CHIUSI

   

La Storia

L'odierno nome di Chiusi viene dal latino Clusium che, attraverso Clousiom, risaliva all'etrusco Clevsi. L'aggettivo, o etnico, corrispondente in latino era Clusinus (da cui "Chiusino"), mentre in etrusco Clevsi-ns-, oppure Clevsi-na-, attestato, quest'ultimo, come cognomen, anche in latino (nella forma Clepsina, portata dai due fratelli Gaius Genucius [console nel 276 e nel 270 a.C.] e Lucius Genucùls [console nel 271 a.C.]).

Tito Livio (Storia di Roma, 10, 25) si riferisce a Chiusi come alla «città che una volta si chiamava Camars»; sulla stele etrusca di Saturnia (VI secolo a.C.), trovata da poco, compare la forma Kamarte, finora mai attestata e identificabile molto bene col poleonimo cui Livio fa riferimento. Accertata l'effettiva etruscità della Camarte di Livio, resta tuttavia difficile, anche alla luce del contesto della stele di Saturnia, valutare l'affidabilità della notizia che ne farebbe il nome antico di Chiusi. Il Pallottino pensava a un possibile collegamento con i Camertes Umbri. Alcuni frammenti della storia di Chiusi si possono recuperare attraverso le citazioni delle antiche fonti letterarie, relativamente cospicue.

Stando ai Fasti Trionfali nel 588 a.C., il re di Roma Lucio Tarquinio Prisco celebrò il suo secondo trionfo (de Etrusceis), dopo aver sconfitto in battaglia un forte esercito etrusco inviato in aiuto ai Latini che si erano coalizzati per bloccare le mire espansionistiche dei Romani. Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, 3,51 sgg.), riferendosi all'evento, scrive che l'esercito etrusco era formato da contingenti di varie città etrusche, precisamente «Chiusini, Arretini, Volterrani, Rosellani e inoltre Vetuloniesi». Nel 509 a.C., dopo la cacciata, l'ultimo re di Roma, Lucio Tarquinio il Superbo, fuggì con i due figli (Arrunte e Tito; Sesto, il minore, era riuscito a insediarsi come re di Gabii, ma venne assassinato quello stesso anno) nell'etrusca Cere. L'anno successivo l'ex famiglia reale romana si trasferì presso Porsenna re di Chiusi, dove, «mischiando consigli e preghiere, scongiuravano di non lasciare che i Tarquini, di stirpe etrusca, appartenenti allo stesso sangue e alla stessa nazione se ne andassero esuli e poveri. Ammonivano poi di non lasciare senza ritorsione questa nascente abitudine a cacciare i re. Già la libertà ha una sua dolcezza, dicevano: “se i re non difendono il loro trono con la stessa energia con cui i popoli vanno alla ricerca della libertà, non c' è più alcuna differenza tra chi sta in alto e chi sta ai piedi della scala sociale. Si rischia, aggiungevano, che non ci sia nulla di eccelso, nulla la cui dignità, tra i cittadini, sia superiore a tutto il resto. Si rischia che finisca la monarchia, questo istituto straordinario a mezza strada tra il divino e l'umano”.

Duomo

Chiusi: il Duomo

 

Tito Livio fornisce il nome completo del famoso re di Chiusi: Larte Porsenna (lat. Lars Porsenna). Il prenome lat. Lars, così come il nome del figlio di Porsenna, Arruns ("Arrunte"), sono un notevole dato di conferma della veridicità e della storicità dei personaggi, perche coincidono con due dei prenomi etruschi più diffusi (Larth eAranth [o Arunth; neoetr. Arnth]). Ciò nonostante, alcune delle traduzioni più correnti di Tito Livio (in italiano, ma non solo) rendono Lars come se fosse un titolo con 'nobile', 're' o simili. L'equivoco nasce presso chi, non ha alcuna dimestichezza con I'onomastica etrusca e si fonda su un'antica tradizione latina che riportava l'etimologia etrusca del prenome Lars, cioè 'capo militare', 'guerriero', forse meglio 'tenace', 'combattivo', 'coraggioso' (infatti Laran è il nome etrusco del dio Marte; sulla radice lar- si formano i prenomi etruschi Larth  e Laris). Dunque tradurre lat. Lars con 'nobile', quando esso è palesemente impiegato come prenome, è un errore, come se il lat. Gaius Marius fosse reso in italiano con 'il felice Mario' (invece, ovviamente, di Gaio Mario). Un simile sbaglio viene commesso anche; nella traduzione del nome del re di Veio Lars Tolumnius (etr. Larth  Tulumnes). Il gentilizio Porsenna, poi, ha la caratteristica terminazione -na dei nomi di famiglia etruschi. Anche su di esso si è fantasticato, volendolo forzatamente interpretare come un titolo (derivato dal termine magistraturale purth-) e non come un nome personale. In realtà Lars Pursenna è una chiara ed indubitabile "traduzione" latina di una tipica formula onomastica bimembre etrusca. Quanto al corrispondente etrusco del gentilizio Porsenna (Plinio il Vecchio ha Porsina), si potrebbe ricostruire un *Pursiena (non attestato) o, forse, pensare a Pursena, effettivamente testimoniato.

      

      Torre di S. Secondiano e Duomo               Torri medioevali “beccati questo e quello”

 

Riprendendo gli eventi del 508 a.C., il racconto di Livio continua col riportare la decisione del re di Chiusi di marciare contro Roma per restaurare i Tarquinii. Il fatto si riseppe quasi subito e il panico invase la città e il senato di Roma come non era mai avvenuto in precedenza: «grande era la potenza di Chiusi e ben noto era il nome di Porsenna». D'altra parte, stando a un passo di Plinio il vecchio (relativo alla cacciata, tramite evocazione di fulmini, del mostro Volta dall'agro volsiniese), il regno di Porsenna si sarebbe esteso non solo su Chiusi, ma anche su Volsinii (e territorio). Altrove egli è chiamato addirittura "re dell'Etruria".

L'intervento contro la rivolta di Roma, per reinsediarvi un re etrusco, così come gli avvenimenti successivi e connessi (assedio di Ariccia) sembrano così inserirsi in un tentativo di Chiusi di instaurare la sua supremazia sul Lazio e sulla via per Capua e la Campania. A questo punto il racconto degli annalisti romani, riprodotto da Livio, si diffonde sui particolari dell'assedio e sui leggendari o semileggendari episodi di coraggio di Orazio Coclite, di Gaio Mucio Scevola e di Clelia. Secondo questa versione "patriottica" dei fatti Roma non sarebbe stata conquistata; eppure, anche se in effetti non si riuscì a imporre il ritorno degli odiati Tarquinii, è molto verosimile che Porsenna abbia in verità ottenuto la resa condizionata di Roma. Plinio il Vecchio (Storia naturale, 34, 139) fornisce un prezioso e illuminante riferimento a una clausola del trattato di pace (o meglio del patto di resa): «nel trattato che, dopo la cacciata dei re, Porsina impose al popolo Romano troviamo specificamente contemplato che non si dovesse usare il ferro se non per la coltivazione dei campi».

Le stesse difficoltà di interpretazione relative alla "vendita dei beni di Porsenna", di cui parla Livio in 2, 14, e la notizia plutarchea dell ' antica dedica di una statua di bronzo al re di Chiusi presso il senato romano, depongono a favore della tesi di un' occupazione almeno temporanea di Roma da parte di Porsenna (attorno al 508-505 a.C.). In questo periodo andrebbe collocata la spedizione militare chiusina, guidata da Arrunte Porsenna, figlio del re, contro Aricia. In un primo momento l'assalto improvviso degli Etruschi gettò lo sgomento tra gli Aricini assediati, ma, ricevuti i soccorsi dagli alleati latini e da Cuffia (una piccola flotta guidata da futuro tiranno Aristodemo) e datasi battaglia in campo aperto, l'esercito di Chiusi fu sconfitto. Lo stesso Arrunte Porsenna cadde nello scontro e i sopravvissuti trovarono rifugio e cure a Roma, che era, come è chiaro anche da questo particolare, ancora sotto la supremazia di Chiusi. Tali rifugiati si fermarono nell'area, che ospitò forse il presidio chiusino, e che fu poi detta vicus Tuscus ('quartiere etrusco'). Plinio il Vecchio riporta un passo di Varrone che descrive in dettagli il favoloso mausoleo chiusino di Porsenna. Esso, dalle dimensioni monumentali, avrebbe contenuto un corpo centrale con un labirinto inestricabile di cunicoli, e sarebbe consistito in una struttura a più piani o strati formata da enormi piramidi e cuspidi sovrapposte. Nonostante in passato si sia ritenuto (a torto) di poter identificare il mausoleo di Porsenna con la Tomba di Poggio Caiella, di tale antica e leggendaria meraviglia, a prescindere dalle esagerazioni della descrizione varroniana, oggi non è visibile più nulla.

Più di cent'anni dopo Porsenna la potenza romana è diventata considevole e, nel 391 a.C., appena poco dopo la conclusione della breve guerra con i Volsiniesi, si ha notizia (Livio, Storia di Roma, 5, 33 sgg.) dell'invio a Roma di ambasciatori chiusini per chiedere aiuto contro la calata di orde galliche. Si narra che esse fossero state sollecitate a venire da Arrunte, un cittadino di Chiusi per vendicarsi di Lucumone, giovane nobile di cui egli era stato tutore, ma che gli aveva senza scrupoli sedotto la moglie. Per colpire lo strapotente e odiato Lucumone, Arrunte non aveva visto altra soluzione che scatenare un nemico esterno. A parte la colorita leggenda, i Chiusini, conoscendo le disfatte etrusche subite nella Pianura Padana ad opera dei Galli e spaventati per il numero, la corporatura, le anni e la tecnica di combattimento, «sebbene non avessero con Roma nessun patto di alleanza ed amicizia (tranne il non essere intervenuti contro i Romani a favore di Veio che era popolo della loro stessa nazione), mandarono degli ambasciatori a Roma per chiedere aiuto al senato».

Secondo alcuni studiosi moderni questo atteggiamento remissivo di Chiusi e la richiesta di un aiuto da parte di Roma sembra inverosimile. Il resoconto liviano continua specificando che Roma inviò tre legati (i tre figli di Marco Fabio Arnbusto, Numerio, Cesone e Quinto) a parlamentare con i Galli. Questi ultimi avrebbero proposto all'ambasceria romana la concessione di una pace in cambio di «una parte dell'agro dei Chiusini i quali disponevano di più terra di quanta ne potessero coltivare». La richiesta fu irrisa come insolente e si apprestò la battaglia. In aperta violazione del diritto delle genti i tre legati romani presero parte allo scontro davanti alle schiere etrusche. Quinto Fabio Ambusto colpì, addirittura, e uccise il comandante dei Galli. Resisi conto dell'accaduto, i Galli, deposta l'ira contro i Chiusini, si ritirarono, cominciando a scagliare minacce contro i Romani.

Secondo il racconto, probabilmente più attendibile, di Diodoro Siculo e di Dionigi di Alicarnasso, Roma avrebbe inviato a Chiusi soltanto due ambasciatori al fine di spiare le mosse dei Galli; anche da queste fonti risulta comunque che i legati restarono coinvolti nello scoppio delle ostilità. Per il resto c'è concordanza circa una richiesta gallica di riparazione tramite la consegna dei (Fabii) violatori del diritto delle genti. Nel senato romano, essendo stata respinta dai Galli la proposta di una conciliazione in denaro, non si riuscì, comunque, ad approvare la consegna o l'uccisione dei colpevoli, data l'influenza e il prestigio della loro gens. Questi furono gli antefatti che condussero al saccheggio gallico di Roma del 390 a.C. (secondo la data varroniana). Durante la terza guerra sannitica, nel corso di scontri tra gli eserciti romani e quelli della coalizione etrusco-umbro-gallo-sannitica (298-295 a.C.) il racconto del più volte citato Tito Livio si sofferma sulla grave sconfitta subìta dai Romani presso Chiusi (nel 295): l'intera legione comandata dal propretore Lucio Cornelio Scipione (console del 298 e bisnonno di Publio Cornelio Scipione, il vincitore di Annibale) venne annientata dai mercenari galli al soldo degli Etruschi. È probabile che questi Galli abbiano agito (con alcuni distaccamenti umbri) proprio dietro precise disposizioni dei comandi etruschi; del resto lo scontro si svolse in piena Etruria.

Tuttavia, poco dopo, un altro contingente romano, con abile mossa diversiva, prese a saccheggiare gravemente il territorio chiusino, costringendo l'esercito della lega etrusca a muoversi «dal territorio di Sentino per difendere il loro paese», abbandonando le schiere gallo-umbro-sannitiche poco prima dello scontro decisivo. Grazie a questa mossa i Romani ottennero la clamorosa (e pressochè definitiva) vittoria sui Sanniti, nella battaglia di Sentino in Umbria (295 a.C.). Gli Etruschi, pur non avendo "partecipato" all'eccidio di Sentino, furono indotti, dopo altri scontri di secondaria importanza, alla stipulazione di una tregua quarantennale (294 a.C.), implicante la clausola del pagamento (a Roma) di una penale di cinquecentomila assi per ciascuna città della lega (Livio, 10,37). Valutata la pur frammentaria relazione di Tito Livio, riguardo alla precisa condotta dell' esercito etrusco, non è impensabile che le città etrusche partecipanti a quella lega militare possano averla indicata come "lega chiusina", dal nome del luogo in cui può benissimo essere stata stipulata. Perciò, visto che gli estremi cronologici non sono incompatibili (la datazione dell'elogio del nobile Vel Lathites è approssimativa, pur nell'intervallo fine IV secolo-inizio III), non è assurdo leggere in Vs 1.179 un riferimento a quegli eventi.

Vel Lathites potrebbe perciò, come 'capo della lega etrusca', aver comandato l'esercito etrusco 'nella battaglia romana' (rumit-rine-mi), proprio durante gli avvenimenti de1 298-295 a.C. Helmut Rix ha correttamente riconosciuto in Vel Lathites un appartenente alla famiglia alla famiglia Leinies di Volsinii; il suo gentilizio "Lathites" indica verosimilmente che egli fu adottato dai Lathites (scritto anche Latithes o Latites) di Chiusi. Dunque Vel Lathites era, di nascita, un Leinies: ecco perche il suo elogio funebre si trova scritto nel sepolcro gentilizio di quest'ultima famiglia, a Volsinii (la Tomba Golini I).

Al pari di altre città dell' Etruria settentrionale, Chiusi non dovette subire particolari vessazioni durante il successivo periodo di espansione romana. Nel 205 a.C., in qualità di alleata, essa contribuì alla costruzione della flotta di Scipione con il legno di abete per lo scafo delle navi e una gran quantità di frumento (una fomitura analoga a quella di Perugia e Roselle). Plinio il Vecchio ci informa che Silla vi dedusse una colonia che portò una distinzione del corpo civico tra Clusini veteres e Clusini novi. Situata in posizione strategica, fra i comprensori di Perugia e Orvieto, Chiusi è ricordata dalle fonti che la menzionano come una delle città della dodecapoli etrusca. In età storica, ad essa facevano capo una moltitudine di piccoli insediamenti sparsi nel territorio che della sua cultura costituivano una emanazione, mentre l'origine del centro può ben ricercarsi in epoca più antica, dal momento che tracce significative di una frequentazione stabile riguardano la prima età del Ferro, con antefatti nell'età del Bronzo.

La fase villanoviana di Chiusi è documentata nella necropoli di Poggio Renzo, località conosciuta anche per le più tarde camere funerarie dipinte; nella successiva fase Orientalizzante cominciano a palesarsi con maggior consistenza quei caratteri particolari che connoteranno più marcatamente la cultura chiusina e le sue manifestazioni materiali, destinate anche a perdurare con accenti conservatoristici: nelle necropoli compaiono le deposizioni dei cinerari entro grandi vasi (dolii, tombe a ziro), facendo non di rado ricorso al contenitore per ceneri che maggiormente assomma in se le originarie tendenze cultuali ed espressive di questo territorio, ovvero il canòpo, un vaso parzialmente conformato a sagoma umana, dove il coperchio è costituito da una testa maschile o femminile (Cinerario Paolozzi, seconda metà VII secolo a.C., con protomi di grifi sul corpo del vaso), qualche volta addirittura arricchita di orecchini in metallo ai lobi forati delle orecchie. I canopi derivano il loro nome dagli omonimi vasi egizi, nei quali i mumrnificatori deponevano le viscere dei defunti sottoposti al trattamento di conservazione e con i quali i canopi chiusini condividono una certa somiglianza nel modello. I canopi più antichi compaiono in piena epoca Orientalizzante, intorno alla metà del VII secolo a.C. e l'uso fu mantenuto sino al volgere del VI secolo a.C., quando Chiusi dismise progressivamente il rito della cremazione. Posati talora su veri e propri seggi, che ne accrescono in certo senso l'umanità, i canopi chiusini rappresentano l'esito di un percorso evolutivo che scaturisce dalla forma del cinerario villanoviano e che soltanto qui approdò al concetto di antropomorfismo. Il materiale impiegato per i canopi è solitamente la ceramica rossastra o grigia, la ceramica di bucchero o, in esemplari più sontuosi, la lamina bronzea. Durante l'Arcaismo maturo, e sino all'ellenismo, la tradizione del canopo confluirà in opere di maggior respiro come le statue-ossuario, somiglianti a piccoli sarcofagi configurati con coppia di defunti sdraiati, come il gruppo da Chianciano conservato presso il Museo Archeologico di Firenze. Si tratta ora di plastica scultorea in senso proprio, che si risolve anche in risultati qualitativamente pregnanti. Nell' ambito della scultura funeraria arcaica, il nome di Chiusi si lega anche a un'altra produzione molto caratteristica e unica: i cippi in pietra fetida decorati sulle facce laterali a bassorilievo, ove compaiono di frequente scene sportive, gare atletiche, immagini di banchettanti o di commiato funebre. Nel campo delle produzioni ceramiche, infine, le botteghe chiusine si segnalarono per la manifattura della ceramica di bucchero dalle spesse pareti, occasionalmente decorate con apporti plastici a rilievo sin dalle prime fasi (bucchero "pesante"), tanto che Chiusi nel corso del VI secolo a.C. ricoprì un ruolo di spiccata importanza proprio nell'elaborazione delle tipologie vascolari del repertorio etrusco ravvivandole con ornati a rilievo.

   

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