VULCI

 

La Storia

Il nome etrusco di Vulci compare, flesso, nella dedica incisa su due vasi: fuflunsul paxies velclm 'di Fufluns-Bacco a Vulci'. Come si ricava dal materiale onomastico, è altamente verosimile che si alternassero le basi Velc e Velch ed è probabile che la forma originaria in assolutivo fosse Velcha, esattamente riprodotta net gentilizio (dunque di origine soprannominale e toponomastica) tarquiniese Velchas (cfr., a tal proposito, i gentilizi Tarchnas e Felsnas e, verosimilmente, i cognomina romani Caesar e Vulso).

 

Ubicata su un pianoro che affaccia sul fiume Fiora, detto Pian di Voce, a circa tredici chilometri dal mare, fra le città attuali di Montalto di Castro e Canino, Vulci rivestì una notevole importanza nel quadro dell'Etruria meridionale costiera.

            Nel tenitorio vulcente sono riemerse tracce di abitati risalenti al Neolitico e all'età del Bronzo. Nel Villanoviano (tra il IX e I'VIII secolo a.C.) la cultura di Vulci raggiunse un livello di elaborazione tra i più interessanti d'Etruria e, già da allora, sono testimoniati vivaci scambi con la Sardegna (bronzetti nuragici) e l'Italia meridionale. Una splendida fioritura nella produzione di bronzi laminati e fusi caratterizza tutto l'VIII secolo. Dopo un periodo di ristagno, dalla fine del VII secolo a.C., Vulci entra in una lunga fase di prosperità che giunge sino alla metà del V. In questo periodo Vulci fu certamente una delle più importanti metropoli d'Etruria e rivestì un ruolo determinante anche nell'etruschizzazione della Campania.

  

Nella seconda metà del V secolo a.C. Vulci fu tuttavia interessata da un ulteriore periodo di declino, interrotto da una rifioritura a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. e durante il periodo ellenistico, sino alla cruciale sconfitta della città, nel 280 a.C., ad opera degli eserciti romani guidati dal console Tiberio Coruncanio, che riportò il trionfo su una coalizione Volsiniese-Vulcentana. Vulci entrò così, forzatamente, nell'alveo della potenza romana perdendo parte del suo territorio e il controllo sulla costa, specialmente dopo la deduzione coloniaria di Cosa-Ansedonia nel 273 a.C. Durante l'Impero Vulci rimase solo una modesta città di provincia e nel Medioevo, dopo la completa distruzione ad opera dei Saraceni, venne definitivamente abbandonata. Annio da Viterbo la riscoprì già nel XV secolo, prima della localizzazione precisa effettuata dal Turiozzi nel 1778. Il tenitorio vulcente, inteso in senso politico ma anche nell' accezione di influenza culturale, si estendeva a settentrione del comprensorio tarquiniese, dalla foce dell'Arrone sino a Talamone, con propaggini sino al lago di Bolsena e al Monte Amiata. Al comprensorio vulcente appartenevano centri di una certo rilievo, quali Sovana, lungo la vallata del Fiora, Statonia, Heba, Caletra e altri. La vicinanza del fiume Fiora (Armentae), evidentemente navigabile, costituì un fecondo tramite di contatti e un veicolo di commerci con i centri minori dell' entroterra e un collegamento alle zone minerarie. Vulci ha purtroppo restituito ben poche sopravvivenze della fase etrusca, ad eccezione di due porte ricavate nella cinta muranea (le cosiddette Porta Nord e Porta Est, dalle quali irradiavano strade verso altri centri: V-IV secolo a.C.) e del basamento di un edificio templare (m 36,40 X 24,60). In area extra-urbana, nelle adiacenze della Porta Nord, sorgeva un edificio, probabilmente sacro del quale rimane parte della decorazione fittile con terrecotte architettoniche figurate a testa di Sileno e Menade, riferibile ad epoca arcaica. Ad una perpetuazione della sacralità dell' area deve riferirsi invece un deposito votivo di epoca romana, con materiale tardo-repubblicano.

Ma la grande rilevanza di Vulci, che riposa su un ricco ventaglio di fattori storico-politici e sulle produzioni dell'arte e dell'artigianato (ceramica-imitazione locale della ceramica greca di Corinto, bucchero-bronzistica, oreficeria, terracotta, scultura in pietra. Minormente documentata la pittura funeraria: due soltanto le tombe dipinte), si deve anche a una particolarissima congiuntura archeologica: dalle tombe delle sue necropoli proviene la maggiore quantità di ceramica greca dipinta (ceramica attica a figure nere e a figure rosse) sinora registrata in Etruria, e si può anzi affermare che la nostra conoscenza di questa particolare e pregevolissima manifattura delle botteghe ceramiche di Atene, non di rado valorizzata dalla firma di celebri pittori di vasi (Eufronio, Nicostene e altre personalità), non si darebbe negli stessi termini se non disponessimo di questo ricco e insostituibile patrimonio.

    

L'esistenza di un abitato nella prima età del Ferro (IX secolo a.C.) è deducibile dalle necropoli di questo medesimo orizzonte cronologico: è largamente probabile che anche a Vulci, come nelle altre grandi città dell'Etruria meridionale costiera il processo che sul finire dell'età del Bronzo aveva condotto all'abbandono dei piccoli insediamenti di altura abbia coinciso con un fenomeno di sinecismo del quale fu esito l'addensarsi demografico nel sito del futuro centro di età storica. Di fatto proprio lungo il corso del Fiora una serie di nuclei di abitati risalenti all'età del Bronzo appaiono spopolarsi a favore di un accentramento laddove si localizzerà la ciuà. Non diversamente dal quadro offerto dagli altri centri dell'Etruria meridionale costiera di cultura villanoviana, anche a Vulci nella prima età del Ferro (VIII secolo a.C.) il rito funebre adottato prevede il ricorso all'incinerazione e le ceneri vengono deposte in vasi cinerari biconici coperti da scodella o elmoin ceramica di impasto, o in urne a capanna, poste entro pozzetti ricavati nel terreno. In generale i corredi di accompagno di questa fase appaiono ancora composti da pochi oggetti, ma l'ampio raggio di relazioni commerciali e culturali di Vulci è già suggerito dalla presenza di materiali provenienti dalla Sardegna nuragica, quali i bronzetti a figura umana o le brocchette in impasto a collo allungato. Nella fase più recente del Villanoviano, in taluni e più rari casi, i cinerari sono in preziosa lamina bronzea con superficie campita da motivi geometrici a sbalzo, mentre del corredo entrano più frequentemente a far parte anche manufatti in metallo e importazioni, quali le ceramiche dipinte a motivi geometrici dall' Eubea e i calderoni in bronzo di area cipriota.

Con l'età Orientalizzante (VII secolo a.C.), accanto alla tomba a semplice fossa, entra in uso il sepolcro a camera, secondo una evoluzione che procede di pari passo a quella degli altri centri dell'Etruria meridionale: fra queste alcune non hanno mancato di restituire sontuosi apprestamenti funerari, quali la Tomba del Carro di Bronzo (680 a.C. circa), mentre dalla seconda metà del secolo verrà adottata una tipologia tombale particolarmente caratteristica di Vulci e destinata a perdurare per l'arco di due secoli, la tomba a cassone, cui si affiancherà, in epoca ellenistica, la tomba cosiddetta a tablino.

 

 

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