DEPRESSIONE, SUICIDIO E
RAPTUS OMICIDA-SUICIDA
La
depressione è un quadro clinico complesso, caratterizzato da uno stato
d’animo oltremodo malinconico e da profonda afflizione. Il depresso perde
interesse nei confronti di ciò che lo circonda, ha una visione pessimistica
della vita, non ha più gioia di vivere, manca di concentrazione,
è spesso assillato da fantasie di morte,
si sente minacciato da sentimenti di perdita e “tradito” dalla vita.
Stati d’animo che si evidenziano anche dal punto di vista somatico, perché la
persona depressa si sente affaticata e presenta anche un rallentamento motorio.
Al
di là delle cause biochimiche - e secondo taluni orientamenti di ricerca, anche
ereditarie – è probabile che una predisposizione psicologica allo sconforto
affondi le radici nell’infanzia. Talvolta la patologia si aggrava,
riproponendosi, con una certa periodicità, con un andamento bipolare, ora sotto
forma di malinconia, ora sotto forma di mania. Tale instabilità emotiva induce
il depresso a provare sentimenti di ambivalenza anche verso le persone amate.
Può
accadere che, se non opportunamente
arginata, la depressione raggiunga stadi avanzati, sfociando in un’ira
autodistruttiva, accompagnata da sensi di colpa che peggiorano ancor di più il
quadro clinico. Il problema si complica quando il depresso vuole “liberarsi”
del suo insopportabile fardello esistenziale: in tali circostanze non bisogna
mai sottovalutare le sue dichiarazioni autolesionistiche e le frequenti idee
suicide che, talvolta, restano soltanto semplici tentativi di sopprimersi,
tal’altra raggiungono l’effetto desiderato.
Come
evidenzia lo psichiatra G. B.
Cassano, nessun problema che assilla
la persona depressa deve essere considerato banale, perché questo tipo di
patologia comporta un genere di sofferenza senza eguali che, in alcuni casi,
oltrepassa i limiti della sopportazione.
Depressione e disperazione
La
depressione, come evidenziato da E.
Weiss, ha vari gradi d’intensità. Quando
si manifesta, la
depressione
è avvertita come
una profonda delusione da cui si genera, come afferma Otto Fenichel, una
struggente disistima. Chi è affetto da questo stato d’animo “sente” il
mondo esterno con minore intensità e interesse di prima. Ciò accade anche
perché la maggior parte dell’energia mentale viene consumata in conflitti
inconsci e poca ne rimane per dedicarla al piacere della vita. Il soggetto può
ritenere il suo status depressivo dovuto a ferite psicologiche, alla sensazione
di essere caduto in disgrazia o dall’esser
stato deluso da qualcuno.
La
situazione “di avvilimento” avvertita dal depresso è segnalata dal
disinteresse per gli affari, per gli affetti, per il lavoro; tant’è che il
malinconico non riesce a mettere in moto meccanismi che cancellino o fronteggino
lo sconforto.
Secondo
Willad Gaylin la depressione può essere intesa
anche come un meccanismo di difesa che bloccherebbe le tensioni
distruttive che minacciano di sopraffare l’Io. La depressione è
caratterizzata da stati d’animo malinconici che creano acquiescenza alla
situazione negativa: è attesa passiva, il cui sottofondo, magari non dichiarato,
è di aspettazione: la persona depressa attende passivamente che la situazione,
prima o poi, possa
modificarsi. La malinconia è fatta di paesaggi nebulosi, le strade da
percorrere sono ambigue, “pericolose” e, tuttavia, ancora da
esperire.
La
disperazione, invece,
è lo status
in cui non è più possibile bloccare le tensioni interne distruttive ed è il
momento più pericoloso, quello che induce a gesti insani. Essa
è “gonfiata” dalla sopravvalutazione di un interesse: lo studente si
suicida perché ha conseguito un
brutto voto a scuola; egli ha sopravvalutato l’importanza del buon voto, mettendolo al di
sopra della propria stessa vita. Laddove, dunque, al malinconico non interessa
più nulla di nulla e, di conseguenza, non fa niente per alleviare il suo stato
(egli è deluso di sé e rinunzia a perseguire i suoi scopi), al disperato,
invece, l’esito negativo, il fallimento, “bruciano” in maniera
insopportabile, per cui egli sente di dover fare qualcosa al fine di
“cancellare” la propria sconfitta (che essa sia reale o immaginata poco
importa).
La
disperazione è lo stato più avanzato e furioso dell’avvilimento e
pone davanti a un baratro, ad un traguardo che non prospetta
alcuna illusione. La persona disperata vede la propria vita senza più
alcuna nebbia metafisica che mascheri la catastrofe esistenziale e che
induca a sperare in qualche alternativa. Davanti alla ineluttabilità del
disastro, al cospetto della irreparabilità vera o presunta, nulla aiuta a
sopportare la catastrofe. L’unica possibilità che intravede la persona
disperata è cancellare tutto.
Ambivalenza e autolesionismo della
disperazione
In
una situazione di pericolo, chi non è esistenzialmente disperato
si tutela per salvarsi e mobilita
tutte le proprie risorse e accetta la sfida per tirarsi fuori dalla congiuntura
negativa. La persona che invece si ritiene “catastroficamente senza via
d’uscita”, di fronte al pericolo vero o presunto, non riesce a far ricorso
alle proprie risorse interiori
e non adotta alcun sistema di difesa, ritenendosi impossibilitata a fronteggiare
l’emergenza: di conseguenza “si lascia andare”. Facendo così, non solo non si protegge, fa di peggio: adotta
un autolesionismo espiatorio, ritenendolo efficace per fronteggiare
l’emergenza.
In
questi casi la persona opera stravolgendo i normali sistemi di difesa.
Ad
aumentare la disperazione, entrano in ballo meccanismi primordiali di
ambivalenza che hanno origine nella prima infanzia, epoca
in cui il bambino ama la madre quando gli procura piacere, ma, nel contempo,
la odia quando gli infligge frustrazioni. La possibilità di amare e odiare
contemporaneamente una persona o un oggetto sorge nei primi anni di vita e
funziona anche nei confronti del proprio Io, amato e odiato simultaneamente.
Il
suicida ama e odia sé stesso. Quando l’Io crolla per le sferzate
dell’avversa fortuna e l’aggressività preconscia non è più controllata,
possono prendere il sopravvento sentimenti di autodistruzione e l’individuo,
odiandosi, “si punisce”
sopprimendosi.
Le
persone affette da disperazione
esistenziale hanno livelli di autostima precari se non si sentono
incoraggiate e sostenute. Esse dipendono dalle approvazioni e dai riconoscimenti
degli altri. Quando tali appoggi vengono meno, esse precipitano nella
disperazione.
Il
trauma della frustrazione può essere minimo o grave; la condizione dell’Io può
essere tale da mancare totalmente di
efficaci meccanismi di difesa o essere, in qualche modo, compensata. Da
questi fattori dipende l’intensità della disperazione.
Lo
scrittore Morselli si suicidò perché nessun editore
giudicò i suoi manoscritti degni di pubblicazione. Mancando la gratificazione
sulla quale lo scrittore aveva fondato tutta la propria autostima, vennero meno
le energie di sopportazione e, di conseguenza, la possibilità di superare le
avversità della vita.
Spesso,
le persone più vulnerabili sono quelle che fondano il rispetto di sé
esclusivamente sull’approvazione e sul riconoscimento dall’esterno. Esse,
quando il loro narcisismo subisce una scossa, precipitano nella disperazione.
La disperazione
nelle donne e negli uomini
Svariati
e, spesso, derivanti da input
psico-socio-sessuali, sono i motivi che fanno insorgere avvilimenti che portano
all’autodistruzione.
Nella
donna, le cause più gravi di disperazione derivano dalla perdita del prestigio
come “madre” e dalla scomparsa di sicurezza in seno alla famiglia. I figli
sono la massima forma di orgoglio e di prestigio per la donna: un fallimento in
questo campo crea una grave insicurezza e mette in forse l’autostima
femminile. Ma la depressione nelle
donne può anche derivare dalla discriminazione sociale, che crea un modello
femminile di “rassegnazione”, modello al quale molte donne sono
“invitate” a uniformarsi magari anche dalla famiglia, dagli amici e dai
compagni. Infatti gli stereotipi alimentano l’immagine della donna perdente e
depressa. Per molte donne
l’abbandono del marito, la malattia grave di un figlio o di un congiunto, una patologia
che la colpisce personalmente e che fa prevedere l’impossibilità ad assolvere
ai propri compiti familiari, crea una disperazione irreversibile. La donna che
giunge alla conclusione (vera o presunta) di
non poter più allevare i propri
figli (perché senza denaro, abbandonata dal partner o malata) nel proprio
delirio, volendo evitare loro il disagio della sua inadeguatezza, “li salva”
eliminandoli.
Alcune
donne si suicidano perché si ritengono ammalate al punto da non poter essere più
utili alla famiglia e credono di
“risolvere” il problema dei figli trascinandoli con sé nella tomba e
“salvandoli” così dal disastro della mancanza di una madre efficiente. Più
una donna è fragile più ritiene di perdere influenza se la situazione
familiare s’impantana o se ella fallisce come madre.
Gli
uomini di solito non ammetto se non in casi gravi la loro depressione:
preferiscono parlare di stanchezza e avvilimento dovuti a iperlavoro. Molti la
nascondono nell’alcol. La depressione maschile è spesso bipolare, e l’uomo
che ne è affetto lamenta ora stati di prostrazione, ora presenta invece una
super attività il più delle volte scoordinata.
A
differenza di quello della donna, l’orgoglio dell’uomo, non si basa
sul ruolo di padre, ma sulla carriera e sulle conquiste sociali. La perdita di
un affare importante può indurre un uomo a stati morbosi (e autopunitivi) che
lo spingono alla disperazione e al suicidio. Narcisisticamente parlando, dopo la
sconfitta, l’uomo che non vede nessuna possibilità di redenzione, perché
poco avvezzo “a sopportare i dardi dell’avversa fortuna”, perde ciò che
ha di fondamentale, ossia il proprio prestigio personale.
Può
così accadere che un uomo si suicidi per un fallimento economico e che una
donna si dia la morte perché si sente fallita come madre. È poco consueto che
una donna ponga fine ai suoi giorni per un crack commerciale: così come è poco
probabile che un uomo si sopprima sentendosi inadeguato come genitore.
Questo
perché per l’uomo, a differenza che per la donna, i figli non sono
l’oggetto del più alto investimento narcisistico. L’uomo trova il proprio
prestigio nell’attività lavorativa e nelle conquiste sociali: quando queste
vengono meno, egli entra in depressione.
Il
maschio, incapace di sopportare forti delusioni, quando si
imbatte in una situazione in cui vede crollare la propria autostima,
precipita nell’abisso.
Carattere e conseguenze del crollo delle
difese vitali
Il
tipo oralmente dipendente è forse quello più predisposto alla depressione.
L’individuo
orale è rassegnato e, come il bambino piccolo, si immalinconisce quando non ha
i necessari appoggi psicologici ed esistenziali. Smarriti gli incentivi alla
speranza, egli scivola nella passività.
Alla
disperazione è invece più
predisposto il tipo fallico-narcisista, il quale reagisce in maniera diversa
alle frustrazioni. Il suo “Io” si ribella violentemente e non attende
“passivamente” una soluzione. Egli è incapace di erigere barriere, di
frenarsi e così, se nelle avversità è travolto dal senso di annichilimento, si
dispone ad “uscire di scena”, in maniera anche violenta.
Il
suicido: quadro storico
Alcune
culture escludono la liceità del suicidio, altre lo accettano. Variegate sono
le valutazioni che, del suicidio, fanno le religioni: il Brahamanesimo,
ritenendo che l’anima sia oppressa dal peccato, crea i presupposti rituali per
por fine alla vita terrena. Il Buddismo, non attribuendo grande importanza alla
vita, comprende (e approva) il desidero di chi vuole liberarsene.
La
religione giudaica, invece, condanna severamente il suicidio. Nel Vecchio
Testamento sono ricordati come atti esecrabili gli episodi di Sansone, Saul,
Akhitofel e Abimnelek, così come è condannato, nei libri apocrifi (II Mach,
XIV.42-46) il suicidio di Razis. Nel Nuovo Testamento è ricordato il suicidio
di Giuda Iscariota (Giov. 6:71), del quale le fonti non suggeriscono alcuna
spiegazione psicologica. La narrazione si riassume nell’attestazione «..
Satana entrò in Giuda..», affermando così che sia il tradimento, sia il
suicidio di Giuda fanno parte di un disegno che trascende «la volontà» del
figlio di Simone.
Sebbene
in Grecia il suicidio fosse considerato un
atto alquanto riprovevole, e a Roma, addirittura, doveva essere
“autorizzato dal tribunale”, per non essere considerato un atto indegno, la
tradizione greco romana è costellata di suicidi celebri tra i quali quello di
re Crodo, di Tepopolo e di Didone. Nel 510 a.C., il patrizio Lucio G. Bruto, primo
console, quando si rese conto che Roma stava per cadere sotto l’assedio dei
Tarquini, si fece trafiggere con la spada dal suo più fidato aiutante di campo.
Nell’antichità,
alcuni filosofi si sono dati la morte per ”ragioni sagge”: Zenone di Cizio,
vissuto nell’isola di Cipro, tra il IV e III secolo a. C., dopo avere seguito,
ad Atene, vari insegnamenti dei massimi filosofi del tempo, fondò egli stesso
una scuola stoica. Quando “non ritenne più utile vivere” si diede la morte.
Nel
78 a.C., inseguito da Silla, non potendo sopportare l’idea della sconfitta,
morì suicida Gaio Mario, detto il giovane,
nipote e figlio adottivo del grande Gaio Mario. Per inciso, il suo inseguitore
pare non abbia avuto sorte migliore: sembra infatti che Silla, uomo di
temperamento aggressivo e rabbioso, sia morto, nello stesso anno, per un
violento accesso di ira. Nel 45 a.C. un uomo politico di grande statura, Marco
Porcio Catone detto l’Uticense, dopo avere invano lottato contro Giulio Cesare
per ripristinare l’era repubblicana, ormai sconfitto, non volle abbassarsi a
chiedere grazia al dittatore e, dopo aver letto alcuni passi del
Fedone di Platone, si trafisse con la spada.
Qualche
anno dopo, nel 42 a.C., nella prima Battaglia di Filippi, Gaio Cassio Longino
che aveva partecipato alla congiura contro Cesare, assediato da Ottaviano,
convinto ormai di aver perso, si uccise. Assieme a lui si diede la morte Marco
Giunio Bruto che aveva condiviso con Cassio
la congiura contro Cesare.
Nel
65 d.C., si diede la morte il fecondissimo filosofo e scrittore romano Lucio
Anneo Seneca, accusato ingiustamente di aver cospirato contro l’imperatore. In
quello stesso periodo Nerone, avendo ormai tutti contro ed essendo stato
dichiarato hostis dal Senato, dopo
un’inutile fuga, per evitare l’arresto, si suicidò.
Non
altrettanto determinata a togliersi la vita fu Messalina che, invitata da
Claudio a suicidarsi, non “riuscì” a farlo e venne uccisa, qualche giorno
dopo, nei giardini di Lucullo, dai sicari dell’imperatore.
I
Germani ritenevano che chi aveva il coraggio di darsi la morte
arrivava sicuramente al cospetto di Odino, la maggiore divinità dell’Olimpo
germanico.
Il
concilio di Arles del 425 d.C. e poi il Sinodo di Braga del 563 d.C.
condannarono il suicidio. Provvedimenti che si resero necessari poiché, sempre
più spesso, credenti infervorati, volendo concludere la vita terrena per
evitare le persecuzioni, per liberarsi dagli affanni o, più semplicemente, per
ricongiungersi al Creatore, cercavano di affrettare quell’incontro, come pare
abbia fatto anche Pelagia d’Antiochia.
Nel
565 d.C., Giustiniano, nel suo Corpus
Iuris Civilis, ammise che fosse “giustificabile” il suicidio, se
provocato dal taedium vitae. Il gesto era considerato invece illegale se serviva a
sfuggire alla giustizia o era volto ad ingiuriare lo Stato.
In
epoche successive, in varie nazioni dell’Europa cattolica, il suicidio è
stato considerato un delitto e ciò fino alla fine del secolo XIX: così, alcuni
scrittori come Montesquieu, Rousseau
e Beccaria hanno protestato contro le condanne troppo gravi inflitte a coloro
che erano stati scoperti
mentre tentavano il suicidio.
In
India, invece, fino a qualche anno addietro, la tradizione imponeva alla vedova
appartenente a certi strati sociali, una forma di suicidio-lutto da porre in
atto nella stessa pira del marito. Sebbene in alcuni passi il Corano sia contro
il suicidio, nel mondo Islamico non esistono particolari “restrizioni” al
suicidio che, anzi, è ammesso ed approvato in particolari condizioni, quali, ad
esempio, dare la vita per la causa di Allah, situazione questa che, negli ultimi
tempi, si è purtroppo, continuamente e tristemente verificata. A coloro che si
“sacrificano” in simili circostanze è “garantito” un posto nel giardino
delle delizie dell’al di là.
In
Giappone, durante la Seconda guerra mondiale, l’ammiraglio Takejiro Onishi ideò
l’impiego di piloti-suicidi che venivano lanciati col proprio velivolo carico
di bombe ad alto potenziale
esplosivo, contro le navi nemiche. Almeno 1300 piloti giapponesi accolsero con
entusiasmo l’invito dell’ammiraglio e si sacrificarono, sicuri di guadagnare
così, in maniera rapida e certa, una ricompensa nell’altro mondo.
Il suicidio: varie interpretazioni
Lo
psichiatra Vincenzo Rapisarda afferma che parlare «.. della morte provoca
sempre un certo disagio..» e che «.. ancora più sgomento desta l’idea di un
uomo che, di sua iniziativa, scelga la morte come ultima tragica
decisione».
Rapisarda
vede le cause principali di suicidio nel disagio esistenziale dei giovani, nella
solitudine degli anziani e nelle sofferenze psico-fisiche. Lo psichiatra
catanese approfondisce il discorso su chi rinunzia a vivere, sottolineando il
fatto che la fragilità dell’uomo che ha perso un solido sistema di
riferimento ed è per ciò incapace di adattarsi ai problemi che presenta la
vita, lo porta, paradossalmente, a sperare nella salvezza proprio mediante il
suicidio.
Difficile,
allora, dinanzi a qualsiasi suicidio, esprimere pareri definitivi e sicuri.
Infatti, sono tante ed indecifrabili le ragioni che possono far precipitare il
mal di vivere nella decisione di porre fine alla propria esistenza. Secondo
Cesare Musatti, il suicidio ha due meccanismi distinti: l’uno è generato
dalla perdita dell’oggetto amato, l’altro dalla conversione della
aggressività verso l’esterno in
autoaggressività.
In
genere, colui che si suicida è un
individuo vulnerabile, socialmente e/o psicologicamente isolato, che non
sa dare risposte adeguate alle necessità e ai problemi della
quotidianità; una persona incapace di metabolizzare il proprio passato e
di accettare il proprio presente. Anche
una persona che vive di utopie, però, è paradossalmente un “ottimista” che
s’illude che il tragico e
irreversibile gesto sia invece l’inizio e/o una svolta per “un
miglioramento”.
Riguardo
al suicidio, ci si può chiedere: se da un canto esso
è visto come una complicazione di patologie ben definite, d’altro canto si
può ipotizzare che tale atto estremo possa
verificarsi al di fuori dalla patologia psichiatrica grave? (Uno
sconvolgente dilemma, non del tutto assurdo, se si considerano, ad esempio,
certi suicidi come quello di Catone l’Uticense o quello di
Seneca).
Claude
Sigismond, ricordando il suicidio dello scrittore Henri de Montherlant, dello
psicologo Jacob L. Moreno e del direttore dell’UNESCO Jaime Torrès-Bodet,
afferma che coloro che conoscevano bene questi uomini li consideravano non
individui disperati, ma persone che avevano voluto “scegliere”, con piena
lucidità, il momento della loro fine, ritenendo conclusa la
possibilità di vivere in maniera sopportabile la loro esistenza.
Al
riguardo, Sigismond osserva che il suicidio è “un atto umano”, pieno di
conseguenze che, in casi estremi, taluni ritengono «una soluzione esistenziale»,
benchè conturbante.
Jacob
Levy Moreno, l’inventore dello psicodramma, sentendosi irreparabilmente
malato, si è suicidato nel maggio 1974, rinunziando ai medicamenti che gli
erano indispensabili.
Henri
de Montherlant si è ucciso, nel 1972, temendo di rimanere cieco. Jaime Torrès-Bodet,
colpito da un male incurabile, volle poter “scegliere” quando porre fine
alle proprie sofferenze.
Durkheim
distingue il suicidio in: egoistico
che è quello in cui l’io individuale prevale su quello sociale; altruistico
(messo in atto da alcune società primitive) e anomico, dovuto alla incapacità del soggetto di dare risposte
efficaci al mutare delle
condizioni sociali.
In
ogni caso, il suicida presenta un grave “scollamento” tra il senso della
realtà e il suo mondo immaginario. Il risultato finale è la rischiosa
convinzione che il corpo (e la vita stessa) siano all’origine del dolore
fisico e/o esistenziale: è sufficiente liberarsene, per rasserenarsi.
G.
B. Cassano afferma che il suicidio è più frequente quando la depressione è
bipolare e che il momento più a rischio è quello durante il quale si apre una
fase di “vuoto” e ogni difesa risulta abbassata.
Il regista Louis Malle ha affrontato il problema del suicidio nel film Fuoco fatuo. Il titolo emblematico sottolinea il punto di vista di
chi pensa di darsi la morte: il “fuoco fatuo” è, infatti,
la vita, la quale, secondo chi è disperato, è senza consistenza.
Il
protagonista del film spiega così il motivo del gesto che sta per compiere: «Mi
uccido perché la vita non ha senso. Pongo fine alla mia vita proprio perché
questo gesto dia un senso alla mia vita». Karl Jaspers ritiene che il suicidio
abbia origini psicotiche e che
insorga dall’angoscia, dal tedium vitae,
dalla disperazione e da processi di decadimento mentale. Lo psichiatra svizzero
afferma, tuttavia, che molti suicidi non sono commessi da malati di mente, ma da
persone con una concezione abnorme della vita.
Può
accadere che un individuo con una personalità scarsamente integrata - afferma
James M. A. Weiss – possa immaginare di risolvere il problema dei propri
traumi ponendo fine alla propria vita. Il
medesimo autore evidenzia che il suicidio è anche un fatto culturale. Infatti,
in alcune tribù primitive, esso è sconosciuto oppure ha una incidenza
molto bassa, mentre in alcune culture esso è, non solo accettato, ma, in certi
casi, obbligatorio.
In
Inghilterra, il suicida era punito, per una norma disposta da Enrico III, con la
confisca dei suoi beni, i quali
venivano così sottratti agli aventi causa; inoltre erano vietati i funerali
pubblici. Soltanto nel 1870 questa normativa venne abrogata.
Arieti
e Meth affermano che il suicidio risente
di influenze socio-culturali: a tal proposito essi hanno rilevato che i suicidi
sono rari in Africa, Sud America, Australia e Polinesia. La “pratica”
è sconosciuta presso gli Yahgans della Terra del Fuoco,
mentre la si riscontra presso i Kanchadals della Siberia, i Navajos e alcune
tribù Melanesiane.
Secondo
l’Oms (rilevamento 1998) la Cina ha un alto tasso di suicidi.
Tradizionalmente, in quel Paese, il
suicidio è un mezzo per sottolineare che si è stati trattati male e sottoposti
a un torto. Sono molti i Cinesi che tentano ogni anno di togliersi la vita, come
riferisce con sempre più insistenza il China Daily. In Cina si suicidano
più donne che uomini, più giovani
che vecchi, più gente di campagna che di città. Si tratterebbe di un tasso di
suicidi più alto che in Gran
Bretagna e negli Usa, ma al di
sotto dei picchi dell’Ungheria e dell’Unione Sovietica,
dove i suicidi sono molto numerosi. Nei mesi scorsi il governo cinese ha
lanciato un piano decennale per migliorare i servizi di salute mentale e si
prevede anche una legge contro le discriminazioni per gli affetti da malattie
mentali. Le autorità hanno
istituito nelle principali città anche un telefono rosso.
Il
suicidio è il risultato di una forma di aggressività che l’individuo scarica
contro se stesso; una scarica di
ipersadismo, dunque, rivolta verso la propria persona.
Secondo
alcune statistiche psichiatriche, sociologiche e antropologiche, i più portati
al suicidio sarebbero gli anziani e
gli adolescenti, le persone
divorziate o le separate, oppure i soggetti che vivono isolati o che sono stati
strappati dal loro ambiente (per esempio militari di leva) o che sono
particolarmente suggestionabili (caso dei suicidi collettivi). A
rischio sarebbero anche le persone affette da malattie psichiche e gli
alcolisti.
Il suicidio filosofico e letterario.
Sigmund
Freud ha definito il suicidio la manifestazione estrema della componente
dell’istinto di morte. Due correnti
contraddistinguono il pensiero filosofico a proposito del suicidio: la prima -
sostenuta da stoici, cinici, epicurei, esistenzialisti - lo ritiene un atto
mediante il quale l’uomo afferma la propria volontà o coerenza.
La
seconda linea di pensiero ritiene il suicidio un atto lesivo della dignità
della vita, perché essa è dotata di valori di origine divina. Hanno
condannato il suicidio: Platone, Sant’Agostino, Plotino, San Tommaso,
Aristotele e Kant. Il filosofo Davide Hume, invece, nel
suo trattato sul suicidio, “concede” «.. all’uomo stanco della
vita e perseguitato dai dolori e dalle miserie..» il diritto di vincere
coraggiosamente i terrori naturali ed uscire dalla crudele scena del mondo.
Il
tema del suicidio rappresenta uno dei più suggestivi filoni della letteratura,
a partire dal celebre episodio degli
amanti Piramo e Tisbe descritto da Ovidio, fino al Tristano che si
da’ la morte tormentato dall’ossessione amorosa.
Spesso
il suicidio ”letterario” è una forma di protesta filosofica contro il
mondo, la società, il destino. Il suicidio nasce paradossalmente da un amore
viscerale per la vita: l’autodistruzione avviene a causa del fallimento di
tante aspettative.
Il
mondo dell’illusione, logorato dalla triste realtà, porta all’idea del
suicidio. Mazzini confessò che, infervorato dalla bella tesi dell’Ortis, pensò
più volte, a causa dei suoi fallimenti politici, di por fine alla propria
esistenza con un gesto plateale.
Nel
‘700, padre Appiano Buonafede (al secolo Tito Benvenuto) scrisse Istoria
critica e filosofica del suicidio, in
cui affermava che la disperazione nata
da sventure e passioni, rendendo l’uomo infelice,
ingenera l’idea che la vita, di per sé, non sia un bene, ma un peso e
un male.
Nello
Zibaldone, Giacomo Leopardi argomenta
che il suicidio è contro natura: ma, poiché l’uomo non segue più la natura
- la civiltà e la ragione, infatti, secondo lo scrittore, divenute sempre più
artificiali e perverse, hanno tradito lo stesso creato
– poiché tale “devianza contro natura” porta infelicità, per
evitare “di soffrire” – afferma Leopardi – è consigliabile porre termine ai patimenti col suicidio.
A
volte, la morte di un intellettuale è un gesto di protesta contro la società o
il sistema politico (a Praga, nel 1969, il giovane Jan Palach si suicidò per
protestare contro il regime comunista); a volte è giustificata dalla
incongruenza filosofica del vivere o
allo strazio esistenziale d’amore, come nel caso di Werther.
Talora
il suicidio è il vertice estremo cui giunge la crisi esistenziale
romantica, come nel caso delle Ultime
lettere di Iacopo Ortis del Foscolo, opera pubblicata nel 1802, in cui
l’autore offre ai lettori le
proprie tristezze ed esperienze più intime, le infelici passioni e i fallimenti
amorosi che gli ispirano il desiderio “romantico” di por fine alle
proprie tribolazioni, per trovare la pace che non riesce ad avere nella sua
quotidianità terrena. Qualcuno, già allora, ritenne il libro malsano, sia per
quel suo ingenuo attentato alle ragioni della vita e per il pessimismo dilagante
in tutte le pagine, sia per quell’incentivare l’idea filosofica del
suicidio, quale panacea di tutti i mali.
A
proposito delle “Ultime lettere”, Melchiorre Cesarotti
scrisse: «È opera di un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una
sublimità micidiale e di una eccellenza venefica». Il critico vedeva, infatti,
in quel lavoro, così come nei Dolori del giovane Werther, i segni di una malattia spirituale, la
cui fiera crudezza trascina verso una sconcertante fatalità.
Meno
cerebrale e più “credibile” è
il dramma di Alfonso Nitti, il protagonista del romanzo di Italo Svevo, Una vita (1892), in
cui il piccolo impiegato di banca, dopo una lunga sequenza di errori, compiuti
in un torpore passivo di sentimenti, decide di mettere fine alla propria
esistenza sbagliata. Il romanzo descrive l‘incapacità dell’uomo
affossato dalla sua debolezza interiore, ad affrontare la realtà e a decidere
concretamente la strada migliore da seguire.
Un
tentativo di inserire il suicidio in un contesto domestico di crisi esistenziale
si ha nel romanzo di Carlo Montella Perché
anche morire (1967).
Personalità
conturbante, di altissimo interesse psicologico, Alessio Nylic Kirillov,
protagonista del romanzo “I Demoni”
di Dostoevskij, vive tragicamente l’idea della morte, e la affronta con
demoniaca grandezza. Kirillov, ateo convinto, ritiene
che gli uomini credono in un Essere superiore per paura della morte, e
afferma che, allorquando questa paura sarà vinta, questo Essere non avrà più
ragione di esistere. Egli allora si uccide per negare la paura della morte e nel
contempo per confutare l’esistenza di Dio.
Un
riscatto dal tentativo del suicidio si ha in: Morte
di Ivan Il’Ic di Leone Tolstoj (1886). Ivan, infermo per una caduta,
quando si rende conto della ipocrita meschinità dell’ambiente borghese,
comincia a riflettere sulla propria vita e, ad un tratto, si rende conto che
nulla è stato come avrebbe dovuto essere. Analizzando il suo passato, capisce
che tutto si è svolto in maniera errata, dalla carriera ai rapporti familiari,
dalle menzogne che è stato costretto a dire e che ha subito, alle ipocrite
amicizie di cui si è circondato. A quel punto il dolore esistenziale diviene
insopportabile e Ivan ritiene che
solo la morte potrebbe lenire la sua disperazione. Ma con un estremo anelito di
vita, il protagonista
restituisce valore all’amore per il prossimo e muore col sorriso sulle labbra.
Il
poeta Antonin Artaud nel 1944 ha
pubblicato una raccolta di scritti ispirati da un’inchiesta sul suicidio
ricavata all’interno del movimento surrealista negli anni Venti. Il vuoto
esistenzialista di quanti hanno smarrito le
certezze e s’affacciano con ghigno inquietante sul baratro della propria disperazione,
proietta la sua ombra su questi testi profeticamente percorsi dallo stesso sentimento
dell’assurdo che tanta parte avrà nel teatro novecentesco.
Il
suicidio, inteso come possibile soluzione al peso insostenibile della vita,
vista da Artaud come «sequenza di appetiti e di forze avverse, di piccole
contraddizioni che hanno esito felice o abortiscono secondo le circostanze»
appare schopenhaueriano. A somiglianza del grande filosofo tedesco, assertore
del primato della volontà, il poeta e attore
francese sembra infatti assegnare al suicidio il definitivo affrancamento
dell’uomo dagli istinti oscuri. Diversamente da Schopenhauer, però, in
Artaud il desiderio di sfuggire al condizionamento fisico,
cresce a dismisura ed assume proporzioni quasi parossistiche, finendo,
paradossalmente, per arrivare all’intuizione che neppure nel suicidio vi sia
alcuna libertà. L’idea stessa della libertà del suicidio viene
meno: una constatazione amara, che getta una luce sinistra sulla fisionomia
della società moderna nella quale, per molti versi,
afferma Artaud, l’uomo si è già «suicidato» da tempo senza
rendersene conto.
Il suicidio per vergogna
A
volte si attua il suicidio per paura del disonore. L’ammiraglio Jeremy Boorda,
capo della US Navy, si era appropriato e fregiato impropriamente di due medaglie
a “V”, decorazioni che, tradizionalmente, venivano assegnate a chi aveva
rischiato la vita in guerra. Nel 1996, Boorda si uccise perché un settimanale
aveva scoperto la sua furfanteria e, di conseguenza, temeva un’ondata di
critiche malevole.
L’ottantunenne
commerciante Giuseppe Marsala, agli arresti domiciliari perché accusato di
essere mafioso, essendo stato smascherato da alcuni pentiti e avvilito perché
riteneva di aver perso “peso” all’interno dell’organizzazione, si è
suicidato.
A
Verbania, nel 1996, due coniugi, il commercialista F. Moro e sua moglie,
coinvolti in una truffa miliardaria, scoperta dall’Inps di Novara, si sono
inabissati con la loro auto, nel lago.
Nel
1997, a Tokyo, si è suicidato, gettandosi dall’ottavo piano, il
sessantaquattrenne regista Joshihiro Itami perché alcuni giornali avevano
pubblicato dei servizi fotografici circa una sua presunta love
story con una attrice di 26 anni. Il regista, che era sposato felicemente
con l’attrice Nobuko Miyamoto, ricorse al suicidio per evitare il dilagare del
sexy scandalo e per “dimostrare
la propria innocenza”.
Nel
1933, un capitano di corvetta, Uzuki Nimohki si suicidò perché il governo non
gli assegnò i fondi per ammodernare l’incrociatore che comandava.
In
Giappone, per secoli, il suicidio
d’onore è stato ritenuto un “dovere”. Tale pratica, parte integrante
della cultura giapponese, risale al dodicesimo secolo. Protagonisti di uno dei
primi episodi furono alcuni
generali che scatenarono una sommossa contro l’autorità dominante. La rivolta
non ebbe effetto, e i rivoltosi furono posti agli arresti.
Non sopportando la vergogna della
sconfitta, 283 membri del clan militare si suicidarono e con loro 870
guardie armate e i loro familiari.
Da allora, togliersi la vita fu considerato un privilegio di casta. I guerrieri samurai
idearono la pratica del harakiri consistente
nello sventramento da sinistra a destra.
Gli
ultimi samurai sono scomparsi nel 1890, ma “la cultura” del suicidio
non è venuta meno. In qualche albergo di Tokio, alcune stanze sono ancora
riservate a questo “rito” che, in Giappone, non desta scandalo, non vietando
la religione scintoista questo tipo di “soluzione finale esistenziale”.
Gli
antichi Celti si suicidavano quando non riuscivano più a sopportare qualche
insanabile sventura. Essi avevano anche un luogo particolare dove ponevano fine
alla loro vita. Gli indiani
Kwakiutil che amano le emozioni violente, spesso, pongono fine alle loro
tribolazioni col suicidio. Anche i Bonzi, monaci buddisti che godono di grande
ascendente, si danno la morte per protestare politicamente contro un governo o
contro una linea filosofica dalla quale dissentono.
L’abitudine
ad eleggere un luogo “adatto” ai suicidi non è solo della cultura
giapponese o celtica. In varie parti del mondo ci solo “luoghi” che vantano
il triste primato di essere prediletti dagli aspiranti suicidi. In Italia, per
esempio, vicino a Catanzaro, c’è il più alto ponte d‘Europa, un viadotto amaramente
noto perché più volte utilizzato dai suicidi.
In
quanto al Giappone e alla sua “permissività” in fatto di suicidi, c’è da
dire che, nel 1994, lo scrittore Waturu Tsurumi scrisse un Manuale
del suicidio che divenne un best-seller.
Nel
giugno del 1998, un sommergibile nord-coreano, con funzioni di nave spia è
stato avvistato e catturato nelle acque territoriali della Corea del Sud. Mentre
l’unità veniva rimorchiata, l’equipaggio, formato da sette uomini, si è
fatto saltare in aria, mantenendo fede all’uso del suicidio richiesto quando
le missioni spionistiche vengono
scoperte.
Il
suicidio per vanteria
Nel
1929 lo scrittore Jacques Rigault si sparò un colpo di rivoltella al cuore. Un
mese dopo la Révolution Surréaliste pubblicò il suo testamento
spirituale, nel quale egli affermava che l’uomo deve conquistare il diritto
alla irresponsabilità, diritto reclamato dal Surrealismo. Il testamento
di Rigault inizia così: «Il suicidio deve essere una vocazione…».
Qualche anno dopo, il suo biografo, lo scrittore Pierre Drieu la Rochelle, che aveva stigmatizzato la fine di Rigault, affermando che «il suicidio è l’atto di chi non é capace di compierne altri», si suicidava anch’egli. E poco dopo il “protodadaista” Jacques Vaché, «non potendo più vivere nel vuoto», si suicidò per mostrare al mondo che “sapeva almeno fare una cosa”.
Un
inquietante suicidio è stato quello
di Roberto, 19 anni, morto nel 1996 a Venezia, durante un gioco “di ruolo”,
il così detto role-playing games, un “gioco” limite, praticato assieme ad
altri amici.
Il
più trasgressivo di simili “passatempi” è quello denominato Killer.
Questo gioco che prende spunto dal film La
decima vittima di Elio Petri (1965), si ispira al famoso racconto di Robert Sheckel La 7° vittima. Le due
opere analizzano il tema dell’aggressività giovanile e cercano i rimedi
più idonei perché essa si possa
sfogare. Nelle due narrazioni si ipotizza che, nella società del futuro,
l’aggressività possa essere placata con una specie di “caccia
all’uomo”. Il Killer fu giocato per primo dagli studenti dell’Università di
Austin, Texas, nel 1965, i quali si vantavano di “averlo adottato” come
sfida, assicurando di non avere
alcuna paura della morte.
In
seguito, il gioco si è diffuso in Occidente. I giocatori nel role-playing
games denominato Killer
impersonano la figura di un assassino.
Era
questo il gioco che Roberto praticava con gli amici: egli
si vantava di essere il più esperto. Il perverso
gioco prevedeva anche l’impiccagione (ovviamente ludica).
La perizia medico-legale ha stabilito una conturbante ipotesi: secondo gli
esperti il giovane non si sarebbe
impiccato da solo, ma sarebbe stato “aiutato” nella fase finale del gioco,
dagli altri “concorrenti”.
Il suicidio per fanatismo.
Afferma
l’antropologo Julian Leff che un problema da prendere in considerazione, a
proposito delle sette, è che queste possono talvolta costituire un ambiente
tollerante nei confronti delle persone affetta da turbe psichiche. Queste sette
propongono ideologie paranoiche, così alcuni individui, affetti da sindromi
paranoidi, si associano per ottenere riparazioni di immaginari torti subiti.
Secondo
una indagine di John Spencer, negli ospedali dell’Australia occidentale,
i Testimoni di Geova ricoverati per nevrosi e per schizofrenia paranoica,
nel 1975, erano il doppio e il quadruplo rispetto a pazienti di fede o di
convinzioni esistenziali diverse.
Nel
novembre del 1978 , nella comune agricola di Jonestown, nella giungla della
Guyana, 911 persone (uomini, donne e
bambini) aderenti alla setta del Tempio
del popolo americano, si suicidarono (o furono costretti a suicidarsi)
assieme al loro guru, Jim Jones.
Nel
1985 la Tribù Ata, nelle Filippine si autosterminò. Lo stesso accadde, nel
1987, in Corea del Sud, ove circa 300 seguaci
di Park Soon Ja si diedero la morte. Nel 1990 gli adepti del
Tempio di Mezzogiorno si
tolsero la vita in massa.
Nel
1993 un centinaio di aderenti alla setta del guru David Koresh si barricarono
per oltre due mesi in una fattoria del Texas. Assediati dall’FBI
e dalla polizia locale, alla fine conclusero tragicamente la loro vita terrena.
Quando le forze dell’ordine entrarono nell’edificio trovarono i cadaveri di
81 persone.
Nel
1994, in Svizzera, 48 membri della setta del Tempio Solare si diedero la
morte; nello stesso giorno, altre 5 persone aderenti alla medesima setta, si
suicidarono in Canada. Altri 14 adepti alla setta si tolsero la vita, a
Grenoble, nel dicembre del 1995, mentre 5 iniziati si sono suicidati nel
villaggio di Saint Casimir nel Québec.
Il
23 di dicembre del 1995, a 60 chilometri da Grenoble,
16 adepti svizzeri e francesi della setta del Tempio Solare, la
cui teologia apocalittica porta all’annullamento, si sono suicidati.
I loro resti carbonizzati sono stati trovati disposti a cerchio, la mani
giunte, le teste dirette verso il centro e con
i piedi all’esterno, per formare i raggi di una macabra stella di
Natale.
Alcuni
guru convincono i loro adepti al suicidio, affermando che “essi sono
chiamati” a vivere in un mondo migliore, un mondo che al di là di questa
terra e al quale si può accedere solo dopo la morte; in realtà, dietro questi
inviti all’autodistruzione si celano interessi economici. I “capi”
approfittano della buona fede dei loro seguaci e
li spogliano di ogni loro avere prima di indurli al suicidio. La Chiesa
di Scientology è stata più volte accusata di essersi impossessata dei
denari e dei beni dei suoi accoliti e per ciò è stata trascinata in tribunale.
Inoltre è stata più volte ritenuta “moralmente” colpevole di aver favorito
il suicidio di molti suoi discepoli.
Nel
marzo del 1997, 39 persone (impiegati, violinisti, mamme, nonne, candidati al
Senato Usa) si sono suicidate a San Diego, (California) nella villa Rancho Santa Fe, per andare, convinte e sicure,
“verso una terra promessa”. Il
Rancho è una comunità di 12mila
persone, situata in una regione ad alta tecnologia. Per un paradosso in
una zona così ad alta tecnologia sono
presenti anche culti arcaici, esoterici, e le due culture si condizionano a
vicenda, in un misto di perversa spiritualità
e tecnologia raffinata. Nel mondo
asettico dei calcoli, dei microcip per computer, di progetti avveniristici, la
ricerca di qualcosa di assoluto si mescola con quella
del progresso tecnologico. I confini tra la tecnologia e
l’occultismo, paradossalmente, sono poco definiti ed è possibile che
chi soffre di una certa “confusione esistenziale” possa illudersi di far
coincidere, senza esitazione, il dio
delle sette esoteriche col tecnologico dio
del silicio.
La
setta Higher Source ha spinto centinaia di adepti nell’estrema dimora
mediante un suicidio collettivo. In un manifesto inviato tramite Internet, i
membri della setta hanno scritto una frase sibillina: «Attendiamo con
impazienza di salire su di una nave spaziale…perché così possiamo perdere il
nostro veicolo fisico(il corpo)».
A
spingerli al suicidio sarebbe stata la notizia diffusa su Internet che sulla
scia della cometa Hale-Bopp, viaggiava una nave spaziale alla quale i
seguaci della Higher Source avrebbero potuto unirsi, una volta
morti
Eppure
coloro che si sono dati la morte erano giovani esperti programmatori,
abili dirigenti, disegnatori
apprezzati, che tuttavia erano
convinti che tramite l’Higher Souce
sarebbero potuti arrivare «a rendere la transizione nel cyberspazio
un’esperienza facile e serena».
Il
guru della setta era Marchall Herff Applewhite, il quale “se n’è andato dal
proprio involucro”, come gli altri 38, per raggiungere il paradiso.
La
storia “psichiatrica” di Marchall ha origine in un’infanzia segnata dal
padre, un rigido e apocalittico pastore presbiteriano. Il solo divertimento del
piccolo Marchall erano le sacre funzioni. Quando divenne insegnante di musica
all’Università cattolica di Huston, Marchall scoprì di essere omosessuale.
Dopo una lunga e inutile battaglia, il giovane insegnante “cedette alla
tentazione” ma la sua relazione con
uno studente venne ben presto scoperta.
Avvilito per la vergogna, Applewhite fu ricoverato
in una clinica per
malattie mentali, dove incontrò una infermiera, Bonnie Lu Nettles, ossessionata
dal “problema” degli ufo. Da quel momento i due decisero di dedicare la loro
vita alla costruzione di una chiesa che fosse «al di là dell’umano» e che
“partecipasse delle forze cosmiche universali”. I due iniziarono una storia
d’amore, priva di sesso, e Marchall, per non ricadere nella tentazione
omosessuale, si fece castrare. Un invito, quello alla
castrazione, che era stato accolto da molti adepti, come si poté constatare
facendo l’autopsia dei suicidi.
Spesso,
davanti ad orrori del genere, la società non vuol conoscere certe spiegazioni
scientifiche che mettono sotto accusa la natura umana, ritenuta a volte ancora
troppo vicina alla brutalità rettiliana.
A tal proposito, Rita Levi Montalcini ha rilevato che il cervello dell’uomo ha
anche circuiti nervosi non dissimili da quelli dei rettili, per cui si è
chiesta se non vi siano, nel comportamento dell’uomo, componenti comuni ai
vertebrati inferiori. Secondo la Montalcini il cervello dell’uomo, essendo il
risultato dell’evoluzione di un aggregato di strutture originatesi all’alba
della vita sulla terra, è condizionato da
elementi arcaici primitivi e da compagini
alquanto selvagge.
Così,
può accadere che, quando la mente umana perde, per qualche motivo, il
controllo, essa regredisca a livelli primitivi:
è allora che emerge la zona più
ancestrale del cervello, quella di cui si servivano i nostri antenati A quel
punto la natura selvaggia ha il predominio e
l’individuo commette crimini efferati.
Anche
un altro premio Nobel, Aldous Huxley, ritiene che vi possa essere una
“sintonia”, magari inconscia,
con il passato primitivo: ciò spiegherebbe il fatto che, a commettere efferati
delitti, non sono solo i singoli “satrapi feroci”, ma anche persone comuni
che fanno parte della popolazione. Ovviamente,
questo non significa che tutti gli uomini sono nella stessa misura
crudeli e violenti, ma non si può negare che coloro che si dimostrano più
sanguinari, fanno parte, purtroppo, anch’essi del genere umano. Una
spiegazione, questa, che sconvolge il cittadino e gli rende la vita alquanto inquieta.
In
conseguenza di questa paura la comunità cerca istintivamente di salvare la
propria “integrità mentale collettiva” e tende a rigettare l’idea che
atti del genere siano dovuti solo ad opera “umana”. A volte la gente comune,
volendo spiegare drammatici fatti di sangue accaduti in cerchie familiari
“ritenute normali” ipotizza che magari vi sia dietro quei crimini qualche
misterioso disegno. Per cancellare queste supposizioni popolari
Richard Rhodes fa notare che l’obiettivo della scienza è in primo luogo la
graduale rimozione dei pregiudizi in tal senso, e in secondo luogo il tentativo
di dimostrare che coloro che commettono questo genere di azioni nefande non sono
necessariamente del tutto persone
“diverse”.
La
società, invece, tende proprio ad affermare perentoriamente nei confronti di
chi ha generato il dramma: “lui non è come noi!”, allontanando così il
sospetto che membri della collettività
possano anch’essi nascondere nel loro seno il male.
Ciò
si evince anche dai servizi giornalistici, quando vengono interrogate persone
che conoscevano il protagonista di un improvviso atto di follia. A tal proposito
quasi tutti affermano: “Chi se lo sarebbe aspettato che avrebbe commesso
qualcosa del genere? Era una persona tanto
docile, educata, amorevole!”.
Indicativo
è il fatto che il sindaco di
Cogne, cittadina dove è stato ucciso il bambino nel letto dei genitori, delitto
per il quale la Procura ha
indiziato la madre del piccolo, abbia “assicurato” tutti:
«La nostra comunità è sana, tra noi non può mai nascondersi nessun
assassino»
Intuendo
questa pubblica propensione, Donato Bilancia, serial-killer
accusato di molti omicidi inspiegabili, commessi a danno di persone a lui
sconosciute, ha ”cercato di
giustificare” in aula i suoi
crimini, affermando che “era stato indotto dal diavolo”.
Una
tendenza, antica, questa, (come
nel caso di Giuda Iscariota) e, come si vede,
anche attuale, volta a togliere “la titolarità del gesto” a chi
compie un atto tanto esecrabile, per attribuirlo a entità soprannaturali come
il diavolo, a imponderabili fattori socio-culturali. In molti casi, poi, c’è
una certa insistenza interpretativa, che a volte va al di là del buon senso,
nel volere attribuire solo all’incapacità di intendere e di volere certi
gesti autodistruttivi e criminosi.
Il
suicidio per delusione
Spesso
adolescenti e giovani sono delusi della loro esistenza e della presunta banalità
dei significati con cui gli adulti cercano, invano, di riempire la società.
Questa sensazione di vuoto così acutamente sentita dalla gioventù si può
tradurre in un disperato bisogno di
cancellare l’equivoco dovuto allo sconforto esistenziale.
A
Desio, nel 1995, “stanchi di vivere”, due studenti, Samuele di 17 e Walter
di 18 anni, si sono lasciati morire
dentro la Fiat Uno di Walter, trasformata in camera a gas. Qualche giorno
prima avevano discusso del loro proposito “teorico” con un amico.
Nel
1998 una casalinga
palermitana con figli, che lavorava da un anno in una Chat-line
d’intrattenimento per incrementare il bilancio familiare e che per quel lavoro
aveva già rotto il suo matrimonio, essendosi innamorata più volte
dei “clienti on line” con i quali comunicava, ha tentato il suicidio
perché l’ultimo suo interlocutore non ha accettato di incontrarla e di
iniziare una relazione con lei.
Un
dramma, quello della solitudine, che ha varie sfaccettature. Spesso, infatti,
nella coppia il dialogo è carente. E lo è anche tra conoscenti o tra parenti.
La centralinista siciliana, salvata in exstremis dalla morte ha confessato che mai nella sua vita aveva
parlato così apertamente con persona umana come le era accaduto tramite la Chat-
line e che non aveva mai raggiunto tanta intimità con un uomo come le era
capitata con il cliente per il quale aveva perso la testa. La paura di
ripiombare nella “solitudine”, una volta finita “la storia” telefonica
con quell’uomo, le aveva
suggerito l’insano gesto.
Nel
2001 nella sua villa all’Elba, si è suicidato a 72 anni Jacques Mayol, il re
degli abissi, l’uomo che, per
primo, scese sotto i 100 metri, in apnea. Quando ha capito che la
sua mente non reggeva più come un tempo, che le sue forze non erano più quelle
di una volta, si è impiccato.
Mayol
era nato a Shanghai. Nel 1966, alle Bahamas, aveva conquistato il suo primo
record in apnea e con i suoi 60 metri aveva battuto il primato del polinesiano
Teteke Williams.
Anche
Ernest Hemingway si è suicidato pare allorquando si è reso conto
che non era più in grado di essere all’altezza della fama che lo aveva sempre
circondato. E così nel 1961, lo scrittore, a 62 anni, sentendosi
stanco e malato, ed essendo narcisista al punto da non poter
assolutamente sopportare né ammettere la sua decadenza fisica, pose fine ai
suoi giorni con un colpo di fucile alla tempia.
Nel
1995 due inseparabili gemelli di
venti anni, si suicidarono a Lamezia Terme perché non volevano partire per il
servizio militare in due scaglioni diversi. Cristian e Vincenzo non stavano mai
con nessuno, non avevano amici, non si erano mai separati nemmeno
un giorno. All’idea della separazione, magari per qualche breve
periodo, non hanno retto e delusi per non essere riusciti ad evitare una pur
temporanea separazione, hanno posto
fine ai loro giorni.
Nel
febbraio del 1999 a Balashikha, Russia, tre
bambine Tanya di 11 anni, Masha di 12, e Aloya di 14, forse istigate dalla sezione russa dei Testimoni di Geova, setta attivissima da quelle
parti, o forse perché innamorate dello stesso ragazzo, un certo Dima, si sono
buttate dall’ottavo piano tenendosi per mano. Si disse che forse nessuna delle
tre era piaciuta al giovane e allora, accomunate nella stessa delusione, si sono
suicidate.
Il
suicidio dell’artista
Il
suicidio è di casa fra la gente
della letteratura, della pittura, della musica, dello spettacolo.
Emblematica
è la storia di Franco
De Longis, commercialista per
professione, scrittore per hobby, che comprò pagine intere di giornali
italiani e stranieri per pubblicizzare il suo unico libro Il
cerchio che non ebbe successo. A De Longis l’ossessione di diventare un
autore noto aveva fatto perdere la testa. Per procurarsi i soldi per
pubblicizzare il proprio libro aveva commesso perfino illeciti nella sua attività
di curatore fallimentare. Il suicidio pose fine alle sue tribolazioni.
La
“categoria” degli scrittori annovera molti suicidi: Graham Greene,
Scott Fitzgerald, Edmondo De
Amicis, Conan Doyle, Heinrich Kleist, Emilio Salgari, Bernard Buffet, Klaus Mann, figlio di Thomas
Mann, anche lui scrittore, Luca Mastronardi, autore de Il maestro di Vigevano. E ancora: Virginia Woolf, Cesare Pavese,
Vladimir Majakovskij, René Crevel, Mary Shelley, Gerard de Nerval, Stefan
Zweig, Arthur Koestler, Jean Gênet
e lo scrittore tedesco Kurt
Tucholsky.
Si
suicidarono inoltre i poeti Sergej Esenin, Attila Jòzsef, Anne Sexton - che nel
1967 vinse il premio Pulitzer - la poetessa Silvia Plath, Marina Cvetàeva e
Josef Weinheber.
Georg
Trakl, abbandonato dalla sorella-amante Margarethe, pose fine ai suoi giorni
quando la donna lo lasciò. Margarethe,
infatti, sperando di dimenticare la relazione col fratello aveva sposato Arthur Langen. Ma poco dopo, sconvolta dalla morte di Georg,
si suicidò anch’essa.
Si
sono suicidati il cantautore Luigi Tenco e il cantante Nino Ferrer.
Quando
la sua malattia mentale si aggravò e il suo stato divenne tale che aveva
perfino difficoltà a parlare, il compositore Robert Schumann nel 1854 tentò il
suicidio. Salvato
in extremis, visse una
esistenza cupa e triste ancora per altri due anni, in una casa di cura.
In
quanto a Ciaikoskij, la sua tendenza innata alla malinconia e la sua instabilità
nervosa, secondo alcuni lo indussero a una strana forma di suicidio: egli nel
1893 contrasse il colera perché
bevve, quale sfida alla morte, durante l’imperversare dell’epidemia a
Pietroburgo, l’acqua del fiume Neva di certo infetta perché in essa venivano
gettati i morti di peste.
In
preda a sconforto esistenziale l’editore Angelo Formiggini si è gettato dalla
torre della Ghirlandina a Modena. Anche l’architetto Francesco
Borromini si suicidò, così come il
quarantaduenne matematico e logico
Alan Mathinson Turino. Stessa sorte si
diedero il pittore Richard Gerstl e lo scultore Alberto Giacometti,
Alto
anche il tasso dei suicidi tra gli attori: si sono dati la morte
Alan Ladd, Charles Boyer, Luigi Pistilli, Carole Landis, George Sanders,
Annamaria Pierangeli (terrorizzata di compiere 40 anni…), Capucine, Margaux
Hemingway, Liliana Castagnola, una delle più celebri chanteuse
dei primi del ‘900, Daniela Rocca, James Whale, il regista che inventò il
genere horror.
Anche
tra gli psicologi e i filosofi vi
sono casi di suicidi.
Lo
psicoanalista ungherese e pupillo di Freud,
Sandor Ferenczi, si diede la morte, così come lo psico-sociologo
Otto Weininger (autore del misogino Sesso
e carattere). Nel 1927 si suicidò Vittorio Benussi, psicologo
insigne e capostipite degli
psicoanalisti italiani assieme a Cesare Musatti, che fu suo allievo. Si suicidò
anche lo psicoanalista Paul Federn, autore tra l’altro de Il senso dell’Io nei sogni (1932) e L’analisi degli psicotici (1933). Edoardo Weiss definì Federn
studioso dalla vasta e straordinaria preparazione scientifica e letteraria. Dopo
vari tentativi, appresa la notizia della gravità
del cancro alla vescica, Federn si uccise con un colpo di pistola il giorno
che aveva apparentemente fissato per una seconda devastante operazione. Altro
uomo di vasta cultura, che aveva eletto come suo campo di studi l’antropologia
rivisitata dalla psicoanalisi, Géza Ròheim, profondamente
depresso, si lasciò morire dopo la scomparsa della moglie Ilonka venuta
meno a causa di una grave malattia. Si suicidò anche
Vittorio Benussi, psicologo e psicoanalista insigne.
Il
filosofo Roberto Ardigò, che dopo una profonda crisi aveva abbandonato
l’abito ecclesiastico ed era
divenuto uno dei filosofi più alti del positivismo,
si tolse la vita a 92 anni.
Il
suicidio impulsivo
Per
alcuni giovani, la morte ha un valore positivo. Paradossalmente c’è chi la
vede piuttosto che una soluzione senza ritorno, un punto di partenza, grazie al
quale è possibile sperimentare le fantasie più avvincenti. Seguendo questa
convinzione, qualcuno si illude che la morte sarebbe qualcosa di “virtuale”,
addirittura spoglia da conseguenze fisiche.
E
in qualche caso a qualcuno il suicidio può essere apparso come
una “soluzione razionale”, una via d’uscita per rimuovere un’impasse ritenuta
insuperabile. Addirittura, a volte, per alcuni adolescenti
il suicidio ha avuto il significato di
una “emulazione”.
Nel
1997, a Montecassino, Alberto, studente del
Liceo scientifico Colucci, si è sparato in classe. In una audiocassetta il
ragazzo ha spiegato in maniera
lucida e serena, il perché del gesto: il suo suicidio non era stata una
bravata, né una roulette russa: «Cari
genitori - ha detto Alberto - mi uccido per vedere cosa c’è dopo la
morte e vedere chi ha ragione… in questo mondo ci sono poche speranze per noi
giovani»
Sempre
nel 1997, questa volta a Montecatini, uno studente scrisse in un
tema: «Avrei tanta voglia di andarmene da questo mondo» e qualche mese
dopo, sempre a scuola, si suicidò.
Nel
1993, a Reggio Emilia un operaio di 35 anni, Tiziano Castellari, fu trovato
ucciso. Dopo lunghe indagini, nel 1999, sono stati arrestati due egiziani: El
Hamed Mohamed Hussein e Moustafà Fahtì Hassan, che il Castellani, depresso per
una delusione d’amore, aveva pagato
per farsi uccidere, (dal momento che non aveva il coraggio di
suicidarsi). I due, la notte del 13 settembre del 1993,
raggiunta, assieme al Castellani, una zona boschiva detta l’abetaria,
dopo essersi ubriacati, uccisero il giovane che li aveva istigati in tal senso.
Uno
studente di 17 anni, S. R., nel 1999, si è gettato dalla finestra del bagno del
liceo Minghetti di Bologna, poco prima di una interrogazione. Si suppone che la
paura di una lunga serie di interrogazioni che avrebbe dovuto sostenere e per le
quali forse non si sentiva ancora preparato, sia stata alla base di quella
tragica quanto sventata decisione.
Altrettanto
assurda decisione fu quella dell’aviere Giovanni Desogus, che nel 1998 si
suicidò perché gli venne negato un congedo per cui temeva di non poter
ultimare gli studi.
Nell’agosto
1999 il sessantenne Benedetto Minnini
si è sparato un colpo alla tempia, tra i fedeli atterriti nella basilica di S.
Pietro a Roma. Una turista
australiana ha ripreso la scena in diretta con la propria telecamera. Il fatto
ha creato scompigli anche perché la Basilica è stata sconsacrata da quel gesto
e si è dovuto ricorrere a una
frettolosa consacrazione la notte stessa, affinché la chiesa potesse essere
riaperta al pubblico, l’indomani.
Il
suicidio, a volte, matura dopo lunghe meditazioni; a volte è un gesto
frutto di precipitazione, come pare sia stato quello del calciatore
Agostino Di Bartolomei, capitano della squadra della Roma.
Il suicidio
per rabbia
Quando nel 72 d.C., Masada, località della Palestina sud-orientale situata presso la riva del Mar Morto venne espugnata dopo un lunghissimo assedio postole da Roma, i legionari romani si trovarono di fronte ad uno spettacolo agghiacciante: la popolazione si era data la morte per non cadere in mano ai nemici.
Dopo
che Ottaviano sconfisse, nel
31 d.C., ad Anzio, Marco Antonio e Cleopatra, quest’ultima, preoccupata della
sorte che avrebbe avuto come vinta, dopo aver tentato inutilmente di sedurre e
attrarre a sé l’astuto vincitore, non sopportando di diventare una
preda bellica e di essere portata a Roma come un trofeo di guerra, decise di
darsi la morte.
Nel
1536 molto scalpore fece il suicidio dell’avvocato francese Ferron, dopo la
morte della moglie. La donna, entrata nelle grazie di Francesco I,
morì di sifilide. Il Ferron, già disperato per il tradimento subito,
aveva però sperato che la donna
tornasse a lui, ma quando la morte gliela strappò, non sopportò di averla
persa definitivamente. Qualche giorno dopo i funerali si pugnalò platealmente
sulla tomba dell’amata.
Delirante,
rabbioso e insensato fu anche il delirio di Van Gogh che lo spinse al suicidio.
Nel
1889, grande sensazione suscitò il doppio suicidio, nella residenza estiva di
Mayerling, di Rodolfo
D’Asburgo e della baronessa Vetsera.
La
moglie di Stalin, Nadezhda Alliluyeva, nel 1928, dopo lunghe insistenze, seppe
dalla propria madre che Josif Stalin era stato il suo amante e che pertanto,
sposandolo, lei era diventa moglie di suo padre; cadde, pertanto, in gravissima
depressione. Inorridita per aver generato con lui due figli-fratelli, Vasilij e
Svetlana, travolta dalla follia, si suicidò.
Sul
finire del secondo conflitto mondiale si suicidarono, così come Hitler e Eva
Braun, molti gerarchi nazisti quando furono ormai certi del crollo del Terzo
Reich. Tra i suicidi che più impressionarono spicca quello di Goebbels,
il quale soppresse anche la moglie
e i suoi cinque piccoli figli.
Nell’agosto
del 1924 si suicidò il professore ebreo Felice Momigliano, docente di filosofia
e scrittore. Sembra che oltre ai motivi
strettamente personali, nel suo insano gesto vi sia stata anche la protesta
contro la recrudescenza della campagna antisemita riesplosa nel 1922 alla morte di Benedetto XV e l’allarme per l’orientamento antisemita
che cominciava a serpeggiare nel fascismo e che venne sottinteso da Mussolini,
nel discorso del giugno 1923, quando affermò
che il fascismo era il prodotto della razza ariana. Anche l’omicidio
Matteotti, e il rinvenimento del cadavere proprio nell’agosto del ‘24,
potrebbero aver determinato la volontà suicida del Momigliano.
Nel
1955 Nicolas de Staël, pittore
russo naturalizzato in Francia, che stigmatizzava la società del tempo, si
suicidò dopo aver scritto una terribile lettera di addio che sconvolse
generazioni di francesi: la sua era una versione lucida, serena, della morte.
Nel
2000 il pittore Sergio Romiti che aveva
72 anni, si è suicidato blaterando contro gli odiati critici che non
apprezzavano a sufficienza le sue opere. Romiti si era scagliato anche
contro qualche “collega” che aveva, con bassa rivalità, “infangato” la
sua opera. Per qualche tempo Romiti,
sebbene riottoso e malgrado la disistima dei critici, aveva continuato a
dipingere, ma alla fine,
disperato, decise di porre fine ai suoi giorni.
Nel
1995, a Chieti, un muratore ventenne, Massimiliano Menna, disperato perché i
carabinieri, durante un controllo stradale, gli avevano sequestrato il motorino
privo di targa, di luci e con pneumatici usurati, si è impiccato nella porta di
un campo di calcetto della scuola del paese dove abitava.
A
Frosinone, nel 2000, un ragazzo di 17 anni, venuto a diverbio col genitore poiché
questi, a seguito del litigio, gli aveva distrutto la moto con una spranga di
ferro, non potendo sopportare quella “perdita”, si è impiccato ad un albero
del cimitero.
Nel
novembre del 1997 a Potenza, una diciassettenne si è suicidata perché, da
anni, il padre 48 enne, abusava di lei. La
madre, che sapeva, aveva subito in silenzio, per paura del marito. Quando
l’uomo prese di mira anche la figlia dodicenne, la figlia più
grande, disperata, col suo gesto estremo, intese denunziare drammaticamente la
grave situazione familiare.
A
Pavia, nel 1997, Sara Gatti, di 25 anni, ha scelto anch’essa
il suicidio per sfuggire alle molestie sessuali del patrigno, convivente
della madre, che la assillava da anni sebbene la ragazza lo avesse denunziato più
volte, senza effetto. Non
creduta nemmeno dal fidanzato, disperata, la ragazza decise di porre fine al suo
strazio.
Altrettanto
straziante il suicidio di un giudice del tribunale civile di Torino, Graziella
Lo Moro che, nel gennaio 1999, si è tolta la vita affermando di essere sommersa
da una valanga di fascicoli e di non riuscire più a tenere gli stressanti ritmi
di lavoro che aveva inutilmente sostenuto, senza riuscire ad evadere le pratiche
arretrate.
La
scrittrice e medico Odette Rosenstock, testimone dell’Olocausto, si è
suicidata a 84 anni, non reggendo più al dolore per tutte le vicende subite.
Durante la Seconda guerra mondiale, assieme al marito, Odette creò una rete
clandestina per salvare gli Ebrei. In seguito venne arrestata e deportata ad
Auschwitz e poi a Berghen-Belsen, esperienze
queste che narrò in un libro di memorie: Terre
de detresse, edito da Harmattan. Malgrado fossero passati tanti anni, i
fantasmi di quel tempo, e forse un avventato senso di colpa “per non aver
fatto il possibile per salvare più gente nei campi di sterminio”, hanno
indotto la scrittrice al terribile gesto.
Una
disperazione questa che lo scrittore italiano Primo Levi, anch’egli testimone
della tragedia dell’olocausto, documentò nel libro Se
questo è un uomo e che siglò con il suicidio.
Il suicidio per paura e per pentimento
A
Lecce, nel 1996, un diciassettenne che, tre anni prima, era stato operato di un
tumore al ginocchio, dovendo tornare a Bologna per una visita di controllo e
temendo un esito infausto dell’esame e qualche grave menomazione (quale la
perdita della gamba) si è impiccato.
Molti
adolescenti si suicidano nel timore di essere rimproverati dai genitori,
soprattutto dopo aver avuto un cattivo voto a scuola. Le cronache narrano
spesso, purtroppo, episodi del genere.
Accusato
di crimini contro l’umanità quando era stato sindaco di Vukovar, in Slavonia,
il maggiore serbo Slavi Dokmanovic, 48 anni, arrestato e sotto processo
all’Aja, si è impiccato qualche giorno prima della sentenza.
Nel
luglio del 1999 un piacentino di 32 anni si è impiccato in cella perché
accusato di aver violentato la propria bambina di 10 anni, la quale, subito dopo
lo stupro, aveva raccontato il fatto, prima ai nonni e poi alla madre.
Il suicidio per amore
Wolfgang
Goethe pubblicò nel 1774 il “pericoloso” romanzo I
dolori del giovane Werther che lasciò una tragica scia di suicidi tra i
giovani lettori. Werther, innamorato di Carlotta, a sua volta fidanzata di
Alberto, non potendo
realizzare il suo sogno d’amore, si suicida.
Il
romanticismo decadente, lo Sturm und Drang
catastrofico e violento che sono alla base di questa passione descritta da
Goethe, ebbero una risonanza enorme negli animi sensibili e romantici del tempo.
Il
suicidio per amore è anche un atto
egoistico e punitivo a un tempo, che fa leva sulla speranza che l’altro viva
nel rimorso d’aver causato
l’irreparabile gesto al proprio partner. Spesso dietro il tentato suicidio per
amore c’è dunque un ricatto. L’innamorato/a deluso/a vuole esercitare una
pressione sul partner e se non ottiene il risultato e l’altro/a non si decide di
“rientrare” nella coppia, il desiderio punitivo, colpevolizzante può
portare l’amante deluso al gesto estremo.
Nella
mitologia greca, Fedra rappresenta l’emblema del suicidio per
amore. Il personaggio raccontato da Sofocle, da Euripide e da Racine, per
citarne le più importanti elaborazioni, è il simbolo della passione amorosa
scatenata e incoercibile.
Fedra,
presa d’amore disperato per il figliastro Ippolito e consumata da quel torbido
sentimento, al rifiuto del giovane, dapprima diventa matrigna spietata, poi,
turbata dalla propria malvagia passione e dai sensi di colpa per aver ingenerato
tante tragedie, si da’ la morte, raccogliendo un ultimo anelito di moralità.
Fedra
è solo in apparenza una storia letteraria: il debordare dell’amore oltre i
confini della ragione, la miseria degl’intrighi passionali, la furia
dell’egoismo sentimentale fanno parte della cronaca quotidiana e ripropongono
la tragedia di Fedra come una “presenza” incombente, un tema, purtroppo
inserito nel tessuto connettivo sociale e che, di tanto in tanto, si scatena in
tragici fatti di cronaca.
Nel
1997, la ventottenne Patrizia Severino, dopo essersi allontanata da casa, si è
lasciata morire di fame, nascosta in un casolare abbandonato, perché il suo
fidanzato aveva troncato la relazione. Da quel momento la vita della povera
ragazza era diventata un inferno: non parlava più con nessuno, non aveva più
voglia di nulla. Ella non sentiva
più la voglia e non aveva più nessuna ragione
di vivere.
Ad
Agrigento, nel 1995, un odontotecnico ventisettenne, disperato per la fine della
sua relazione con la fidanzata, dopo aver a lungo parlato a telefono con la
ragazza per convincerla a ritornare con lui, vista inutile ogni preghiera in tal
senso, le comunicò il proprio proposito suicida e prima di impiccarsi ha
azionato una telecamera, lasciando così la testimonianza “in diretta” del
suo disperato gesto.
In
Pakistan, nel maggio del 1998, il vescovo cattolico monsignor John Joseph, di 66
anni, si è suicidato per protestare contro la condanna a morte, per
atti blasfemi contro l’Islam, da parte di un cristiano. Un gesto di
estremo amore per l’umanità, ma certamente non “ortodosso” per chi è di
fede cattolica. Il prelato ha
indirizzato un messaggio chiarificatore delle motivazioni del proprio gesto,
invitando cristiani e mussulmani ad attivarsi decisamente al fine di revocare la
pena di morte in danno dei blasfemi.
Suicidi
tentati e suicidi portati a termine
La
depressione è un “male oscuro” che, secondo le statistiche, colpisce il
10-15 % della popolazione. Spesso però si usa la parola depressione a
sproposito, non distinguendo un particolare stato d’animo malinconico,
“filosofico”, dalla malattia psichiatrica vera e propria. Francesco
Petrarca, Wolfgang Mozart, Alessandro Manzoni,
Giacomo Leopardi, tanto per fare qualche esempio,
furono malinconici, ma non è sicuro che fossero da classificare come
soggetti psichiatricamente “depressi”.
Uno
dei problemi fondamentali su cui si è discusso e si discute ancora, è
stabilire se sia possibile
prevedere gesti insani quali il suicidio e l’omicidio-suicidio. Vari
studi hanno appurato come la
frequenza dei suicidi, non soltanto nei secoli, ma anche di anno in anno
e da regione a regione abbia delle sensibili variazioni. Nell’800 una
“epidemia” di suicidi romantici si ebbe dopo la pubblicazione de I
dolori del giovane Werther. Dopo il crollo di Wall Street, in Usa si registrò
un’allarmante ondata di suicidi. In primavera e in autunno, secondo le
statistiche, sarebbero in aumento i suicidi.
Una
sostanziale differenza diversifica il suicidio dal tentativo di suicidio. Il
semplice tentativo è una astuzia psicologica attuata in vista di particolari
effetti che può sortire nell’ambiente sociofamiliare.
Esso ha solo la funzione di minaccia, di appello, o di ricatto.
Nel
1782, il filosofo Giovanni Amedeo Fichte ebbe una crisi di pessimismo e tentò
il suicidio: lo salvò Giovanna Klopstok che, in seguito, divenne sua moglie.
In
Fichte coesistevano, burrascosamente,
due caratteri: uno introverso e l’altro estroverso. Egli era da un lato
desideroso di essere il protagonista di fatti eclatanti, dall’altro cadeva
spesso in una profonda tristezza e in un torpore paralizzante. Tuttavia,
probabilmente, malgrado “il proposito depressivo suicida”, nel
filosofo non ci fu mai il desiderio di farla finita “seriamente”.
I
“veri” suicidi sono programmati in modo da offrire
scarse possibilità di sopravvivenza. I tentativi, invece, per lo più sono
attuati con mezzi inadeguati a raggiungere lo scopo.
I
meccanismi psicodinamici che stanno alla base del semplice tentativo,
sono diversi da quelli che stimolano il suicidio vero e proprio, cioè quello
che “deve” riuscire. Dalle casistiche emerge che la maggior parte di coloro
che si suicidano hanno avuto disturbi psichiatrici, in qualche caso sottovalutati,
nel biennio precedente l’insano gesto.
Di
dubbio valore sono le comunicazioni fatte dall’aspirante suicida circa le sue
intenzioni di por fine alla propria esistenza, proprio a causa del fatto che,
talvolta, il suicidio è annunziato per
“far pressione” affinché qualcuno risolva il problema che assilla la
persona angosciata. Spesso è chiaro che nel malato vi è lo scopo (anche
inconscio) di servirsi degli altri, soprattutto tramite richieste consolatorie e
gratificanti: in questi casi, il depresso è perfettamente in grado di
“sfruttare”, con astuzia, la disponibilità altrui.
Una
maggiore prevedibilità sulle reali intenzioni suicide si ha se queste
sono formulate da persone anziane o giovanissime, o da persone crucciate da
sentimenti di indegnità.
Tuttavia
si tratta di indicazioni di scarso valore di previsione, per cui resta il fatto
che se una persona è clinicamente depressa o in maniera generica emotivamente
disturbata, la prospettiva che abbia
in animo il tentativo di porre fine ai propri giorni per venir fuori
dall’impasse può essere ragionevolmente presa in considerazione, ma
non è necessariamente sicuro che il soggetto metta in opera il disegno
catastrofico ed ossessivo che manifesta con i suoi atteggiamenti di distacco e
di indifferenza per la vita, per le persone amate e per le proprie cose.
Una
valutazione più probante si deve basare su un lungo esame della persona e
richiede un’indagine approfondita
sulle sue tendenze autodistruttive, sui suoi drammi e sulle sue frustrazioni.
Non è nemmeno indicativo il senso morale del soggetto: il suicidio è spesso
segno di un disturbo che non può tener conto, né può essere fermato dal senso
morale.
Gesti assurdi e disperati: gli omicidi-suicidi
Di
solito l’essere vivente, in caso di pericolo, lotta per la sopravivenza. Alcune
persone, invece, quando si
trovano in situazioni critiche optano per una soluzione
di annichilimento. Questo comportamento è, probabilmente, una specie di
“disfunzione” del meccanismo naturale di autodifesa, ed è determinato da
gravi e irreparabili “smacchi” esistenziali. Esso può portare come
conseguenza al suicidio, e può anche, in casi estremi, inculcare nel
depresso la convinzione che anche l’esistenza
di chi gli sta attorno sia irreparabilmente compromessa. Ciò gli fa
reputare “opportuno” e paradossalmente “terapeutico” l’omicidio della
persona amata, di un consanguineo, di un minore
indifeso. Il buio della depressione spinge
allora a compiere
azioni assurde e dissennate.
La
parola “depressione” forse non chiarisce con sufficienza lo stato
d’animo di coloro che commettono atti tanto insensati come gli
omicidi-suicidi. La depressione è una
ipermalinconia, una rinunzia generalizzata ed essa non spiega appieno la
brutalità dell’infanticidio,
dell’omicidio “per motivi d’opportunità”.
In presenza di atti così sconsiderati come gli omicidi-suicidi,
bisogna, a maggior ragione che per i “semplici” suicidi, ancora una
volta utilizzare un termine più adatto a definire lo stato d’animo di chi
compie gesti tanto orribili: è “disperazione”
il termine che indica lo
stadio in cui è stata cancellata qualsiasi speranza.
Il
“disperato” si sente giunto al capolinea della propria vita e vuole porre
termine al suo disagio quando ritiene che ogni aspettativa sia
frustrata dal verdetto negativo della realtà.
La
disperazione è uno stato emotivo contraddistinto da pulsioni complesse: impulsi
sadici, masochisti, di impotenza, di ostilità, di rabbia. Nel periodo
iniziale di sconforto, l’Io riesce
a fronteggiare tali cariche distruttive, ma quando si è fatta strada
l’idea che sia impossibile venir fuori dall’impasse
(reale o immaginaria) a quel punto, gli elementi
aggressivi e autodistruttivi si coagulano dando modo ad una miscela
“esplosiva”
In
ogni persona c’è una soglia di sopportabilità e di insopportabilità: chi è
disperato ha
raggiunto il limite massimo di non-sopportazione,
al di là del quale non vede più via d’uscita. A quel punto, c’è,
purtroppo, chi ritiene che la soluzione più efficace sia “eliminare
materialmente” se stesso e/o la persona amata. Infatti, a
volte, la disperazione induce il soggetto ad attribuire anche
alle persone che lo circondano i medesimi avvilimenti e i drammi che egli
stesso patisce.
Le
cronache raccontano che una madre si è buttata dal sesto piano col figlioletto
in braccio. La donna avrebbe deciso di porre fine al problema
insolubile che l’affliggeva, chiudendo la partita con la vita che riteneva in fase di “scacco” per sé e per il proprio
piccolo. È ipotizzabile che la
infanticida intendesse “salvare” la propria creatura da più gravi patimenti coinvolgendola nel suicidio
“liberatore”. La
madre disperata che uccide il figlio o la figlia, è, paradossalmente, in
preda a un delirio affettivo: ella vuole evitare che i propri piccoli incappino
nella medesima situazione insopportabile nella quale ella si trova e dalla quale
ritiene di non poter più venir fuori, se non con una soluzione finale e
radicale: l’eliminazione fisica.
Recentemente
un’altra madre ha ucciso a
coltellate la figlia di sette anni e poi si è tolta la vita; e
un’altra è stata accusata
di aver messo la figlioletta di otto mesi in una lavatrice e di averla lasciata
morire, assistendo inebetita all’atroce scena. Secondo gli esperti nominati
dai vari tribunali, quelle madri
avrebbero sofferto di uno stato depressivo
manifestatosi nei mesi precedenti l’insano gesto.
Sofferente
di depressione è stato anche definito un
pediatra di Modena che nel giugno 2002 straziato per le sofferenze del figlio
diciassettenne, affetto da una grave e rara malattia intestinale,
e disperato perché, dopo molti mesi, il giovane non aveva ancora
ottenuto il trapianto, non sperando di poter più salvare il suo congiunto,
ha tentato di sopprimerlo con un coltello a serramanico.
Il giovane è stato sottratto alla morte dall’intervento di un
infermiere. Il mancato omicida, arrestato, in stato confusionale ha fatto capire
d’aver compiuto quel gesto perché non riusciva più a sopportare
che suo figlio tribolasse ancora tanto.
A
Finestrelle (To), nello stesso periodo, il cinquantenne Mario Raviol, sposato e
padre di due figli, il quale a detta di chi lo conosceva, soffriva da tempo di
depressione perché non si era rassegnato alla morte del padre, avvenuta cinque
anni prima, ha invitato la madre Irma, (settantatre anni) a pregare assieme a
lui presso la tomba del genitore, dopo di che l’ha
freddata con un colpo di
pistola, e subito ha rivolto l’arma verso se stesso suicidandosi.
A
Milano (maggio 2002), un padre separato dalla moglie e in cura
come riferiscono le
cronache, per problemi psichici di carattere depressivo, ha soffocato, nel
sonno, il figlio di sei anni. Dopo il delitto, ha circondato il letto con
ottanta immagini induiste e ha sparpagliato tutt’intorno santini ed effigi
sacre. L’uomo, che non si era mai adattato a vivere senza la moglie, ha
affermato di avere ucciso il figlioletto «per portarlo in un mondo migliore»,
dove avrebbe dovuto raggiungerlo (per
inciso, però, dopo l’insano gesto, l’uomo, malgrado l’avesse tentato, non
è riuscito a suicidarsi). Può accadere che qualche persona si comporti
come nella leggenda fa Medea, che si da la morte dopo avere ucciso i figli avuti
da Giasone, per straziare l’animo del suo compagno fedifrago, e punirlo così
del tradimento.
Quando
emerge la disperazione, forma più estrema della depressione, crea una totale
sfiducia nella possibilità di soluzioni positive e a volte sfocia in una scelta
irrazionale che stravolge il naturale istinto di sopravvivenza. Essa è una
delirante spinta che induce l’omicida-suicida a fare ciò che erroneamente
ritiene “la cosa giusta” e a mettere fine alla propria vita e a quella di un
congiunto per evitare che il fallimento
che egli già prova per se stesso possa cogliere
anche l’altro.
La
convinzione di fare la cosa più
opportuna toglie ogni dubbio e ogni senso di colpa a chi si accinge a commettere
un simile terribile gesto.
La
madre che ha annegato la propria figlioletta
nella lavatrice, probabilmente, non ha ritenuto di avere commesso un omicidio,
ma soltanto di avere aiutato la propria creatura a salvarsi da un “mondo
crudele” che “inevitabilmente” l’avrebbe devastata, così come era
accaduto a lei stessa e con ciò avrà
tacitato i sensi di colpa.
Spesso
processi psicologici di odio e
amore, di risarcimento e punizione, di sconforto
e di rabbia si mescolano creando un
maniacale miscuglio. Inoltre la frustrazioni sociali
spingono a soluzioni
estreme: successi e fallimenti hanno valenze culturali. L’ambiente, definendo
ciò che è da considerare nella vita di una persona
un fattore positivo o
una sconfitta, determina l’autostima o il disprezzo.
Quest’ultimo stato d’animo, se lasciato progredire preclude al bisogno
d’autopunizione.
Inoltre,
essendo tipico della disperazione il binomio
amore-odio, può accadere che una persona ami, ma nel contempo, magari a livello
preconscio, odii la propria creatura, ritenendola causa della situazione di
infelicità. “Se non avessi avuto questo figlio sarei stata libera”,…
“questo figlio mi fa soffrire a causa delle sue esigenze e delle sue monellerie”, … “la malattia di mio figlio ha sconvolto
la mia vita”, … e così via.
Tutto
ciò può influenzare gravemente il
comportamento esterno.
Solo
se la depressione viene mitigata o cancellata emerge una nuova visione della
vita e gli scopi e le aspirazioni,
che durante “ la malattia”
furono ritenuti irraggiungibili,
appaiono nuovamente realizzabili e “utili”.
In questo caso l’aggressività non si incanala più
contro l’Io, ma una parte di essa si dirige “opportunamente” verso
il mondo esterno.
Allora è possibile avere un “cambiamento di rotta” con sensibile attenuazione dei propositi suicidi. Da quel momento il depresso esce dal tunnel e torna ad essere vitale e competitivo.