Partito dei Comunisti Italiani

Maddaloni

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Roma 14 luglio 2001, centro Congressi Frentani

Seminario promosso dal Dipartimento Politiche dell’Unione Europea e Relazioni Internazionali

Conclusioni di Iacopo Venier

Lo scopo del seminario mi sembra complessivamente raggiunto. L’intenzione principale di questo appuntamento, infatti, era quella di rispondere ad una esigenza che si è progressivamente manifestata man mano che si avvicinava l’appuntamento di Genova. Da più parti ci è stata avanzata la richiesta di conoscere ed approfondire l’analisi e la linea del partito sull’attuale fase della politica internazionale e, più in generale, sull’attuale fase del capitalismo. Devo dire, in premessa, che il compito di elaborare la nostra posizione su questo complesso di problemi non può spettare solo ad un dipartimento. Solo con un lavoro che coinvolga l’intero corpo del partito è possibile mettere in campo una elaborazione all’altezza delle necessità. Detto questo però ritengo che questo seminario abbia dimostrato che i Comunisti Italiani dispongono già oggi di pezzi importanti di elaborazione e di analisi che ci consentono di mettere in campo una linea di politica internazionale articolata e coerente. Gli interventi che si sono succeduti dimostrano, a mio avviso, che noi possiamo affrontare la discussione, all’interno di quello che viene chiamato il popolo di Seattle, senza alcuna timidezza ma anzi con la forza di un punto di vista che può risultare molto più solido di tante posizioni esposte con una arroganza che tenta di mascherarne la fragilità.

Innanzitutto noi abbiamo una idea abbastanza precisa della attuale fase del capitalismo. In estrema sintesi si può dire che per i Comunisti Italiani il punto focale del ragionamento parte ovviamente dalla constatazione della progressiva affermazione del capitalismo finanziario su quello produttivo. I dati che ci sono stati forniti sul volume attuale degli scambi monetari in relazione al PIL mondiale sono di per sé sufficienti ad esprimere il livello della assoluta prevalenza delle dinamiche finanziarie su quelle produttive. Questo processo, che dura ormai da decenni e che è iniziato molto prima del crollo del sistema di Bretton Woods, ha determinato l’emergere di nuovi poteri di carattere globale che traggono la loro enorme forza dalla possibilità di influire direttamente sulle dinamiche della speculazione finanziaria. Oggi i nani della finanza dispongono di strumenti per indirizzare l’economia, e quindi anche la politica e la società, molto più efficaci e potenti di quelli di cui dispongono i singoli stati. Lo stesso G7 nasce in relazione all’emergere di questi nuovi poteri nell’ambito mondiale. Constatato infatti che nessuno stato, nemmeno gli USA, potevano da soli garantire la stabilità dei cambi, e tanto meno il controllo della politica sulle dinamiche monetarie, si è pensato di realizzare un luogo politico (il G7 appunto) dove i principali paesi capitalisti potessero determinare scelte di stabilizzazione e timidi tentativi di indirizzo delle dinamiche economiche. E’ evidente quindi che il G7 è uno, e solo uno, dei luoghi dove in questa fase vengono prese le decisioni in merito allo sviluppo del mondo. Altri luoghi molto meno pubblici (ha fatto bene chi ha ricordato il ruolo che ancora oggi svolge la Trilaterale ed io vorrei aggiungervi anche il cosiddetto “dialogo euro atlantico” ma anche le tradizionali logge massoniche) sono attivi nel determinare le dinamiche economiche. La differenza di fondo tra queste due realtà è che il G7 ha comunque una parvenza di legittimazione democratica riunendo figure che sono comunque state scelte attraverso un processo elettorale. I nani della finanza non rispondono invece a nessuno ed hanno come unico scopo quello della valorizzazione del capitale senza nessun vincolo di consenso politico o sociale.

Mentre i capi di stato dei G7 devono comunque rispondere alle proprie opinioni pubbliche ed hanno nei confronti di queste obblighi di carattere politico, i luoghi autonomi del capitalismo finanziario guardano ai problemi di consenso solo in relazione a come questo possa interferire o meno con i loro calcoli speculativi.

E’ per questo tra l’altro che non è affatto indifferente se in questo consesso siede Berlusconi o Rutelli. Come l’esempio americano conferma, su questioni fondamentali quali l’ambiente o la pace non è la stessa cosa se a rappresentare i nostri paesi sono leader di centro destra o di centro sinistra. In particolare in Italia un governo di centro sinistra con al proprio interno i comunisti avrebbe portato al vertice tesi e proposte ben diverse da quelle che sostiene Berlusconi. E ciò non è indifferente per le scelte che poi concretamente questi luoghi vanno a determinare. La politica infatti, pur limitata notevolmente rispetto a solo pochi anni fa, mantiene ancora spazi importanti di intervento che possono entrare in contraddizione con le esigenze degli speculatori o anche di singole lobby economiche.

Si può quindi dire che sono potenzialmente aperte importanti contraddizioni tra i luoghi istituzionali e quelli occulti del potere capitalistico mondiale. Queste contraddizioni sono oggi molto più evidenti che in passato, anche perchéueQ, dopo la caduta del sistema degli Stati ad economia pianificata, il capitalismo finanziario sente con sempre minore forza l’utilità di istituzioni politiche che agiscono da freno alle dinamiche speculative. Da qui nasce l’attacco ideologico alla politica ed ai suoi luoghi a partire dagli Stati nazionali che vengono minati nella loro sovranità sia dall’alto che dal basso.

E’ evidente infatti che la massima valorizzazione del capitale può determinarsi solo nel momento in cui esso è libero di muoversi su scala globale alla ricerca del punto in cui le condizioni sono massimamente favorevoli alla realizzazione del più alto profitto finanziario o produttivo. Tutto ciò che si frappone a questa necessaria mobilità viene sentito come un ostacolo al pieno sviluppo delle dinamiche speculative.

Da questa analisi deriva quella che io considero una coerente linea politica del nostro partito sia sul piano interno che su quello internazionale.

Sul piano interno infatti noi Comunisti Italiani abbiamo realizzato quasi due anni fa un importante assemblea nazionale dei nostri amministratori locali per contrastare il cosiddetto “federalismo” e cioè la demolizione dal basso dello stato nazionale. Per contestare la natura ideologica di questo termine abbiamo disvelato il processo che esso sottende e cioè l’attacco allo Stato nazionale come strumento atto a garantire l’uniformità dei diritti sociali su di un ambito vasto. Le dinamiche di questi anni hanno poi dimostrato la veridicità della nostra analisi e purtroppo stiamo assistendo alla progressiva frammentazione del nostro stato. Dietro l’azione di Formigoni, e dei suoi imitatori, ci sono precisi interessi economici che mirano, da un lato, ad una immediata ricollocazione dei capitali finanziari per mettere le mani su importanti settori dello stato sociale (a partire dalla sanità) da cui si pensa di poter ricavare importanti profitti. Dall’altro al secessionismo sanitario e scolastico corrisponde la richiesta della fine dei contratti nazionali di lavoro, vale a dire la competizione tra territori sulla base della riduzione dei diritti sociali specifici della popolazione residente.

Questo schema, che stiamo sperimentando sul piano interno, corrisponde a ciò che accade nelle dinamiche mondiali. La necessità di occupare ogni nicchia di mercato (bisognerebbe approfondire in relazione a questo il limite stesso di sostenibilità della attuale bolla speculativa in mancanza della creazione di nuovi importanti mercati), porta alla privatizzazione di tutti i tradizionali settori di intervento degli Stati nazionali per l’acquisizione di risorse finanziarie (fondi pensione) e per la valorizzazione del capitale in settori in cui i bisogni non sono comprimibili (il profitto sulla salute, sulla alimentazione ecc..). D’altro canto, sempre al medesimo scopo, è utile un processo di delocalizzazione produttiva, che permette di operare un dumping sociale nei confronti delle popolazioni di quei paesi dove nel passato (per motivi di geopolitica e/o per la forza delle rispettive classi operaie) si era dovuto realizzare un processo redistributivo ed un compromesso di classe che aveva consentito la realizzazione del cosiddetto Welfare vale a dire un sistema di diritti insieme con l’accesso di massa al consumo. Questa dinamica ha certo uno scopo politico, ridimensionare ogni potere di contrattazione anche nei paesi OCSE, ma anche uno scopo economico, e cioè, sostenere il tasso di profitto attraverso una polarizzazione crescente della ricchezza che espropria nuovamente le classi popolari, ma anche medie, degli stessi paesi leader del capitalismo mondiale. Non bisogna dimenticare infine che la mobilità finanziaria consente di eludere la fiscalità degli stati e questo non solo ovviamente comporta un maggiore tasso di profitto ma determina pure una progressiva riduzione delle risorse disponibili per gli stati a sostegno del Welfare.

Da queste considerazioni diviene più chiara la natura profonda dei processi che stanno determinando una deriva a destra delle opinioni pubbliche dei paesi del G7.

Tutto ciò potrebbe però essere solo una parziale descrizione della realtà se non si legasse con una proposta politica.

Noi infatti rifiutiamo, con la forza della ragione, l’idea che questa fase sia segnata da un dominio ormai incontrastato delle forze del capitalismo finanziario al punto da rendere inutile il ricorso alla politica quale strumento di rappresentazione, ma soprattutto di governo, delle contraddizioni. E in questo c’è non solo una nostra radicale distanza con Rifondazione Comunista, ma anche un rapporto dialettico con una parte importante del movimento. C’è infatti chi fa prevalere un atteggiamento descrittivo su la necessità progettuale e, soprattutto, chi intende riproporre la violenza come unico mezzo per dare rappresentazione alla contestazione del dominio capitalistico sul pianeta.

Noi siamo comunisti e da comunisti abbiamo costituito un partito politico e non una associazione culturale o un circolo di cultori della rivoluzione.

Come partito rispondiamo alla sfida con un proposta innovativa ma soprattutto credibile e praticabile.

Noi difendiamo lo stato nazionale ma, al contempo, vediamo come oggi non sia più possibile svolgere solo a questo livello una funzione di programmazione economica e di difesa di un sistema di diritti universali. Lo stato nazionale non deve essere abbandonato, in primo luogo, perché ad esso corrisponde oggi una opinione pubblica che stenta ancora a definirsi in quanto tale a livello sovranazionale. Come sappiamo l’esistenza di una opinione pubblica è fondamentale per l’aprirsi di una dinamica politica realmente democratica e quindi questo livello, e cioè lo stato nazionale, è oggi ancora assolutamente essenziale per la sinistra. Diciamo al contempo però che è un grave errore attardarsi, come fanno purtroppo altre forze della sinistra europea a noi storicamente vicine, che pensano alla possibilità di un impossibile ritorno indietro.

Oggi la sinistra europea ha una storica possibilità che è quella della realizzazione di una piena unione economica e politica del continente, premessa fondamentale di una reale indipendenza dagli USA. In Europa, per una serie di complesse dinamiche storiche, vive ancora oggi un modello sociale e politico che si presenta come alternativo a quello proposto dagli Stati Uniti. In particolare questo modello, frutto di un compromesso di classe realizzato in un momento in cui i rapporti di forza e le dinamiche geopolitiche erano ben diverse da quelle odierne, prevede un ruolo attivo delle istituzioni pubbliche nella programmazione economica e nella garanzia dei diritti sociali. Prevede quindi un ruolo per la politica.

Al contrario, negli USA, il legame diretto tra lobby economiche e potere politico è storicamente strutturato ed inoltre in quel modello politico e sociale non è previsto ne prevedibile alcun ruolo per la sinistra politica. Gli Stati Uniti sono un modello alternativo che viene esportato prima di tutto in Europa. Anche in questo senso la vittoria di Berlusconi rappresenta un fatto gravissimo perché schiera l’Italia dall’altra parte della barricata indebolendo strategicamente l’ipotesi di indipendenza europea.

Siamo di fronte ad uno scontro aperto e dobbiamo schierarci senza tentennamenti. In questa fase difendere l’Europa significa quindi difendere la politica ed in particolare la possibilità per la sinistra di poter continuare ad essere in campo. L’Europa è oggi sotto attacco proprio per questo. Si vuole cancellare al più presto questa anomalia per uniformare il modello politico e sociale del pianeta.

Noi dobbiamo agire in senso inverso. Sosteniamo ogni avanzamento anche minimo del processo di unione politica e, sosteniamo, la realizzazione dell’allargamento dell’Unione. Bisogna immediatamente associare le popolazioni ed i lavoratori del paesi dell’Est al nostro sistema di diritti e garanzie prima che il dumping sociale, che oggi quelle economie operano nei nostri confronti, porti ad una uniformazione in basso del sistema dei diritti. L’allargamento deve consentire a questi paesi di accedere all’ambito reale in cui si determinano oggi le loro dinamiche economiche. Questo significa fare contemporaneamente un passo in avanti essenziale per l’unificazione della classe nello stesso ambito. Ciò, in prospettiva, con la riduzione conseguente delle contraddizioni interne al movimento dei lavoratori, può aprire una nuova possibilità della ripresa di un conflitto efficace anche sotto il profilo dei rapporti di forza.

Unione politica ed allargamento devono andare di pari passo con una reale autonomia in politica estera e, quindi, con la nascita di un esercito europeo sotto il controllo delle istituzioni dell’Unione. Per la stessa pace e stabilità del pianeta è infatti cruciale che al più presto si realizzi un nuovo bilanciamento dei soggetti che possono agire, anche militarmente, su piano regionale e globale. In questo senso la realizzazione di una forza comune di difesa europea è un tassello fondamentale della indipendenza a cui aspiriamo. E’ evidente quali effetti potrebbe avere la realizzazione, anche parziale, di questo progetto per l’intera area balcanica e del mediterraneo. L’intervento americano in questa zona del mondo non si può più giustificare se non per una opera di controllo nei confronti dei propri alleati e di sostegno diretto, con gli strumenti militari, di dinamiche politiche funzionali agli interessi delle multinazionali, a partire da quelle del petrolio.

In questo senso è fondamentale ciò che ci ha detto Polcaro sullo scudo stellare americano. Anche sul piano militare infatti gli USA stanno conducendo una asperrima lotta per impedire ogni autonomia europea. Dopo l’umiliazione della Russia, umiliazione che può produrre effetti imprevisti, come ci ha detto Benedetti, l’Europa come la Cina sono in potenza i soggetti di una possibile contestazione dell’ordine mondiale imposto dal Pentagono. Lo scudo stellare è una sfida a tutti i principali protagonisti delle dinamiche mondiali e con questo strumento si intende realizzare una egemonia strategica sulla tecnologia militare di punta e sui sistemi di controllo e comunicazione satellitare e non. Non bisogna poi dimenticare gli aspetti economici dello stesso scudo che sono importanti almeno quanto quelli militari. In questo caso stiamo assistendo ad una sorta di guerra non dichiarata tra USA e UE che ha per posta l’industria areospaziale. La dichiarazione di guerra l’avevano fatta gli europei quando decisero di provare a strappare alla Boeing il colossale mercato dei super aerei passeggeri. La risposta degli USA fu una guerra commerciale condotta attraverso Ecelon (il sistema di spionaggio satellitare) ai danni della Airbus a cui fu soffiata la commessa per l’Arabia Saudita intercettando le comunicazioni interne alla azienda nella predisposizione della offerta europea. Da ciò una accelerazione del progetto europeo di super aereo che ha portato Airbus a vincere la sfida con Boeing. Questa vittoria della tecnologia e dei capitali europei ha provocato le più vibranti proteste del governo americano e la preoccupazione dei competitori al punto che la Boeing ha quindi chiesto, in cambio del sostegno alla campagna elettorale di Bush, una iniezione di denaro fresco tramite il rilancio del progetto di scudo stellare per cui essa fornisce tecnologia e lanciatori.

Del resto, la presenza di una forte guerra per il controllo dei mercati tra USA ed Europa l’abbiamo potuta conoscere grazie alle relazioni di Galtieri e di Casari. Da quelle relazioni vediamo come è in corso una spietata concorrenza tra europei ed americani per il controllo di aree di influenza, a partire dalla necessità degli europei di difendere il proprio mercato dalle incursioni USA. Ciò ci conferma nella analisi sulla presenza di una contraddizione intercapitalistica principale nello scontro tra interessi USA ed europei su cui noi dobbiamo agire.

Questa contraddizione, se politicamente interpretata, può rafforzare la tendenza alla realizzazione di un capitalismo continentale, una sorta di borghesia nazionale europea, e di una opinione pubblica continentale che percepisca compiutamente il ruolo dell’Europa non come contrapposto ma certo come competitivo rispetto agli Stati Uniti.

Detto tutto questo manca un tassello.

Il nostro progetto di costruzione europea prevede la democratizzazione reale delle istituzioni politiche a partire dal ruolo, che noi vogliamo costituente, del Parlamento europeo. C’è però una obiezione a questo progetto che noi non possiamo ignorare. L’obiezione viene dai riformisti di stampo liberal-socialista, da Amato e Blair per intenderci. Questa scuola di pensiero rifiuta l’approdo classico verso uno Stato federale europeo che noi sosteniamo, ma che, con noi, ad esempio, sostiene Schroeder e, con accenti diversi, lo stesso Chiraq. Amato ha più volte detto che è un grave rischio introdurre gli elementi della democrazia rappresentativa nella costruzione europea in quanto, una piena legittimazione democratica delle istituzioni dell’Unione comporterebbe una riduzione drastica di efficacia di queste istituzioni proprio nel campo della possibilità di essere strumenti reali dell’indirizzo economico. Questa scuola di pensiero ripropone l’antica obiezione che contrappone democrazia ed efficacia, rappresentanza e governabilità. Si tratta di respingere con decisione una tale impostazione ma bisogna assumerne la domanda di fondo perché, se i meccanismi della rappresentanza rendono impotente la politica, perde il nostro progetto di rivalutare proprio la politica come strumento della trasformazione. La risposta più forte all’obiezione posta sta comunque nel fatto che governi efficaci, senza una forte legittimazione democratica, che deriva in primo luogo dalla garanzia della rappresentanza di tutti gli interessi in gioco, cadono inevitabilmente nelle mani dei poteri che non hanno bisogno della democrazia per esprime la loro posizione. E’ questo in fondo il rischio dell’attuale architettura istituzionale dell’Unione Europea che Amato vorrebbe difendere. Noi invece la vogliamo cambiare proprio perché prevede una delega di sovranità da parte degli stati nazionali ad organismi che soffrono di un deficit di legittimazione democratica. Nell’attuale sistema la forza di pressione delle lobby (ed in questo caso americane o europee non importa) sulla struttura della Commissione è inversamente proporzionale al legame di legittimazione politica che la Commissione vuole e può ricevere dal Parlamento. In questo contesto noi valutiamo molto positiva l’azione del Presidente Prodi che ha scelto di dare alla sua presidenza un profilo politico alto ed ha puntato molto sul rapporto con il Parlamento Europeo. Proprio da questa sua scelta ci pare derivi il grado superiore di autonomia che l’attuale Commissione ed i suoi funzionari riescono ad esprimere rispetto alle pressioni delle lobby che a Bruxelles sono di casa.

Prima di concludere vorrei dire un’ultima cosa. L’intervento di Scarpa si è chiuso a mio avviso con una domanda che non possiamo eludere, pena la trasformazione di gran parte del nostro discorso in nient’altro che una classica proposta socialdemocratica di resistenza in una fase difensiva del movimento operaio.

Scarpa ci chiede di affrontare il tema di come sia possibile conciliare la difesa della attuale accesso al consumo da parte delle classi popolari “occidentali” con la consapevolezza che l’attuale livello di consumo delle stesse classi è determinato anche dal flusso di ricchezza prodotto dallo sfruttamento capitalistico delle economie del Sud del mondo. E’ una domanda classica che si pone alla sinistra da almeno 30 anni e che non ha evidentemente trovato ancora una risposta definitiva. La mia personale convinzione è che non sia possibile uscire da questa contraddizione senza una contestazione radicale del concetto di benessere che il mercato capitalistico propone. Oggi le multinazionali più che prodotto intendono vendere stili di vita che sostengono modelli di consumo che sono funzionali agli interessi economici dominanti. Basta vedere la sproporzione tra le divisioni commerciali e quelle produttive di gran parte delle grandi, ma anche delle medie, aziende che operano sul mercato globalizzato per avere la netta percezione del punto strategico dell’attuale impresa capitalistica. Questo, appunto, non sta più tanto nella produzione quanto nell’apparato comunicativo e commerciale dove viene creata una sorta di “ideologia” del consumo. Io non vedo altra strada che una contestazione di questo modello di consumo e dell’ideologia che lo sostiene. Credo che dovremmo tornare a ragionare con attenzione su di una proposta che dopo 25 anni mantiene ancora a mio avviso una sua forte valenza, quasi profetica. Sto parlando della “austerità”, che Berlinguer lanciò proprio negli anni in cui le dinamiche che oggi stiamo analizzando muovevano i primi passi, ed era ancora possibile pensare ad una alternativa di società autonomamente determinata dalla politica. Non penso che sia utile oggi tornare a dividerci sul fatto se quella proposta avesse o no a che fare con la politica dei redditi. E’ certo che questo fu il suo sbocco pratico e che, quindi, fu sconfitta nella sua portata strategica per divenire parte di una politica che ha diviso il movimento operaio. Oggi però ha senso a mio avviso tornare a ragionare su quella proposta perché essa allude ad un diverso modello di consumo ed ad una idea di benessere alternativa a quella proposta dal mercato capitalista.

Questo è fondamentale per impostare una critica radicale anticapitalista che sostenga una ipotesi di ricostruzione di un partito comunista. Da decenni è in corso un immenso processo di inclusione delle masse popolari e dei lavoratori all’interno della logica capitalistica. Milioni di persone oggi investono in borsa e percepiscono la loro condizione di vita in relazione alla situazione del “mercato”. Si è prodotta una egemonia strategica che rischia di trasformare la pur essenziale battaglia per la difesa degli interessi di classe dei lavoratori in una lotta che in termini generali può essere intesa come corporativa all’interno del mondo dei ricchi. Dovrebbe in questo caso farci riflettere l’atteggiamento popolare nei confronti delle ultime guerre scatenate dalla Nato e dagli USA. Molti, anche a sinistra, ormai assumono la prospettiva di dover difendere con le armi il nostro livello di consumo e di accesso all’energia. Ciò può spezzare ogni legame tra le lotte nel Nord e nel Sud del mondo.

Noi dobbiamo affrontare questo nodo, a partire dall’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e dalla necessità di contestarlo, anche proponendo una diversa idea del mondo. In questo modo potremo dare una risposta alla necessità di un rilancio della passione politica ed anche dell’utopia che, la relazione di Nesi ci indicava, e che resta uno dei presupposti fondamentali senza il quale qualunque progetto politico rischia di naufragare o di ridursi a puro gioco politico istituzionale.