrano adulti che non sono affatto cresciuti  emotivamente  e dunque non sono all’altezza di educare.  L'ansia di alcuni genitori pone l’adolescente al centro dell'attenzione  e lo stringe in un vero e proprio "accerchiamento" emotivo. Questo atteggiamento soffoca la libertà del minore e stimola problemi psicologici di vario genere. Il minore  assillato da adulti nevrotici cresce con una evidente "fragilità" psichica  difficilmente sanabile.

I sistemi educativi costruiti sull’onda dell’emotività, non contribuiscono alla maturazione dei giovani. E purtroppo, anche la cronaca dimostra come molte famiglie non siano idonee al compito educativo, e come  non tutti i genitori sono maturi e preparati ad impartire un’educazione raziocinante. Anzi, spesso, molti adulti impongono ai figli  luoghi comuni e criteri insensati, senza che i minori siano in grado di rigettare  quel genere di pedagogia.

E così, allorquando la gioventù  ha conquistato il diritto alla libertà, senza che avesse però raggiunta una riflessiva  e matura consapevolezza, è  stata indotta a sentirsi legittimata a conseguirne i propri obbiettivi con qualsiasi mezzo, violenza compresa. Una deflagrazione rabbiosa, questa, che  è stata favorita anche dalla «aggressività ancestrale» di cui è dotato il cervello umano.

 

 

L’esplosione è improvvisa e imprevedibile?

La educazione formale,  imposta con la paura,  stimola la mistificazione, tant’è che  parole,  gesti, e mimica vengono disciplinati dall’ipocrisia e dal timore di castighi,  sicché i  reali sentimenti del soggetto non trapelano quasi mai. 

È questo il caso in cui  non è possibile capire quali emozioni provi davvero la persona che si autocontrolla. I sorrisi stereotipati e un’affettata cordialità, a volte nascondono dinamiche psichiche complesse e pulsioni emotive impossibili da esprimere. Questa apparente tranquillità esteriore rende  vaga  e ambigua la differenza tra il mondo “dei sani” e quello “dei malati”; infatti,  solo quando emerge la furia selvaggia,  è svelato  il contrasto tra follia e normalità.

Ma come prevedere il “salto” dal mondo dei falsi sani di mente a quello dei malati? Come spiegare l’omicidio di genitori da parte di figli che davano l’impressione di essere educati e rispettosi dei principi loro inculcati?

Spesso i giovani non  lasciano trapelare che “dentro” al loro animo, consciamente o meno, ribolle una furia atavica, a volte incontrollabile. In molti casi si tratta di  personalità deboli, insicure e infantili, a cui manca un obbiettivo processo di valutazione del reale.

La ragionevolezza di un individuo dipende anche dal buon funzionamento del suo sistema emozionale, e se questo va in tilt, come nel caso delle personalità più fragili, ecco che  esplode  l'insensatezza umana. Non sapere ascoltare, non sapere intercettare i messaggi più significativi al riguardo è una responsabilità da attribuire agli adulti.

Per dipanare la intricata matassa della violenza e del disagio giovanile, bisogna rassegnarsi all’idea che, agli inizi del terzo  Millennio, sebbene l'uomo viva in un mondo tecnologico progredito, egli non ha ancora estirpato dalla propria anima i retaggi della primitiva barbarie. L'unica possibilità che si ha per frenare questa follia è educare meglio i giovani. Infatti, solo un’educazione intelligente e civile potrà renderli consapevoli, non-nevrotici, e ragionevoli.

Purtroppo bisogna riconoscere che gli educatori dovrebbero essere “meglio educati” perché possano educare meglio. Infatti è alquanto tangibile la carenza degli adulti in  campo pedagogico.

Spesso i delitti dei giovani si verificano quando sono stati cancellati i confini  tra sogno e realtà, e hanno preso il sopravvento gli stereotipi, le chimere e le incongrue convinzioni che sono il bagaglio “culturale” di una società troppo competitiva e  arrivista. Se la mente è inquinata da archetipi "para-logici" e  da categorie di pensiero inattendibili, allora le capacità di controllo del reale s'indeboliscono e si possono commettere atti inconsulti. In questo caso, la differenza tra normalità e delirio si affievolisce e determinazioni perverse maturano nel crepuscolo della mente, tra conscio e inconscio. A quel punto, il buio scende nel cervello, e, dato che il buon senso viene surrogato dagli atavici meccanismi di difesa-offesa, può accadere che, giovani apparentemente “tranquilli” e “perbene”, si comportino con crudeltà e distruttività. 

Se il cervello è integro, se l'intelligenza è sufficientemente sviluppata, allora  il controllo della realtà è più chiaro. Tuttavia, la ragionevolezza di un individuo dipende non solo dalle  capacità intellettive, ma anche dal buon funzionamento del  sistema emozionale. Se questo va in tilt,  la necessità di cicatrizzare qualche sopruso (vero o presunto) causa un’esaltazione rabbiosa che porta talvolta persino al delitto. Poiché certe ferite dell’anima sono devastanti più di quelle fisiche, i giovani che  non sono più inibiti dal rigore della ubbidienza e che non sono resi ragionevoli da un’educazione formativa, che fornisca loro opportune riflessioni civili, quando sono invasi da un insostenibile accumulo di risentimenti, esplodono in violente e incontrollate manifestazioni  di rabbia e di odio.

E in fine, bisogna anche dire che, oltre alla struttura cerebrale primitiva, un altro fattore che determina le azioni  crudeli è ciò che L. Athens chiama,  in The Creation of Dangerous Violent Criminals, opera di violentizzazione, cioè  il genere di educazione che insegna l’utilità della violenza o che si esprime con brutalità. In altri termini, poiché ci comportiamo in conformità con i modelli ricevuti, chi ha subito, oppure ha appreso, uno stile di vita feroce e brutale, finisce inevitabilmente col comportarsi in maniera violenta.

Il poeta e drammaturgo inglese W.H Auden così si è espresso in proposito: «Colui a cui viene fatto del male, farà del male a sua volta»

                                                                                     

 

 

Conclusioni

L’adolescenza è un’età difficile; tende a contrapporsi all’età adulta, e poiché nessun adolescente è immune da sofferenze psicologiche, bisogna sapere ascoltare e anche parlare con i toni giusti. È probabile che alcuni dei misfatti accaduti all’interno del nucleo familiare, se fossero stati meglio monitorati con una più efficace opera educativa, si sarebbero potuti prevenire. Ma non si deve demonizzare  né la famiglia moderna, né i genitori, né la gioventù: il nucleo  familiare non è solamente un problema,  può  essere  una risorsa e  una certezza  e, per fortuna, la maggior parte dei genitori e dei giovani  riescono ad intuirlo. E per ciò, è necessario ricordare anche i  grandi gesti d’affetto che ancora si usano  in famiglia. Uno di questi, forse quello che li riassume e li nobilita, è accaduto  a Milano, nel marzo 2001. Un figlio trentaduenne, Daniele Maccarinelli, sposato e padre di due bambini, rischiando la vita e ipotecando un futuro che per la sua salute potrebbe essere denso di incognite,  ha voluto donare  al padre metà del suo fegato per salvargli la vita. Si tratta di un edificante ed emblematico episodio che, dopo tanto orrore, bilancia  quelli delle cronache nere.

Non bisogna dunque lasciarsi trascinare dall’onda dell’emotività, e giudicare troppo severamente la gioventù d’oggi. Tracciando un identikit dei giovani del 2000, senza banali luoghi comuni, si può affermare  che non sono  né più egoisti, né più fragili di quelli di un tempo. Essi pongono, però, una maggiore attenzione, di quanto non facessero i giovani del passato, alla critica sociale e familiare, e, a differenza dei sessantottini, credono meno all’agone politico, anche perché quello attuale lo trovano arido e desolante.

I giovani del XXI secolo, hanno, in cima ai loro bisogni, l’obbiettivo dell’indipendenza psicologica dagli adulti. Un traguardo che, assieme alla necessità di  realizzare al meglio le proprie capacità  personali, è al primo posto nei loro desideri.

È un errore grossolano ritenere che vi siano davvero tanti giovani così cinici e prepotenti da formulare piani diabolici per impossessarsi dei beni domestici e sopprimere la loro famiglia quando litigano con essa.       

Non si deve pertanto attribuire ai fatti che la cronaca riporta una valenza statistica maggiore di quella reale. Infatti, se da un lato un giusto allarme viene segnalato dai media, soprattutto per quanto riguarda i crimini commessi dai giovani, dall’altro non bisogna ignorare che le statistiche dell’Istat (annuario n°37 del 1991) mostrano attraverso una analisi degli omicidi volontari, preterintenzionali e degli infanticidi commessi in famiglia,  che in Italia dal 1930 al 1989, non vi sono stati grossi aumenti percentuali. Anzi, le statistiche indicano che dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’indice di criminalità, per i delitti contro la famiglia è passato,  dal 20,8 per 100.000 abitanti nel 1975,  al 14, 4 nel 1989.

Insomma, la patologia della famiglia ha un andamento stabile, e se essa è sempre più evidenziata, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore sensibilità con la quale vengono rilevati i crimini in famiglia, una trasparenza e una attenzione che, in passato era mancata, e che può indurre a pensare erroneamente che prima di oggi non vi fosse un numero altrettanto consistente di delitti. Bisogna inoltre  riflettere, senza ipocrisie, sul fatto che non esiste il mondo ideale e aprioristicamente perfetto, ma che è possibile, comprendendo certe rabbie, certi distacchi e certi mutismi significativi,  intervenire per evitare la loro pericolosità.

Fortunatamente come afferma Frans De Waal, l’essere umano, come tutti i primati, tende anche  alla riconciliazione, e far la pace è naturale tanto quanto lo è la guerra. Il comportamento della riconciliazione è un tassello che fa parte della nostra eredità biologica. E meno male.

 

 

RIASSUNTO

La violenza giovanile  in famiglia è un male oscuro che sembra gravare pesantemente sul nucleo domestico, dal momento che le cronache riferiscono sempre nuovi atti inconsulti commessi da giovani e da  minori. Le cause di questi episodi vanno ricercate sia nella stessa natura umana, ancora troppo legata al proprio passato ancestrale, sia in un difettoso e carente imprinting educativo. 

È probabile che alcuni dei misfatti accaduti all’interno del nucleo familiare, con una più efficace opera socio-pedagogica,  si sarebbero potuti prevenire. Ma non si deve demonizzare  né la famiglia moderna, né i genitori, né la gioventù: il nucleo  familiare non è solamente un problema,  può  essere  una risorsa e  una certezza  e, per fortuna, la maggior parte dei genitori e dei giovani  riescono ad intuirlo.

 

SUMMARY

Juvenile violence in families is a sombre evil that seems to seriously oppress the domestic nucleus. As reported by the newspapers, more and more crimes are committed by the young and youngsters under age. The causes of these episodes are to be found both in human nature itself – which is still too tightly depending on its ancestral past – and in a wrong or insufficient educational imprinting.

It is probable that some of the crimes that have been committed within the nucleus of a family could have been prevented by a more efficient sociological and pedagogical action. But one should not put the blame on the family, on parents or on the youth: the family nucleus is not simply a problem, it can also be a resource and a certitude. Luckily, most parents and most youngsters are able to understand it.

 

 

 

 

 

 

 

 


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