DEPRESSIONE, SUICIDIO  E RAPTUS OMICIDA-SUICIDA

           Introduzione

 

La depressione è un quadro clinico complesso, caratterizzato da uno stato d’animo oltremodo malinconico e da profonda afflizione. Il depresso perde interesse nei confronti di ciò che lo circonda, ha una visione pessimistica della vita, non ha più gioia di vivere, manca di concentrazione,  è spesso assillato da fantasie di morte,  si sente minacciato da sentimenti di perdita e “tradito” dalla vita. Stati d’animo che si evidenziano anche dal punto di vista somatico, perché la persona depressa si sente affaticata e presenta anche un rallentamento motorio.

Al di là delle cause biochimiche - e secondo taluni orientamenti di ricerca, anche ereditarie – è probabile che una predisposizione psicologica allo sconforto affondi  le radici nell’infanzia. Talvolta la patologia si aggrava, riproponendosi, con una certa periodicità, con un andamento bipolare, ora sotto forma di malinconia, ora sotto forma di mania. Tale instabilità emotiva induce il depresso a provare sentimenti di ambivalenza anche verso le persone amate.

Può accadere che, se non opportunamente arginata, la depressione raggiunga stadi avanzati, sfociando in un’ira autodistruttiva, accompagnata da sensi di colpa che peggiorano ancor di più il quadro clinico. Il problema si complica quando il depresso vuole “liberarsi” del suo insopportabile fardello esistenziale: in tali circostanze non bisogna mai sottovalutare le sue dichiarazioni autolesionistiche e le frequenti idee suicide che, talvolta, restano soltanto semplici tentativi di sopprimersi, tal’altra raggiungono l’effetto desiderato.

Come evidenzia lo psichiatra G. B. Cassano, nessun problema che assilla la persona depressa deve essere considerato banale, perché questo tipo di patologia comporta un genere di sofferenza senza eguali che, in alcuni casi, oltrepassa i limiti della sopportazione.

 

Depressione e disperazione

 

La depressione, come evidenziato da E. Weiss, ha vari gradi d’intensità. Quando  si manifesta, la depressione è avvertita come una profonda delusione da cui si genera, come afferma Otto Fenichel, una struggente disistima. Chi è affetto da questo stato d’animo “sente” il mondo esterno con minore intensità e interesse di prima. Ciò accade anche perché la maggior parte dell’energia mentale viene consumata in conflitti inconsci e poca ne rimane per dedicarla al piacere della vita. Il soggetto può ritenere il suo status depressivo dovuto a ferite psicologiche, alla sensazione di essere caduto in disgrazia o dall’esser stato deluso da qualcuno.

La situazione “di avvilimento” avvertita dal depresso è segnalata dal disinteresse per gli affari, per gli affetti, per il lavoro; tant’è che il malinconico non riesce a mettere in moto meccanismi che cancellino o fronteggino lo sconforto.

Secondo Willad Gaylin la depressione può essere intesa anche come un meccanismo di difesa che bloccherebbe le tensioni distruttive che minacciano di sopraffare l’Io. La depressione è caratterizzata da stati d’animo malinconici che creano acquiescenza alla situazione negativa:  è attesa passiva, il cui sottofondo, magari non dichiarato, è di aspettazione: la persona depressa attende passivamente che la situazione, prima o poi, possa modificarsi. La malinconia è fatta di paesaggi nebulosi, le strade da percorrere sono ambigue, “pericolose” e, tuttavia, ancora da esperire.

La disperazione, invece,  è lo status in cui non è più possibile bloccare le tensioni interne distruttive ed è il momento più pericoloso, quello che induce a gesti insani. Essa è “gonfiata” dalla sopravvalutazione di un interesse: lo studente si suicida perché ha conseguito un brutto voto a scuola; egli ha sopravvalutato l’importanza del buon voto, mettendolo al di sopra della propria stessa vita. Laddove, dunque, al malinconico non interessa più nulla di nulla e, di conseguenza, non fa niente per alleviare il suo stato (egli è deluso di sé e rinunzia a perseguire i suoi scopi), al disperato, invece, l’esito negativo, il fallimento, “bruciano” in maniera insopportabile, per cui egli sente di dover fare qualcosa al fine di “cancellare” la propria sconfitta (che essa sia reale o immaginata poco importa).

La disperazione è lo stato più avanzato e furioso dell’avvilimento e pone davanti a un baratro, ad un traguardo che non prospetta alcuna illusione. La persona disperata vede la propria vita senza più alcuna nebbia metafisica che mascheri la catastrofe esistenziale e che induca a sperare in qualche alternativa. Davanti alla ineluttabilità del disastro, al cospetto della irreparabilità vera o presunta, nulla aiuta a sopportare la catastrofe. L’unica possibilità che intravede la persona disperata è cancellare tutto.

 

Ambivalenza e autolesionismo della disperazione 

 

In una situazione di pericolo, chi non è esistenzialmente disperato si tutela per salvarsi e  mobilita tutte le proprie risorse e accetta la sfida per tirarsi fuori dalla congiuntura negativa. La persona che invece si ritiene “catastroficamente senza via d’uscita”, di fronte al pericolo vero o presunto, non riesce a far ricorso alle proprie risorse interiori e non adotta alcun sistema di difesa, ritenendosi impossibilitata a fronteggiare l’emergenza: di conseguenza “si lascia andare”.  Facendo così, non solo non si protegge, fa di peggio: adotta un autolesionismo espiatorio, ritenendolo efficace per fronteggiare l’emergenza.

In questi casi la persona opera stravolgendo i normali sistemi di difesa.

Ad aumentare la disperazione, entrano in ballo meccanismi primordiali di ambivalenza che hanno origine nella prima infanzia, epoca in cui il bambino ama la madre quando gli procura piacere, ma, nel contempo, la odia quando gli infligge frustrazioni. La possibilità di amare e odiare contemporaneamente una persona o un oggetto sorge nei primi anni di vita e funziona anche nei confronti del proprio Io, amato e odiato simultaneamente.

Il suicida ama e odia sé stesso. Quando l’Io crolla per le sferzate dell’avversa fortuna e l’aggressività preconscia non è più controllata, possono prendere il sopravvento sentimenti di autodistruzione e l’individuo, odiandosi,  “si punisce” sopprimendosi.

Le persone affette da disperazione esistenziale hanno livelli di autostima precari se non si sentono incoraggiate e sostenute. Esse dipendono dalle approvazioni e dai riconoscimenti degli altri. Quando tali appoggi vengono meno, esse precipitano nella disperazione.

Il trauma della frustrazione può essere minimo o grave; la condizione dell’Io può essere tale da mancare totalmente di efficaci meccanismi di difesa o essere, in qualche modo, compensata. Da questi fattori dipende l’intensità della disperazione.

Lo scrittore Morselli si suicidò perché nessun editore giudicò i suoi manoscritti degni di pubblicazione. Mancando la gratificazione sulla quale lo scrittore aveva fondato tutta la propria autostima, vennero meno le energie di sopportazione e, di conseguenza, la possibilità di superare le avversità della vita.

Spesso, le persone più vulnerabili sono quelle che fondano il rispetto di sé esclusivamente sull’approvazione e sul riconoscimento dall’esterno. Esse, quando il loro narcisismo subisce una scossa, precipitano nella disperazione.

 

La disperazione  nelle donne e negli uomini

 

Svariati e, spesso, derivanti da input psico-socio-sessuali, sono i motivi che fanno insorgere avvilimenti che portano all’autodistruzione.

Nella donna, le cause più gravi di disperazione derivano dalla perdita del prestigio come “madre” e dalla scomparsa di sicurezza in seno alla famiglia. I figli sono la massima forma di orgoglio e di prestigio per la donna: un fallimento in questo campo crea una grave insicurezza e mette in forse l’autostima femminile.  Ma la depressione nelle donne può anche derivare dalla discriminazione sociale, che crea un modello femminile di “rassegnazione”, modello al quale molte donne sono “invitate” a uniformarsi magari anche dalla famiglia, dagli amici e dai compagni. Infatti gli stereotipi alimentano l’immagine della donna perdente e depressa.  Per molte donne l’abbandono del marito, la malattia grave di un figlio o di un congiunto, una patologia che la colpisce personalmente e che fa prevedere l’impossibilità ad assolvere ai propri compiti familiari, crea una disperazione irreversibile. La donna che giunge alla conclusione (vera o presunta)  di non poter  più allevare i propri figli (perché senza denaro, abbandonata dal partner o malata) nel proprio delirio, volendo evitare loro il disagio della sua inadeguatezza, “li salva” eliminandoli.

Alcune donne si suicidano perché si ritengono ammalate al punto da non poter essere più utili alla famiglia e credono di  “risolvere” il problema dei figli trascinandoli con sé nella tomba e “salvandoli” così dal disastro della mancanza di una madre efficiente. Più una donna è fragile più ritiene di perdere influenza se la situazione familiare s’impantana o se ella fallisce come madre.

Gli uomini di solito non ammetto se non in casi gravi la loro depressione: preferiscono parlare di stanchezza e avvilimento dovuti a iperlavoro. Molti la nascondono nell’alcol. La depressione maschile è spesso bipolare, e l’uomo che ne è affetto lamenta ora stati di prostrazione, ora presenta invece una super attività il più delle volte scoordinata. 

A differenza di quello della donna, l’orgoglio dell’uomo, non si basa sul ruolo di padre, ma sulla carriera e sulle conquiste sociali. La perdita di un affare importante può indurre un uomo a stati morbosi (e autopunitivi) che lo spingono alla disperazione e al suicidio. Narcisisticamente parlando, dopo la sconfitta, l’uomo che non vede nessuna possibilità di redenzione, perché poco avvezzo “a sopportare i dardi dell’avversa fortuna”, perde ciò che ha di fondamentale, ossia il proprio prestigio personale.

Può così accadere che un uomo si suicidi per un fallimento economico e che una donna si dia la morte perché si sente fallita come madre. È poco consueto che una donna ponga fine ai suoi giorni per un crack commerciale: così come è poco probabile che un uomo si sopprima sentendosi inadeguato come genitore.

Questo perché per l’uomo, a differenza che per la donna, i figli non sono l’oggetto del più alto investimento narcisistico. L’uomo trova il proprio prestigio nell’attività lavorativa e nelle conquiste sociali: quando queste vengono meno, egli entra in depressione.

Il maschio, incapace di sopportare forti delusioni, quando si imbatte in una situazione in cui vede crollare la propria autostima, precipita nell’abisso.

 

Carattere e conseguenze del crollo delle difese vitali

 

Il tipo oralmente dipendente è forse quello più predisposto alla depressione.

L’individuo orale è rassegnato e, come il bambino piccolo, si immalinconisce quando non ha i necessari appoggi psicologici ed esistenziali. Smarriti gli incentivi alla speranza, egli scivola nella passività.

Alla disperazione è invece più predisposto il tipo fallico-narcisista, il quale reagisce in maniera diversa alle frustrazioni. Il suo “Io” si ribella violentemente e non attende “passivamente” una soluzione. Egli è incapace di erigere barriere, di frenarsi e così, se nelle avversità è travolto dal senso di annichilimento, si dispone ad “uscire di scena”, in maniera anche violenta.

 

Il suicido: quadro storico

 

Alcune culture escludono la liceità del suicidio, altre lo accettano. Variegate sono le valutazioni che, del suicidio, fanno le religioni: il Brahamanesimo, ritenendo che l’anima sia oppressa dal peccato, crea i presupposti rituali per por fine alla vita terrena. Il Buddismo, non attribuendo grande importanza alla vita, comprende (e approva) il desidero di chi vuole liberarsene.

La religione giudaica, invece, condanna severamente il suicidio. Nel Vecchio Testamento sono ricordati come atti esecrabili gli episodi di Sansone, Saul, Akhitofel e Abimnelek, così come è condannato, nei libri apocrifi (II Mach, XIV.42-46) il suicidio di Razis. Nel Nuovo Testamento è ricordato il suicidio di Giuda Iscariota (Giov. 6:71), del quale le fonti non suggeriscono alcuna spiegazione psicologica. La narrazione si riassume nell’attestazione «.. Satana entrò in Giuda..», affermando così che sia il tradimento, sia il suicidio di Giuda fanno parte di un disegno che trascende «la volontà» del figlio di Simone.

Sebbene in Grecia il suicidio fosse considerato un  atto alquanto riprovevole, e a Roma, addirittura, doveva essere “autorizzato dal tribunale”, per non essere considerato un atto indegno, la tradizione greco romana è costellata di suicidi celebri tra i quali quello di re Crodo, di Tepopolo e di Didone. Nel 510 a.C., il patrizio Lucio G. Bruto, primo console, quando si rese conto che Roma stava per cadere sotto l’assedio dei Tarquini, si fece trafiggere con la spada dal suo più fidato aiutante di campo.

Nell’antichità, alcuni filosofi si sono dati la morte per ”ragioni sagge”: Zenone di Cizio, vissuto nell’isola di Cipro, tra il IV e III secolo a. C., dopo avere seguito, ad Atene, vari insegnamenti dei massimi filosofi del tempo, fondò egli stesso una scuola stoica. Quando “non ritenne più utile vivere” si diede la morte.

Nel 78 a.C., inseguito da Silla, non potendo sopportare l’idea della sconfitta, morì suicida Gaio Mario, detto il giovane, nipote e figlio adottivo del grande Gaio Mario. Per inciso, il suo inseguitore pare non abbia avuto sorte migliore: sembra infatti che Silla, uomo di temperamento aggressivo e rabbioso, sia morto, nello stesso anno, per un violento accesso di ira. Nel 45 a.C. un uomo politico di grande statura, Marco Porcio Catone detto l’Uticense, dopo avere invano lottato contro Giulio Cesare per ripristinare l’era repubblicana, ormai sconfitto, non volle abbassarsi a chiedere grazia al dittatore e, dopo aver letto alcuni passi del Fedone di Platone, si trafisse con la spada.

Qualche anno dopo, nel 42 a.C., nella prima Battaglia di Filippi, Gaio Cassio Longino che aveva partecipato alla congiura contro Cesare, assediato da Ottaviano, convinto ormai di aver perso, si uccise. Assieme a lui si diede la morte Marco Giunio Bruto che aveva condiviso con Cassio  la congiura contro Cesare.

Nel 65 d.C., si diede la morte il fecondissimo filosofo e scrittore romano Lucio Anneo Seneca, accusato ingiustamente di aver cospirato contro l’imperatore. In quello stesso periodo Nerone, avendo ormai tutti contro ed essendo stato dichiarato hostis dal Senato, dopo un’inutile fuga, per evitare l’arresto, si suicidò.

Non altrettanto determinata a togliersi la vita fu Messalina che, invitata da Claudio a suicidarsi, non “riuscì” a farlo e venne uccisa, qualche giorno dopo, nei giardini di Lucullo, dai sicari dell’imperatore.

I Germani  ritenevano che chi aveva il coraggio di darsi la morte arrivava sicuramente al cospetto di Odino, la maggiore divinità dell’Olimpo germanico.

Il concilio di Arles del 425 d.C. e poi il Sinodo di Braga del 563 d.C. condannarono il suicidio. Provvedimenti che si resero necessari poiché, sempre più spesso, credenti infervorati, volendo concludere la vita terrena per evitare le persecuzioni, per liberarsi dagli affanni o, più semplicemente, per ricongiungersi al Creatore, cercavano di affrettare quell’incontro, come pare abbia fatto anche Pelagia d’Antiochia.

Nel 565 d.C., Giustiniano, nel suo Corpus Iuris Civilis, ammise che fosse “giustificabile” il suicidio, se provocato dal taedium vitae. Il gesto era considerato invece illegale se serviva a sfuggire alla giustizia o era volto ad ingiuriare lo Stato.

In epoche successive, in varie nazioni dell’Europa cattolica, il suicidio è stato considerato un delitto e ciò fino alla fine del secolo XIX: così, alcuni scrittori come Montesquieu, Rousseau e Beccaria hanno protestato contro le condanne troppo gravi inflitte a coloro che erano stati scoperti mentre tentavano il suicidio.

In India, invece, fino a qualche anno addietro, la tradizione imponeva alla vedova appartenente a certi strati sociali, una forma di suicidio-lutto da porre in atto nella stessa pira del marito. Sebbene in alcuni passi il Corano sia contro il suicidio, nel mondo Islamico non esistono particolari “restrizioni” al suicidio che, anzi, è ammesso ed approvato in particolari condizioni, quali, ad esempio, dare la vita per la causa di Allah, situazione questa che, negli ultimi tempi, si è purtroppo, continuamente e tristemente verificata. A coloro che si “sacrificano” in simili circostanze è “garantito” un posto nel giardino delle delizie dell’al di là.

In Giappone, durante la Seconda guerra mondiale, l’ammiraglio Takejiro Onishi ideò l’impiego di piloti-suicidi che venivano lanciati col proprio velivolo carico di bombe ad alto potenziale esplosivo, contro le navi nemiche. Almeno 1300 piloti giapponesi accolsero con entusiasmo l’invito dell’ammiraglio e si sacrificarono, sicuri di guadagnare così, in maniera rapida e certa, una ricompensa nell’altro mondo.

 

 

 

 

Il suicidio: varie interpretazioni

 

Lo psichiatra Vincenzo Rapisarda afferma che parlare «.. della morte provoca sempre un certo disagio..» e che «.. ancora più sgomento desta l’idea di un uomo che, di sua iniziativa, scelga la morte come ultima tragica decisione».

Rapisarda vede le cause principali di suicidio nel disagio esistenziale dei giovani, nella solitudine degli anziani e nelle sofferenze psico-fisiche. Lo psichiatra catanese approfondisce il discorso su chi rinunzia a vivere, sottolineando il fatto che la fragilità dell’uomo che ha perso un solido sistema di riferimento ed è per ciò incapace di adattarsi ai problemi che presenta la vita, lo porta, paradossalmente, a sperare nella salvezza proprio mediante il suicidio. 

Difficile, allora, dinanzi a qualsiasi suicidio, esprimere pareri definitivi e sicuri. Infatti, sono tante ed indecifrabili le ragioni che possono far precipitare il mal di vivere nella decisione di porre fine alla propria esistenza. Secondo Cesare Musatti, il suicidio ha due meccanismi distinti: l’uno è generato dalla perdita dell’oggetto amato, l’altro dalla conversione della aggressività verso l’esterno in autoaggressività.

In genere, colui che si suicida è un individuo vulnerabile, socialmente e/o psicologicamente isolato, che non sa dare risposte adeguate alle necessità e ai problemi della quotidianità; una persona incapace di metabolizzare il proprio passato e di accettare il proprio presente. Anche una persona che vive di utopie, però, è paradossalmente un “ottimista” che s’illude che il tragico e irreversibile gesto sia invece l’inizio e/o una svolta per “un miglioramento”.

Riguardo al suicidio, ci si può chiedere: se da un canto esso è visto come una complicazione di patologie ben definite, d’altro canto si può ipotizzare che tale atto estremo  possa verificarsi al di fuori dalla patologia psichiatrica grave? (Uno sconvolgente dilemma, non del tutto assurdo, se si considerano, ad esempio,  certi suicidi come quello di Catone l’Uticense o quello di Seneca).

Claude Sigismond, ricordando il suicidio dello scrittore Henri de Montherlant, dello psicologo Jacob L. Moreno e del direttore dell’UNESCO Jaime Torrès-Bodet, afferma che coloro che conoscevano bene questi uomini li consideravano non individui disperati, ma persone che avevano voluto “scegliere”, con piena lucidità, il momento della loro fine, ritenendo conclusa la  possibilità di vivere in maniera sopportabile la loro esistenza.

Al riguardo, Sigismond osserva che il suicidio è “un atto umano”, pieno di conseguenze che, in casi estremi, taluni ritengono «una soluzione esistenziale», benchè conturbante.

Jacob Levy Moreno, l’inventore dello psicodramma, sentendosi irreparabilmente malato, si è suicidato nel maggio 1974, rinunziando ai medicamenti che gli erano indispensabili.

Henri de Montherlant si è ucciso, nel 1972, temendo di rimanere cieco. Jaime Torrès-Bodet, colpito da un male incurabile, volle poter “scegliere” quando porre fine alle proprie sofferenze.

Durkheim distingue il suicidio in: egoistico che è quello in cui l’io individuale prevale su quello sociale; altruistico (messo in atto da alcune società primitive) e anomico, dovuto alla incapacità del soggetto di dare risposte efficaci al mutare delle condizioni sociali.

In ogni caso, il suicida presenta un grave “scollamento” tra il senso della realtà e il suo mondo immaginario. Il risultato finale è la rischiosa convinzione che il corpo (e la vita stessa) siano all’origine del dolore fisico e/o esistenziale: è sufficiente liberarsene, per rasserenarsi.

G. B. Cassano afferma che il suicidio è più frequente quando la depressione è bipolare e che il momento più a rischio è quello durante il quale si apre una fase di “vuoto” e ogni difesa risulta abbassata.  Il regista Louis Malle ha affrontato il problema del suicidio nel film Fuoco fatuo. Il titolo emblematico sottolinea il punto di vista di chi pensa di darsi la morte: il “fuoco fatuo” è, infatti, la vita, la quale, secondo chi è disperato, è senza consistenza.

Il protagonista del film spiega così il motivo del gesto che sta per compiere: «Mi uccido perché la vita non ha senso. Pongo fine alla mia vita proprio perché questo gesto dia un senso alla mia vita». Karl Jaspers ritiene che il suicidio abbia origini psicotiche  e che insorga dall’angoscia, dal tedium vitae, dalla disperazione e da processi di decadimento mentale. Lo psichiatra svizzero afferma, tuttavia, che molti suicidi non sono commessi da malati di mente, ma da persone con una concezione abnorme della vita.

Può accadere che un individuo con una personalità scarsamente integrata - afferma James M. A. Weiss – possa immaginare di risolvere il problema dei propri traumi ponendo fine alla propria vita. Il medesimo autore evidenzia che il suicidio è anche un fatto culturale. Infatti, in alcune tribù primitive, esso è sconosciuto oppure ha una incidenza molto bassa, mentre in alcune culture esso è, non solo accettato, ma, in certi casi, obbligatorio.

In Inghilterra, il suicida era punito, per una norma disposta da Enrico III, con la confisca dei suoi beni, i quali venivano così sottratti agli aventi causa; inoltre erano vietati i funerali pubblici. Soltanto nel 1870 questa normativa venne abrogata.

Arieti e Meth affermano che il suicidio risente di influenze socio-culturali: a tal proposito essi hanno rilevato che i suicidi sono rari in Africa, Sud America, Australia e Polinesia. La “pratica” è sconosciuta presso gli Yahgans della Terra del Fuoco, mentre la si riscontra presso i Kanchadals della Siberia, i Navajos e alcune tribù Melanesiane.

Secondo l’Oms (rilevamento 1998) la Cina ha un alto tasso di suicidi. Tradizionalmente, in quel Paese,  il suicidio è un mezzo per sottolineare che si è stati trattati male e sottoposti a un torto. Sono molti i Cinesi che tentano ogni anno di togliersi la vita, come riferisce con sempre più insistenza il China Daily. In Cina si suicidano più  donne che uomini, più giovani che vecchi, più gente di campagna che di città. Si tratterebbe di un tasso di suicidi  più alto che in Gran Bretagna e  negli Usa, ma al di sotto dei picchi dell’Ungheria e dell’Unione Sovietica,  dove i suicidi sono molto numerosi. Nei mesi scorsi il governo cinese ha lanciato un piano decennale per migliorare i servizi di salute mentale e si prevede anche una legge contro le discriminazioni per gli affetti da malattie mentali.  Le autorità hanno istituito nelle principali città anche un telefono rosso.

Il suicidio è il risultato di una forma di aggressività che l’individuo scarica contro se stesso; una scarica di ipersadismo, dunque, rivolta verso la propria persona.

Secondo alcune statistiche psichiatriche, sociologiche e antropologiche, i più portati al suicidio sarebbero gli anziani  e gli  adolescenti, le persone divorziate o le separate, oppure i soggetti che vivono isolati o che sono stati strappati dal loro ambiente (per esempio militari di leva) o che sono particolarmente suggestionabili (caso dei suicidi collettivi). A rischio sarebbero anche le persone affette da malattie psichiche e gli alcolisti.

 

 

Il suicidio filosofico e letterario.

 

Sigmund Freud ha definito il suicidio la manifestazione estrema della componente dell’istinto di morte. Due correnti contraddistinguono il pensiero filosofico a proposito del suicidio: la prima - sostenuta da stoici, cinici, epicurei, esistenzialisti - lo ritiene un atto mediante il quale l’uomo afferma la propria volontà o coerenza.

La seconda linea di pensiero ritiene il suicidio un atto lesivo della dignità della vita, perché essa è dotata di valori di origine divina. Hanno condannato il suicidio: Platone, Sant’Agostino, Plotino, San Tommaso, Aristotele e Kant. Il filosofo Davide Hume, invece, nel suo trattato sul suicidio, “concede” «.. all’uomo stanco della vita e perseguitato dai dolori e dalle miserie..» il diritto di vincere coraggiosamente i terrori naturali ed uscire dalla crudele scena del mondo.

Il tema del suicidio rappresenta uno dei più suggestivi filoni della letteratura, a partire dal celebre episodio degli amanti Piramo e Tisbe descritto da Ovidio, fino al Tristano che si da’ la morte tormentato dall’ossessione amorosa.

Spesso il suicidio ”letterario” è una forma di protesta filosofica contro il mondo, la società, il destino. Il suicidio nasce paradossalmente da un amore viscerale per la vita: l’autodistruzione avviene a causa del fallimento di tante aspettative.

Il mondo dell’illusione, logorato dalla triste realtà, porta all’idea del suicidio. Mazzini confessò che, infervorato dalla bella tesi dell’Ortis, pensò più volte, a causa dei suoi fallimenti politici, di por fine alla propria esistenza con un gesto plateale.

Nel ‘700, padre Appiano Buonafede (al secolo Tito Benvenuto) scrisse Istoria critica e  filosofica del suicidio, in cui affermava che la disperazione nata da sventure e passioni, rendendo l’uomo infelice, ingenera l’idea che la vita, di per sé, non sia un bene, ma un peso e un male.

Nello Zibaldone, Giacomo Leopardi argomenta che il suicidio è contro natura: ma, poiché l’uomo non segue più la natura - la civiltà e la ragione, infatti, secondo lo scrittore, divenute sempre più artificiali e perverse, hanno tradito lo stesso creato  – poiché tale “devianza contro natura” porta infelicità, per evitare “di soffrire”  – afferma Leopardi – è consigliabile  porre termine ai patimenti col suicidio. 

A volte, la morte di un intellettuale è un gesto di protesta contro la società o il sistema politico (a Praga, nel 1969, il giovane Jan Palach si suicidò per protestare contro il regime comunista); a volte è giustificata dalla incongruenza filosofica del vivere o allo strazio esistenziale d’amore, come nel caso di Werther.

Talora il suicidio è il vertice estremo cui giunge la crisi esistenziale romantica, come nel caso delle Ultime lettere di Iacopo Ortis del Foscolo, opera pubblicata nel 1802, in cui l’autore offre ai lettori le proprie tristezze ed esperienze più intime, le infelici passioni e i fallimenti amorosi che gli ispirano il desiderio “romantico” di por fine alle proprie tribolazioni, per trovare la pace che non riesce ad avere nella sua quotidianità terrena. Qualcuno, già allora, ritenne il libro malsano, sia per quel suo ingenuo attentato alle ragioni della vita e per il pessimismo dilagante in tutte le pagine, sia per quell’incentivare l’idea filosofica del suicidio, quale panacea di tutti i mali.

A proposito delle “Ultime lettere”, Melchiorre Cesarotti scrisse: «È opera di un Genio in un accesso di febbre maligna, d’una sublimità micidiale e di una eccellenza venefica». Il critico vedeva, infatti, in quel lavoro, così come nei Dolori del giovane Werther, i segni di una malattia spirituale, la cui fiera crudezza trascina verso una sconcertante fatalità.

Meno cerebrale e più “credibile” è il dramma di Alfonso Nitti, il  protagonista del romanzo di Italo Svevo, Una vita  (1892), in cui il piccolo impiegato di banca, dopo una lunga sequenza di errori, compiuti in un torpore passivo di sentimenti, decide di mettere fine alla propria esistenza sbagliata. Il romanzo descrive l‘incapacità dell’uomo affossato dalla sua debolezza interiore, ad affrontare la realtà e a decidere concretamente la strada migliore da seguire.

Un tentativo di inserire il suicidio in un contesto domestico di crisi esistenziale si ha nel romanzo di Carlo Montella Perché anche morire (1967).

Personalità conturbante, di altissimo interesse psicologico, Alessio Nylic Kirillov, protagonista del romanzo “I  Demoni” di Dostoevskij, vive tragicamente l’idea della morte, e la affronta con demoniaca grandezza. Kirillov, ateo convinto, ritiene  che gli uomini credono in un Essere superiore per paura della morte, e afferma che, allorquando questa paura sarà vinta, questo Essere non avrà più ragione di esistere. Egli allora si uccide per negare la paura della morte e nel contempo per confutare l’esistenza di Dio.

Un riscatto dal tentativo del suicidio si ha in: Morte di Ivan Il’Ic di Leone Tolstoj (1886). Ivan, infermo per una caduta, quando si rende conto della ipocrita meschinità dell’ambiente borghese, comincia a riflettere sulla propria vita e, ad un tratto, si rende conto che nulla è stato come avrebbe dovuto essere. Analizzando il suo passato, capisce che tutto si è svolto in maniera errata, dalla carriera ai rapporti familiari, dalle menzogne che è stato costretto a dire e che ha subito, alle ipocrite amicizie di cui si è circondato. A quel punto il dolore esistenziale diviene insopportabile e Ivan ritiene che solo la morte potrebbe lenire la sua disperazione. Ma con un estremo anelito di vita, il protagonista restituisce valore all’amore per il prossimo e muore col sorriso sulle labbra.

Il poeta Antonin Artaud nel 1944  ha pubblicato una raccolta di scritti ispirati da un’inchiesta sul suicidio ricavata all’interno del movimento surrealista negli anni Venti. Il vuoto esistenzialista di quanti hanno smarrito  le certezze e s’affacciano con ghigno inquietante sul baratro della propria dispe­razione, proietta la sua ombra su questi testi profeticamente percorsi dallo stesso senti­mento dell’assurdo che tanta parte avrà nel tea­tro novecentesco.

Il suicidio, inteso come pos­sibile soluzione al peso insostenibile della vi­ta, vista da Artaud come «sequenza di ap­petiti e di forze avverse, di piccole contraddi­zioni che hanno esito felice o abortiscono se­condo le circostanze» appare schopenhaueriano. A somi­glianza del grande filosofo tedesco, assertore del primato della volontà, il poeta e attore  francese sembra infatti assegnare al suicidio il definitivo affrancamento dell’uomo dagli istinti oscuri. Di­versamente da Schopenhauer, però, in Artaud il deside­rio di sfuggire al condizionamento fisico,  cresce a dismisura ed assume pro­porzioni quasi parossistiche, finendo, paradossalmente, per arrivare all’intuizione che neppure nel suicidio vi sia  alcuna libertà. L’i­dea stessa della libertà del suicidio viene meno: una constatazione amara, che getta una luce sinistra sulla fisionomia della società mo­derna nella quale, per molti versi,  afferma Artaud, l’uomo si è già «suicidato» da tempo senza rendersene con­to.

 

Il suicidio per vergogna

 

A volte si attua il suicidio per paura del disonore. L’ammiraglio Jeremy Boorda, capo della US Navy, si era appropriato e fregiato impropriamente di due medaglie a “V”, decorazioni che, tradizionalmente, venivano assegnate a chi aveva rischiato la vita in guerra. Nel 1996, Boorda si uccise perché un settimanale aveva scoperto la sua furfanteria e, di conseguenza, temeva un’ondata di critiche malevole.

L’ottantunenne commerciante Giuseppe Marsala, agli arresti domiciliari perché accusato di essere mafioso, essendo stato smascherato da alcuni pentiti e avvilito perché riteneva di aver perso “peso” all’interno dell’organizzazione, si è suicidato.

A Verbania, nel 1996, due coniugi, il commercialista F. Moro e sua moglie, coinvolti in una truffa miliardaria, scoperta dall’Inps di Novara, si sono inabissati con la loro auto, nel lago.

Nel 1997, a Tokyo, si è suicidato, gettandosi dall’ottavo piano, il sessantaquattrenne regista Joshihiro Itami perché alcuni giornali avevano pubblicato dei servizi fotografici circa una sua presunta love story con una attrice di 26 anni. Il regista, che era sposato felicemente con l’attrice Nobuko Miyamoto, ricorse al suicidio per evitare il dilagare del sexy scandalo e per “dimostrare la propria innocenza”.

Nel 1933, un capitano di corvetta, Uzuki Nimohki si suicidò perché il governo non gli assegnò i fondi per ammodernare l’incrociatore che comandava.

In Giappone, per secoli, il suicidio d’onore è stato ritenuto un “dovere”. Tale pratica, parte integrante della cultura giapponese, risale al dodicesimo secolo. Protagonisti di uno dei primi  episodi furono alcuni generali che scatenarono una sommossa contro l’autorità dominante. La rivolta non ebbe effetto, e i rivoltosi furono posti agli arresti. Non sopportando la vergogna della sconfitta, 283 membri del clan militare si suicidarono e con loro 870 guardie armate e  i loro familiari. Da allora, togliersi la vita fu considerato un privilegio di casta. I guerrieri samurai idearono la pratica del harakiri consistente nello sventramento da sinistra a destra.

Gli ultimi samurai sono scomparsi nel 1890, ma “la cultura” del suicidio non è venuta meno. In qualche albergo di Tokio, alcune stanze sono ancora riservate a questo “rito” che, in Giappone, non desta scandalo, non vietando la religione scintoista questo tipo di “soluzione finale esistenziale”.

Gli antichi Celti si suicidavano quando non riuscivano più a sopportare qualche insanabile sventura. Essi avevano anche un luogo particolare dove ponevano fine alla loro vita.  Gli indiani Kwakiutil che amano le emozioni violente, spesso, pongono fine alle loro tribolazioni col suicidio. Anche i Bonzi, monaci buddisti che godono di grande ascendente, si danno la morte per protestare politicamente contro un governo o contro una linea filosofica dalla quale dissentono.

L’abitudine ad eleggere un luogo “adatto” ai suicidi non è solo della cultura giapponese o celtica. In varie parti del mondo ci solo “luoghi” che vantano il triste primato di essere prediletti dagli aspiranti suicidi. In Italia, per esempio, vicino a Catanzaro, c’è il più alto ponte d‘Europa, un viadotto  amaramente noto perché più volte utilizzato dai suicidi.

In quanto al Giappone e alla sua “permissività” in fatto di suicidi, c’è da dire che, nel 1994, lo scrittore Waturu Tsurumi scrisse un Manuale del suicidio che divenne un best-seller.

Nel giugno del 1998, un sommergibile nord-coreano, con funzioni di nave spia è stato avvistato e catturato nelle acque territoriali della Corea del Sud. Mentre l’unità veniva rimorchiata, l’equipaggio, formato da sette uomini, si è fatto saltare in aria, mantenendo fede all’uso del suicidio richiesto quando le missioni spionistiche  vengono scoperte. 

 

Il suicidio per vanteria

 

Nel 1929 lo scrittore Jacques Rigault si sparò un colpo di rivoltella al cuore. Un mese dopo la Révolution Surréaliste pubblicò il suo testamento spirituale, nel quale egli affermava che l’uomo deve conquistare il diritto alla irresponsabilità, diritto reclamato dal Surrealismo. Il testamento di Rigault inizia così: «Il suicidio deve essere una vocazione…».

Qualche anno dopo, il suo biografo, lo scrittore Pierre Drieu la Rochelle, che aveva stigmatizzato la fine di Rigault, affermando che «il suicidio è l’atto di chi non é capace di compierne altri», si suicidava anch’egli. E poco dopo il “protodadaista” Jacques Vaché, «non  potendo più vivere nel vuoto», si suicidò per mostrare al mondo che “sapeva almeno fare una cosa”. 

Un inquietante suicidio è stato quello di Roberto, 19 anni, morto nel 1996 a Venezia, durante un gioco “di ruolo”, il così detto role-playing games, un “gioco” limite, praticato assieme ad altri amici.   

Il più trasgressivo di simili “passatempi” è quello denominato Killer. Questo gioco che prende spunto dal film La decima vittima di Elio Petri (1965), si ispira  al famoso racconto di Robert Sheckel La 7° vittima.  Le due opere analizzano il tema dell’aggressività giovanile e cercano i rimedi più idonei perché essa si possa sfogare. Nelle due narrazioni si ipotizza che, nella società del futuro, l’aggressività possa essere placata con una specie di “caccia all’uomo”. Il Killer fu giocato per primo dagli studenti dell’Università di Austin, Texas, nel 1965, i quali si vantavano di “averlo adottato” come sfida,  assicurando di non avere alcuna paura della morte.

In seguito, il gioco si è diffuso in Occidente. I giocatori nel role-playing games denominato Killer impersonano la figura di un  assassino.

Era questo il gioco che Roberto praticava con gli amici: egli  si vantava di essere il più esperto. Il perverso gioco prevedeva anche l’impiccagione (ovviamente ludica). La perizia medico-legale ha stabilito una conturbante ipotesi: secondo gli esperti  il giovane non si sarebbe impiccato da solo, ma sarebbe stato “aiutato” nella fase finale del gioco, dagli altri “concorrenti”.

 

Il suicidio  per fanatismo.

 

Afferma l’antropologo Julian Leff che un problema da prendere in considerazione, a proposito delle sette, è che queste possono talvolta costituire un ambiente tollerante nei confronti delle persone affetta da turbe psichiche. Queste sette propongono ideologie paranoiche, così alcuni individui, affetti da sindromi paranoidi, si associano per ottenere riparazioni di immaginari torti subiti. 

Secondo una indagine di John Spencer, negli ospedali dell’Australia occidentale,  i Testimoni di Geova ricoverati per nevrosi e per schizofrenia paranoica, nel 1975, erano il doppio e il quadruplo rispetto a pazienti di fede o di convinzioni esistenziali diverse. 

Nel novembre del 1978 , nella comune agricola di Jonestown, nella giungla della Guyana, 911 persone (uomini, donne e bambini) aderenti alla setta del Tempio del popolo americano, si suicidarono (o furono costretti a suicidarsi) assieme al loro guru, Jim Jones.

Nel 1985 la Tribù Ata, nelle Filippine si autosterminò. Lo stesso accadde, nel 1987, in Corea del Sud, ove circa 300  seguaci di Park Soon Ja si diedero la morte. Nel 1990 gli adepti del  Tempio di Mezzogiorno si tolsero la vita in massa.  

Nel 1993 un centinaio di aderenti alla setta del guru David Koresh si barricarono per oltre due mesi in una fattoria del Texas. Assediati dall’FBI e dalla polizia locale, alla fine conclusero tragicamente la loro vita terrena. Quando le forze dell’ordine entrarono nell’edificio trovarono i cadaveri di 81 persone.

Nel 1994, in Svizzera, 48 membri della setta del Tempio Solare si diedero la morte; nello stesso giorno, altre 5 persone aderenti alla medesima setta, si suicidarono in Canada. Altri 14 adepti alla setta si tolsero la vita, a Grenoble, nel dicembre del 1995, mentre 5 iniziati si sono suicidati nel villaggio di Saint Casimir nel Québec.

Il 23 di dicembre del 1995, a 60 chilometri da Grenoble,  16 adepti svizzeri e francesi della setta del Tempio Solare, la cui teologia apocalittica porta all’annullamento, si sono suicidati. I loro resti carbonizzati sono stati trovati disposti a cerchio, la mani giunte, le teste dirette verso il centro e con  i piedi all’esterno, per formare i raggi di una macabra stella di Natale.

Alcuni guru convincono i loro adepti al suicidio, affermando che “essi sono chiamati” a vivere in un mondo migliore, un mondo che al di là di questa terra e al quale si può accedere solo dopo la morte; in realtà, dietro questi inviti all’autodistruzione si celano interessi economici. I “capi” approfittano della buona fede dei loro seguaci e  li spogliano di ogni loro avere prima di indurli al suicidio. La Chiesa di Scientology è stata più volte accusata di essersi impossessata dei denari e dei beni dei suoi accoliti e per ciò è stata trascinata in tribunale. Inoltre è stata più volte ritenuta “moralmente” colpevole di aver favorito il suicidio di molti suoi discepoli.

Nel marzo del 1997, 39 persone (impiegati, violinisti, mamme, nonne, candidati al Senato Usa) si sono suicidate a San Diego, (California) nella villa Rancho Santa Fe, per andare, convinte e sicure,  “verso una terra promessa”. Il Rancho è una comunità di 12mila persone, situata in una regione ad alta tecnologia. Per un paradosso in una zona così ad alta tecnologia  sono presenti anche culti arcaici, esoterici, e le due culture si condizionano a vicenda, in un misto di perversa  spiritualità e tecnologia raffinata. Nel mondo asettico dei calcoli, dei microcip per computer, di progetti avveniristici, la ricerca di qualcosa di assoluto si mescola con quella del progresso tecnologico. I confini tra la tecnologia e l’occultismo, paradossalmente, sono poco definiti ed è possibile che chi soffre di una certa “confusione esistenziale” possa illudersi di far coincidere, senza esitazione, il dio delle sette esoteriche col tecnologico dio del silicio.

La setta Higher Source ha spinto centinaia di adepti nell’estrema dimora mediante un suicidio collettivo. In un manifesto inviato tramite Internet, i membri della setta hanno scritto una frase sibillina: «Attendiamo con impazienza di salire su di una nave spaziale…perché così possiamo perdere il nostro veicolo fisico(il corpo)».

A spingerli al suicidio sarebbe stata la notizia diffusa su Internet che sulla scia della cometa Hale-Bopp, viaggiava una nave spaziale alla quale i seguaci della Higher Source avrebbero potuto unirsi, una volta morti

Eppure coloro che si sono dati la morte erano giovani esperti programmatori,  abili dirigenti,  disegnatori apprezzati, che tuttavia   erano convinti che tramite l’Higher Souce sarebbero potuti arrivare «a rendere la transizione nel cyberspazio un’esperienza facile e serena».

Il guru della setta era Marchall Herff Applewhite, il quale “se n’è andato dal proprio involucro”, come gli altri 38, per raggiungere il paradiso.

La storia “psichiatrica” di Marchall ha origine in un’infanzia segnata dal padre, un rigido e apocalittico pastore presbiteriano. Il solo divertimento del piccolo Marchall erano le sacre funzioni. Quando divenne insegnante di musica all’Università cattolica di Huston, Marchall scoprì di essere omosessuale. Dopo una lunga e inutile battaglia, il giovane insegnante “cedette alla tentazione” ma la sua relazione  con uno studente venne ben presto  scoperta.  Avvilito per la vergogna, Applewhite fu ricoverato  in una clinica per malattie mentali, dove incontrò una infermiera, Bonnie Lu Nettles, ossessionata dal “problema” degli ufo. Da quel momento i due decisero di dedicare la loro vita alla costruzione di una chiesa che fosse «al di là dell’umano» e che “partecipasse delle forze cosmiche universali”. I due iniziarono una storia d’amore, priva di sesso, e Marchall, per non ricadere nella tentazione omosessuale, si fece castrare. Un invito, quello alla castrazione, che era stato accolto da molti adepti, come si poté constatare facendo l’autopsia dei suicidi.

Spesso, davanti ad orrori del genere, la società non vuol conoscere certe spiegazioni scientifiche che mettono sotto accusa la natura umana, ritenuta a volte ancora troppo vicina alla brutalità rettiliana. A tal proposito, Rita Levi Montalcini ha rilevato che il cervello dell’uomo ha anche circuiti nervosi non dissimili da quelli dei rettili, per cui si è chiesta se non vi siano, nel comportamento dell’uomo, componenti comuni ai vertebrati inferiori. Secondo la Montalcini il cervello dell’uomo, essendo il risultato dell’evoluzione di un aggregato di strutture originatesi all’alba della vita sulla terra, è condizionato da  elementi arcaici primitivi e da  compagini alquanto selvagge. 

Così, può accadere che, quando la mente umana perde, per qualche motivo, il controllo, essa regredisca a livelli  primitivi: è allora che  emerge la zona più ancestrale del cervello, quella di cui si servivano i nostri antenati A quel punto la natura selvaggia ha il predominio e  l’individuo commette crimini efferati.

Anche un altro premio Nobel, Aldous Huxley, ritiene che vi possa essere una “sintonia”, magari  inconscia, con il passato primitivo: ciò spiegherebbe il fatto che, a commettere efferati delitti, non sono solo i singoli “satrapi feroci”, ma anche persone comuni che fanno parte della popolazione. Ovviamente,  questo non significa che tutti gli uomini sono nella stessa misura crudeli e violenti, ma non si può negare che coloro che si dimostrano più sanguinari, fanno parte, purtroppo, anch’essi del genere umano. Una spiegazione, questa, che sconvolge il cittadino e gli rende la vita alquanto inquieta.

In conseguenza di questa paura la comunità cerca istintivamente di salvare la propria “integrità mentale collettiva” e tende a rigettare l’idea che atti del genere siano dovuti solo ad opera “umana”. A volte la gente comune, volendo spiegare drammatici fatti di sangue accaduti in cerchie familiari “ritenute normali” ipotizza che magari vi sia dietro quei crimini qualche misterioso disegno. Per cancellare queste supposizioni popolari Richard Rhodes fa notare che l’obiettivo della scienza è in primo luogo la graduale rimozione dei pregiudizi in tal senso, e in secondo luogo il tentativo di dimostrare che coloro che commettono questo genere di azioni nefande non sono necessariamente del tutto  persone “diverse”.

La società, invece, tende proprio ad affermare perentoriamente nei confronti di chi ha generato il dramma: “lui non è come noi!”, allontanando così il sospetto che  membri della collettività  possano anch’essi nascondere nel loro seno  il male.

Ciò si evince anche dai servizi giornalistici, quando vengono interrogate persone che conoscevano il protagonista di un improvviso atto di follia. A tal proposito quasi tutti affermano: “Chi se lo sarebbe aspettato che avrebbe commesso qualcosa del genere? Era una persona  tanto docile,  educata, amorevole!”.

Indicativo è il fatto che il sindaco di Cogne, cittadina dove è stato ucciso il bambino nel letto dei genitori, delitto per il quale la Procura  ha indiziato la madre del piccolo, abbia “assicurato” tutti:  «La nostra comunità è sana, tra noi non può mai nascondersi nessun assassino»  

Intuendo questa pubblica propensione, Donato Bilancia, serial-killer accusato di molti omicidi inspiegabili, commessi a danno di persone a lui sconosciute,  ha ”cercato di giustificare”  in aula i suoi crimini, affermando che “era stato indotto dal diavolo”.

Una  tendenza, antica, questa,  (come nel caso di Giuda Iscariota) e, come si vede,  anche attuale, volta a togliere “la titolarità del gesto” a chi compie un atto tanto esecrabile, per attribuirlo a entità soprannaturali come il diavolo, a imponderabili fattori socio-culturali. In molti casi, poi, c’è una certa insistenza interpretativa, che a volte va al di là del buon senso, nel volere attribuire solo all’incapacità di intendere e di volere certi gesti autodistruttivi e criminosi.

 

Il suicidio per delusione

 

Spesso adolescenti e giovani sono delusi della loro esistenza e della presunta banalità dei significati con cui gli adulti cercano, invano, di riempire la società. Questa sensazione di vuoto così acutamente sentita dalla gioventù si può tradurre in un disperato  bisogno di cancellare l’equivoco dovuto allo sconforto esistenziale.  

A Desio, nel 1995, “stanchi di vivere”, due studenti, Samuele di 17 e Walter di 18 anni,  si sono lasciati morire  dentro la Fiat Uno di Walter, trasformata in camera a gas. Qualche giorno prima avevano discusso del loro proposito “teorico” con un amico.

Nel 1998  una casalinga  palermitana con figli, che lavorava da un anno in una Chat-line d’intrattenimento per incrementare il bilancio familiare e che per quel lavoro aveva già rotto il suo matrimonio, essendosi innamorata più volte  dei “clienti on line” con i quali comunicava, ha tentato il suicidio perché l’ultimo suo interlocutore non ha accettato di incontrarla e di iniziare una relazione con lei.

Un dramma, quello della solitudine, che ha varie sfaccettature. Spesso, infatti, nella coppia il dialogo è carente. E lo è anche tra conoscenti o tra parenti.  La centralinista siciliana, salvata in exstremis dalla morte ha confessato che mai nella sua vita aveva parlato così apertamente con persona umana come le era accaduto tramite la Chat- line e che non aveva mai raggiunto tanta intimità con un uomo come le era capitata con il cliente per il quale aveva perso la testa. La paura di ripiombare nella “solitudine”, una volta finita “la storia” telefonica con quell’uomo,  le aveva suggerito l’insano gesto.

Nel 2001 nella sua villa all’Elba, si è suicidato a 72 anni Jacques Mayol, il re degli abissi, l’uomo che, per primo, scese sotto i 100 metri, in apnea. Quando ha capito che la sua mente non reggeva più come un tempo, che le sue forze non erano più quelle di una volta, si è impiccato.

Mayol era nato a Shanghai. Nel 1966, alle Bahamas, aveva conquistato il suo primo record in apnea e con i suoi 60 metri aveva battuto il primato del polinesiano Teteke Williams.

Anche Ernest  Hemingway si è suicidato pare allorquando si è reso conto che non era più in grado di essere all’altezza della fama che lo aveva sempre circondato. E così nel 1961, lo scrittore, a 62 anni, sentendosi  stanco e malato, ed essendo narcisista al punto da non poter assolutamente sopportare né ammettere la sua decadenza fisica, pose fine ai suoi giorni con un colpo di fucile alla tempia.

Nel 1995 due inseparabili  gemelli di venti anni, si suicidarono a Lamezia Terme perché non volevano partire per il servizio militare in due scaglioni diversi. Cristian e Vincenzo non stavano mai con nessuno, non avevano amici, non si erano mai separati nemmeno  un giorno. All’idea della separazione, magari per qualche breve periodo, non hanno retto e delusi per non essere riusciti ad evitare una pur temporanea  separazione, hanno posto fine ai loro giorni.

Nel febbraio del 1999 a Balashikha, Russia,  tre bambine Tanya di 11 anni, Masha di 12, e Aloya di 14, forse istigate dalla sezione russa dei Testimoni di Geova, setta attivissima da quelle parti, o forse perché innamorate dello stesso ragazzo, un certo Dima, si sono buttate dall’ottavo piano tenendosi per mano. Si disse che forse nessuna delle tre era piaciuta al giovane e allora, accomunate nella stessa delusione, si sono suicidate.

 

Il suicidio dell’artista

 

Il suicidio è di casa  fra la gente della letteratura, della pittura, della musica, dello spettacolo.

Emblematica è la storia di Franco De Longis, commercialista per professione, scrittore per hobby, che comprò pagine intere di giornali italiani e stranieri per pubblicizzare il suo unico libro Il cerchio che non ebbe successo. A De Longis l’ossessione di diventare un autore noto aveva fatto perdere la testa. Per procurarsi i soldi per pubblicizzare il proprio libro aveva commesso perfino illeciti nella sua attività di curatore fallimentare. Il suicidio pose fine alle sue tribolazioni.

La “categoria” degli scrittori annovera molti suicidi: Graham Greene, Scott Fitzgerald, Edmondo De Amicis, Conan Doyle, Heinrich Kleist,  Emilio Salgari, Bernard Buffet, Klaus Mann, figlio di Thomas Mann, anche lui scrittore, Luca Mastronardi, autore de Il maestro di Vigevano. E ancora: Virginia Woolf, Cesare Pavese, Vladimir Majakovskij, René Crevel, Mary Shelley, Gerard de Nerval, Stefan Zweig, Arthur Koestler,  Jean Gênet e lo scrittore tedesco Kurt Tucholsky.

Si suicidarono inoltre i poeti Sergej Esenin, Attila Jòzsef, Anne Sexton - che nel 1967 vinse il premio Pulitzer - la poetessa Silvia Plath, Marina Cvetàeva e Josef Weinheber.

Georg Trakl, abbandonato dalla sorella-amante Margarethe, pose fine ai suoi giorni quando la donna lo lasciò. Margarethe, infatti, sperando di dimenticare la relazione col fratello aveva sposato  Arthur Langen. Ma poco dopo, sconvolta dalla morte di Georg, si suicidò anch’essa.

Si sono suicidati il cantautore Luigi Tenco e il cantante Nino Ferrer.

Quando la sua malattia mentale si aggravò e il suo stato divenne tale che aveva perfino difficoltà a parlare, il compositore Robert Schumann nel 1854 tentò il suicidio. Salvato in extremis, visse una esistenza cupa e triste ancora per altri due anni, in una casa di cura.

In quanto a Ciaikoskij, la sua tendenza innata alla malinconia e la sua instabilità nervosa, secondo alcuni lo indussero a una strana forma di suicidio: egli nel 1893 contrasse il colera perché bevve, quale sfida alla morte, durante l’imperversare dell’epidemia a Pietroburgo, l’acqua del fiume Neva di certo infetta perché in essa venivano gettati  i morti di peste.

In preda a sconforto esistenziale l’editore Angelo Formiggini si è gettato dalla torre  della Ghirlandina a Modena. Anche l’architetto Francesco Borromini si suicidò, così come  il quarantaduenne  matematico e logico Alan Mathinson Turino. Stessa sorte  si diedero il pittore Richard Gerstl e lo scultore Alberto Giacometti,    

Alto anche il tasso dei suicidi tra gli attori: si sono dati la morte  Alan Ladd, Charles Boyer, Luigi Pistilli, Carole Landis, George Sanders, Annamaria Pierangeli (terrorizzata di compiere 40 anni…), Capucine, Margaux Hemingway, Liliana Castagnola, una delle più celebri chanteuse dei primi del ‘900, Daniela Rocca, James Whale, il regista che inventò il genere horror.

Anche tra gli psicologi  e i filosofi vi sono casi di suicidi.

Lo psicoanalista ungherese e pupillo di Freud,  Sandor  Ferenczi, si diede la morte, così come lo psico-sociologo Otto Weininger (autore del misogino Sesso e carattere). Nel 1927 si suicidò Vittorio Benussi, psicologo insigne e  capostipite degli psicoanalisti italiani assieme a Cesare Musatti, che fu suo allievo. Si suicidò anche lo psicoanalista Paul Federn, autore tra l’altro de Il senso dell’Io nei sogni (1932) e L’analisi degli psicotici (1933). Edoardo Weiss definì Federn studioso dalla vasta e straordinaria preparazione scientifica e letteraria. Dopo vari tentativi, appresa la notizia della gravità del cancro alla vescica, Federn si uccise con un colpo di pistola il giorno che aveva apparentemente fissato per una seconda devastante operazione. Altro uomo di vasta cultura, che aveva eletto come suo campo di studi l’antropologia rivisitata dalla psicoanalisi, Géza Ròheim, profondamente depresso, si lasciò morire dopo la scomparsa della moglie Ilonka venuta meno a causa di una grave malattia. Si suicidò anche  Vittorio Benussi, psicologo e psicoanalista insigne.

Il filosofo Roberto Ardigò, che dopo una profonda crisi aveva abbandonato l’abito ecclesiastico ed era divenuto uno dei filosofi più alti del positivismo,  si tolse la vita a 92 anni.

 

Il suicidio impulsivo

 

Per alcuni giovani, la morte ha un valore positivo. Paradossalmente c’è chi la vede piuttosto che una soluzione senza ritorno, un punto di partenza, grazie al quale è possibile sperimentare le fantasie più avvincenti. Seguendo questa convinzione, qualcuno si illude che la morte sarebbe qualcosa di “virtuale”,  addirittura spoglia da conseguenze fisiche. 

E in qualche caso a qualcuno il suicidio può essere apparso come  una “soluzione razionale”, una via d’uscita per rimuovere un’impasse  ritenuta insuperabile. Addirittura, a volte, per alcuni adolescenti  il suicidio ha avuto il significato di  una “emulazione”.

Nel 1997, a Montecassino, Alberto, studente  del Liceo scientifico Colucci, si è sparato in classe. In una audiocassetta il ragazzo  ha spiegato in maniera lucida e serena, il perché del gesto: il suo suicidio non era stata una bravata, né una roulette russa: «Cari genitori - ha detto Alberto - mi uccido per vedere cosa c’è dopo la morte e vedere chi ha ragione… in questo mondo ci sono poche speranze per noi giovani»

Sempre nel 1997, questa volta a Montecatini, uno studente scrisse in un  tema: «Avrei tanta voglia di andarmene da questo mondo» e qualche mese dopo, sempre a scuola, si suicidò.

Nel 1993, a Reggio Emilia un operaio di 35 anni, Tiziano Castellari, fu trovato ucciso. Dopo lunghe indagini, nel 1999, sono stati arrestati due egiziani: El Hamed Mohamed Hussein e Moustafà Fahtì Hassan, che il Castellani, depresso per una delusione d’amore, aveva  pagato  per farsi uccidere, (dal momento che non aveva il coraggio di suicidarsi). I due, la notte del 13 settembre del 1993,  raggiunta, assieme al Castellani, una zona boschiva detta l’abetaria,  dopo essersi ubriacati, uccisero il giovane che li aveva istigati  in tal senso.

Uno studente di 17 anni, S. R., nel 1999, si è gettato dalla finestra del bagno del liceo Minghetti di Bologna, poco prima di una interrogazione. Si suppone che la paura di una lunga serie di interrogazioni che avrebbe dovuto sostenere e per le quali forse non si sentiva ancora preparato, sia stata alla base di quella tragica quanto sventata  decisione.

Altrettanto assurda decisione fu quella dell’aviere Giovanni Desogus, che nel 1998 si suicidò perché gli venne negato un congedo per cui temeva di non poter ultimare gli studi.

Nell’agosto 1999 il sessantenne Benedetto  Minnini si è sparato un colpo alla tempia, tra i fedeli atterriti nella basilica di S. Pietro a Roma.  Una turista australiana ha ripreso la scena in diretta con la propria telecamera. Il fatto ha creato scompigli anche perché la Basilica è stata sconsacrata da quel gesto e si è dovuto ricorrere a una frettolosa consacrazione la notte stessa, affinché la chiesa potesse essere riaperta al pubblico, l’indomani.

Il suicidio, a volte, matura dopo lunghe meditazioni; a volte è un gesto frutto di precipitazione, come pare sia stato quello del calciatore  Agostino Di Bartolomei, capitano della squadra della Roma.

 

Il suicidio  per rabbia

 

Quando nel 72 d.C., Masada, località della Palestina sud-orientale situata presso la riva del Mar Morto venne espugnata dopo un lunghissimo assedio postole da Roma, i legionari romani si trovarono di fronte ad uno spettacolo agghiacciante: la popolazione si era data la morte per non cadere in mano ai nemici. 

Dopo che Ottaviano sconfisse, nel 31 d.C., ad Anzio, Marco Antonio e Cleopatra, quest’ultima, preoccupata della sorte che avrebbe avuto come vinta, dopo aver tentato inutilmente di sedurre e attrarre  a sé l’astuto vincitore, non sopportando di diventare una preda bellica e di essere portata a Roma come un trofeo di guerra, decise di darsi la morte.

Nel 1536 molto scalpore fece il suicidio dell’avvocato francese Ferron, dopo la morte della moglie. La donna, entrata nelle grazie di Francesco I,  morì di sifilide. Il Ferron, già disperato per il tradimento subito, aveva  però sperato che la donna tornasse a lui, ma quando la morte gliela strappò, non sopportò di averla persa definitivamente. Qualche giorno dopo i funerali si pugnalò platealmente sulla tomba dell’amata.

Delirante, rabbioso e insensato fu anche il delirio di Van Gogh che lo spinse al suicidio.

Nel 1889, grande sensazione suscitò il doppio suicidio, nella residenza estiva di Mayerling,  di Rodolfo D’Asburgo e della baronessa Vetsera.

La moglie di Stalin, Nadezhda Alliluyeva, nel 1928, dopo lunghe insistenze, seppe dalla propria madre che Josif Stalin era stato il suo amante e che pertanto, sposandolo, lei era diventa moglie di suo padre; cadde, pertanto, in gravissima depressione. Inorridita per aver generato con lui due figli-fratelli, Vasilij e Svetlana, travolta dalla follia, si suicidò.

Sul finire del secondo conflitto mondiale si suicidarono, così come Hitler e Eva Braun, molti gerarchi nazisti quando furono ormai certi del crollo del Terzo Reich. Tra  i suicidi che più impressionarono spicca quello di Goebbels, il quale soppresse anche  la moglie e i suoi cinque  piccoli figli.

Nell’agosto del 1924 si suicidò il professore ebreo Felice Momigliano, docente di filosofia e scrittore. Sembra che oltre ai  motivi strettamente personali, nel suo insano gesto vi sia stata anche la protesta contro la recrudescenza della campagna antisemita riesplosa nel 1922 alla morte di Benedetto XV e l’allarme per l’orientamento antisemita che cominciava a serpeggiare nel fascismo e che venne sottinteso da Mussolini, nel discorso del giugno 1923, quando affermò  che il fascismo era il prodotto della razza ariana. Anche l’omicidio Matteotti, e il rinvenimento del cadavere proprio nell’agosto del ‘24, potrebbero aver determinato la volontà suicida del Momigliano. 

Nel 1955 Nicolas de Staël,  pittore russo naturalizzato in Francia, che stigmatizzava la società del tempo, si suicidò dopo aver scritto una terribile lettera di addio che sconvolse generazioni di francesi: la sua era una versione lucida, serena, della morte.

Nel 2000 il pittore Sergio Romiti che  aveva 72 anni, si è suicidato blaterando contro gli odiati critici che non  apprezzavano a sufficienza le sue opere. Romiti si era scagliato anche contro qualche “collega” che aveva, con bassa rivalità, “infangato” la sua opera. Per qualche tempo Romiti, sebbene riottoso e malgrado la disistima dei critici, aveva continuato a dipingere, ma alla fine, disperato, decise di porre fine ai suoi giorni.

Nel 1995, a Chieti, un muratore ventenne, Massimiliano Menna, disperato perché i carabinieri, durante un controllo stradale, gli avevano sequestrato il motorino privo di targa, di luci e con pneumatici usurati, si è impiccato nella porta di un campo di calcetto della scuola del paese dove abitava.

A Frosinone, nel 2000, un ragazzo di 17 anni, venuto a diverbio col genitore poiché questi, a seguito del litigio, gli aveva distrutto la moto con una spranga di ferro, non potendo sopportare quella “perdita”, si è impiccato ad un albero del cimitero.

Nel novembre del 1997 a Potenza, una diciassettenne si è suicidata perché, da anni, il padre 48 enne, abusava di lei.  La madre, che sapeva, aveva subito in silenzio, per paura del marito. Quando l’uomo  prese di mira anche la figlia dodicenne, la figlia più grande, disperata, col suo gesto estremo, intese denunziare drammaticamente la grave situazione familiare. 

A Pavia, nel 1997, Sara Gatti, di 25 anni, ha scelto anch’essa il suicidio per sfuggire alle molestie sessuali del patrigno, convivente della madre, che la assillava da anni sebbene la ragazza lo avesse denunziato più volte, senza effetto. Non creduta nemmeno dal fidanzato, disperata, la ragazza decise di porre fine al suo strazio.

Altrettanto straziante il suicidio di un giudice del tribunale civile di Torino, Graziella Lo Moro che, nel gennaio 1999, si è tolta la vita affermando di essere sommersa da una valanga di fascicoli e di non riuscire più a tenere gli stressanti ritmi di lavoro che aveva inutilmente sostenuto, senza riuscire ad evadere le pratiche arretrate.

La scrittrice e medico Odette Rosenstock, testimone dell’Olocausto, si è suicidata a 84 anni, non reggendo più al dolore per tutte le vicende subite. Durante la Seconda guerra mondiale, assieme al marito, Odette creò una rete clandestina per salvare gli Ebrei. In seguito venne arrestata e deportata ad Auschwitz e poi a Berghen-Belsen, esperienze queste che narrò in un libro di memorie: Terre de detresse, edito da Harmattan. Malgrado fossero passati tanti anni, i fantasmi di quel tempo, e forse un avventato senso di colpa “per non aver fatto il possibile per salvare più gente nei campi di sterminio”, hanno indotto la scrittrice al terribile gesto.

Una disperazione questa che lo scrittore italiano Primo Levi, anch’egli testimone della tragedia dell’olocausto, documentò nel libro Se questo è un uomo e che siglò con il suicidio.

 

Il suicidio per paura e per pentimento

 

A Lecce, nel 1996, un diciassettenne che, tre anni prima, era stato operato di un tumore al ginocchio, dovendo tornare a Bologna per una visita di controllo e temendo un esito infausto dell’esame e qualche grave menomazione (quale la perdita della gamba) si è impiccato.

Molti adolescenti si suicidano nel timore di essere rimproverati dai genitori, soprattutto dopo aver avuto un cattivo voto a scuola. Le cronache narrano spesso, purtroppo,  episodi del genere. 

Accusato di crimini contro l’umanità quando era stato sindaco di Vukovar, in Slavonia, il maggiore serbo Slavi Dokmanovic, 48 anni, arrestato e sotto processo all’Aja, si è impiccato qualche giorno prima della sentenza.

Nel luglio del 1999 un piacentino di 32 anni si è impiccato in cella perché accusato di aver violentato la propria bambina di 10 anni, la quale, subito dopo lo stupro, aveva raccontato il fatto, prima ai nonni e poi alla madre.

 

Il suicidio per amore

 

Wolfgang Goethe pubblicò nel 1774 il “pericoloso” romanzo I dolori del giovane Werther che lasciò una tragica scia di suicidi tra i giovani lettori. Werther, innamorato di Carlotta, a sua volta fidanzata di Alberto, non potendo realizzare il suo sogno d’amore, si suicida.

Il romanticismo decadente, lo Sturm und Drang catastrofico e violento che sono alla base di questa passione descritta da Goethe, ebbero una risonanza enorme negli animi sensibili e romantici del tempo.

Il suicidio per amore è anche un atto egoistico e punitivo a un tempo, che fa leva sulla speranza che l’altro viva nel rimorso d’aver causato l’irreparabile gesto al proprio partner. Spesso dietro il tentato suicidio per amore c’è dunque un ricatto. L’innamorato/a deluso/a vuole esercitare una pressione sul partner e se non ottiene il risultato e l’altro/a non si decide di “rientrare” nella coppia, il desiderio punitivo, colpevolizzante può portare l’amante deluso al gesto estremo.

Nella mitologia greca, Fedra rappresenta l’emblema del suicidio per amore. Il personaggio raccontato da Sofocle, da Euripide e da Racine, per citarne le più importanti elaborazioni, è il simbolo della passione amorosa scatenata e incoercibile.

Fedra, presa d’amore disperato per il figliastro Ippolito e consumata da quel torbido sentimento, al rifiuto del giovane, dapprima diventa matrigna spietata, poi, turbata dalla propria malvagia passione e dai sensi di colpa per aver ingenerato tante tragedie, si da’ la morte, raccogliendo un ultimo anelito di moralità.

Fedra è solo in apparenza una storia letteraria: il debordare dell’amore oltre i confini della ragione, la miseria degl’intrighi passionali, la furia dell’egoismo sentimentale fanno parte della cronaca quotidiana e ripropongono la tragedia di Fedra come una “presenza” incombente, un tema, purtroppo inserito nel tessuto connettivo sociale e che, di tanto in tanto, si scatena in tragici fatti di cronaca. 

Nel 1997, la ventottenne Patrizia Severino, dopo essersi allontanata da casa, si è lasciata morire di fame, nascosta in un casolare abbandonato, perché il suo fidanzato aveva troncato la relazione. Da quel momento la vita della povera ragazza era diventata un inferno: non parlava più con nessuno, non aveva più voglia di nulla. Ella non  sentiva più la voglia e non aveva più nessuna ragione  di vivere.

Ad Agrigento, nel 1995, un odontotecnico ventisettenne, disperato per la fine della sua relazione con la fidanzata, dopo aver a lungo parlato a telefono con la ragazza per convincerla a ritornare con lui, vista inutile ogni preghiera in tal senso, le comunicò il proprio proposito suicida e prima di impiccarsi ha azionato una telecamera, lasciando così la testimonianza “in diretta” del suo disperato gesto.

In Pakistan, nel maggio del 1998, il vescovo cattolico monsignor John Joseph, di 66 anni, si è suicidato per protestare contro la condanna a morte, per atti blasfemi contro l’Islam, da parte di un cristiano. Un gesto di estremo amore per l’umanità, ma certamente non “ortodosso” per chi è di fede cattolica. Il prelato ha indirizzato un messaggio chiarificatore delle motivazioni del proprio gesto, invitando cristiani e mussulmani ad attivarsi decisamente al fine di revocare la pena di morte in danno dei blasfemi.

 

Suicidi tentati e suicidi portati a termine

 

La depressione è un “male oscuro” che, secondo le statistiche, colpisce il 10-15 % della popolazione. Spesso però si usa la parola depressione a sproposito, non distinguendo un particolare stato d’animo malinconico, “filosofico”, dalla malattia psichiatrica vera e propria. Francesco  Petrarca, Wolfgang Mozart, Alessandro Manzoni,  Giacomo Leopardi, tanto per fare qualche esempio,  furono malinconici, ma non è sicuro che fossero da classificare come soggetti psichiatricamente “depressi”.

Uno dei problemi fondamentali su cui si è discusso e si discute ancora, è stabilire se sia possibile prevedere gesti insani quali il suicidio e l’omicidio-suicidio. Vari studi hanno appurato come la frequenza dei suicidi, non soltanto nei secoli, ma anche di anno in anno e da regione a regione abbia delle sensibili variazioni. Nell’800 una “epidemia” di suicidi romantici si ebbe dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther. Dopo il crollo di Wall Street, in Usa si registrò un’allarmante ondata di suicidi. In primavera e in autunno, secondo le statistiche,  sarebbero in aumento i suicidi.

Una sostanziale differenza diversifica il suicidio dal tentativo di suicidio. Il semplice tentativo è una astuzia psicologica attuata in vista di particolari effetti che può sortire nell’ambiente sociofamiliare.  Esso ha solo la funzione di minaccia, di appello, o di ricatto.

Nel 1782, il filosofo Giovanni Amedeo Fichte ebbe una crisi di pessimismo e tentò il suicidio: lo salvò Giovanna Klopstok che, in seguito, divenne sua moglie.

In Fichte coesistevano, burrascosamente, due caratteri: uno introverso e l’altro estroverso. Egli era da un lato desideroso di essere il protagonista di fatti eclatanti, dall’altro cadeva spesso in una profonda tristezza e in un torpore paralizzante. Tuttavia, probabilmente, malgrado “il proposito depressivo suicida”, nel filosofo non ci fu mai il desiderio di farla finita “seriamente”.

I “veri” suicidi sono programmati in modo da offrire scarse possibilità di sopravvivenza. I tentativi, invece, per lo più sono attuati con mezzi inadeguati a raggiungere lo scopo.

I meccanismi psicodinamici che stanno alla base del semplice tentativo, sono diversi da quelli che stimolano il suicidio vero e proprio, cioè quello che “deve” riuscire. Dalle casistiche emerge che la maggior parte di coloro che si suicidano hanno avuto disturbi  psichiatrici, in qualche caso sottovalutati,  nel biennio precedente l’insano gesto.

Di dubbio valore sono le comunicazioni fatte dall’aspirante suicida circa le sue intenzioni di por fine alla propria esistenza, proprio a causa del fatto che, talvolta, il suicidio è annunziato per “far pressione” affinché qualcuno risolva il problema che assilla la persona angosciata. Spesso è chiaro che nel malato vi è lo scopo (anche inconscio) di servirsi degli altri, soprattutto tramite richieste consolatorie e gratificanti: in questi casi, il depresso è perfettamente in grado di “sfruttare”, con astuzia, la disponibilità altrui.

Una maggiore prevedibilità sulle reali intenzioni suicide si ha se queste sono formulate da persone anziane o giovanissime, o da persone crucciate da sentimenti di indegnità.

Tuttavia si tratta di indicazioni di scarso valore di previsione, per cui resta il fatto che se una persona è clinicamente depressa o in maniera generica emotivamente disturbata, la prospettiva che  abbia in animo  il tentativo di porre fine ai propri giorni per venir fuori dall’impasse può essere ragionevolmente presa in considerazione, ma  non è necessariamente sicuro che il soggetto metta in opera il disegno catastrofico ed ossessivo che manifesta con i suoi atteggiamenti di distacco e di indifferenza per la vita, per le persone amate e per le proprie cose.

Una valutazione più probante si deve basare su un lungo esame della persona e richiede un’indagine approfondita sulle sue tendenze autodistruttive, sui suoi drammi e sulle sue frustrazioni. Non è nemmeno indicativo il senso morale del soggetto: il suicidio è spesso segno di un disturbo che non può tener conto, né può essere fermato dal senso morale.


Gesti assurdi e disperati: gli omicidi-suicidi

 

Di solito l’essere vivente, in caso di pericolo, lotta per la sopravivenza. Alcune persone, invece,  quando si trovano in situazioni critiche optano per una soluzione di annichilimento. Questo comportamento è, probabilmente, una specie di “disfunzione” del meccanismo naturale di autodifesa, ed è determinato da gravi e irreparabili “smacchi” esistenziali. Esso può portare come  conseguenza al suicidio, e può anche, in casi estremi, inculcare nel depresso la convinzione che anche  l’esistenza  di chi gli sta attorno sia irreparabilmente compromessa. Ciò gli fa reputare “opportuno” e paradossalmente “terapeutico” l’omicidio della persona amata, di un consanguineo, di un  minore  indifeso. Il buio della depressione spinge  allora a  compiere  azioni assurde e  dissennate.

La  parola “depressione” forse non chiarisce con sufficienza lo stato d’animo di coloro che commettono atti tanto insensati come gli omicidi-suicidi. La depressione è una ipermalinconia, una rinunzia generalizzata ed essa non spiega appieno la brutalità dell’infanticidio, dell’omicidio “per motivi d’opportunità”.  In presenza di atti così sconsiderati come gli omicidi-suicidi,  bisogna, a maggior ragione che per i “semplici” suicidi, ancora una volta utilizzare un termine più adatto a definire lo stato d’animo di chi compie gesti tanto orribili: è  “disperazione” il termine che   indica lo stadio in cui è stata cancellata qualsiasi speranza.

Il “disperato” si sente giunto al capolinea della propria vita e vuole porre termine al suo disagio quando ritiene che ogni aspettativa sia frustrata dal verdetto negativo della realtà.

La disperazione è uno stato emotivo contraddistinto da pulsioni complesse: impulsi sadici, masochisti, di impotenza, di ostilità, di rabbia. Nel periodo iniziale di sconforto, l’Io riesce a fronteggiare tali cariche distruttive, ma quando si è fatta strada l’idea che sia impossibile venir fuori dall’impasse  (reale o immaginaria) a quel punto, gli elementi aggressivi e autodistruttivi si coagulano dando  modo ad una miscela “esplosiva”

In ogni persona c’è una soglia di sopportabilità e di insopportabilità: chi è disperato  ha raggiunto il limite massimo di non-sopportazione, al di là del quale non vede più via d’uscita. A quel punto, c’è, purtroppo, chi ritiene che la soluzione più efficace sia “eliminare materialmente” se stesso e/o la persona amata. Infatti, a volte, la disperazione induce il soggetto ad attribuire anche  alle persone che lo circondano i medesimi avvilimenti e i drammi che egli stesso patisce.

Le cronache raccontano che una madre si è buttata dal sesto piano col figlioletto in braccio. La donna avrebbe deciso di porre fine al problema  insolubile che l’affliggeva, chiudendo la partita con la vita  che riteneva in fase di “scacco” per sé e per il proprio piccolo.  È ipotizzabile che la infanticida intendesse “salvare” la propria creatura  da più gravi patimenti coinvolgendola nel suicidio “liberatore”.  La madre disperata che uccide il figlio o la figlia, è, paradossalmente, in preda a un delirio affettivo: ella vuole evitare che i propri piccoli incappino nella medesima situazione insopportabile nella quale ella si trova e dalla quale ritiene di non poter più venir fuori, se non con una soluzione finale e radicale: l’eliminazione fisica.

Recentemente un’altra madre ha ucciso a coltellate la figlia di sette anni e poi si è tolta la vita; e un’altra è stata accusata di aver messo la figlioletta di otto mesi in una lavatrice e di averla lasciata morire, assistendo inebetita all’atroce scena. Secondo gli esperti nominati dai vari  tribunali, quelle madri avrebbero sofferto di uno stato depressivo  manifestatosi nei mesi precedenti l’insano gesto.

Sofferente di depressione è stato anche definito  un pediatra di Modena che nel giugno 2002 straziato per le sofferenze del figlio diciassettenne, affetto da una grave e rara malattia intestinale,  e disperato perché, dopo molti mesi, il giovane non aveva ancora ottenuto il trapianto, non sperando di poter più salvare il suo congiunto,  ha tentato di sopprimerlo con un coltello a serramanico.  Il giovane è stato sottratto alla morte dall’intervento di un infermiere. Il mancato omicida, arrestato, in stato confusionale ha fatto capire d’aver compiuto quel gesto perché non riusciva più a sopportare  che suo figlio tribolasse ancora tanto.

A Finestrelle (To), nello stesso periodo, il cinquantenne Mario Raviol, sposato e padre di due figli, il quale a detta di chi lo conosceva, soffriva da tempo di depressione perché non si era rassegnato alla morte del padre, avvenuta cinque anni prima, ha invitato la madre Irma, (settantatre anni) a pregare assieme a lui presso la tomba del genitore, dopo di che l’ha  freddata con  un colpo di pistola, e subito ha rivolto l’arma verso se stesso suicidandosi.

A Milano (maggio 2002), un padre separato dalla moglie e in cura  come riferiscono le cronache, per problemi psichici di carattere depressivo, ha soffocato, nel sonno, il figlio di sei anni. Dopo il delitto, ha circondato il letto con ottanta immagini induiste e ha sparpagliato tutt’intorno santini ed effigi sacre. L’uomo, che non si era mai adattato a vivere senza la moglie, ha affermato di avere ucciso il figlioletto «per portarlo in un mondo migliore», dove avrebbe dovuto raggiungerlo (per inciso, però, dopo l’insano gesto, l’uomo, malgrado l’avesse tentato, non è riuscito a suicidarsi). Può accadere che qualche persona si comporti come nella leggenda fa Medea, che si da la morte dopo avere ucciso i figli avuti da Giasone, per straziare l’animo del suo compagno fedifrago, e punirlo così del tradimento.

Quando emerge la disperazione, forma più estrema della depressione, crea una totale sfiducia nella possibilità di soluzioni positive e a volte sfocia in una scelta irrazionale che stravolge il naturale istinto di sopravvivenza. Essa è una delirante spinta che induce l’omicida-suicida a fare ciò che erroneamente ritiene “la cosa giusta” e a mettere fine alla propria vita e a quella di un congiunto per evitare che il  fallimento che egli già prova per se stesso possa cogliere  anche l’altro.

La convinzione di fare  la cosa più opportuna toglie ogni dubbio e ogni senso di colpa a chi si accinge a commettere un simile terribile gesto.

La madre che ha annegato la propria figlioletta nella lavatrice, probabilmente, non ha ritenuto di avere commesso un omicidio, ma soltanto di avere aiutato la propria creatura a salvarsi da un “mondo crudele” che “inevitabilmente” l’avrebbe devastata, così come era accaduto a lei stessa e con ciò avrà  tacitato i sensi di colpa.

Spesso processi psicologici  di odio e amore, di risarcimento e punizione, di sconforto  e di rabbia si mescolano creando  un maniacale miscuglio. Inoltre la frustrazioni sociali  spingono a  soluzioni estreme: successi e fallimenti hanno valenze culturali. L’ambiente, definendo ciò che è da considerare nella vita di una persona  un fattore positivo o una sconfitta, determina l’autostima o il disprezzo. Quest’ultimo stato d’animo, se lasciato progredire preclude al bisogno d’autopunizione.

Inoltre, essendo tipico della disperazione il binomio amore-odio, può accadere che una persona ami, ma nel contempo, magari a livello preconscio, odii la propria creatura, ritenendola causa della situazione di infelicità. “Se non avessi avuto questo figlio sarei stata libera”,… “questo figlio mi fa soffrire a causa delle sue esigenze e delle sue  monellerie”, … “la malattia di mio figlio ha sconvolto la mia vita”, … e così via. 

Tutto ciò può influenzare gravemente  il comportamento esterno.

Solo se la depressione  viene mitigata o cancellata emerge una nuova visione della vita e gli  scopi e le aspirazioni, che  durante “ la malattia” furono  ritenuti irraggiungibili,  appaiono nuovamente realizzabili e “utili”.  In questo caso l’aggressività non si incanala più  contro l’Io, ma  una parte di essa si dirige “opportunamente” verso il mondo esterno.

Allora  è possibile avere un “cambiamento di rotta”  con sensibile attenuazione dei propositi suicidi. Da quel momento  il depresso esce dal tunnel  e  torna ad essere vitale e competitivo.