VULCI

 

La tomba Francois

 

Nel 1857, il principe Torlonia, allora proprietario dei terreni intorno Vulci, affidò all'archeologo fiorentino Alessandro Francois l'esplorazione della necropoli ad est del Fiora. Risultato di questa campagna di scavo fu la scoperta di una delle tombe a camera più celebri d'Etruria, che dal suo scopritore prese il nome di Francois. I suggestivi momenti dell'apertura del sepolcro e l'incredibile spettacolo che si presentò agli occhi dei fortunati scavatori sono stati immortalati dal seguente racconto:

"Quando l'ultimo colpo di piccone atterrò la pietra che chiudeva l'entrata della cripta, la luce delle torce rischiarò le volte di una funebre dimora, il cui silenzio da più di venti secoli nessuno aveva turbato. Ogni cosa laggiù si trovava nello stesso stato in cui era stata disposta il giorno nel quale era stata chiusa l'entrata. L'antica Etruria vi si rivelava in tutto il suo splendore. Un'intiera civiltà sorgeva, quasi fantastica visione, da un sepolcreto. C'era da restare abbagliati. La stessa Pompei non aveva offerto uno spettacolo così imponente. Coricati sulle loro bare i vecchi guerrieri etruschi colle loro armi indosso, sembravano riposarsi dalle fatiche di una battaglia allora allora guadagnata sopra i Romani o i Galli. Forme, vestiti, stoffe, colori, furono per alcuni minuti visibili; poscia a misura che l'aria della campagna penetrava nella cripta, tutto sparve".  (Alessandro Francois)

La tomba presenta un impianto architettonico monumentale, con una successione di ambienti disposti a suggerire la gerarchia sociale degli occupanti. Il profondo dromos (il corridoio d'ingresso agli ipogei), lungo 27 metri, introduce ad un vasto ambiente centrale (c.d. atrio). Su questo spazio si aprono ben sette camere: tre sul lato sinistro, tre sul lato destro e una sul fondo. Quest'ultima camera (c.d. tablino) rappresenta il cuore di tutto l'impianto funerario. Sulla parete di fondo, infatti, vi si apriva l'edicola destinata ad ospitare le spoglie del fondatore del sepolcro, il capostipite della famiglia Saties, proprietaria dell'ipogeo. Il ritrovamento nella tomba di una grande anfora a figure rosse daterebbe la realizzazione del complesso intorno al 400 a.C.

Scavata nella necropoli del Ponte Rotto, questa tomba presenta anzitutto una pianta molto complessa, dal momento che consta di ben undici camere rotanti attorno a un grande ambiente centrale a sagome di "T", che prefigura la suddivisione in atrio e tablino della casa romana e che risale, nella sua prima formulazione, alla metà del v secolo a.C.; su questo vano centrale si aprono sei degli ambienti, mentre altri tre si originano dal lunghissimo dromos, che si inoltrava per ventisette metri. La parte posteriore del vano (chiamata tablinum, mentre quella anteriore è detta atrium) era decorata da un soffitto a cassettoni con volto del demone Charun in rilievo. Alla notevolissima articolazione planimetrica si accompagna la straordinarietà delle raffigurazioni, desunte dalla mitologia greca. Proprietaria e titolare del sepolcro, ricco di iscrizioni che fungono da didascalia ai vari personaggi, era la famiglia Saties. Lo stesso fondatore della tomba o capostipite Vel Saties riserva per se uno spazio ove farsi effigiare a tutta altezza, sulla parete destra dell'atrio, vestito di una sontuosa toga dai colori scuri e orlata di figure ricamate (togapicta) e accompagnato dal giovane Arnza ('piccolo Arnth') che regge fra le mani un volatile trattenuto da una cordicella. Egli si appresta dunque a osservare il volo dell'uccello a scopo mantico. Sulla stessa parete destra compariva in origine una figura femminile, cioè la moglie del Saties, Thanchvil Verati; la scritta hels arrs '(e) il familiare della propria (casa)' indicava che anche la parentela della donna (es. i genitori, le sorelle ecc.) avrebbero avuto il diritto di farsi seppellire nel sepolcro dei Saties. Alle figure di Vel Saties e della moglie si opponevano, sulla parte di fronte, rispettivamente, Nestore (etr. Nestur) e Fenice (etr. Phuinis): da ciò si può dedurre verosimilmente che i Saries vantav.an.o ascendenze genealogiche greche (ateniesi?) e pretendevano di risalire a Nestore; allo stesso modo i nobili etruschi Verate avranno posto all'origine della loro stirpe (già cartaginese?) il re Fenice. Abbiamo vari esempi di nobili greci trasferitisi e integratisi stabilmente in Etruria e all'origine di celebri prosapie: basti citare Demarato di Corinto (che come Bacchiade riteneva di discendere da Ercole), da cui discesero i Tarch(u)nas/Tarquinii poi re di Roma e il celebre indovino Polles, da cui discesero i tarquiniesi Pulenas (lat. Pollenii). Un rimarchevole esempio contrario è quello del tirreno (di Lemno) Mnesa:rco che, con i figli (tra cui il filosofo Pitagora), si trasferì a Samo. Di recente il Maggiani ha mostrato come Racvi Satlnei, titolare di una stele etrusca di Bologna (V secolo a.C.), vantasse la propria discendenza da Aiace Telamonio, esplicitandola con la parola aivastelmunsl '(stirpe) di Aiace Telamonio', incisa su detta stele, proprio sopra una raffigurazione del suicvidio di detto eroe, che funzionava quasi come insegna araldica dei Satlna. Sulla parete destra della tomba dei Saties compariva anche una scena di lotta, con Marce Camitlnas colto mentre cerca di trafiggere Cneve Tarchunies Rumach (ossia Gneo Tarquinio di Roma).

Sulla parete di fondo era raffigurato un cruento episodio dalla Saga dei Sette contro Tebe, nota anche attraverso la tragedia greca classica, ossia la lotta all'ultimo sangue dei due fratelli Eteocle (etr. Ethucle) e Polinice (etr. Pulunice). All'ingresso, ancora ispirato al ciclo omerico della guerra di Troia, Aiace (etr. Aivas) minacciava infine con la spada Cassandra (etr. Casntra), rifugiatasi nelle vicinanze di un altare presso il quale cercava protezione e inviolabilità. Medesima ispirazione guidava l'affresco del tablinum, con il sacrificio dei prigionieri troiani: Agamennone (etr. Achmemrun); Achille (etr. Achle) che immola con la spada un prigioniero troiano per celebrare Patroclo in occasione della sua cerimonia funebre, il quale assiste sotto forma di ombra (il suo stato evanescente è opportunamente segnalato dalla didascalia dipinta in etrusco, hinmal Patrucles, ossia 'ombra di Patroclo'), e i due Aiace (Telamonio [etr. Tlamunus] e Oileo [etr. Vilatas]) che procedono all'uccisione di altra vittima sacrificata in memoria dell'eroe greco caduto.

 

 

Sulla parete di fondo, sconfinando sulla destra, la scena forse più interessante sul piano della storia nazionale etrusca: Celio Vibenna (Caile Vìpinas) liberato da Mastarna (Macstrna, ovvero il re di Roma Servio Tullio, secondo il discorso dell'imperatore Claudio conservato sulle tavole bronzee di Lione), entrambi ignudi, il prigioniero con i polsi legati. Larth Ulthes, in chitone corto, infligge un corpo di spada a Laris Papathnas Velznach (cioè di Volsinii), mentre Pesna Arcmsnas Sveamach (cioè forse 'di Sovana', ma la lettura è dubbia) cade sotto l'attacco di Rasce. Venthi Cau[] [E]plsach subisce la medesima sorte ad opera di Aulo Vibenna (Avle Vìpinas). I colti riferimenti scelti dal fondatore dell'ipogeo, Vel Saties, esaltano dunque la saga dei fratelli Vibenna, originari con ogni verosimiglianza di Vulci, che contribuiscono a debellare la minaccia di altre città a quanto pare coalizzate (simboleggiata dai vari eroi da Volsinii, Sovana, Falerii, Roma). La storicità dell'avvenimento, cbmi'; anche delle figure dei fratelli Vibenna, è indiscussa e riporta alla metà del VI secolo a.C. L'allusione metaforica esemplata dall'episodio della liberazione del Vibenna trova forse una giustificazione nel cruciale frangente cronologico durante il quale la tomba Francois fu affrescata, ossia il periodo dei contrasti con Roma, cui la metropoli costiera sarebbe stata destinata a soccombere nel 280 a.C. Nel complesso il livello artistico delle pitture appare piuttosto elevato con l'uso di chiaroscuri e mobilità prospettica dei personaggi, frutto delle conquiste spaziali e cromatiche degli artisti di questo periodo. Del corredo rinvenuto sono da segnalere i sarcofagi e le urnette funerarie, vasellame e oreficene, databili entro un arco di tempo che dalla metà del V giunge al principio del II secolo a.C. Alla metà del V secolo dovrebbe risalire anche l'impianto originario della tomba, che si data al primo periodo Ellenistico (seconda metà del IV secolo a.C.) nella sua veste definitiva con gli ambienti affrescati. Lo dimostrano anche gli animali e le teste femminili tra cespi vegetali dipinti sullo zoccolo, che si ispirano al patrimonio artistico dell'ltalia meridionale grecizzata (area apula, Taranto). Infine le ture furono staccate dalle pareti nel 1862 e conservate nel Museo Torlonia, per essere poi definiti vamente trasferite a Villa Albani nel 1946.

 

 

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