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Quando al Festival i "big" erano
Omero ed Esiodo

Ezio SAVINO (da:il Giornale 2/3/02)

La madre di tutti i festival - compreso Sanremo 2002 - fu una disfida tra due ugole d'oro della Grecia classica. Uno era un big. Si chiamava Omero, veniva dalle ricche città della costa asiatica ed era sicuro di avere la vittoria in tasca. L'altro era categoria esordienti, un tale Esiodo, un ragazzo di talento, sconosciuto, ma raccomandato dalle Muse in persona, che l'avevano sorpreso una notte sui pascoli,dove faticava da pastore, inoculandogli l'ossessione del canto. Con l'inseparabile cetra, i due battevano le piazze. Erano rapsodi, pozzi di fantasia e di memoria capaci di improvvisare canzoni prodigiose. Finché si affrontarono su un palcoscenico di prestigio. Una cittadina di mare, Càlcide, nell'isola di Eubea, doveva onorare la memoria del suo re. Così ingaggiò i campioni dello sport e della musica. I Greci erano convinti che l'omaggio più bello fosse lo sfoggio della bravura umana; il gesto atletico trionfante, la battuta arguta, i versi gorgheggiati con tecnica e passione travolgenti. Come oggi, la gara era il sale dello spettacolo. Omero mandò in estasi la platea martellando un canto metallaro di battaglia, con sillabe e note che schioccavano come spade e scudi in frantumi. Esiodo propose un rap dolce e severo, che odorava di terra e di grano, parlava di campagne, di agricoltori alle prese con la falce e di cieli stellati. La giuria votò con coraggio clamoroso. Vince Esiodo che esalta la pace. Omero, il divo nazionale degli Achilli e degli Ulissi, scivola sul tema sbagliato, quella guerra che sarà anche eroica, ma che stanca con le sue angosce. Una motivazione che premia le idee (non le mode, i mostri sacri, i poteri forti) è di tutto rispetto, può ancora insegnarci qualcosa. L'anonimo cronista greco - non sappiamo quanto fantasioso - che con il suo certame di Omero e di Esiodo ci informa su come andò in quella kermesse di giganti, ci racconta anche quanto fu bravo Esiodo a sfruttare i media, a riflettori spenti, nel dopofestival. Altro che sprovveduto cantore contadino. Ai tempi, il premio era un tripode di bronzo, un oggetto che valeva moneta sonante. Ma Esiodo lo investì nel futuro della carriera. Vi fece incidere una dedica alle sue scopritrici, le Muse, (la casa discografica dell'antichità) e corse a Delfi, per consacrarlo al patròn per eccellenza, Apollo, il dio di tutte le canzoni. Delfi ospitava il suo oracolo: era l'ufficio stampa più efficiente al mondo, un megafono capace di sparare un nome ai quattro punti cardinali. E infatti la Sibilla profetò che la fama di Esiodo si sarebbe allargata fin "dove si spande la luce dell'aurora". Una globalizzazione da far invidia a calibri come Madonna e Elton John. Ma le analogie con la pittoresca fauna festivaliera di oggi non finiscono qui. I rapsodi vestivano stravagante. "Come ti invidio - ironizzò Socrate con Ione, un campione d'incassi di allora, che aveva in repertorio tutti i canti di Omero - per quel bel vestito di scena!". Sui panni ricamati d'oro, i virtuosi delle sette note esibivano un caffettano scarlatto, per i pezzi dall'Iliade, viola per le arie dall'Odissea. Un codice colore azzeccato: rosso sangue per la guerra, porpora per un regno ritrovato. Erano nomadi di lusso, oggi a Corinto, per il festival dell'istmo, domani a Olimpia, a fare da stacchetto tra lottatori e aurighi, poi a Nemea, dove gli organizzatori del festival sfruttavano il vuoto tra un'olimpiade e l'altra. Ione, per esempio, era appena reduce da Epidauro, dove aveva stravinto. Epidauro era un centro termale, tra spiaggia e collina, nel verde e nel silenzio. Tra sanatori e alberghi, un teatro gioiello, il più perfetto di tutti - in greco questa qualità si diceva, guarda caso, ariston - in cui i convalescenti di rango ritempravano lo spirito con una stagione ininterrotta di prosa e di canto. Ma il vero paese della cuccagna festivaliera era Atene. Qui dominava Dioniso, il dio del vino e dell'allegria. Le sue giornate si celebravano tra febbraio e marzo, quando la fioritura esplode e la gente esce di casa volentieri. Era tutta una gara, nel teatro dell'acropoli. Prima si sfidavano i cori, poi il culmine: il festival della tragedia e della commedia. Trionfare su quel palcoscenico era l'occasione di una vita. Bisognava chiamarsi Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane. Ma come in tutte le gare e le giurie del mondo, i giochi sottobanco talvolta lasciavano tutti di stucco. Come quando Filocle, un signor nessuno, fece le scarpe a Sofocle, che quell'anno presentava Edipo re. E' il destino dei festival. Il giorno dopo, il pezzo che vince è già sepolto, e l'autore umiliato trionfa al botteghino. La macchina della giuria ateniese ci è ben nota dalle fonti. C'erano dieci urne, davanti al palco. In ciascuna, i nomi di cittadini incaricati di votare. Prima della gara, le autorità estraevano un nome da ciascuna. Ecco i dieci (casuali) giudici. Alla fine, ogni giurato stilava la sua classifica su una tavoletta: primo, secondo, terzo. L'arconte - magistrato al di sopra dei sospetti - tirava a sorte cinque tavolette e, sulla base delle preferenze espresse, pubblicava il verdetto. Era il modo per garantire la vittoria al migliore? Forse. Aristofane, una malalingua, insinuava che a decidere era il pubblico, che applaudiva, fischiava, schiamazzava (ieri come oggi, qualche volta, a comando), orientando e intimorendo i giurati. Vox populi, vox dei. E' il fascino intramontabile del festival, che sia di Dioniso o dei fiori. L'importante è che ci sia una vittoria, e qualche sconfitta. Sta qui il divertimento. Lo diceva anche Aristotele: terrore e compassione sono il lievito dello spettacolo. Basta che ci siano lacrime. Di felicità. O di rabbia.


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