Partito dei Comunisti Italiani

Maddaloni

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“Alcune riflessioni sulla globalizzazione”

Intervento di Nerio Nesi al:

Seminario del Dipartimento Relazioni Internazionali e del Comitato Scientifico Nazionale del P.d.C.I.

Premessa

Negli ultimi tre secoli, il capitalismo mondiale è passato attraverso tre momenti storici successivi:

  • la rivoluzione industriale, (fine 1700, fine 1800), simbolizzata dalla industria tessile, del carbone e dell’acciaio;
  • la rivoluzione scientifica (fine 1800, 1900), caratterizzata dalla elettricità, dal petrolio, dall’automobile e dall’aereo;
  • la rivoluzione tecnologica, (nella quale viviamo), caratterizzata dall’elettronica e dall’informatica.

E’ in questa ultima fase della rivoluzione capitalistica che è emerso quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione.

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La globalizzazione è il risultato congiunto: di una rivoluzione tecnologica epocale nello scambio di merci e di servizi, fondata sulla società dell’informazione, e del crollo altrettanto epocale dei sistemi socialisti, che ha immesso nel mercato interi paesi ed enormi masse umane.

E’ una rivoluzione di portata simile a quella industriale, che sottrae popoli e paesi all’isolamento, ma li getta nel mondo sconosciuto della competizione.

Essa disgrega e ricompone, esclude ed include, può diffondere progresso e democrazia, ma anche nuove povertà e nuove schiavitù.

La globalizzazione è anche il risultato di uno sviluppo eccezionale della ricerca scientifica, che può essere al servizio della vita, della salute, della sopravvivenza, ma può anche stravolgere l’umanità e l’ambiente.

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Ma vent’anni di egemonia liberista hanno orientato questo fenomeno quasi esclusivamente alla libera circolazione di capitali e di merci, alla rottura di ogni barriera, sulla base della più dogmatica ispirazione liberista, senza rispettare le peculiarità di ogni Paese, né contemplare politiche sociali, né stabilire regole nuove di garanzia dell’interesse generale, di tutela del lavoro e dell’ambiente, di rispetto dei poteri politici, da parte del grande protagonista del suo sviluppo: il grande capitale internazionale.

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E’ possibile correggere sostanzialmente questo indirizzo? Questa è la domanda cui la Sinistra e le forze progressiste del mondo devono rispondere, se non vogliono essere né semplicemente subalterne né storicamente retrograde.

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Ad un modesto tentativo di dare una risposta a questa domanda è dedicato il Seminario di oggi.

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Cinquantasette anni fa’, nel luglio del 1944, in un villaggio del New Hampshire (USA) chiamato Bretton Woods, nacque il Fondo Monetario Internazionale.

Il fondo, secondo la visione di John Maynard Keynes (allora Ministro del Tesoro della Gran Bretagna) doveva essere il guardiano di un nuovo ordine monetario, impostato su un sistema di cambi fissi; insieme alla Banca mondiale, l’istituzione sorella, doveva garantire stabilità al sistema monetario, prosperità e sviluppo per tutti i Paesi: evitare cioè che si ripetessero, nel secondo dopoguerra, gli errori del primo, che tra gli anni Venti e Trenta, aveva portato la grande depressione e preparato l’ascesa delle dittature.

Cominciò un periodo storico nel quale il mercato dei capitali del mondo occidentale fu regolato dalle due sponde dell’Atlantico (per usare le parole dello stesso Keynes) da norme dettate dal potere politico.

Fu il momento più alto del riformismo liberal democratico e social democratico.

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Questo periodo finì nel 1971, con il passaggio ad un sistema di cambi fluttuanti.

Nel periodo successivo, dall’inizio degli anni Settanta ai nostri giorni, il processo si è invertito: il capitalismo è diventato sempre più “finanziario, “internazionale” e “globale”.

Vediamo insieme come si possono riassumere queste definizioni.

La finanziarizzazione: è il fenomeno per il quale la produzione cessa di essere soggetto per diventare oggetto del mercato. Il soggetto è il capitale nelle sue varie manifestazioni. La produzione è degradata a semplice valore di scambio.

La internazionalizzazione: è il fenomeno per il quale la produzione non ha più carattere nazionale. L’intera organizzazione economica assume gradualmente dimensioni planetarie.

La globalizzazione: è la somma dei due fattori sopra descritti, i quali hanno alimentato e poi utilizzato:

a) lo smantellamento dei controlli sugli scambi valutari;

b) la crescente liberalizzazione degli scambi commerciali;

c) la computerizzazione delle operazioni finanziarie e l’accelerazione istantanea dei mezzi di informazione.

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Questi fenomeni hanno avuto conseguenze decisive nella vita degli Stati Nazionali e delle loro istituzioni.

La proprietà, gli scambi, i rapporti di lavoro tendono a essere regolati sempre più da un diritto metanazionale, le cui fonti sono modelli contrattuali uniformi, che scaturiscono da transazioni fra imprese multinazionali.

Si apre una contraddizione profonda tra politiche economiche degli Stati e internazionalizzazione dei mercati.

Si spiegano in questo modo, sia i ripetuti processi di rivalutazione e di svalutazione delle varie monete che si verificano senza una giustificazione reale, sia la volubilità che caratterizza, in certe fasi, i mercati finanziari.

Le vicende politiche nazionali assumono rilievo solo perché – interpretate secondo certi schemi concettuali – possono orientare in una stessa direzione i grandi speculatori internazionali, provocando brusche e rilevanti variazioni nei cambi.

I liberisti ad oltranza sostengono che – per la legge della domanda e dell’offerta – il mercato si autogoverna. Non è così: il pericolo di crisi finanziarie è sempre incombente, quando, per ragioni diverse, gli speculatori si muovono contemporaneamente, non avendo adeguate contropartite.

I flussi finanziari varcano i confini nazionali e si sottraggono al controllo degli Stati; il quadro che ne deriva contraddice la formula famosa di Adam Smith della “ricchezza delle nazioni”. La ricchezza non ha nazione, le nazioni non hanno ricchezza.

Ciò altera profondamente anche i meccanismi della rappresentanza politica. La catena politica fondamentale: stato-territorio-ricchezza si spezza. Non basta più agli Stati controllare il territorio per controllare la ricchezza che passa sopra il territorio stesso, per masse e velocità crescenti.

Le nozioni della politica, dell’economia, del diritto, con cui elaboriamo l’esperienza quotidiana dei bisogni, del lavoro e dei conflitti non riflettono più la realtà.

Secondo alcuni ciò comporterà la crisi – forse la fine – dello Stato moderno.

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Vediamone insieme le ragioni, su diversi piani: commerciale, economico, sociale e politico.

Sul piano commerciale, vengono stravolti i principi sui quali si fonda una sana organizzazione degli scambi: non sono i fatti economici reali (produzione, produttività, investimenti, commerci, eccetera), a determinare i flussi di capitali, ma sono questi ultimi a determinare i primi.

Sul piano economico, viene sanzionato il primato dell’economia di carta sull’economia reale.

Le transazioni sono sempre più dominate da movimenti speculativi e da movimenti istantanei. I capitali si spostano, in base non a calcoli di redditività di lungo periodo relativi ad investimenti che aumentino la capacità produttiva, ma ad attese di profitto immediato, che si traducono non in creazione, ma in semplici spostamenti di ricchezza.

Sul piano sociale, ne consegue lo smantellamento delle strutture del Welfare State.

Le parole d’ordine sono: flessibilità, mobilità, fluidità.

La merce – lavoro deve “adattarsi” alle regole della sregolatezza.

Nasce la cultura della diseguaglianza.

Sul piano politico, il mercato tende ad invadere le sfere di potere costituzionalmente delegate alla decisione e al consenso politico.

Ma la tendenza è che sia il mercato ad imporre allo Stato la propria legge: appunto la nuova “lex mercatoria”. La “comunità degli affari” si erige ad ordinamento sovrano, gli Stati nazionali ne diventano il braccio secolare.

Il “mercato” (vale a dire la sintesi delle situazioni che, sulla base dei rapporti di forza, si creano nel flusso spontaneo di merci e denaro) diventa il solo punto di riferimento, o, meglio ancora, l’unico e incontrastato valore e principio regolativo dei rapporti collettivi.

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A livello internazionale, la perdita di poteri delle istituzioni è evidente: rispetto alla Banca centrale europea, il Parlamento europeo è debole; le Nazioni Unite lo sono ancora di più rispetto al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Se a livello nazionale le democrazie hanno poteri limitati, a livello internazionale esse non esistono neppure.

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Paesi di lunga tradizione civile e democratica come quelli che compongono l’Europa, non possono accettare pedissequamente, forme di vita di stampo “texano”.

Al contrario, bisogna riaffermare, in tutte le sedi, la necessità di valori morali e di regole scritte.

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Dobbiamo affrontare quindi due ordini di problemi:

a) la Comunità Europea;

b) i doveri dell’Europa nei confronti dei Paesi poveri.

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A) La Comunità Europea

Un continente indifeso alla ricerca di una propria identità: così appare il continente europeo dopo anni di liberalizzazioni e liberismi ideologici, dopo anni di privatizzazioni, dopo anni di arretramento dal lato sociale, culturale e persino economico.

La Comunità Europea non riesce a rispondere ai molteplici e gravi problemi che le stanno di fronte: l’universalizzazione dell’economia caratterizzata dall’insorgere di nuovi concorrenti e dallo strapotere delle multinazionali che ristrutturano, a loro piacimento, le frontiere economiche del mondo; la terza rivoluzione industriale con la sua nuova ondata di progresso scientifico e tecnologico.

L’Europa ha fallito i suoi tentativi di unione economica, e non ha intrapreso iniziative credibili a favore dell’occupazione, nel settore dell’energia, dell’industria e della scienza.

Nel suo stesso ambito, essa non è stata in grado di trovare la strada per uno sviluppo armonioso, che riduca le diseguaglianze regionali, sfruttando le diverse potenzialità dei Paesi che la compongono.

Il sistema monetario europeo è esso stesso fonte di squilibri, perché costringe all’allineamento su un solo tipo di regolamentazione, condannando le diversità e sacrificando le esigenze sociali alla legge dell’unico potere invisibile: quello della politica monetaria.

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I Paesi europei devono coordinare e armonizzare le loro politiche economiche e adottare una programmazione finanziaria comune.

Il processo di integrazione è in grado di agevolare lo sviluppo economico generale, solo attraverso un coordinamento degli obiettivi e degli strumenti della politica economica dei paesi membri ed attraverso una programmazione dei finanziamenti necessari al conseguimento di tali obiettivi.

E’ quindi fondamentale cadenzare il processo di integrazione alla politica economica ed alla programmazione finanziaria, attraverso un coordinamento della politica di bilancio dei Paesi membri, perché la creazione di un mercato dei capitali europeo incide sugli obiettivi e sugli strumenti della politica economica dei Paesi stessi ed ha effetti negativi sulla possibilità di conseguire determinati obiettivi se essi sono graduati secondo scale di priorità diverse da Paese a Paese.

Non è pensabile che in futuro possa manifestarsi un andamento a forbice tra l’integrazione monetaria e l’integrazione economica; non è configurabile un autonomo processo di strumentazione europea accentrata a livello monetario, che non si accompagni di pari passo ad un avvicinamento delle strategie dei Paesi membri sul tasso di sviluppo, sul livello dei prezzi, sull’occupazione, sulla bilancia dei pagamenti, sugli ordinamenti fiscali.

Una maggiore unità della comunità può nascere soltanto dalla intensificazione del processo di eliminazione delle disparità strutturali, territoriali e sociali. I problemi dei prezzi, della politica di pieno impiego, dell’aspetto regionale, in definitiva sugli obiettivi ultimi della economia nazionale, riaffiorano costantemente e inesorabilmente quando si voglia seriamente e responsabilmente affrontare il tema dell’integrazione europea.

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B) I doveri dell’Europa nei confronti dei Paesi poveri

Vorrei riflettere su alcune cifre che é indispensabile conoscere per una comprensione seria del fenomeno.

- In un secolo, il mondo è passato da un miliardo e seicento milioni di viventi a sei miliardi di viventi.

- Negli ultimi cinquanta anni il prodotto annuo mondiale è aumentato di sette volte. Il reddito pro-capite di tre volte.

Nel 1950 il reddito medio del Paese più ricco era 35 volte quello del Paese più povero.

Negli anni ’90 questo rapporto è salito a 72 volte.

- Circa tre miliardi di persone dispongono di due dollari al giorno: un abitante su cinque nell’Europa orientale, uno su due nell’Estremo Oriente, quattro su cinque in India, quattro su cinque nell’Africa Nera. Tra queste, circa un miliardo e duecento milioni di persone dispongono di un dollaro al giorno.

- Quasi un miliardo di persone non sa leggere e scrivere:

- un miliardo e mezzo di persone non ha acqua potabile; un miliardo e mezzo di persone non ha fogne.

- Circa un miliardo di lavoratori sono disoccupati.

- Quasi tutto il continente africano ed estese zone dell’Asia e dell’America latina non sono protagoniste del commercio internazionale.

L’esempio più lineare, e drammatico, è quello dell’Africa nera. Era alimentarmente autosufficiente agli inizi del secolo e lo era ancora sostanzialmente nel 1960 (98%). Ma nel 1971 l’indice era sceso all’89% e nel 1978 al 78%. Per sapere che cosa è successo negli ultimi vent’anni non servono le statistiche, bastano le immagini che ci vengono quotidianamente dal Continente nero.

- I quarantotto paesi più poveri del mondo presentano, insieme, un volume di esportazioni pari allo 0,2 per cento delle esportazioni mondiali.

- Le duecento imprese più importanti del mondo controllano insieme il 25% della intera attività economica del mondo, ma impiegano, insieme, lo 0,75% della popolazione lavorativa del mondo.

- Il capitale delle duecentoventicinque persone più ricche del mondo equivale al reddito annuale di circa il 50% della popolazione mondiale più povera.

- Gli Stati Uniti rappresentano circa il 4% della popolazione del mondo, ma riscuotono il 22% del reddito mondiale.

- Le grandi imprese multinazionali che controllano, di fatto, l’economia mondiale appartengono:

  • per il 70% agli Stati Uniti;
  • per il 25% all’Europa, al Giappone, alla Cina, all’India.
  • per il 5% ai paesi in via di sviluppo;
  • per lo 0% ai Paesi poveri.

- Nel mondo ci sono duecentocinquanta milioni di bambini lavoratori, tra i cinque e di quattordici anni. Nell’ambito di questo numero, vi sono sessanta milioni di bambini soggetti alle forme peggiori di sfruttamento: la schiavitù, i lavori forzati, i lavori pericolosi e la prostituzione.

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Questi dati tolgono ogni validità, se mai l’ha avuta, alla tesi che ciò che è acquisito dai territori e dalle classi privilegiati crei una “naturale” diffusione e costituisca “obbiettivamente” un arricchimento collettivo.

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I difensori ad oltranza della globalizzazione come sistema permanente sono animati da una fede cieca nel ruolo centrale del mercato. Essi credono o fingono di credere che il semplice sviluppo degli scambi internazionali crei le condizioni di uno sviluppo benefico per le popolazioni. La realtà è che non si sono mai visti mercati ben avviati e un’economia funzionante laddove non esiste un tessuto culturale di valori comuni.

L’idea che sul mercato ogni comportamento è libero, è non solo iniqua moralmente, ma anche sbagliata economicamente.

L’Italia, Paese fondatore della Comunità Europea, sesto Paese del mondo industrializzato, deve ricercare – in tutte le sedi e quindi anche nella prossime riunioni del G8 – alleanze europee per raggiungere questi obiettivi:

Eliminare il debito:

  • cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 Giugno 1999, si tratta dello spostamento della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile.
  • Cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa internazionale per i Paesi gravemente indebitati. Nei Paesi indebitati debbono essere assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il denaro restante dopo queste spese può essere utilizzato per pagare il debito.
  • Concordare con i Paesi indebitati e i rappresentanti della società civile del Sud e del Nord l’istituzione di un “Processo di arbitrato internazionale equo e trasparente” per valutare in termini di giustizia l’ammontare effettivo del debito dei Paesi poveri.

Combattere la povertà:

  • Onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri Paesi. Oggi la media è minore della metà.
  • Promuovere e rafforzare, nelle sedi internazionali, l’utilizzo dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della società civile.
  • Favorire con il sostegno di mezzi finanziari e di assistenza tecnica, l’azione dei governi dei Paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alle cure sanitarie e alla istruzione.

Globalizzare la solidarietà e le responsabilità:

  • Creare un sistema di regole nel commercio internazionale che permetta a tutti i Paesi, e in particolare ai più impoveriti, di offrire sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle nazioni del G8, e per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e garantisca stabilità dei prezzi.

    E quindi modificare lo statuto della Organizzazione Mondiale del Commercio, (W.T.O.), in modo da rendere democratiche e trasparenti le sue deliberazioni.

  • Assumere un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi fiscali e finanziari. Definire e pubblicare le liste dei Paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.
  • Istituire una tassa sulle transazioni valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti internazionali di denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.
  • Migliorare la legislazione internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro più basso e più competitivo non deve significare umiliante.
  • Confermare gli accordi di Kyoto in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di rafforzamento dell’azione di tutela del pianeta.
  • Impedire posizioni di monopolio, come quelle assunte da alcune multinazionali in grado di alterare il mercato e l’informazione sulla loro azione.
  • Promuovere leggi che garantiscano a livello nazionale ed internazionale la pluralità dei gestori dell’informazione, vietando monopoli, per permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.
  • Creare un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente modificati.
  • Finanziare fortemente la ricerca pubblica in campo sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le popolazioni più povere.
  • Creare regole che consentano produzione e distribuzione dei medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere.
  • Rifiutare categoricamente ogni ipotesi di trattati internazionali destinati ad ampliare a dismisura il potere delle società multinazionali rispetto ai governi locali.
  • Modificare lo statuto del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Queste istituzioni, infatti, si sono fino ad ora dimostrate più attente agli interessi del grande capitale internazionale che a quelli delle comunità a favore delle quali sono state create. L’Italia, che è uno dei maggiori fornitori di mezzi finanziari alle due suddette istituzioni, può svolgere una pressione molto forte per la loro riforma.

Il Fondo Monetario Internazionale ha imposto ai Paesi più poveri di dotarsi di progetti di sviluppo di grande respiro, e di aggiustare stabilmente i loro bilanci pubblici.

Propositi meritori, che però hanno finora avuto un rovescio, quello della riduzione in condizioni di povertà abbietta – l’aggettivo, si noti, è della Banca Mondiale – di vaste popolazioni della America Latina, dell’Africa, dell’India, di altri Paesi del Sud-Est Asiatico, degli Stati sorti dopo il ’90 dalla dissoluzione dell’URSS.

Le severe richieste di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale hanno certo giovato a porre ordine nei bilanci di diversi Paesi in via di sviluppo. Ma poiché richiedevano, tra l’altro, un drastico ed immediato ridimensionamento del settore pubblico (aziende produttive ed amministrazioni statali e locali incluse) gli aggiustamenti strutturali hanno fatto sì che milioni di persone si siano trovate da un giorno all’altro senza lavoro.

Nella sola Russia post – sovietica, i dettami del Fondo Monetario Internazionale hanno generato in pochissimi anni decine di milioni di nuovi poveri.

A sua volta la Banca Mondiale – attraverso i suoi progetti - ha accresciuto la produttività dell’agricoltura in varie regioni, però al prezzo di migliaia di comunità locali eliminate o de-localizzate a forza; di innumerevoli colture soppresse, e, con esse, delle popolazioni che le praticavano; di blocco infine di ogni forma autonoma di sviluppo locale.

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Conclusioni

Quando si affrontano questioni concrete, e di questa dimensione, si è portati a una professione di pessimismo.

Il pessimismo può essere salutare perché la sottovalutazione dei problemi finisce, prima o poi, per ritorcersi contro i fautori di un ottimismo di maniera: e la storia è piena, purtroppo, di entusiastici progetti rovinosamente caduti sui loro promotori.

Ma un ottimismo serio è necessario, per non arrendersi di fronte ad una vittoria del capitalismo texano che non consideriamo definitiva.

Più di mezzo secolo fa, John Maynard Keynes tentò di creare un sistema che assoggettasse il mercato “dalle due sponde dell’Atlantico” a norme dettate dal potere politico.

Tocca all’Europa ripetere questo tentativo.

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La Sinistra non può permettersi di restare estranea a quello che è un terreno naturalmente suo: connotato dallo spirito egualitario, finalizzato all’idea di una società giusta, conferma della intuizione marxiana circa il carattere asociale del capitalismo.

Si tratta di lavorare di fantasia: di progettare forme di intervento capaci di trasferire all’economia sociale il surplus di risorse liberato dalla rivoluzione tecnologico – organizzativa; di impedire che queste risorse vengano monopolizzate dal mercato e finalizzate all’economia anti-sociale dell’egoismo e della disgregazione.

Si deve farlo operando sulla leva economica; ma soprattutto sulla leva culturale: reimmaginare il “socialismo” come cultura antagonistica allo stato di cose esistente; costruire un nuovo modo di cooperazione tra gli uomini guidato dall’idea regolativa della solidarietà; elaborare legami comunitari sulla base della condivisione di valori e di progetti.

Sapendo, soprattutto, che l’alternativa, più che mai, torna ad essere tra socialismo e barbarie; tra ricostruzione del legame sociale e de- costruzione dell’universo civile.